Entriamo nel “merito”

Se sono povero di parole anche il mio pensiero sarà povero, se le parole sono sempre le stesse anche il mio pensiero sarà sempre lo stesso.

Ci mancano le parole per immaginare un mondo nuovo e rischiamo di usare solo quelle vecchie che appartengono a un mondo che non c’è più.

Per chi guarda al passato e sogna una sua restaurazione questo non costituisce un problema perché il  vocabolario che gli serve è sempre lo stesso.

Contrapporre alla riproposizione di quel passato le parole che possediamo da sempre è come cadere nella trappola, oltre a rilevare la debolezza del nostro pensiero ormai usurato dal tempo.

È quello che ci accade nella comunicazione pubblica per cui ci facciamo catturare dalle parole che ci sono famigliari e diffidiamo dei linguaggi che ci sembrano stranieri. 

E soprattutto sono lingue straniere quelle che provengono da mondi che ancora non ci sono e che non ci saranno mai se nessuno si assumerà l’ardire di iniziare a gettare le fondamenta per costruirli.

Un mondo che attende di essere costruito di nuovo è quello della scuola che non c’è. Mentre tutti bombardano l’edificio vetusto d’oltre un secolo, c’è chi pensa di ricostruirlo a immagine di come era e di come è sempre stato.

Allora se c’è chi pensa che la scuola deve selezionare, deve bocciare e in questo fa consistere il merito, semmai trovando d’accordo ampia parte di un pensiero pubblico immiserito dalle parole, che crede che chi non si impegna non merita di essere aiutato e quindi va sanzionato, caschiamo nell’inganno del moralismo per cui un furto è sempre un furto anche se rubi per fame.

Allora non è che i vessilliferi del merito li sconfiggi contrapponendogli l’articolo 3 della nostra Costituzione, perché il problema non sta nella selezione, nel merito e nelle bocciature, ma nel mantenere nel secolo nuovo un sistema formativo forse buono per il passato ma non per il futuro dei nostri giovani.

È la morte del futuro che continuamente ci viene proposta e da questa logica non possiamo farci irretire.

Non è più accettabile fornire ossigeno a un sistema formativo che è nato per selezionare anziché per promuovere, anziché stare accanto alla persona che cresce per sostenerla, accompagnarla, sorreggerla, sollevarla quando cade, assisterla quando si ferma, accelerare il passo quando riprende a correre. Ma occorre avercele queste parole nel cervello e averle strettamente connesse con l’idea di scuola e di istruzione, in modo che si accendano automaticamente quando la mente entra in questo campo semantico.

Lo scandalo non è che il Ministero ora si chiami dell’Istruzione e del Merito, ma perché non sia stato intitolato invece “Ministero della Conoscenza e dell’Istruzione Permanente” come avrebbe dovuto essere  stato fatto da tempo, al momento del nostro ingresso nel secolo della Conoscenza.

C’erano queste parole nel pensiero delle forze progressiste e di sinistra? No, non c’erano. Allora non urliamo allo scandalo, perché lo scandalo è l’assenza di una cultura dell’istruzione nel nostro paese che non sia la brutta copia del ‘900 e che guardi al futuro.

L’Unesco ha lanciato l’allarme: è urgente un nuovo patto formativo, ma nessuno ne parla e ne ha parlato. 

Un ribaltamento della nostra piramide scolastica, un protagonismo sociale, politico e culturale degli insegnanti come lavoratori della cultura. E dove sono da noi gli insegnanti lavoratori della cultura, della cultura del paese, quella che sta dentro e fuori dalle scuole?

Nessuna delle forze politiche in campo nella contesa elettorale si è ricordata che viviamo nel secolo della Conoscenza e che la Conoscenza è la grande sfida del nostro secolo, a partire dalla realizzazione dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. La centralità dell’istruzione permanente e del ruolo delle amministrazioni pubbliche, a partire dal governo e dagli enti locali, per la sua realizzazione, mai citata nel discorso di insediamento alle Camere dalla Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma nessuna delle forze politiche sedute alle Camere l’ha notato.

Listruzione è anche unespressione damore per i bambini e i giovani, che dobbiamo sapere accogliere nella società offrendo loro, senza alcuna riserva, il posto che appartiene loro di diritto: un posto nel sistema educativo, ovviamente, ma anche nella famiglia, nella comunità locale, e nella nazione.”  

Queste sono le parole da contrapporre ad una sistema scolastico che, a prescindere dal fatto che si enfatizzi sulla parola “merito”, è nato per produrre una selezione sociale e che nella sue strutture portanti ancora seleziona, nel XXI° secolo, tra liceo classico  e istituti professionali, senza scandalo per alcuno,  neppure i buon pensanti di sinistra che di fronte al “merito” pronunciato a destra gridano al lupo. 

Quelle parole sono scritte da più di 25 anni nel rapporto Delors, Rapporto all’UNESCO della Commissione Internazionale sull’Educazione per il XXI secolo, caduto nel dimenticatoio insieme ad ogni parola nuova, ad ogni pensiero  innovatore delle nostre categorie mentali sulla scuola e l’istruzione.

C’erano pure i quattro pilastri dell’istruzione: Imparare a vivere insieme, Imparare a conoscere, Imparare a fare, Imparare ad essere.

Il Ministero dell’Imparare. Sarebbe stata una sintesi bellissima tra istruzione e educazione, parole spesso usate in modo inappropriato.

Listruzione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i propri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali.”

Sono sempre parole del Rapporto Delors o il cervello le possiede e da qui muove per ragionare di scuola, di istruzione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, del loro futuro o tornano solo le vecchie parole trite e ritrite che segnano la povertà di pensiero della politica, a Destra come a Sinistra, nel nostro Paese.

Dietro l’angolo c’è ancora Gentile

Dopo la lezione di conservatorismo, propinata alla leader dei conservatori europei Giorgia Meloni il primo agosto dalle pagine del Corriere della Sera, il professore Ernesto Galli della Loggia che suggeriva alla signora la scuola come terreno privilegiato della conservazione, passa alle proposte concrete, facendo proprio il programma governativo della destra italiana in merito alla riforma degli studi sintetizzato in due parole: meritocrazia e professionalizzante.

Così il ventidue settembre, sempre dal Corriere della Sera rompe fragorosamente il silenzio sulla scuola di cui accusa i partiti in campagna elettorale.

Non si tratta di controriforme, avverte, ma bisogna rifare tutto a partire dallintera organizzazione dei cicli scolastici. 

C’è un eccesso di intellettuali che danneggia il mercato del lavoro, occorre porre fine  a mezzo secolo di accesso all’università con il diploma di qualsiasi scuola secondaria, tutto ciò condiziona e distorce profondamente il carattere della scuola che deve essere meritocratica e professionalizzante. La qualità dei contenuti di insegnamento di un liceo classico non può essere sostanzialmente equivalente a quella di un istituto professionale, pertanto non è possibile “leguaglianza delle vocazioni e delle attitudini di tutti i giovani licenziati, tutti ottimi potenziali candidati ai medesimi studi universitari.”

Qualcuno per favore informi il professor Galli che la riforma Gentile non l’ha pensata lui, ma  già un secolo fa il suo titolare, appunto, il professore Giovanni Gentile.

E chi si propone di dare un taglio maggiormente meritocratico, attraverso le bocciature, come vorrebbe il professor Galli e la destra nostrana, e professionalizzante alla scuola, in realtà auspica un ritorno allo spirito primitivo della riforma Gentile.

La riforma gentiliana si è caratterizzata per il suo pesante conservatorismo,  per la sua accentuata canalizzazione professionale, privando l’istruzione scolastica di ogni significato di mobilità sociale che aveva iniziato, sia pure modestamente, ad assumere, grazie ai molti miglioramenti apportati dalla legge Casati e dai lavori della “Commissione per un’indagine sulle condizioni della scuola secondaria e per lo studio di una riforma” istituita con decreto del 19 novembre 1905 dall’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi (quando si dice i corsi e ricorsi della storia!).

La riforma Gentile rappresentò una vera e propria restaurazione, come da sempre restaurare è nelle intenzioni del conservatorismo dal quale certo il nostro professore non si sottrae a partire dal ripristino delle predelle come arredo scolastico.

Il professore Galli propone due tipi di università una di serie A, la sola abilitata a rilasciare il diploma di dottorato per intellettuali puri e una di serie B per le professioni profane con una scelta di vita che uno studente dovrebbe compiere a tredici anni, sostanzialmente il modello tedesco.

La storia non si ripete, se si ripete assume un volto nuovo, però gli ingredienti sono sempre gli stessi. 

