Dove, quando e come l’istruzione

Ciò che preoccupa è il ritardo culturale del nostro paese sui temi dell’istruzione. L’angustia di pensiero e l’incapacità di interrogarsi, se il sistema formativo che ci ostiniamo a puntellare da tutte le parti, non sia immutabile con il mutare dei tempi. 

Il nostro mondo è a un punto di svolta. Sappiamo già che la conoscenza e l’apprendimento sono la base per il rinnovamento e la trasformazione, ma l’istruzione non sta rispondendo alla sua funzione di aiutarci a plasmare un futuro pacifico, giusto e sostenibile.

Uno dei nostri compiti principali dovrebbe essere quello di ampliare la nostra capacità di pensiero su dove, quando e come si svolge l’istruzione. 

Non è un’idea nuova e neppure astratta, fu sollevata cinquant’anni anni fa dalla Commissione Faure che apriva alla visione della Cité éducatif, oggi learning city, nel tentativo di ripensare i sistemi educativi. 

La “città” è la metafora di uno spazio che racchiude tutte le possibilità e le potenzialità per l’apprendimento diffuso ad ogni età, soprattutto perché qui le opportunità sono tra loro interconnesse. È l’idea della necessità di pensare in modo olistico alla ricchezza e alla diversità degli spazi, alle iniziative sociali che supportano l’istruzione,  a chi ne è coinvolto.

Andare oltre, in questo secolo, i modelli consolidati che ancora oggi concepiscono generalmente l’istruzione in un arco temporale che inizia a cinque o sei anni e raggiunge il suo punto finale circa un decennio dopo. Rompere la resistenza del formato scolastico, eredità dell’Ottocento, per promuovere processi e strutture di istruzione differenti. Fondamentali per il futuro planetario dell’istruzione come l’educazione permanente e la società dell’apprendimento. Da tempo avrebbero dovuto divenire le chiavi di volta da un lato delle politiche dell’istruzione, dall’altro del coinvolgimento delle nostre società come partecipanti e attori dell’istruzione stessa.

Un’idea di apprendimento come funzione sociale che rispetto al passato assume una nuova rilevanza nel mondo globalizzato delle economie della conoscenza e delle società dell’informazione, che richiederebbe la creazione o la reinvenzione di meccanismi istituzionali distinti ma complementari alle istituzioni educative formali tradizionali.

Nel rapporto Faure c’è scritto che: «Se l’apprendimento coinvolge tutta la vita, intesa sia come arco di tempo che come diversità, e tutta la società, comprese le sue risorse sociali ed economiche oltre che educative, allora dobbiamo andare ancora oltre la necessaria revisione dei “sistemi educativi” fino a raggiungere lo stadio di una società dell’apprendimento» (Faure et al., 1972, xxxiii).

Dagli anni ’70 del secolo scorso avrebbe dovuto essere acquisito dai governi e da quanti si sono succeduti alla guida del dicastero dell’istruzione che istruirsi è un processo continuo, che coinvolge necessariamente una grande varietà di metodi e di fonti, caratterizzato da una triplice tipologia: formale, non formale e informale.

La necessità ora è dare visibilità alle diverse attività educative come componenti potenziali di un sistema complessivo di apprendimento, coerente e flessibile, che deve essere costantemente rafforzato, diversificato e maggiormente legato alle esigenze e ai processi di sviluppo nazionale. E, quindi, le nazioni dovrebbero sforzarsi di costruire “sistemi di apprendimento permanente”, offrendo a ogni individuo diverse opportunità di apprendimento nel corso della sua vita (Coombs e Ahmed, 1974, 9).

Il concetto di apprendimento lungo tutto l’arco della vita doveva essere la chiave di accesso al ventunesimo secolo, ma deve essersi smarrito per strada.

Con ogni evidenza il persistere di un’ottusità scolastica ancora impedisce a tutto il paese di andare oltre la tradizionale distinzione tra formazione iniziale e continua per aprire il varco di passaggio alla società dell’apprendimento in cui tutto offre un’opportunità di apprendimento e di realizzazione del proprio potenziale . (Delors et al., 1996, 38)

“La Città siamo noi e noi siamo la Città”,  scriveva Paulo Freire in Politica e istruzione, “La Città diventa educativa attraverso la necessità di educare, imparare, insegnare, conoscere, creare, sognare e immaginare che tutti noi – uomini e donne – che ne occupiamo i campi, le montagne, le valli, i fiumi, le strade, le piazze, le fontane, le case, i palazzi, lasciamo su ogni cosa l’impronta di un certo tempo e di uno stile, il gusto di una certa epoca.. .”

