Merito e relazione l’ossimoro scolastico

  1. L. Meylan, Educazione Umanistica, La Nuova Italia, Firenze, 1951
  2. R. Lambruschini, Della Educazione e della Istruzione, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pp. 2-3
  3. A. Ellis, R.A. Harper, A guide to rational living, Wilshire Book Co, 1997, pp. 101-127

Quando la scuola viene meno ai patti

In Vinitaly veritas

Perché no? Si potrebbe istituire il liceo del made in Italy per dare luce, come dice la parola stessa, alle virtù creative nazionali. Tanti studenti licenziati al termine dei cinque anni di corso con l’etichetta “made in Italy “ stampigliata addosso.

Tutto coerente con quanto già scritto nel programma “Per l’Italia” con cui il centro-destra si presentò alle elezioni del 25 settembre scorso: “Made in Italy, cultura e turismo”, “Italiani all’estero come ambasciatori del Made in Italy”.

L’ultimo governo di centro destra fu un incubo per la scuola. Il Berlusconi IV, con dentro da Meloni a Salvini, da Forza Italia al Movimento per le autonomie del siciliano Raffaele Lombardo, tagliò in maniera drastica e indiscriminata le risorse per l’istruzione pubblica. Ripristinò l’obbligo del grembiulino, la valutazione in decimi alla scuola elementare e media, il maestro unico, tempo scuola a 24 ore settimanali, niente tempo pieno, fino all’affossamento definitivo degli istituti professionali, quelli dell’istruzione che ora il nuovo governo vorrebbe riverniciare.

Già abbiamo sei sorte di licei che divengono dieci se si considerano le diverse opzioni: scienze applicate, indirizzo sportivo, economico-sociale, beni culturali e ambientali. Più  undici indirizzi di istituti professionali e altrettanti di istituti tecnici. Uno dice fatto trentadue si può fare trentatré come le settimane di scuola ogni anno.

Eventualmente si tratterà di comprendere le differenze tra il liceo Made in Italy e l’indirizzo professionale Industria e Artigianato made in Italy, oppure con l’istituto professionale per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera tutto made in Italy, o, ancora, con l’istituto professionale per i servizi culturali e dello spettacolo o gli istituti tecnici per il turismo, quelli per il Sistema Moda sempre made in Italy, per non parlare del  liceo per i beni culturali e ambientali rigorosamente made in Italy.

Forse più che della moltiplicazione dei pani e dei pesci avremmo bisogno di semplificazioni e di sintesi, a meno che non si consideri il proliferare delle cattedre un buon investimento per accrescere il consenso elettorale.

In “Vinitaly veritas” viene da concludere. Perché l’impressione che la proposta del liceo Made in Italy non sia solo un ulteriore passo avanti nella promessa elettorale di rivedere in senso meritocratico e professionalizzante i percorsi scolastici e così andare incontro ai desiderata da tempo avanzati dall’imprenditoria nazionale. Ma sia piuttosto una tappa verso quella revisione culturale che questa destra ideologica, conservatrice e illiberale si è proposta come vero obiettivo della sua permanenza alla guida del paese.

È successo che l’Unione europea, l’immigrazione, la globalizzazione dei mercati e dell’economie minaccino quotidianamente l’identità nazionale, l’identità di un popolo e, dunque, una scuola del made in Italy è lo strumento più efficace per recuperare generazioni che rischiano il cosmopolitismo e la mondializzazione all’orgoglio per la propria italianità. Formarle al senso di appartenenza alla “Civiltà italiana”, quella del Colosseo quadrato all’EUR che sulla facciata porta scritto: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori e di trasmigratori”.

Questo in forte contrasto con la visione di una scuola luogo di formazione alla multiculturalità, alla mondialità, alla cittadinanza planetaria attraverso un’istruzione dal respiro globale a beneficio dell’intera umanità.

Non è un’operazione nuova quella di difendere la propria integrità nazionale, appartiene alla storia della nascita ottocentesca degli stati-nazione, ma da tempo avrebbe dovuto essere superata dalla globalizzazione, dalla domanda di libero movimento di merci, denaro e lavoratori, di culture e saperi.

Questo governo non si smentisce e ancora una volta dimostra di puntare ad una scuola come luogo dove plasmare le coscienze nazionali, promettendo un ritorno al passato, a un modello di scolarizzazione che serva esclusivamente alle necessità della nazione. In questo modello il contenuto dell’istruzione è determinato dall’interesse e dalle necessità nazionali in opposizione a quelle puramente individuali dell’ I Care, legate alla realizzazione dei singoli e al loro successo formativo.

Un sistema scolastico che supporti le necessità politiche della nazione attraverso l’educazione e la disciplina alla lealtà, alla patriottica cittadinanza imbevuta di made in Italy: una scuola etica e professionalizzante.

Ciò che interessa a questo governo non è dare realizzazione al PNRR per la scuola con i suoi ambiziosi traguardi e i i suoi diciannove miliardi da spendere entro il 2026. Forse  sono proprio quelli che pensano di restituire piuttosto che spenderli male in direzioni non desiderate, perché non condivise come asili nido, tempo pieno e mense, riduzione dei divari territoriali, competenze e nuovi linguaggi, nuove aule didattiche e laboratori, riqualificazione dell’edilizia scolastica. 

No, l’importante è ristabilire l’ordine in opposizione alle pedagogie progressiste, accusate di aver rovinato la scuola dai tempi della scuola media unica e di Barbiana fino ad averla ridotta addirittura ad essere causa di discriminazione. È scoccata l’ora della restaurazione, del restyling della scuola vera, quella del modello occidentale, diffuso in tutto il mondo dagli stati-nazione dei secoli già tramontati.