Quando nel 1969 Tristano Codignola, che pure insieme a Giuseppe Lombardo Radice aveva contribuito alla riforma Gentile, propose al parlamento la liberalizzazione degli accessi ai corsi universitari, l’obiettivo era quello di porre fine al perdurare dell’aspetto più odioso di quella riforma: la rigida selezione classista, in modo da favorire la mobilità sociale in un paese che aveva bisogno di istruzione per il suo sviluppo economico.

Ora la storia si ripete, si vorrebbe tornare indietro rispetto a tutte le faticose conquiste ottenute dalle forze democratiche nel settore educativo e giuridico della scuola, ritornare a quello spirito classista e borghese che, in definitiva, fu ciò che più di ogni altra cosa accomunò i destini della riforma del 1923 a quelli del fascismo.

Filippo Turati ebbe a dire della riforma Gentile “altro non è che il manganello applicato alla scuola”. 

Pure Galli della Loggia ha il suo manganello, incurante che possa essere definito classista: le bocciature.

Le bocciature come vaglio delle competenze. Perché spendere tempo e risorse nelle attività di orientamento, nella burocrazia di quell’acronimo insopportabile PCTO, che tutte le volte occorre andare a cercare cosa significa perché uno se lo è dimenticato: “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”

Scrive testuale: “cominciare ad esercitare già nelle sue aule un vaglio delle competenze effettive degli alunni, delle loro vocazioni e attitudini, con il solo strumento a disposizione che è quello della bocciatura”.

Bocciature entro i tredici anni, perché questa è l’età che nella sua visione del sistema scolastico, bontà sua non i dieci delle grundschule, si deve scegliere quale orientamento dare ai propri studi, se il liceo classico che ti condurrà alle vette dell’intellettuale puro o tutto il resto che ti avvierà verso le sorti meravigliose e progressive del mercato del lavoro.

Perché l’Italia, scrive il professore “ha un bisogno assoluto di ridare dignità culturale e sociale e quindi economica al mondo del lavoro, di tutto il lavoro, e il modo di farlo parte dalla scuola”.

Il maestro di conservatorismo in definitiva propone un restyling della riforma Gentile, in sostanza fornirle un nuovo look con le stesse motivazioni espresse circa un secolo fa dallo stesso Gentile nella seduta del 5 febbraio 1925 al Senato per difendere la sua riforma: “una risposta  allo squilibrio esistente fra scuola e mercato del lavoro, che si manifesta soprattutto in una crescente sovrapproduzione di forza lavoro intellettuale, e alle tensioni sociali e politiche che questo squilibrio produce.”

Gli ingredienti ci sono tutti perché da dietro l’angolo ritorni a spuntare Giovanni Gentile a realizzare compiutamente gli interessi della conservazione.

La mente nel cassetto

Se andavi a scuola con le figurine il maestro te le ritirava e le chiudeva a chiave nel cassetto della cattedra. Il maestro buono te le restituiva al termine delle lezioni, invitandoti a non portarle più a scuola, il maestro cattivo non te le restituiva se non fossero venuti i tuoi genitori a riprenderle, in questo modo punendo te, mamma e papà.

La distrazione è sempre stata nemica della cattedra, questo spiega l’austerità degli arredi scolastici. Restano le finestre antitetiche alla lezione, per la loro costante tentazione di guardare fuori dove sta  il mondo. 

Ma le condizioni sottese ad ogni contratto scolastico sono inesorabilmente almeno due: presenza e attenzione. Infatti la DAD non è riuscita ad entrare nel cuore delle scuole perché la presenza non c’era, era solo virtuale e l’attenzione non poteva essere controllata. E poi nel  percorso di trasmissione dalla cattedra al banco non ci possono essere interferenze, figuriamoci se poi ci sono venti computer e più collegati a distanza.

Era il marzo del 2007, ben quindici anni fa, quando l’allora ministro dell’istruzione, Giuseppe Fioroni, inviava a tutte le scuole una circolare con cui proibiva l’uso del cellulare in classe, con conseguenti azioni disciplinari. Circolare che non mancò d’essere ribadita dai dirigenti di diversi istituti anche nell’anno scolastico 2019/2020 alla vigilia della pandemia che avrebbe sfidato il nostro sistema di istruzione. Nelle nostre scuole il tempo  pare sempre ieri.

Ora, che siamo appena a pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico, iPhone e smartphone ritornano alla ribalta della cronaca perché al liceo Malpighi di Bologna, ma non solo, si è deciso il loro sequestro, per tutto il tempo che insegnanti e studenti soggiornano negli ambienti scolastici, compresi gli spazi ricreativi.

A scuola la tentazione va chiusa nel cassetto e la chiave consegnata ai collaboratori scolastici. La compulsione da cellulare è così irrefrenabile in adulti e adolescenti che si è dovuto ricorrere a misure drastiche.

Ricordate l’insegnante di latino che in epoca di covid durante le interrogazioni a distanza pretendeva che la ragazza interrogata si bendasse gli occhi per non essere tentata di sbirciare gli appunti o addirittura leggere dal libro?

Nessuno che abbia qualcosa da obiettare su condotte messe in atto in ambienti la cui mission  per statuto dovrebbe essere formativa. Altro che “comunità educanti”, queste sono comunità vessatorie e inquisitive, perché fanno il processo alle intenzioni, non muovono dalla fiducia nel prossimo che dovrebbe essere l’atto di accoglienza di ogni scuola, ma dalla sfiducia e, dunque, dalla prevenzione, finendo così per deresponsabilizzare, anziché formare al senso di responsabilità e a rispondere dei propri comportamenti.

Non è più sufficiente dettare le norme della convivenza scolastica, non è sufficiente pattuire un contratto formativo, ora la regola è prevenire per non punire, o forse per non rischiare ricorsi e grane legali.

Non è un gran delitto un cellulare a scuola. Permettere agli studenti di utilizzare i loro telefoni in classe, sfruttando i metodi di comunicazione e di ricerca che usano nella loro vita quotidiana, elimina la necessità di costosi computer portatili.

Semmai ciò che deve preoccupare è il fatto che il cellulare sia divenuta una protesi che non sappiamo più governare, sappiamo trattenere le emozioni, ma non siamo più in grado di contenere il nostro bisogno di compulsare il cellulare. Allora c’è un problema formativo che la scuola dovrebbe essere in grado di affrontare senza chiuderlo a chiave in un cassetto.

Perché se così fosse prima o poi si finirà per chiudere anche la mente nel cassetto, da restituire quando si esce, per proibire di pensare quello che non deve essere pensato o decidere di lasciare a casa il cervello perché la prima tentazione di distrazione a scuola, specie se la scuola è noia, sono i nostri pensieri che se ne corrono via, che se ne vanno per conto loro.

La funzione della scuola non consiste nell’imboccare le scorciatoie, la scuola è una comunità di crescita e i tempi come i percorsi sono lunghi, richiedono pazienza e cura, la capacità di affrontare anche le contraddizioni, i passaggi più difficili. La scuola è comunità di dialogo e di condivisione, dove le imposizioni non possono essere la norma, ma l’eccezione.

La scuola non può vivere in tempi e spazi che non corrispondano all’evoluzione sociale dei costumi e della vita dei suoi protagonisti, chiudendoli fuori dalla porta, censurandone l’uso.

La scuola non è una caserma con il caporale di giornata, la scuola è il luogo della cultura e dell’intelligenza e, se non si sanno rispettare norme condivise, con il sequestro non si rimedia all’incapacità di usare cultura e intelligenza, significa che in quella scuola c’è qualcosa che non funziona.

Se sono tentato di rifugiarmi nel mio cellulare, di evadere dalla lezione,  vuol dire che quello che sto facendo a scuola non riesce a coinvolgermi, non ha significato per me, e allora il problema non si risolve censurando i cellulari ma se mai un certo modo che ancora persiste di essere delle nostre scuole, questo sì andrebbe chiuso per sempre nel cassetto del passato per essere dimenticato.

Scuola e programmi elettorali

Se il problema di cosa studiano e di come studiano a scuola le nostre ragazze e i nostri ragazzi non viene affrontato le possibilità sono solo due: o non è un problema o non si possiede una soluzione al problema.

A leggere i voti, che le forze politiche formulano per la scuola nei loro programmi elettorali  al fine di ottenere voti, non si può che concludere che nel nostro paese cosa si studia e come si studia nelle aule del sistema formativo non costituisce un problema. Nonostante gli esiti decisamente non brillanti delle indagini Ocse Pisa e dell’Invalsi sui risultati scolastici, il grado di istruzione del paese non sembra meritare attenzione. Anzi c’è chi, come Italexit, vuole “Eliminare le prove Invalsi e i sistemi valutativi basati sui quesiti a risposta multipla.” Insomma, il tuo parlare sia sì sì, no no.

Anni di letteratura scolastica che hanno sfornato titoli poco rassicuranti: Requiem per la scuola, La scuola bloccata, Senza educazione, L’aula vuota, La scuola imperfetta, La scuola impossibile, Liberiamo la scuola, La scuola è sfinita fino al recente Il danno scolastico della coppia Mastrocola-Ricolfi, vengono volutamente o meno ignorati dalle formazioni politiche scese in campo per l’agone elettorale, possibile che neppure uno dei libri citati l’abbiano mai letto.

Qualcuno ci prova. Ad esempio il “Programma per l’Italia” della Destra al primo punto si impegna a “Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico”. Cosa significhi non è spiegato. È il ritorno all’avviamento scolastico? Agli esami di ammissione? Si prospetta un sistema scolastico stile tedesco?

Anche il programma di Italexit a proposito di cosa studiare promette un recupero della nostra “cultura umanistica e civica”. E anche qui non è dato sapere che cosa effettivamente si intenda.

Il Movimento Cinque Stelle vorrebbe una “Scuola dei Mestieri” per valorizzare e recuperare le tradizioni dell’artigianato italiano, forse una riedizione degli “Artigianelli”di don Orione,  in linea comunque con la vocazione professionalizzante delle destre.

Dai voti elettorali emerge poi un profilo di “scuola clinica” che i nostri giovani dovrebbero frequentare come luogo di cura dove, dopo la moltiplicazione delle certificazioni, ora si  mettono a disposizione medici scolastici, psicologi e pedagogisti come se essere studenti e giovani fosse una malattia, come se disagio sociale e modalità di apprendimento non per forza standard fossero dei disturbi che necessitano di cure anziché di una scuola diversa. 

Non avevamo bisogno dell’appuntamento elettorale per scoprire che questo nostro paese non ha mai curato un’idea di istruzione, di sistema formativo, non ha una cultura dell’istruzione e dell’apprendimento, perché non ha mai avuto considerazione per i suoi insegnanti, della loro professione e soprattutto della scuola.

Vanno di moda i “patti educativi” come se l’istruzione fosse un campo di conflitti e avesse bisogno di siglare armistizi tra contendenti, le “comunità educanti” come comunità di salute pubblica. Una gioventù malata che qualcuno vuole raddrizzare con lo sport e il ritorno al servizio di leva. Anche i seminari sono comunità educanti e le comunità che si propongono come educanti sono pericolose perché mettono a rischio la libertà delle persone, mentre la scuola deve essere palestra di libertà e non di manipolazione.

L’Unesco invita a un nuovo contratto sociale per l’istruzione all’altezza delle sfide dei tempi e del futuro delle nuove generazioni, ma noi non possiamo permetterci tutto questo, non avendo curato la casa dobbiamo ricorrere ai ripari, occuparci delle sovrastrutture del nostro sistema formativo: gli edifici scolastici, lo stipendio degli insegnanti, il tempo pieno, l’obbligo scolastico, medici e psicologi scolastici.

Così i programmi di tutte le forze politiche si caratterizzano per tre filoni: scuola come servizio sociale, scuola e mercato del lavoro, scuola e cultura nazionale e tutti brillano per le grandi assenze. Oltre all’istruzione e all’apprendimento, non rispondono all’appello il tema dell’autonomia delle scuole, gli Organi Collegiali, l’apertura delle scuole al territorio e il ruolo del territorio per un sistema formativo integrato e soprattutto l’apprendimento permanente. Distrazione, ignoranza, superficialità, impotenza, mancanza di idee, incompetenza? Forse tutti questi insieme.

Il programma di Azione e Italia Viva cita l’autonomia per affermare la necessità di passare: “dal concetto di autonomia scolastica a quello di scuole realmente autonome”. 

Pare di comprendere che dietro a quel “realmente autonome” si nasconda un concetto di concorrenza di mercato, di competizione tra scuole che consenta alle famiglie di scegliere la migliore, un scimmiottamento delle Champions School d’oltre oceano. Ma cosa fare per portare a compimento il processo di autonomia scolastica, spesso osteggiato dalla stessa politica e amministrazione pubblica, cosa fare a partire dalle risorse necessarie a garantire una reale autonomia questo non è detto. Che l’autonomia scolastica sia in pericolo è nella consapevolezza di quanti sono più attenti ai bisogni della nostra scuola e ad essere in pericolo è l’unica vera riforma, sebbene ancora incompiuta, che il nostro sistema formativo, tradizionalmente piramidale, abbia conosciuto.

Difendere l’autonomia scolastica significa coltivare un’idea di scuola come risorsa centrale del territorio, come perno di un sistema formativo integrato che poco ha a che vedere con surrogati e ripieghi tipo patti educativi e comunità educanti. Un obiettivo che per essere perseguito richiede lucide e solide politiche territoriali da parte degli enti locali insieme a risorse finanziarie che consentano di portare a sistema la scuola come ambiente di apprendimento che si integra con il territorio, che al territorio si allarga e si apre per usarne strutture e risorse, prima condizione affinché le scuole siano “luoghi sicuri, belli, aperti tutto il giorno. Vere e proprie palestre di cittadinanza” come promette il programma del PD.

Scuola e territorio è un binomio che conduce agli Organi Collegiali che si trascinano da  troppo tempo pigramente, sviliti e snervati, che hanno bisogno di manutenzione, di una cura ricostituente soprattutto alla luce della scuola dell’autonomia, di una scuola sempre più hub formativo del territorio.

In fine, last but not least, l’apprendimento permanente. Decenni di life long learning ignorati, insieme all’Europa della “Conoscenza”, al Memorandum di Lisbona 2000 e alla stessa Agenda 2030 dell’Onu.

Apprendimento permanente che non è l’educazione degli adulti in chiave scolastica del programma di Possibile, l’unico che meritoriamente la richiama, insieme alla necessità di rivedere i cicli scolastici, ma la mobilitazione delle conoscenze, dei saperi, l’apprendimento diffuso, le città che apprendono, il rapporto tra apprendimento formale, non formale e informale che già la Riforma Fornero del 2012 aveva riconosciuto su pressione dell’Europa. Quanto basta per rivedere integralmente l’intero impianto del nostro sistema formativo in un mondo dove si apprende dalla culla alla tomba. 

La complementarietà e l’osmosi tra forme di apprendimento, unitamente agli altri grandi assenti, al momento dovranno attendere il prossimo giro.

Prima gli studenti


Il rettore dell’Università IULM di Milano con un articolo sul Corsera del 26 agosto ha gettato il sasso nello stagno. Cosa si studia nelle nostre scuole? Quale formazione viene fornita ai nostri studenti? Centra la questione: se a un secolo dalla riforma Gentile i nostri giovani devono continuare a studiare quello che hanno studiato i loro genitori e i loro nonni, come se il tempo scolastico fosse da sempre fermo. Il tema è come prepariamo i nostri giovani a continuare negli studi o a inserirsi nel mondo del lavoro. 

Per il rettore della IULM non è questione di soldi, ma di quello che si studia. Non è così, perché nel nostro paese soldi e studi sono strettamente dipendenti, senza soldi da noi non si studia. Tanto che è proprio per via del denaro che si evidenzia il ritardo dell’Italia rispetto al resto dell’Europa. Secondo i dati di Education at a Glance” 2020, lItalia investe il 3,9%  del PIL in istruzione primaria, secondaria e terziaria contro la media del 4,9 dei paesi Ocse e 4,5 dellUE. Il Regno Unito investe il 6,3, gli Stati Uniti il 6,1, la Francia il 5,2.

Da noi le famiglie spendono  4,8 volte in più in alcool e fumo rispetto a quanto spendono in  istruzione e questo rapporto sale al 5,3 al Centro e al 6,6 nel Mezzogiorno.(1)

L’inadeguato livello di investimenti pubblici e privati fa sì che l’Italia faccia registrare il numero di laureati più basso in Europa dopo la Romania, un primato non invidiabile. Benjamin Franklin alla sua epoca scriveva: «Un investimento in conoscenza paga il miglior interesse.» Se valeva allora, cosa dovremmo dire noi cittadini di un secolo che si è aperto in nome della centralità della conoscenza per la crescita e lo sviluppo?