L’ educazione, quella vera, impartita in edifici specifici dove bambine e bambini, ragazze e ragazzi stiano separati dagli adulti. Con i rituali e le usanze di sempre, proprie delle scolaresche. Alunni contenuti nelle classi a cui deve essere insegnato secondo i metodi standardizzati in accordo con gli obiettivi del curricolo, con il libro di testo specificatamente scritto per l’uso scolastico come fonte maggiore di apprendimento. Giovani separati dalla comunità e sistemati in ambienti in cui controllarli, che consentano di plasmare intere generazioni per servire agli interessi politici ed economici della patria.

Un sistema scolastico che torni a dar forza allo patria-nazione attraverso l’unificazione culturale contro le minacce etniche, linguistiche e culturali, che sviluppi il senso di appartenenza alla propria cultura made in Italy, con scuole nelle quali apprendere la preparazione professionale necessaria a servire il sistema delle infrastrutture economiche made in Italy.

Un incubo che il paese digerirà come normalità, come assoluta normalità della scuola, anzi come una scuola “finalmente” tornata normale.

Due domande pesanti ancora senza risposta

Negli ultimi tre anni tre ministri si sono succeduti alla guida di viale Trastevere: Azzolina, Bianchi, Valditara, ognuno di loro ha reso pubblici i propri intenti attraverso lo strumento dell’ atto di  indirizzo politico-istituzionale.

La ministra Azzolina punta sugli studenti posti, dichiara, al centro dell’azione del ministero dell’istruzione. Rivendica un “notevole incremento” delle risorse pubbliche nazionali destinate all’istruzione, anche se in tre anni la percentuale per l’istruzione sul PIL è passata dal 3,9% del 2020 al 4% del 2023, sempre al di sotto del 5% della media europea.

Promette una “scuola innovativa, aperta, coesa, solidale, ma soprattutto inclusiva, che garantisca il diritto reale di ciascun studente a ricevere un’istruzione “coerente” con le proprie esigenze e inclinazioni, oltre che con le differenti articolazioni dei bisogni da soddisfare e delle aspettative della società nel suo complesso”.

Inutile, ormai, chiedersi cosa la ministra intendesse per “bisogni da soddisfare” e “aspettative della società”.

Un quesito però sorge spontaneo: e se le “proprie esigenze e inclinazioni” non sono coerenti con le “aspettative della società” cosa succede?

Bianchi è un economista della scuola di Prodi e tende a coniugare l’istruzione con l’economia.

Investire sulla formazione, esordisce, è fondamentale per promuovere “una ripresa intelligente, sostenibile e realmente inclusiva”. Istruzione di qualità certo “coerente con le proprie inclinazioni e aspirazioni ma in linea con le nuove competenze richieste dal mercato del lavoro”.

Rivendica un “significativo aumento” delle risorse nazionali stanziate per l’arricchimento e l’ampliamento dell’offerta formativa.

Anche per il ministro Bianchi vale quanto abbiamo già osservato più sopra a proposito del rapporto spesa pubblica per l’istruzione e PIL nazionale. C’è da notare che nel 2021 il bilancio di previsione del ministero ammonta a 51 miliardi e 70 milioni, nel 2022 a 51 miliardi e 369 milioni.

Bianchi promette la costruzione di “un nuovo modello di Scuola”.

Poi venne Valditara che a spiegare il suo nuovo modello di scuola ha provveduto immediatamente: “promozione del merito”, “supporto alla realizzazione di esperienze formative finalizzate alla valorizzazione del merito”.

Promette di restituire “dignità alla scuola, autorevolezza ai docenti e all’intera comunità professionale”.

Merito, dignità, autorevolezza, tre sostantivi che insistono su una comune area semantica. Il merito eleva a dignità, la dignità all’autorevolezza. Dignità e autorevolezza vanno meritate e, dunque, non si possono imporre per legge. 

A meno che non si ritenga che ogni singolo in quanto tale, a prescindere dal sesso, dalla razza, dalla lingua, dalla religione, dalle opinioni politiche, dalle condizioni personali e sociali, abbia pari dignità e, dunque, autorevolezza, come suggerisce l’articolo tre della nostra Costituzione e allora il merito, la dignità e l’autorevolezza del ministro Valditara finiscono per essere nient’altro che l’esercizio verboso di una tautologia retorica.

Il merito, la dignità, l’autorevolezza di uno studente e di un insegnante, di un genitore o di un ministro hanno identico peso e valore, ciò che cambia sono il ruolo e la funzione, ed è solo venendo meno al proprio ruolo e alla propria funzione che si perde di merito, di dignità e di autorevolezza. Pertanto non è necessario stendere il decalogo delle virtù morali, ma interrogarsi sulle ragioni delle proprie condotte e sulle ragioni delle condotte altrui.

Merito, dignità e autorevolezza sono gli a priori di ogni relazione umana e sociale, in modo particolare a scuola dove si dovrebbe imparare a irrobustirli a partire dalla testimonianza che gli adulti sono in grado di dare di se stessi.

Tre ministri, tre stili, tre prospettive differenti. Ma la macchina dell’istruzione è sempre la stessa e non cambia regime solo perché sale un altro autista, anche i percorsi sono già preordinati.

Tanto che, se li andate a leggere, i punti su cui si articolano le direttive dei tre ministri sono pressoché gli stessi: dal diritto allo studio all’edilizia scolastica, dall’offerta formativa alla digitalizzazione, dalla valorizzazione del personale all’autonomia, dalla trasparenza amministrativa al piano nazionale di ripresa e resilienza.

Ma, potrà parere paradossale, al di là delle parole sprecate, continuano a mancare i protagonisti principali: gli Studenti e la Scuola. 