Da noi di istruzione, competenze, saperi, cultura non si ragiona. Non c’è mai spazio, su tutto prevalgono i problemi delle cattedre, del precariato, dell’insegnare troppo distanti da casa, degli alunni e dei genitori che non sono più quelli di una volta e potremmo continuare nell’elenco. Ma degli studenti non si parla mai, non si ragiona mai di quello che gli si chiede di imparare secondo una scansione dei saperi che parte dal passato che non arriva mai al futuro e che si ferma sempre distante dal presente. Come se la scuola fosse una prassi, un processo di standardizzazione sociale, secondo regole che prescindono lo studio, cosa e come studiare, chi deve studiare e perché si deve studiare, tanto l’istituzione è antica e ha sempre funzionato così.

Eppure l’istruzione continua a non essere all’altezza delle necessità formative, i dati sulle performance, unitamente alla dispersione e all’abbandono scolastico, indicano l’inadeguatezza dell’attuale modello scolastico.

Nel corso del XX secolo, l’istruzione pubblica è stata essenzialmente finalizzata a sostenere la cittadinanza nazionale e gli sforzi per lo sviluppo del paese. Ha assunto principalmente la forma della scuola dell’obbligo e di massa, oggi non è più sufficiente, le sfide poste dai bisogni formativi per il presente e per il futuro ci devono indurre a reinventare urgentemente l’istruzione.

Innanzitutto il diritto all’istruzione deve essere ampliato per includere il diritto a un’istruzione di qualità per tutta la vita. Non può più continuare ad essere interpretato, come abbiamo fatto troppo a lungo e con colpevole miopia, essenzialmente come diritto all’istruzione dei bambini e dei giovani. Il diritto all’istruzione deve garantire l’istruzione a tutte le età e in tutti gli ambiti della vita. In questa prospettiva più ampia, il diritto all’istruzione è strettamente connesso al diritto all’informazione, alla cultura e alla scienza. Richiede un profondo impegno per la costruzione delle capacità umane. È anche strettamente legato al diritto di accedere e contribuire ai knowledge commons, le risorse condivise e in espansione di informazioni e conoscenze.

È evidente che di fronte a tutto questo il nostro sistema scolastico gentiliano e la cultura che lo sottende sono  vecchi arnesi che necessitano di essere archiviati. Ma non lo si può fare da un giorno all’altro.

Nel 1959 di fronte al pericolo di essere superati in ambito scientifico e delle ricerche aereo spaziali dai sovietici, che due anni prima avevano lanciato nello spazio lo Sputnik, gli USA per prima cosa imputarono il loro sistema scolastico. L’Accademia delle Scienze convocò a Woods Hole, nel Massachusetts, un think tank composto da 35 fra i maggiori esperti di psicologia, biologia, fisica matematica, pedagogia, linguistica per dare vita a un progetto di ricerca interdisciplinare sui processi di apprendimento e per elaborare nuovi programmi per l’insegnamento scientifico, chiamando a dirigere questo consesso Jerome Bruner, allora direttore del Centro Studi Cognitivi dell’università di Harvard.

Senza andare così lontano nel tempo, neppure dieci anni fa, nel 2013, nell’Ontario, in Canada, il Waterloo Global Science Initiative promosse l’Equinox Summit: Learning 2030. Non c’era tempo da perdere occorreva attrezzarsi circa cosa e come avrebbero appreso le bambine e i bambini che, nati in quell’anno, nel 2030 avrebbero frequentato le scuole superiori. Per attrezzarsi a quella sfida riunirono i maggiori leader in materia di istruzione, i migliori professionisti dell’insegnamento, ricercatori e politici, insieme ai giovani studenti di quelle scuole che nel mondo hanno innovato l’insegnamento. Trentatré rappresentanti provenienti da tutti i continenti, espressioni di diverse realtà socioeconomiche: Sierra Leone, Singapore, Finlandia, United Kingdom, USA, Australia e ancora altri.

Da noi, in tutti questi anni di dibattiti su cattedre, predelle, latino, classico sì classico no, fallimenti della scuola progressista a nessuno che fosse ministro, docente, intellettuale è mai venuta in mente un’idea simile, neppure al rettore dell’università IULM di Milano che ora lamenta la scarsa qualità dell’istruzione dei nostri giovani.

È il caso di dire che non è mai troppo tardi, sempre che ci si dia una mossa prima che la nostra scuola sia definitivamente schiacciata da un lato dall’incalzare di saperi, competenze e apprendimenti, dall’altro dal persistere di un modello scolastico creato dagli stati-nazione a partire dal diciannovesimo secolo, che costringe infanzie e adolescenze ad essere quotidianamente irreggimentate in classi aggregate per età dall’istruzione primaria a quella secondaria, ad apprendere il passato nell’indifferenza degli adulti per il loro futuro.

(1) Si veda ISTAT, 2020d; Osservatorio Talents Venture, 2018.

La lingua fascista batte dove il dente duole

La storia ci ha insegnato che, pur avendone già fatto esperienza, non si ha mai la garanzia di poter riuscire a prevedere un determinato esito, soprattutto se l’esperienza è lontana nel tempo. Questo è vero soprattutto per quelle società che rischiano l’analfabetismo democratico perché non hanno saputo mantenere efficiente la memoria di fatti accaduti molto tempo addietro, in modo particolare per le generazioni che non possono averli vissuti.

Quando la Destra di Giorgia Meloni etichetta come devianze giovanili: droga, alcolismo, tabagismo, obesità, anoressia, bullismo, baby gang, hikikomori promettendo generazioni di italiani “sani e determinati”, ciò che preoccupa non è la possibilità di un regime liberticida prossimo venturo, non il ritorno al ventennio dei fasci littori, ma il persistere e il crescere di una subcultura lugubre e reazionaria, con suggestioni eugenetiche, quella stessa che ha partorito le leggi razziali, le discriminazioni sessuali, l’ostilità contro gli immigrati.

Non è il fascismo evidente, che dovremmo essere in grado di riconoscere, che ci deve preoccupare, ma il fascismo occulto, il fascismo latente. 

Perché dai germi della mentalità fascista questo nostro paese non si è mai liberato del tutto.

Ancora troppe strutture e istituzioni della società sono organizzate in modo gerarchico e piramidale, dove sovente l’autorità non è autorevolezza ma autoritarismo e incompetenza, istituzioni che si prestano ad essere terreno per la germinazione di spiriti e comportamenti fascistoidi. La stessa scuola, che dovrebbe essere il baluardo contro le distorsioni della democrazia, non è esente dal rischio di preoccupanti ritorni reazionari prodotti da una crisi di identità ostinatamente abbarbicata alle cattedre, ai voti in condotta, al latino, alle bocciature, a tutto il repertorio della sua genesi gentiliana.

Anche la reazione piccata che alcuni democratici illuminati hanno nel dichiararsi antifascista, assomiglia tanto al rifiuto degli antibiotici di fronte alla circolazione di batteri che non si vogliono prendere in considerazione. Pertanto la produzione degli anticorpi non è mai abbastanza.

Ciò che chiamiamo fascismo in senso lato, non è tanto il riferimento al ventennio del secolo scorso, che è comunque sempre sottinteso, quanto una forma mentis, una sopraffazione mentale che si esprime con la violenza delle parole e dei pensieri.

E in questo la Meloni non si è smentita, considerando “devianza giovanile” la malattia, il corpo non sano, sia da un punto di vista fisico che psichico, con una semplificazione che mette all’indice ogni complessità, che nega cittadinanza alla psicologia del profondo, alla capacità di comprendere i prodotti delle storture sociali, dei danni coltivati dentro e fuori le relazioni famigliari. Brandendo il principio di autorità del sano e del vigoroso, del culto di una “fortitudo” biologica e sociale da Spartaco dell’esistenza.

Le parole della Meloni sono generate da una cultura fascista che si esprime nell’incapacità clinica, quella di sapersi porre accanto all’altro, di piegarsi nell’ascolto, nel bandire il giudizio e accogliere il suo essere, complesso, conflittuale innanzitutto per se stesso. È la cultura dell’anomia che considera devianza tutto ciò che viola le norme, i pregiudizi e le aspettative sociali.

Questo oggi è il manifestarsi del fascismo: il progetto di rendere opinione diffusa, senso comune la necessità di una società ordinata, igienizzata, normalizzata attraverso la pulizia sociale, l’igiene  mentale, etica e culturale.

Si tratta della malattia sociale che stiamo rischiando di contrarre nuovamente, la cui gravità produrrebbe l’assuefazione a ritenere che è normale solo ciò che è considerato tale dal popolo sovrano. La normalizzazione delle condotte individuali e sociali secondo un principio di ordine e disciplina che è quello imposto dalla semplificazione dei luoghi comuni. I rumori di fondo dei nostri quotidiani rischiano di impedirci di comprendere ciò che sta realmente accadendo, che pare avere le sembianze di un sentire comune, del bisogno di ordine e sicurezza. Il disorientamento generale impedisce di avere menti e orecchie attente a cogliere i sintomi di un fascismo latente a cui assuefare quanti credono di riscattarsi dalla loro mediocrità attraverso il populismo e il sovranismo, attraverso il ritorno agli “uber alles” di antica memoria.

Mettere insieme baby gang, bullismo e hikikomori è il massimo della strumentalizzazione, è una becera volgarità, che gioca d’effetto sull’ignoranza, sapendo che la stragrande maggioranza del pubblico non ha idea di che cosa significhi “hikikomori”. Che non è una violenza, non è una droga, non è una malattia, ma una tragedia per chi ne è vittima e per le famiglie che devono condividere questo dramma. Solo usare questo termine etichettandolo come devianza sociale è una violenza, violenta come una spedizione punitiva di manganellatori, alla stessa stregua di camicie nere e picchiatori mentali.

Gli hikikomori. sono quei nostri figli e figlie che si rinchiudono in casa rifiutando ogni rapporto con il mondo di fuori. Un dramma frutto delle contraddizioni del nostro vivere sociale, un dramma di fronte al quale le famiglie sono lasciate sole e la scuola fino ad oggi si è dimostrata incapace di aiutare e affiancare questi giovani e i loro genitori. L’uscita della Meloni è quanto di più allarmante per il loro futuro perché, anziché una soluzione di aiuto e di presa in carico, preannuncia una risposta di persecuzione, di punizione o di virile prevenzione.

Questa è la lingua fascista della Meloni che non contempla alcun cedimento al “cum patior”, la compassione, l’empatia, il provare le emozioni, il soffrire con te e per te, è una  lingua di condanna senza appello dell’aborto, dell’eutanasia, di ogni uscita dal terreno seminato dal conservatorismo più reazionario. È con lo sport che si crescono generazioni di giovani sani, come si pretendeva con i giochi del Littorio, e le adunate fasciste.

“Fascista è chi fa il fascista” ha scritto con intelligenza Michela Murgia nel suo “Istruzioni per diventare fascisti” da riprendere in mano e da leggere come antidoto contro l’ottundimento di massa che pare circondarci.

Non sparate a zero sul Docente Esperto

Si conosce poco circa il docente esperto spuntato durante la calura estiva tra le norme del decreto Aiuti bis. Si sa che saranno in tutto ottomila per quattro anni, per un totale di trentaduemila, che per diventare esperti occorre studiare per dieci anni e che al termine del percorso si riceverà un aumento stipendiale pensionabile. Pare che non sarà una nuova figura di sistema perché continuerà a esercitare la sua funzione docente.

La reazione del mondo della scuola a leggere petizioni, stampa e social è senza alcun dubbio di generale rigetto rispetto al trapianto che sembrerebbe nelle intenzioni del ministero, per cui non si comprende come sia possibile produrre un rinnovamento, se tale era nelle intenzioni governative, senza il coinvolgimento dei diretti interessati, vale a dire gli insegnanti.

Compulsando internet ho scoperto che l’idea del docente esperto non è nuova, qualcuno ci ha già pensato da tempo e siccome ormai nulla è novità, se non assume un brand anglosassone, si tratta dei corsi di formazione e-learning con esame in presenza per  acquisire la qualifica di Expert Teacher organizzati dall’Erickson in collaborazione con la UIL, Università Telematica  degli Studi, e con lANPA, associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola.

In cuor mio confidavo che ci fosse un nesso tra l’iniziativa del ministro e l’offerta dell’Erickson, un nesso che avrebbe aiutato a fornire un senso all’evanescente figura scaturita dal decreto Aiuti bis. Non pensavo a nulla che non fosse più che legittimo e trasparente, ma evidentemente, indubbiamente per causa mia, ho suscitato con un mio articolo la sensibilità degli ideatori e promotori dell’Expert Teacher, della qualcosa mi dolgo pubblicamente.

Tuttavia di fronte all’alzo zero con il quale pare sarà impallinata la proposta del docente esperto mi rimangono aperti tutti i miei interrogativi.

Siamo tutti convinti che il nostro sistema scolastico necessita di una rifondazione radicale? Che il differenziale fra noi e gli altri Paesi è cresciuto anche perché non abbiamo saputo pensare al nostro sistema scolastico in termini moderni, un sistema scolastico che accusa una crisi profonda nei suoi moduli organizzativi, nelle sue strutture organizzative, nella formazione dei suoi docenti.

Che la scuola è una grande questione nazionale che deve essere affrontata con grandissima lungimiranza e fortissimo impegno, perché un paese e una comunità vivono del futuro che sanno preparare ai loro giovani, ragazze e ragazzi.

L’ultimo rapporto dell’Unesco sollecita un nuovo contratto sociale per l’istruzione al cui centro siano gli insegnanti e la loro professione rivalutata e reimmaginata come uno sforzo collaborativo che stimola nuove conoscenze per realizzare una trasformazione educativa e sociale. Gli insegnanti hanno un ruolo unico da svolgere nella costruzione di un nuovo contratto sociale per l’istruzione. Per svolgere questo lavoro complesso, gli insegnanti hanno senza dubbio bisogno di comunità di insegnamento collaborative ricche, caratterizzate da ampi spazi di autonomia e da un generale sostegno. Sostenere l’autonomia, lo sviluppo e la collaborazione degli insegnanti è un’importante espressione di solidarietà pubblica per il futuro dell’istruzione.

Quando gli insegnanti sono riconosciuti come professionisti riflessivi e produttori di conoscenza, contribuiscono alla crescita dei corpi di conoscenza necessari per trasformare gli ambienti di apprendimento, le politiche, la ricerca e la pratica, all’interno e al di fuori della loro stessa professione.

Ma come incamminarsi verso tutto questo, che richiede tempo, pazienza, lungimiranza, investimenti nelle risorse umane?

Non sono certo sufficienti le petizioni di principio, le dichiarazioni di intenti, né le elocubrazioni sulla scuola che ognuno  vorrebbe.

Occorre scegliere, occorre scommettere, come sempre nella scuola.

Occorre decidere contro le resistenze al cambiamento dall’interno, e pure dall’esterno,  contro chi invoca il passato e accusa di tutti i mali il progressismo educativo. 

Bisogna decidere sapendo che la chiave del cambiamento sono gli insegnanti, coloro che ogni giorno lavorano nel rumore d’aula, che su di loro bisogna puntare e investire. Sapendo che non possiamo convincerli tutti e coinvolgerli tutti contemporaneamente, i mezzi al momento non ci sono e vanno rispettate le opinioni di ciascuno. Ma l’interesse della Scuola e del Paese, in particolare delle giovani generazioni, deve prevalere su ogni corporativismo e immobilismo.

Se la strategia è quella di intervenire sul versante della formazione e del reclutamento da un lato e dall’altro sulla riqualificazione di quote di personale in servizio, non mi sembra una strategia sbagliata e ritengo che valga la pena impegnarsi in questa direzione. 

Si avvierà  così un processo di innovazione dall’interno della scuola attraverso il ricambio di personale per via dell’avvicendamento tra i docenti che vanno in pensione e i neo assunti che avranno ricevuto una nuova formazione e quelli in servizio che nel frattempo avranno compiuto il percorso per essere riconosciuti come docenti esperti.

Da tutto questo si evincono due piani di intervento per riqualificare il nostro sistema formativo facendo leva sull’unica leva credibile: il coinvolgimento degli insegnanti, perché solo da loro dipende il destino del nostro sistema formativo. 

Intervenendo sui due fronti è credibile pensare che nel giro di dieci anni si possa realizzare già un profondo rinnovamento e una autentica riqualificazione della nostra scuola con un’efficacia e una capacità di centrare l’obiettivo che nessuna riforma del sistema potrebbe assicurare, starà poi alla politica accompagnare tempestivamente con lo strumento delle leggi le innovazioni che si produrranno nella nostra scuola per effetto del processo di riqualificazione del personale docente.

È indispensabile che questo processo veda il coinvolgimento e il protagonismo di altri soggetti irrinunciabili per la formazione dei docenti e il rinnovamento del nostro sistema formativo, dalle Università all’Indire, alle Avanguardie educative, all’associazionismo professionale degli insegnanti, ai centri studi e alle case editrici qualificate sul piano della didattica e della formazione professionale dei docenti. Un lavoro corale capace di far suonare le corde migliori del nostro sistema scolastico e dei nostri insegnanti.