Era già il difetto d’origine, qualche anno fa, della “Buona scuola”, perché la politica dell’istruzione in Italia continua a procedere per aggiustamenti, che non aggiustano mai nulla, con l’esito di accrescere i problemi,  accumulando i nuovi ai vecchi.

Cosa significa essere Studente oggi? Cosa significa essere Scuola oggi? Nel ventunesimo secolo sono le domande pesanti che ancora attendono una risposta, solo da qui è possibile ripartire a ragionare di istruzione, studio e formazione. Se non si ricomincia da qui non si va da nessuna parte e si assiste all’inesorabile logorarsi del nostro sistema formativo.

Le risposte non sono venute né dalla promessa “centralità” dello studente della ministra Azzolina né dal promesso “nuovo modello” di scuola del ministro Bianchi.

Finisce che arriva Valditara con la sua cultura, la cultura della scuola di ieri che pensa di ripristinare attraverso la propria ricetta di mal digerito merito, dignità e autorevolezza. 

Il risultato è inevitabile, sta già scritto: allontanarci sempre più dal porre in cima all’azione del dicastero dell’istruzione gli interrogativi che pongono alla nostra coscienza oggi l’essere Studenti e l’essere Scuola.

Per il resto la macchina continuerà a viaggiare, a prescindere dal suo autista, fino all’esaurimento per usura del tempo.

La vocazione religiosa del Merito

Dunque, il MIM, ministero dell’istruzione e del merito dovrà amministrare e gestire l’istruzione e il merito, insomma un dicastero al servizio, per stare alle etimologie, dell’istruzione e del merito. Prima doveva amministrare e gestire solo l’istruzione, ancora prima anche l’università e la ricerca scientifica, ora istruzione e merito insieme.

Viene spontaneo interrogarsi, trattandosi di esperienza nuova, priva di antecedenti storici, in cosa consista di preciso l’amministrare il merito. Dal sito web del ministero nulla risulta al riguardo, poiché alla voce “Missione e Funzione” non vengono fornite informazioni utili a cogliere la novità di questa “innovazione”.

Il grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia al lemma “merito” attribuisce ben sedici accezioni, tra queste l’accezione “scolastica”, che in assenza di altre indicazioni, essendo il merito ministeriale associato alla parola istruzione, si presume che si debba intendere in senso scolastico, vale a dire nel significato di: “Giudizio, valutazione che l’insegnante dà del prodotto e del rendimento dell’allievo esprimendolo per lo più attraverso punteggi e votazioni (anche nelle espressioni punti o voti di merito)”.

Se di questo si trattasse è difficile scorgerci una novità. Pare che una delle funzioni precipue della docenza, che sia scolastica o accademica, consista nell’attribuire un giudizio o un punteggio, in sintesi un voto, alle performance di studentesse e di studenti, che può essere seguito dal “cum laude” per i più meritevoli.

Non pare che tale prassi si sia offuscata nel tempo, tanto da doverne rinverdire e rinvigorire il valore facendo assurgere il merito a intitolazione di un ministero della repubblica.

Né si profilano all’orizzonte provvedimenti di frequenza obbligatoria, da parte di ciascun docente, di corsi in scienze docimologiche, con notevoli oneri per le già esigue casse dello Stato, al fine di bandire ogni rischio di soggettività nell’attribuire valore al merito di ogni singola ragazza e di ogni singolo ragazzo, garantendo così il massimo di oggettività nell’amministrazione e nella gestione del merito stesso.

Come intendere, pertanto, quel merito improvvisamente giustapposto all’istruzione, se non come una forma retorica, una sorta di tautologia, considerato che già l’articolo trentaquattro della nostra Costituzione obbliga la Repubblica a garantire che “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” raggiungano i gradi più alti degli studi. E perché allora non aggiungere al “merito” anche la “capacità”? Sarebbe come se all’intitolazione di ogni dicastero venisse aggiunto in pezzo dell’articolo tre della Costituzione, tipo: Ministero della Salute e della Dignità Sociale.

Quel “merito”, gestito così, denuncia un apparato visivo arcaico, come le rane che non possono percepire il mondo se non come un movimento di ombre, l’ombra del merito si estende sull’istruzione, con una logica rudimentale di conflitto e di contrapposizione.

C’è anche un’ombra teologica, quella della grazia amministrata dai sacerdoti di una Scuola che si fa Chiesa, la grazia salvifica che assicura la riuscita nella vita e la condanna dei reprobi nel sovraffollato girone della dispersione scolastica e dei Neet.

Cos’è il merito se non l’aspirazione a quello che non c’è, a quello che “non so se ce la farò”, a quello che non sono. Il principio del desiderio dell’io, desiderio dell’io indotto al di sopra di me e contro di me, senza interrogarmi, senza prendermi in considerazione, senza avermi consultato.

L’idolo che ha la sua antitesi nel fallimento, come condanna e come caduta a terra, nell’annientamento della propria stima. La negazione d’ogni formazione all’autostima, alla fiducia in se stessi, occorre apprendere a competere, non a sapere, non a conoscere. Non ad apprendere che il mondo non è fatto di bianco e nero, di più e meno, non è una realtà binaria come un computer o come il mio smartphone, ma qualcosa di estremamente complesso che non si impara a comprendere con la competizione alla formula uno del  merito.

Il merito è il premio, il paradiso, la virtù, il bello e il bene, l’iperuranio scolastico. Il resto è il cavallo imbizzarrito che costringe l’auriga a ricadere a terra, a reincarnarsi in un’altra prova, in un’altra gara per tentare l’ascesa tra le anime elette, degne di contemplare il mondo dove risiedono le idee, dove risiede il sapere vero, non quella volgare mimesi che ti ammanniscono sui banchi di scuola.