Si scrive Docente Esperto si legge Expert Teacher*

L’articolo 38 del Decreto Aiuti bis, quello che introduce la figura del “docente esperto”, mica potevano scriverlo in inglese. Ma poiché nella quasi generalità dei paesi europei è d’obbligo la formazione professionale continua per chi insegna e circa la metà dei sistemi educativi prevede carriere strutturate per complessità di lavoro e responsabilità, viene spontaneo supporre che il profilo del docente esperto non sia un’invenzione ministeriale estemporanea prodotta dall’eccessiva calura estiva.

Occorre un po’ di pazienza, riflettere, essere creativi e siccome siamo globalizzati dall’italenglish ti viene di tradurre “docente esperto” e cercare in rete con l’ausilio di Google “Expert Teacher”. E il gioco è fatto perché cade immediatamente il velo di Maya, e comprendi quanto sei sciocco e sprovveduto, perché le cose sono come sempre figlie del rasoio di Occam e maledettamente italiane.

Scopri che Expert Teacher è il Master on line, con sessione finale in presenza, organizzato  dal Centro studi e casa editrice Erickson in collaborazione con la UIL, Università Telematica  degli Studi e con l’ANPA, associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola: 990 euro, scontati,  per 1500 ore e 60 CFU.

Di fronte alla figura del docente esperto la domanda che immediatamente mi è venuta spontanea è stata relativa al ruolo dell’INDIRE e delle Avanguardie educative da questi sostenute, istituzioni immagino costituite da docenti esperti, saranno riconosciuti come tali o dovranno anche loro compiere il percorso previsto dal decreto legge?

Ma non c’è fine alle scoperte perché al progetto di Master dell’Erickson partecipano anche l’INDIRE e l’Università di Firenze.

Le sorprese non terminano qui. Navigando nel sito dell’Erickson vieni a scoprire che il progetto Expert Teacher è curato e sviluppato da Laura Biancato, dirigente scolastica che ha lavorato presso il Ministero dell’Istruzione partecipando a diverse commissioni, in particolare alla stesura del piano nazionale Scuola Digitale.

A questo punto è difficile non immaginare che il Docente Esperto del ministro Patrizio Bianchi e l’Expert Teacher dell’Erickson-Biancato  siano parenti stretti.

Del resto l’obiettivo è comune. Non è certo quello di aprire la carriera docente a figure di sistema, perché se così fosse stato la strada era già in parte tracciata, non era necessario rovinarsi la vita con il rischio di vedersi rivoltare contro il corpo insegnante come già accadde più di vent’anni fa al ministro Luigi Berlinguer che partorì l’idea del “concorsone”.

No, la strategia del ministro, forse con la complicità dell’Erickson, è quella del cavallo di Troia, trentaduemila cavalli di Troia tra il 2033 e il 2036, nella consapevolezza che riformare la scuola richiede tempo, tanto tempo e che soprattutto ogni riforma dall’esterno è destinata a fallire, mentre la scuola si può solo rinnovare dall’interno, attraverso gli insegnanti, i trentaduemila cavalli di Troia, appunto, su cui investire. Del resto il secolo scorso ci ha insegnato che le uniche innovazioni che hanno consentito di migliorare il sistema formativo sono quelle nate sul campo dalle esperienze di grandi maestri come Montessori, Freinet, Lodi, Ciari, Lorenzo Milani.

Il Centro Studi Erickson presenta il proprio Master come una proposta formativa altamente professionalizzante per preparare docenti in grado di affrontare il cambiamento della scuola.

La scuola è un “bene comune” come ci ricorda anche l’ultimo rapporto dell’Unesco e in una società in costante evoluzione anche il profilo docente non può che essere dinamico, già lo sapevamo ma le resistenze al cambiamento dall’interno, e pure dall’esterno, quando si tratta di scuola sono prepotenti, è sempre il passato che viene invocato contro il progressismo che avrebbe alterato gli equilibri Casati-gentiliani del nostro sistema formativo.

La professione docente si è fatta sempre più complessa e anche questa è una banalità,  ma solo ora, perché l’Europa ce lo impone, con il Pnrr si affronta nell’arco di una prospettiva di dieci anni il problema della formazione docente. Non si specifica come, se non introducendo il profilo del docente esperto. 

Se è parente dell’Expert Teacher, l’Erickson specifica che la sua offerta formativa nasce da un progetto di ricerca che ha coinvolto oltre 200 insegnanti della scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado. Sono state così individuate quattro figure di “insegnanti esperti”. Progettano, organizzano, monitorano, valutano progetti estesi all’intero istituto, per contribuire a qualificare e innovare la scuola.

Ne è derivato addirittura un Syllabus, “Il Syllabus Expert Teacher per le competenze del docente innovativo” suddivise in tre aree fondamentali: Professione, Didattica, Organizzazione.

I corsi dell’Erickson sono chiaramente finalizzati al conseguimento del Master di I livello e al rilascio di 60 CFU necessari per essere assunti a scuola secondo la nuova normativa del reclutamento.

Ai Master è affiancata l’offerta di singoli Corsi di perfezionamento pensati come “palestre” con un project work finale per un totale di 500 ore e 20 CUF. Le palestre sono dedicate all’Innovazione della professione docente e alla Progettazione e valutazione nella scuola delle competenze.

Il prestigio del Centro Studi e della casa editrice Erickson non sono certo messi in discussione, indiscutibile il contributo dato in tutti questi anni ai temi dell’inclusione scolastica e al rinnovamento della didattica, in particolare del suo animatore il professor Dario Ianes.

Da tutto questo si evincono due piani di intervento per riqualificare il nostro sistema formativo facendo leva sull’unica leva credibile: il coinvolgimento degli insegnanti, perché solo da loro dipende il destino del nostro sistema formativo. 

Non so quale sia la strategia del ministro Bianchi, forse sarebbe il caso che ce la spiegasse, ma non sono portato a credere che ognuno viaggi per conto suo, anzi, credo che i piani convergano, uno finalizzato a formare i nuovi docenti, l’altro, quello ministeriale, che interviene sui docenti già in servizio, certamente quelli che potranno garantire una maggiore permanenza e non ovviamente quelli destinati ad andare in pensione negli ultimi dieci anni. Intervenendo sui due fronti è credibile pensare che nel giro di dieci anni si possa realizzare un profondo rinnovamento e una autentica riqualificazione della nostra scuola con un’efficacia e una capacità di centrare l’obiettivo che nessuna riforma del sistema potrebbe assicurare, starà poi alla politica accompagnare tempestivamente con lo strumento delle leggi le innovazioni che si produrranno nella nostra scuola per effetto del processo di riqualificazione del personale docente.

*N.B.

Erickson. Buonasera dott. Fioravanti, sono Francesco Zambotti, responsabile dell’Area Educazione di Erickson. L’articolo che mi trovo a commentare parte semplicemente da un assunto falso e anche irrealistico. Non c’è nessuna vicinanza nè tantomeno dialogo o accordo tra Erickson e il MIUR (la cosa mi fa anche sorridere sapendo la diffidenza che il Ministero ha nei confronti delle ditte private). È vero che il nome del docente esperto può richiamare Expert Teacher che è però un progetto del tutto diverso nei fondamenti e negli obiettivi, dalla proposta recente ministeriale e con molto anni alle spalle. Esiste da più di cinque anni e prevede sia il master che lei cita ma anche altre forme di formazione professionale. Se vuole conoscere meglio il progetto Expert Teacher la invito personalmente al nostro convegno Didattiche2022 a Rimini in novembre, ci saranno diversi momenti dedicati anche a Expert Teacher e più in generale spero di capisca che l’idea di innovazione inclusiva che Erickson propone , promuove e sostiene è un idea molto diversa dalla lotteria dell’incentivo economico individuale prevista nel recente DL. Venga a conoscere la profondità del syllabo di Expert Teacher e il lavoro di ricerca triennale che c’è stato alle spalle facendo dialogare mondo della ricerca, dirigenti, insegnanti e centro di formazione. Le assicuro che è un panorama molto diverso da quello previsto dal docente esperto. Se vorrà essere nostro ospite ci farà molto piacere.

Laura Biancato. Per quello che mi riguarda direttamente, visto che mi ha citata, si tratta di fantasie prive di qualsiasi fondamento, anzi del tutto opposte alla realtà. Sta di fatto che trovo diffamatorie alcune frasi come quelle che ipotizzano una combutta tra Erickson (vengo citata direttamente) e ministero, peraltro per impedire una vera carriera dei docenti che da decenni porto avanti come battaglia personale. Ho scritto diversi articoli e partecipato ad eventi anche di rilievo sempre con l’obiettivo di promuovere un cambiamento verso il middle management. Infatti, il profilo 3 di Expert Teacher era stato pensato nel 2017 proprio come prototipo del collaboratore del DS. In ogni caso, è veramente un paradosso che lei mi nomini co-fautrice di una disposizione (quella del docente esperto) che per me è intollerabile, che ho criticato in lungo in largo e che è l’opposto di ciò che (forse non l’ha approfondito bene…) promuove il progetto Expert Teacher.

Le mie fonti:

Expert Teacher https://www.erickson.it/it/expert-teacher/?gclid=Cj0KCQjwuuKXBhCRARIsAC-gM0hGxVIfMO3_z7wYSSRkL-PtoV11Jdl6o4-9zbbp4XQH_LVC7m4YH5gaAj3dEALw_wcB

https://www.linkedin.com/in/laura-biancato-a93a99139/?originalSubdomain=it

La scuola è sfinita

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Il problema della scuola è la scuola. Ma se la soluzione non è la descolarizzazione della società certamente è quella della descolarizzazione della scuola, salvare la scuola da se stessa. La Scuola è sfinita è l’ultimo lavoro di Maurizio Parodi pubblicato da La Meridiana di Bari.

Una scuola estenuata, esausta, una scuola che non sopporta o meglio non supporta più i suoi studenti per l’incompatibilità crescente tra loro  e il nostro sistema formativo.

Questa nostra scuola sarebbe perfetta se solo fosse senza gli studenti o per lo meno frequentata solo da quelli con essa compatibili, probabilmente tutti quelli che della scuola non avrebbero bisogno e che comunque la scuola non  riuscirebbe a rovinare.

È saltata la compatibilità con il suo sistema, la sua organizzazione, il suo funzionamento, se mai c’è stata. Ognuno al suo posto: le classi, gli insegnanti in cattedra, gli alunni dietro  ai banchi, gli orari che scandiscono gli ingressi e le uscite, il succedersi dei saperi impacchettati nelle singole materie, ora per ora, anno per anno, i compiti, i voti, le interrogazioni, tutto perfetto. Salvo che tutto giri senza intoppi, che tutto sia compatibile con il sistema, diversamente bisogna prevedere le integrazioni, i bisogni educativi speciali, le certificazioni e incominciano le entropie.

Non è una novità lo sappiamo da tempo, lo sanno da tempo tutti quegli insegnanti che ogni giorno lavorano con passione controcorrente, nonostante la scuoia, lavorano perché sentono il peso della responsabilità della loro relazione di adulti formati con ragazze e ragazzi che in quanto adolescenti ancora non sono adulti.

Se la scuola non funziona non è colpa delle nuove generazioni, la responsabilità è di una scuola vecchia di due secoli rimasta pressoché identica a se stessa, mai riformata perché mai deformata come la regola dei monaci Certosini. Un’istituzione totalizzante alla Foucault, come le caserme, le carceri, gli ospedali. Dove codici, norme, regole, prassi annullano le persone, le individualità, le differenze, per appiattirle, per omologarle, cosa grave quando si tratta di ragazze e ragazzi che devono crescere, per dirla con Gordon Childe devono creare se stessi.

Ma nessuno si gira a guardare indietro, a guardarci dentro a questa scuola, a farne l’ecografia  con spirito di osservazione ed esperienza sul campo come fa Maurizio Parodi che nella scuola ci ha messo la vita, vi è entrato a sei anni e come tanti di noi, dalla scuola non è più uscito. Con pensiero riflessivo scrive della quotidianità delle nostre scuole, delle liturgie che in esse si celebrano, dei loro riti come fossero chiese, in cui ogni giorno l’insegnante sale in cattedra come il sacerdote all’altare e gli alunni come i fedeli nei banchi ad assistere alla celebrazione con gesti e condotte stereotipate.

Alla diagnosi Parodi accompagna la terapia a base di ricostituenti pedagogici. 

Innanzitutto praticare lo sguardo ecologico per una “conversione ecologica” quella che ci ha insegnato Gregory Bateson con il suo Verso un’ecologia della mente. Una conversione ecologica mentale di chi pratica per mestiere la cultura e l’insegnamento. Un’ecologia scolastica nel senso di praticare l’ecologia degli ambienti di apprendimento. La capacità di rimettere in discussione i nostri costrutti mentali intorno alla scuola e ai processi di insegnamento/apprendimento. Come funziona il pensiero umano e come funziona la didattica scolastica non vanno d’accordo, non sono mai andati d’accordo. 

La conversione ecologica richiede una rieducazione del pensiero, nel nostro caso del pensiero intorno ai saperi, alla scienza, agli insegnamenti per come sono da sempre accreditati dalle nostre scuole nella loro parcellizzazione e frantumazione a partire dalla formazione dei docenti per finire  ai contenuti confezionati nei libri di testo dall’editoria scolastica.

In questo senso si deve parlare di una conversione ecologica delle nostre scuole per liberare i nostri sitemi formativi dai pregiudizi cognitivi su cui si reggono. 

Parodi li elenca con precisione a partire dalla convinzione che l’unico sapere autentico è  quello formale che si apprende a scuola. Per apprendere bisogna disporre di ambienti “asettici” come le aule dove il silenzio della classe e l’assenza di stimoli esterni enfatizzano il valore della lezione e della parola dell’insegnante. Varcata la soglia della scuola gli alunni sono tutti ugualmente ignoranti, tutti non diversamente competenti. L’insegnamento si caratterizza per segmenti di trasmissione delle conoscenze alla classe, prevalentemente attraverso la parola. Durante la lezione  le informazioni “transitano” dal docente-soggetto al discente-oggetto. La persistenza degli apprendimenti è proporzionale alla quantità di insegnamento, più si insegna più qualcosa resta. Così tanto più l’alunno ascolta, tanto più impara. Solo correggendo e facendo ripetere si possono ottenere risultati positivi. La conoscenza è frutto di studio, e lo studio può essere solo fatica, rinuncia, sacrificio. Quello che si fa a scuola non può essere piacevole, perché un’attività piacevole non può essere cognitivamente significativa e didatticamente apprezzabile. La memoria è fondamentale, infatti l’apprendimento consiste nella memorizzazione di nozioni e la conoscenza è il risultato di un processo lineare e cumulativo.  Ogni studente è responsabile dei suoi risultati perché la padronanza del sapere scolastico dipende, in massima parte, dalla volontà dello studente. 

Nonostante il nuovo millennio, l’evoluzione e la diffusione dei saperi e la conseguente  perdita di centralità da parte della scuola come unica detentrice del sapere, su simili convincimenti, occulti, inconsapevoli o meno continuano a basarsi i processi formativi dei nostri giovani nelle nostre scuole.

È possibile difendersi? È possibile guarirne? Parodi  indica con chiarezza la strada, la strada del professionista riflessivo, che dovrebbe essere chiunque lavora nella scuola, chiunque ha a che fare con le persone a prescindere dalla loro età, ragione di più se l’età è quella della crescita e della formazione.

È necessario avviare processi di autoanalisi, scrive Parodi, possibili solo laddove docenti e dirigenti dichiarino la propria disponibilità a mettersi in gioco, ad acquisire distacco critico verso la propria professionalità con lo scopo di innescare processi di cambiamento che coinvolgano tutti gli operatori scolastici.

Le aree su cui lavorare sono essenzialmente tre: l’area epistemologica-scientifica, l’area pedagogico-didattica, l’area etico-sociale, per ciascuna di queste aree Parodi fornisce gli indicatori di qualità ecologica per favorire la riflessione sul senso del fare scuola oggi.

Per questa scuola sfinita l’unica terapia possibile per vincere i propri morbi è la conversione ecologica del sistema e delle menti che vi lavorano, non servono psicoterapeuti ma una cultura nuova, una cultura metacognitiva, capace di ripensare radicalmente se stessa.

Non è la strada che pare sia stata intrapresa dai decisori politici, neppure da suoi operatori che sembrano sempre più innalzare baluardi in difesa della propria fortezza.

Ma la scuola ci dice in definitiva Parodi è la questione democratica per eccellenza, è una questione di trasparenza, di accountability, di bilancio sociale a cui non ci si può sottrarre a partire da chi opera al suo interno.

Scuola e democrazia camminano di pari passi ce l’ha insegnato Dewey più di un secolo fa, se viene meno la scuola per tutti viene meno la democrazia e in giro non mancano i teorici della scuola per pochi e della democrazia come una roba vecchia e costosa.

Istruzione: un nuovo contratto sociale

La vulnerabilità era un sentimento privato frutto delle nostre fragilità biografiche, ora, dopo la pandemia e con la guerra alle porte di casa, è divenuto un sentimento collettivo che insieme all’incertezza per il futuro ha investito sempre più il nostro presente.

L’UNESCO ne ha fatto il tema dominante del suo ultimo rapporto: “Reimagining our futures together: A new social contract for education”.