La teologia del merito salvifico pretende il sacrificio, ossia il farsi “sacer”: sacri o maledetti.

Idolatrati, ammirati, premiati, incoronati dall’alloro o detestati, innanzitutto da se stessi, e umiliati.

Il merito è desiderio, è mira, target da conquistare. Solo un soggetto animato dal desiderio può idolatrare, il desiderio fa dell’oggetto che si vuole possedere il suo idolo.

Il merito si trasforma in idolo, in narcisismo umano, scriverebbe Nietzsche, togliendo valore all’istruzione in quanto tale, asservendo a sé generazioni di studenti come il vincolo di una qualunque religione che, come il combustibile VUDD, la Voglia Universale di Diventare, muove il mondo immaginario di Kurt Vonnegut nel suo “Le sirene di Titano”.

Un ghost written ministeriale

Non conosco l’autore del documento riprodotto qui di seguito essendone venuto in possesso accidentalmente. Le vicende che mi hanno portato a trovarlo mi fanno supporre che il suo estensore potrebbe essere un ghost writer del Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Se qualcuno dovesse riconoscersi nello scritto per comune sentire potrebbe aiutarci nell’attribuzione dello scritto stesso al suo autore.

Nell’accingerci al grande compito di risanamento spirituale e materiale che incombe al nostro Paese in questa epoca gravida di liete promesse e di oscure minacce, il nostro primo pensiero deve essere rivolto al rinnovamento radicale del sistema nazionale di educazione. Bisogna rinnovare la coscienza delle nuove generazioni, se vogliamo trarre frutti adeguati.

La aspra prova delle crisi e dei governi che finora si sono succeduti alla guida del Paese, nonostante  le mirabili doti spontanee del nostro popolo, a nessuno secondo, ha messo a nudo gravi lacune nella compagine spirituale della nazione, specialmente in quelle classi che dagli studi avrebbero dovuto attingere il sentimento religioso della legge e della subordinazione individuale ai supremi interessi collettivi, la fede operosa, l’allenamento morale, la visione realistica delle cose e il senso di concretezza.

Questo sbandamento, questa specie di distrazione della gioventù è il frutto di una scuola invecchiata, svagata, che da troppi anni ormai non tempra, ma piuttosto ne disintegra la coscienza e il carattere.

Occorre che essa trovi in sé stessa la capacità di rinnovarsi: ma non si può avere fiducia  in una classe docente animata da intenti esclusivamente economici, che si è dimostrata incapace di difendere i supremi interessi collettivi.

Occorre fondare una cultura scolastica nuova a partire dagli insegnanti, opposta a quella che fin qui si è affermata attraverso i governi della sinistra. 

Lottare contro il protezionismo monopolistico statale sulla scuola, e incoraggiare, quindi, l’iniziativa privata, contro la sopravvalutazione dei diplomi; operare perché si colmino le gravi lacune della istruzione professionale; imporre una migliore preparazione agli insegnanti di tutti gli ordini e gradi scolastici. 

Scuola nazionale non significa scuola governativa opposta alla scuola clericale o privata: scuola nazionale significa una scuola capace di ridare un’anima all’opera educativa, capace insomma di rinnovare la coscienza nazionale della Patria e della Famiglia.

Ora è finalmente giunto il momento del riscatto, restituendo alle nostre scuole il compito di educare, di affermare il valore morale dell’educazione per formare lo spirito, perché ognuno se ne faccia interprete e si appropri del ruolo che la Storia gli ha assegnato.

Benemerito è il ministro che con ascetico coraggio ha inteso richiamare i nostri studenti alla disciplina dell’Umiltà, virtù cristiana che lungi dall’abbattere l’individuo lo esalta al di sopra delle proprie debolezze umane.

E ancora li abbia spronati al cimento nel concorrere al merito per le proprie qualità di studio e di impegno, come sacrificio degli ardui studi, delle sudate carte. Sana competizione nella corsa verso il sapere, verso quella Scienza, anzi Verità, che i nostri antichi greci collocavano al disopra delle vicende mortali, di là dalla storia tormentata da contrasti fatali di errori, da tentennamenti, dubbi e desideri insoddisfatti di sapere.

Educazione intellettuale ed educazione morale sono tutt’uno; educazione dello spirito ed educazione del corpo sono egualmente una stessa educazione. Fruga di qua, fruga di là, si ottiene sempre lo stesso risultato: che cioè l’educazione è formazione, e cioè sviluppo, o divenire dello spirito; e poiché lo spirito consiste appunto nel suo divenire chi dice educazione dice spirito, e nient’altro.

Mens sana in corpore sano abbiamo appreso dagli antichi. Il valore dell’educazione fisica. L’educazione fisica degli antichi è educazione spirituale in quanto per gli antichi lo spirito essenzialmente è corpo anch’esso. L’educazione fisica dei moderni è la formazione spirituale del corpo: è l’addestramento del corpo che serve allo spirito, così come lo voleva l’asceta medievale; ma a uno spirito che non intende chiudersi astrattamente in se stesso, sequestrandosi dal mondo dell’esistente; anzi vuole spaziare liberamente e investire la natura, e soggiogarla ai propri fini, strumento e specchio della propria volontà. L’educazione fisica dei moderni è educazione spirituale in quanto lo stesso corpo è spirito; e la scienza non è più soltanto speculazione di verità oltramondane, ma scienza dell’uomo, e dell’uomo nell’universo. In questo concreto concetto dello spirito, che non esclude più nulla da sé, acquista concretezza il concetto cristiano dell’educazione fisica. La quale mira bensì al corpo strumento del volere, ma non del volere che rinunzia al mondo, bensì del volere che al mondo si volge come al campo delle sue battaglie e delle sue vittorie, anzi della sua stessa vita.  Al mondo che gli sta sempre innanzi quasi in atto di sfida, e come ribelle, e che egli doma faticosamente facendone la forma del proprio divenire.