Reimmaginare il futuro e per questo è necessario un nuovo contratto sociale per l’istruzione, un’istruzione che è ancora troppo fragile come ha dimostrato la pandemia, durante la quale 1,6 miliardi di studenti in tutto il mondo è stato privato della scuola.

Sono 75 anni, da quando è stata fondata, che l’UNESCO produce i suoi rapporti per ripensare il ruolo dell’istruzione nei momenti chiave della trasformazione della società. Dal rapporto della Commissione Faure del 1972 Learning to Be: The World of Education Today and Tomorrow, al rapporto della Commissione Delors nel 1996, Learning: The Treasure Within. 

Di fronte a gruppi di insegnanti e associazioni che ancora sfornano manifesti per rivendicare il passato anziché il futuro, per difendere cattedre e discipline, viene da chiedersi quanto i professionisti dell’istruzione nel nostro paese possano essere culturalmente sensibili agli stimoli che il nuovo rapporto dell’Unesco fornisce, siano disponibili a ridiscutere le presunte certezze fin qui accumulate. 

Il sistema va rivisto, ed è urgente, perché l’istruzione è questione che non riguarda più solo la nostra classe, il nostro paese, è questione mondiale e quando saliamo in cattedra non è che la porta dell’aula si chiude al mondo, al contrario si apre al mondo e di questo come insegnanti portiamo la responsabilità. Ma non sembra esserci sintonia tra tanta parte degli insegnanti delle nostre scuole e la necessità per il futuro che le nostre aule e le nostre scuole non solo siano costruite, ma soprattuto vissute in modo diverso. 

Si parla di istruzione come se i paradigmi non fossero cambiati, come se l’istruzione permanente praticata come richiesto dai documenti dell’Unesco non avesse dovuto rimettere  in discussione tutto l’assetto dei nostri sistemi formativi e il ruolo professionale dei docenti.

Ora l’Unesco suggerisce di fondare l’istruzione su un nuovo contratto sociale il cui punto di partenza sia una visione condivisa degli scopi pubblici dell’educazione a partire dai principi fondamentali e organizzativi che strutturano i sistemi formativi, il lavoro per costruirli, mantenerli e perfezionarli.

Nel corso del XX secolo, l’istruzione pubblica è stata essenzialmente finalizzata a sostenere la cittadinanza nazionale e lo sviluppo della scolarizzazione di massa attraverso l’istituzione della scuola dell’obbligo. Oggi, tuttavia, mentre affrontiamo gravi rischi per il futuro dell’umanità e per lo stesso pianeta, dobbiamo reinventare urgentemente l’istruzione per poter affrontare le sfide comuni. Il diritto all’istruzione, come sancito dall’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo non è più sufficiente. Deve continuare ad essere il fondamento del nuovo contratto sociale per l’istruzione ma occorre arricchirlo, ampliarlo al diritto all’informazione, alla cultura e alla scienza, nonché al diritto di accedere  alla conoscenza, alle risorse del patrimonio di conoscenza collettiva dell’umanità accumulato nel corso delle generazioni che si sta trasformando continuamente.

Sostenibilità, conoscenza, apprendimento, insegnanti e insegnamento, lavoro, abilità e competenze, cittadinanza, democrazia e inclusione sociale, istruzione pubblica, istruzione superiore, ricerca e innovazione costituiscono le voci vertiginose della lista, i temi critici che richiedono di essere profondamente ripensati per il futuro.

Il rapporto dell’Unesco guarda al 2050 ponendo tre domande essenziali relative all’istruzione: Cosa continuare a fare? Cosa abbandonare? Cosa inventare di nuovo in modo creativo?

Non dà risposte, ma fornisce le coordinate per pensare in modo diverso all’apprendimento, alle relazioni tra studenti e insegnanti, alla conoscenza e al mondo.

Didattica, curricoli, valutazione, insegnanti e insegnamento, scuole, opportunità educative, ricerca e innovazione.

Nulla di nuovo, ma dovremmo metterli nero su bianco, dare loro la consistenza di un nuovo contratto sociale, un riconoscimento normativo da cui non è possibile prescindere per chi mette piede nelle nostre scuole, nelle scuole di un nuovo contratto per l’istruzione.

Deve essere prescritto che a scuola istruzione e apprendimento si praticano attraverso la cooperazione, la collaborazione e la solidarietà, attraverso la compassione e l’empatia, la capacità di lavorare insieme, di immaginare e di trasformare il mondo, la cultura e il sapere per promuovere le capacità intellettuali, morali e sociali di ragazze e ragazzi. Deve essere prescritto che a scuola si va anche per disimparare, disimparare pregiudizi e divisioni, disimparare le lezioni ex cattedra, i compiti e i voti, per apprendere invece a valutare come promuovere la crescita  e l’apprendimento significativo per ogni studente.

Curricoli per contrastare la diffusione della disinformazione attraverso alfabetizzazioni scientifiche, digitali e umanistiche che sviluppino la capacità di distinguere la falsità dalla verità. Enfatizzare l’apprendimento ecologico, interculturale e interdisciplinare in modo da supportare gli studenti nell’accedere e nel produrre conoscenza, sviluppando allo stesso tempo la loro capacità di critica e di applicazione. I programmi di studio devono abbracciare una comprensione ecologica dell’umanità (già Edgar Morin ci invitava a questo) che riequilibri il modo in cui ci relazioniamo con la Terra come pianeta vivente e nostra casa. Cittadinanza attiva e partecipazione democratica devono essere promossi e praticati nei contenuti, nei metodi e nelle politiche educative.

Reimagining our futures dell’Unesco propone un profilo professionale dell’insegnante come produttore di conoscenza e figura chiave della trasformazione educativa e sociale.

Ma l’insegnante reimmaginato per il futuro non è quello che siede in cattedra e chiude la porta dell’aula. Al contrario la collaborazione e il lavoro di squadra devono caratterizzare la professione docente, la riflessione, la ricerca e la creazione di conoscenze e nuove pratiche pedagogiche debbono diventare parte integrante dell’insegnamento.

Occorre valorizzare pienamente l’autonomia e la libertà dei professionisti dell’istruzione,  che non possono continuare ad essere muti spettatori, ma farsi attori pienamente protagonisti partecipando al dibattito pubblico e al dialogo per il futuro dell’istruzione.

Le architetture scolastiche, gli spazi, gli orari, i gruppi di studenti devono essere riprogettati per incoraggiare e consentire alle persone di lavorare insieme, per affrontare sfide ed esperienze non possibili altrove, le tecnologie digitali devono mirare a supportare e non sostituire le scuole. 

Scuole come siti educativi protetti, grazie all’inclusione, all’equità e al benessere individuale e collettivo che ne costituiscono la ragione d’essere. Scuole reinventate per promuovere al meglio la trasformazione del mondo verso un futuro più giusto, equo e sostenibile.

Il diritto all’istruzione deve essere ampliato per durare tutta la vita e comprendere il diritto all’informazione, alla cultura, alla scienza e alla connettività.

Un invito alla ricerca e all’innovazione. Le università e gli istituti di istruzione superiore devono essere attivi in ​​ogni aspetto della costruzione del nuovo contratto sociale per l’istruzione nelle loro comunità e in tutto il mondo. Università creative, innovative, impegnate a rafforzare l’istruzione come bene comune hanno un ruolo chiave da svolgere nel futuro dell’istruzione, dal sostegno alla ricerca, al progresso della scienza, all’essere  partner che contribuiscono all’arricchimento e all’aggiornamento dei programmi educativi nelle loro comunità. 

È essenziale che tutti possano partecipare alla costruzione del futuro dell’istruzione: bambini, giovani, genitori, insegnanti, ricercatori, attivisti, datori di lavoro, leader culturali e religiosi. Abbiamo tradizioni culturali profonde, ricche e diversificate su cui costruire. Gli esseri umani hanno una grande capacità di azione collettiva, intelligenza e creatività da spendere. Ora ci troviamo di fronte a una scelta seria: continuare su una strada insostenibile o cambiare radicalmente rotta.

Tornando alla scuola di casa nostra, ce n’è quanto basta per reimmaginare il nostro futuro e scrivere un nuovo contratto sociale per l’istruzione, ma a guardarci attorno mancano le parti che sembrano guardare altrove o comunque incapaci di trovare la rotta da seguire. L’Unesco ce ne offre una. La speranza è che da qualche parte non ci si limiti a procacciarsi l’etichetta di patrimonio dell’umanità, ma si leggano anche i rapporti dell’Unesco che suggeriscono come far crescere per il futuro il patrimonio umano di cui portiamo la responsabilità.