Allora benvenga l’iniziativa del nostro presidente del Senato, il quale al raduno degli alpini  a Milano ha annunciato di essersi fatto promotore di un disegno di legge per ripristinare in questo paese, per una più maschia formazione della nostra gioventù lasca e choosy, la naja. Non la leva, non la coscrizione, ma la naja volontaria, per quaranta giorni. 

L’uso del termine “naja” volutamente scelto sta a significare l’importanza di questa esperienza ormai perduta, per la formazione del carattere dei nostri giovani. Altroché bullismo, una sana naja per quaranta giorni, con il vantaggio non solo di forgiare la propria personalità ma di godere poi dei benefici che ne deriveranno come i crediti formativi da vantare all’esame di maturità e il punteggio aggiuntivo per la laurea e per la partecipazione ai concorsi pubblici.

Un modello di educazione nazionale che consentirà di invertire la parabola di caduta nella formazione dei nostri giovani come effetto dei danni prodotti dalla scuola progressista.

Per troppo tempo i problemi educativi sono stati trattati con superficialità, senza il necessario rigore. 

Non si può rientrare nella scuola senza recarvi uno spirito nuovo per rimuovere le tante abitudini accettate passivamente dall’andazzo realistico, materialistico e pedantesco dell’educazione democratica. In ogni parola, in ogni istante dell’opera nostra si farà sentire un nuovo dovere e innanzitutto la necessità di far diversamente da quello che è stato insegnato dai seguaci del pedagogismo progressista.

IL VOLTO GESUITICO DEI VOTI

 

Era facilmente prevedibile che l’attenzione dal merito scivolasse sui voti. È stato sufficiente  il lancio di stampa che al liceo Morgagni di Roma si sperimenta la scuola senza voti  che l’italico qualunquismo pedagogico si scatenasse, come se una scuola senza voti fosse destinata all’estinzione. Del resto, se questo governo ritiene che l’istruzione deve essere sorretta dalla stampella del merito, è evidente che una scuola senza voti è una pugnalata alla schiena. Il merito per essere tale necessita di una graduatoria, appunto la graduatoria di merito, e a scuola le graduatorie (come tante altre cose) dai tempi della gesuitica ratio studiorum si fanno con la scala ordinale dei voti in numeri o in lettere come nei paesi anglosassoni.

Quando l’idraulico viene a casa ad aggiustarmi la doccia che non funziona, al termine del suo lavoro non gli do un voto, lo pago sulla base della fattura che mi rilascia. O ha riparato la doccia o non l’ha riparata, è abile o non è abile, è competente o non è competente. In definitiva funziona una logica binaria.

Tutta la nostra vita poggia sull’aperto/chiuso, dentro/fuori, sopra/sotto, negativo o positivo.

A scuola no. La logica è quantitativa, il sapere va a peso. Domina la domanda che la figlia fa al padre in un famoso metalogo di Gregory Batison: “Papà, quante cose sai?”

E siccome il sapere non si può pesare e neppure misurare è compito degli insegnanti impilarlo nella scala decimale, ne va del loro ruolo, della loro autorità, del loro prestigio sociale.

Il voto è un potente ricatto, una punizione morale double face che fa dello studente un somaro come un secchione. È comunque l’anima del profitto scolastico, l’incentivo a studiare.

Sui voti a scuola si potrebbero scrivere pagine di luoghi comuni e a leggere certe giudizi che definiscono la sperimentazione del Morgagni “un’idea scellerata” si ha l’impressione  che se a qualcuno gli togli dalla scuola il registro e le pagelle gli crolli un intero mondo di certezze addosso. La sociologia ci insegna che la resistenza alle scuole senza voti è dovuta tanto al peso dell’abitudine quanto al conforto che la loro comunicazione fornisce.

Il fatto è che le ragioni dei sostenitori del sistema dei voti non hanno nulla a che vedere con le pratiche di valutazione fondamentali per dar forma all’insegnamento e all’apprendimento.

I voti da 1 a 6 delle scuole gestite dai gesuiti nel secolo XVI° facevano parte di una didattica fondata sulla ripetizione come metodo per assimilare le materie di studio. Pratica ancora in auge nei nostri istituti secondari in cui prevale la didattica della ripetizione: lezioni ex cathedra, interrogazioni e quindi voti sul registro. Ma si tratta di scuole che sono fuori dal tempo, dove ancora si misurano le nozioni anziché i processi per acquisire quelle competenze che pure sono dettagliate dalle Indicazioni nazionali. Le competenze non si misurano né con la scala decimale né con quella pentenaria. Le competenze o sono possedute o non sono possedute. Ciò che è necessario valutare è lo stato del processo per acquisirle pienamente, che richiede due forme di autovalutazione quella del sistema per individuare come sostenere lo studente nel suo processo di apprendimento e quella dello studente stesso, per essere consapevole di sé, per conoscere come procedere, cosa ha acquisito e cosa ancora gli manca.

L’assurdo dei voti numerici è che per essere comunicabili e compresi hanno bisogno di descrittori, vale a dire di narrazioni, grande conquista democratica rispetto ai tempi andati quando il voto dell’insegnante era una cifra e niente più, se non un “non si impegna”, “si deve impegnare di più”. Ma se i voti si devono narrare che senso hanno i numeri, se non per fare delle graduatorie di merito o di demerito?

È che poi le narrazioni dei voti sollevano il velo su una scuola che non è poi tanto diversa dalle istituzioni gesuitiche nonostante i secoli che ci separano. Sulle competenze che neppure sono prese in considerazione prevale la ripetizione.

Non cito la fonte, prendo “una griglia di descrizione del valore numerico dei voti” da un liceo a caso:

10. Eccellente: conoscenze complete e approfondite, elaborate in modo personale e critico anche operando collegamenti interdisciplinari. Uso competente della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche. Esposizione brillante.

9. Ottimo: conoscenze complete e approfondite, sostenute da capacità argomentativa e di collegamento tra discipline. Fluidità ed organicità espositiva, uso appropriato della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

5. Insufficiente: conoscenze incomplete e superficiali dei contenuti. Difficoltà nel coordinamento logico. Uso improprio della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

Già la descrizione del valore numerico dei voti è inquietante per una mente normale, ma passiamo oltre. Il valore quantitativo del numero è trasposto in un aggettivo qualificativo, tanto vale usare direttamente gli aggettivi, ma questo lasciamolo ai tanti misteri gloriosi del nostro sistema scolastico.

La cosa che colpisce è la narrazione che si fa del sapere, delle conoscenze la cui padronanza è evidentemente misurata sulla ripetizione e sulla retorica, sull’oratoria: “esposizione brillante”, ne più ne meno di quanto accadeva nei collegi della ratio studiorum. Le conoscenze non sono competenze, nulla di applicativo che emerga da queste narrazioni, fatto salvo per quella linguistica, che ci sta con la scuola della retorica. Prevale la nozione, la quale in quantità incompleta produce l’insufficienza.

Senza voti come si fa a motivare gli studenti, ottenere il loro impegno nello studio? Se manca la pratica del bastone e della carota nessuno più si impegnerà a scuola e il risultato sarà una società di ignoranti e di incompetenti.

No. Abbiamo la necessità che a scuola si affermi una cultura differente.

Una scuola capace di trasmettere la passione per lo studio, per la sua forza attrattiva, dove l’apprendimento è un follow up individualizzato. Una scuola senza voti rende più facile apprezzare lo studio per se stesso e il pensiero critico, rompendo con la pratica della strumentalizzazione del sapere in funzione del voto, costringendo alla massima attenzione  verso i  fattori motivazionali degli studenti e la psicologia dell’apprendimento.

La scuola senza voto richiede  insegnanti preparati nelle pratiche di valutazione verso approcci sempre più formativi nell’ottica di una progressiva ottimizzazione degli apprendimenti e delle competenze.

La sperimentazione del liceo Morgagni di Roma è sulla lunghezza d’onda di tutto questo e  delle tante scuole che dalla Francia agli Stati Uniti stanno sperimentando come passare dal sistema di valutazione della scuola delle nozioni al sistema di valutazione della scuola dell’apprendimento basato sulla padronanza e sulla competenza.

Moheeb Kaied frequenta la seconda alla Scuola Media 442 di Brooklyn, una mattina ha detto: “Vediamo. Posso trovare l’area e il perimetro di un poligono. Riesco a risolvere problemi matematici e del mondo reale utilizzando un piano di coordinate. Devo ancora migliorare nella divisione di numeri a più cifre, il che significa che probabilmente dovrei esercitarmi di più”. Moheeb fa parte di un nuovo programma che sta sfidando il modo in cui insegnanti e studenti pensano ai risultati dell’apprendimento,  la sua scuola è una delle centinaia che hanno eliminato i tradizionali voti in lettere all’interno delle loro classi. 

Alla Scuola Media 442, gli studenti sono incoraggiati a concentrarsi invece sulla padronanza delle competenze. Non c’è fallimento. L’unico obiettivo è apprendere il materiale da padroneggiare, prima o poi.

Per gli studenti in difficoltà c’è molto tempo per esercitarsi finché non sono acquisite le capacità. Per coloro che afferrano rapidamente i concetti c’è l’opportunità di andare avanti rapidamente. La strategia sembra diversa da classe a classe, così come il materiale che gli studenti devono padroneggiare. Ma in generale, gli studenti lavorano secondo i propri ritmi attraverso fogli di lavoro, lezioni online e discussioni in piccoli gruppi con gli insegnanti. Ricevono frequenti aggiornamenti sulle competenze apprese e su quelle che devono ancora acquisire. (1)

Anche qui niente di nuovo, nulla da inventare che non sia già stato sperimentato. Chi ha familiarità con la storia della pedagogia ricorderà certo il Piano Dalton dal nome della cittadina del Massachussets dove agli inizi del secolo scorso Helen Parkhurst sperimentò il suo metodo.

Nella scuola senza voti, senza registri e pagelle cessano di esistere le continue bugie che i numeri e le lettere raccontano sull’apprendimento. Gli albi d’onore e di merito scompaiono. Scompare di conseguenza anche il ministero dell’istruzione e del merito, per tornare Ministero della Pubblica Istruzione come impegno della Scuola dello Stato ancora prima che degli studenti.

Gli insegnanti imparano a valutare efficacemente i risultati scolastici e gli studenti diventano studenti indipendenti, spinti dalla curiosità e dall’ispirazione piuttosto che dalla vuota promessa di un voto “buono” o dalla minaccia di uno “cattivo”.

Ora, questa può sembrare solo un’idea grande, forse persino irrealistica. Ma la scuola senza voti esiste già nelle scuole di tutto il mondo, basta guardarsi attorno e, naturalmente, studiare. 

 

(1) “A New Kind of Classroom: No Grades, No Falling, No Hurry, in The New York Times, 11 agosto 2017

Entriamo nel “merito”

Se sono povero di parole anche il mio pensiero sarà povero, se le parole sono sempre le stesse anche il mio pensiero sarà sempre lo stesso.

Ci mancano le parole per immaginare un mondo nuovo e rischiamo di usare solo quelle vecchie che appartengono a un mondo che non c’è più.

Per chi guarda al passato e sogna una sua restaurazione questo non costituisce un problema perché il  vocabolario che gli serve è sempre lo stesso.

Contrapporre alla riproposizione di quel passato le parole che possediamo da sempre è come cadere nella trappola, oltre a rilevare la debolezza del nostro pensiero ormai usurato dal tempo.

È quello che ci accade nella comunicazione pubblica per cui ci facciamo catturare dalle parole che ci sono famigliari e diffidiamo dei linguaggi che ci sembrano stranieri. 

E soprattutto sono lingue straniere quelle che provengono da mondi che ancora non ci sono e che non ci saranno mai se nessuno si assumerà l’ardire di iniziare a gettare le fondamenta per costruirli.

Un mondo che attende di essere costruito di nuovo è quello della scuola che non c’è. Mentre tutti bombardano l’edificio vetusto d’oltre un secolo, c’è chi pensa di ricostruirlo a immagine di come era e di come è sempre stato.

Allora se c’è chi pensa che la scuola deve selezionare, deve bocciare e in questo fa consistere il merito, semmai trovando d’accordo ampia parte di un pensiero pubblico immiserito dalle parole, che crede che chi non si impegna non merita di essere aiutato e quindi va sanzionato, caschiamo nell’inganno del moralismo per cui un furto è sempre un furto anche se rubi per fame.

Allora non è che i vessilliferi del merito li sconfiggi contrapponendogli l’articolo 3 della nostra Costituzione, perché il problema non sta nella selezione, nel merito e nelle bocciature, ma nel mantenere nel secolo nuovo un sistema formativo forse buono per il passato ma non per il futuro dei nostri giovani.

È la morte del futuro che continuamente ci viene proposta e da questa logica non possiamo farci irretire.

Non è più accettabile fornire ossigeno a un sistema formativo che è nato per selezionare anziché per promuovere, anziché stare accanto alla persona che cresce per sostenerla, accompagnarla, sorreggerla, sollevarla quando cade, assisterla quando si ferma, accelerare il passo quando riprende a correre. Ma occorre avercele queste parole nel cervello e averle strettamente connesse con l’idea di scuola e di istruzione, in modo che si accendano automaticamente quando la mente entra in questo campo semantico.

Lo scandalo non è che il Ministero ora si chiami dell’Istruzione e del Merito, ma perché non sia stato intitolato invece “Ministero della Conoscenza e dell’Istruzione Permanente” come avrebbe dovuto essere  stato fatto da tempo, al momento del nostro ingresso nel secolo della Conoscenza.

C’erano queste parole nel pensiero delle forze progressiste e di sinistra? No, non c’erano. Allora non urliamo allo scandalo, perché lo scandalo è l’assenza di una cultura dell’istruzione nel nostro paese che non sia la brutta copia del ‘900 e che guardi al futuro.

L’Unesco ha lanciato l’allarme: è urgente un nuovo patto formativo, ma nessuno ne parla e ne ha parlato. 

Un ribaltamento della nostra piramide scolastica, un protagonismo sociale, politico e culturale degli insegnanti come lavoratori della cultura. E dove sono da noi gli insegnanti lavoratori della cultura, della cultura del paese, quella che sta dentro e fuori dalle scuole?

Nessuna delle forze politiche in campo nella contesa elettorale si è ricordata che viviamo nel secolo della Conoscenza e che la Conoscenza è la grande sfida del nostro secolo, a partire dalla realizzazione dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. La centralità dell’istruzione permanente e del ruolo delle amministrazioni pubbliche, a partire dal governo e dagli enti locali, per la sua realizzazione, mai citata nel discorso di insediamento alle Camere dalla Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma nessuna delle forze politiche sedute alle Camere l’ha notato.

Listruzione è anche unespressione damore per i bambini e i giovani, che dobbiamo sapere accogliere nella società offrendo loro, senza alcuna riserva, il posto che appartiene loro di diritto: un posto nel sistema educativo, ovviamente, ma anche nella famiglia, nella comunità locale, e nella nazione.”  

Queste sono le parole da contrapporre ad una sistema scolastico che, a prescindere dal fatto che si enfatizzi sulla parola “merito”, è nato per produrre una selezione sociale e che nella sue strutture portanti ancora seleziona, nel XXI° secolo, tra liceo classico  e istituti professionali, senza scandalo per alcuno,  neppure i buon pensanti di sinistra che di fronte al “merito” pronunciato a destra gridano al lupo. 

Quelle parole sono scritte da più di 25 anni nel rapporto Delors, Rapporto all’UNESCO della Commissione Internazionale sull’Educazione per il XXI secolo, caduto nel dimenticatoio insieme ad ogni parola nuova, ad ogni pensiero  innovatore delle nostre categorie mentali sulla scuola e l’istruzione.

C’erano pure i quattro pilastri dell’istruzione: Imparare a vivere insieme, Imparare a conoscere, Imparare a fare, Imparare ad essere.

Il Ministero dell’Imparare. Sarebbe stata una sintesi bellissima tra istruzione e educazione, parole spesso usate in modo inappropriato.

Listruzione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i propri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali.”

Sono sempre parole del Rapporto Delors o il cervello le possiede e da qui muove per ragionare di scuola, di istruzione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, del loro futuro o tornano solo le vecchie parole trite e ritrite che segnano la povertà di pensiero della politica, a Destra come a Sinistra, nel nostro Paese.

Dio, Patria, Famiglia e Merito

E il merito torna a varcare il portone del palazzo del ministero di viale Trastevere. In questo non ci sarebbe nulla di straordinario, semmai verrebbe da chiedersi quando è accaduto che il merito ha divorziato dall’istruzione. 

Nel nostro paese, come nel resto del mondo, a scuola il merito di ciascuno nello studio è misurato dalla scala numerica dei voti o da quella pentenaria delle lettere.

Nel 2007 il Ministero dell’istruzione ha pure istituito l’albo delle eccellenze a disposizione delle università e delle imprese. 

Del resto è compito della Repubblica per dettato dell’art 34 della Costituzione garantire ai “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi,  di raggiungere i gradi più alti degli studi.” 

Il discorso qui si fa più arduo per via dello stato delle finanze pubbliche e per le condizioni in cui versa l’ascensore sociale da tempo bloccato senza che nessuno si preoccupi di provvedere alla sua manutenzione, per non parlare del crescente problema della fuga dei cervelli.

È dunque naturale che venga da chiedersi perché intitolare un dicastero all’Istruzione e al Merito e, se è un modo per richiamare il monito costituzionale, perché allora non anche alla Capacità?

Le parole non sono mai a caso, cariche come sono di significati compongono il lessico di una cultura e ogni cultura è portatrice di una interpretazione del mondo. Per dirla con Umberto Eco: “Le abitudini linguistiche sono spesso sintomi importanti di sentimenti inespressi“. (1)

Se dici dio, patria e famiglia dichiari i tuoi archetipi, i pilastri che reggono i tuoi pensieri, i tuoi costrutti mentali, per cui le tue scelte, i tuoi concetti, le tue idee non possono che passare di lì. Quelle sono le tue certezze, tali da non ammetterne altre, perché viceversa non sarebbero più certezze.

Viene da concludere che quel ministero all’Istruzione e al Merito abbia la stessa lunghezza d’onda semantica di Dio, Patria e Famiglia.

Insomma bisogna guadagnarsi il riconoscimento della patria e il paradiso a partire dalla scuola e chi se lo guadagna di più merita di essere premiato, non si sa per ora come, con la forza degli encomi, degli attestati, delle medaglie o dei concorsi Veritas, staremo a vedere.

Oppure chi non intende partecipare alla gara del merito demerita, quindi va ammonito, semmai castigato riportando in auge la bocciatura in una scuola degenerata che nella vulgata ormai comune promuove tutti.

Dio, patria, famiglia e merito contro i danni della scuola progressista denunciati dalla coppia Mastrocola, Ricolfi. Finalmente anche Ernesto Galli della Loggia potrà brindare per il ritorno alla scuola seria di una volta, alla scuola della meritocrazia. 

Lui che dalle pagine del Corriere della Sera ha sempre accusato la scuola italiana di avere abbandonato il merito, di avere abdicato alla selezione e quindi alla pratica delle bocciature, denunciando che così facendo non sono più solo “i capaci e meritevoli” a proseguire negli studi, ma tutti indistintamente in nome di una mal concepita inclusione. 

Con il nuovo Ministero dell’Istruzione e del Merito si tornerà finalmente alla normalizzazione delle scuole e a giudicare la bontà di una scuola non più dal numero dei promossi, ma dal numero dei respinti,

Il Ministero dell’Istruzione e del Merito come lenitivo  a quella specie italiana a cui ancora viene l’orticaria alla sola espressione “Non uno di meno” o alla sola evocazione di don Milani e della sua “Lettera ad una professoressa”, considerati sciagure della scuola italiana.

Ci troviamo di fronte al riavvolgimento di una pellicola già vista, quando a capo del ministero dell’istruzione c’era Maria Stella Gelmini. Nel 2006, di fronte alle deludenti performance dei quindicenni italiani all’ OCSE Pisa, affidò a Roger Abravanel, ingegnere, manager e consulente aziendale di varie multinazionali, oltre che autore di diversi libri sulla meritocrazia, il progetto nazionale PQM acronimo di Piano Nazionale per la Qualità e il Merito, di valutazione degli studenti e della qualità dell’insegnamento nella scuola secondaria di primo grado.

Nella conferenza stampa di illustrazione del piano nazionale la ministra e l’ingegnere dichiaravano la volontà di puntare sulla qualità dell’insegnamento piuttosto che sulla quantità a sostegno dell’idea che solo la meritocrazia negli studi può fungere da volano per l’economia del nostro paese. 

A giudicare dal numero scarsamente rilevante delle classi di scuola media che allora vi  aderirono e dalla esiguità dei fondi nazionali messi a disposizione, sembra che  il PQM sia servito soprattutto all’obiettivo di far emergere gli studenti già dotati di loro, a prescindere dalla qualità della scuola ed evitare nel contempo che la nostra scuola, così come è, li potesse guastare. 

Non è difficile che la prassi quotidiana delle nostre aule finisca per mortificare il merito,  quando addirittura per demotivare allo studio. 

Ricordate nel 2014 Daniele Doronzo, 17 anni di Barletta? Genio della fisica che vuole anticipare di un anno l’esame di maturità per andare a studiare negli Stati Uniti, ma gli viene impedito dal Consiglio di classe nonostante abbia tutti otto, salvo per un sette in condotta beccato perché in gita scolastica ha fatto il bagno in mare disobbedendo ai professori i quali hanno dichiarato: “Ci sfidava, il nostro compito non è promuovere i talenti ma educarli”

Ecco, dietro al merito da affiancare all’istruzione si nasconde la volontà di promuovere i talenti o di educarli?  La risposta a Dio, Patria e Famiglia.

(1) U. Eco, Il fascismo eterno, La nave di Teseo, Milano, 2017