Ma certo se la nostra cultura della scuola resta arenata alle sole istituzioni formali non potrà mai comprendere le ricche possibilità di istruzione, sapere e conoscenza che si possono acquisire all’interno e attraverso la società nel suo insieme.

Lavoro, assistenza, tempo libero, attività artistiche, pratiche culturali, sport, vita civica e comunitaria, azione sociale, infrastrutture, impegno digitale e mediatico: sono tutte opportunità di apprendimento potenzialmente istruttive, pedagogiche e significative per il nostro futuro, tra innumerevoli altre. Un nuovo contratto sociale per l’istruzione deve contemplare la necessità e il valore di opportunità dinamiche di apprendimento in tutti i tempi e in tutti gli spazi.

Ciò non significa che trasformiamo le nostre comunità, le nostre città in un’immensa aula. Dobbiamo innanzitutto compiere un cambiamento profondo nel nostro modo di pensare, passare dalla diffidenza, dal sospetto e dalla condanna a realizzare e capire che le società di oggi hanno innumerevoli opportunità istruttive, attraverso la cultura, il lavoro,  la scienza del lavoro e la cultura del lavoro, i social media e il digitale, che devono essere valutate nei loro termini e costruite come importanti opportunità di apprendimento. 

La novità di questo secolo in campo educativo dovrebbe consistere proprio in questo, nel comprendere la centralità dell’istruzione come sempre più intrecciata con la vita, tanto che le scuole non sono più per l’istruzione lo spazio-tempo unico, ma è necessario estendere la nostra visione a tutti gli spazi e  tempi della vita.

Sessant’anni e li porta male

La scuola media unica ha sessant’anni, la legge istitutiva li ha compiuti il 31 dicembre scorso. Anche la sua gestazione è stata lunga, circa altri sessant’anni prima di vedere la luce. Nel 1905 la Reale Commissione, istituita per volontà dell’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi, si era pronunciata a favore della scuola media unica, ma l’opposizione si manifestò subito soprattutto da parte liberale e socialista, tanto che si opposero Salvemini e Galletti, Croce, Gentile e Codignola. Poi come è andata la storia è ormai cosa nota.

Del resto nel dicembre del 1962 a votare contro la legge numero 1859  non furono solo missini e monarchici, ma anche i comunisti, sebbene con motivazioni differenti.

Ma di scuole di “mezzo” non ne abbiamo più, né inferiori né superiori. L’istruzione è ora organizzata per cicli: primo e secondo. Poi le scuole sono primarie e secondarie.

L’articolo 1 della legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 affidava alla scuola media unica il compito di concorrere “a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi della Costituzione” e a favorire “l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”.

Cinquant’anni dopo, nel 2012, le Indicazioni nazionali per il curricolo del Primo Ciclo, a proposito di finalità da affidare alla scuola, puntano direttamente allo scopo: “La finalità è l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità fondamentali per sviluppare le competenze culturali di base”. 

“Conoscenze”, “abilità”, “competenze”, un trinomio e una consequenzialità inedita. 

Nuova rispetto anche ai programmi per la scuola media, quelli che furono scritti nel 1979, dopo importanti provvedimenti come la legge n. 517 del 1977, che aboliva i voti e dava avvio all’integrazione scolastica nella scuola di tutti, dopo i Decreti delegati del 1974, che  hanno aperto la strada alla partecipazione democratica nella scuola.

Conoscenza, abilità, competenza disegnano un itinerario di apprendimento molto preciso, ben definito nei suoi contorni: la conoscenza deve trasformarsi in abilità e una volta divenuti abili allora è  possibile mettere alla prova la propria competenza.

Una visione dell’apprendimento assai avanzata rispetto alla genericità dell’articolo 1 della legge istitutiva della scuola media unica ed alla fumosità dei programmi del 1979: “la scuola media risponde al principio democratico di elevare il livello di educazione e di istruzione personale di ciascun cittadino e generale di tutto il popolo italiano”.

Ma se siamo arrivati alla scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 lo dobbiamo alla strada che è stato possibile percorrere partendo da quella data di sessant’anni fa: il 31 dicembre del 1962.

Da allora sono accadute tantissime cose, che prima non c’erano, che hanno contribuito a mutare la cultura italiana sulla scuola, anche se questa cultura in gran parte nuova non è stata recepita da tutti. 

Alcuni, sia all’interno che all’esterno dell’istituzione, l’hanno subita, altri non l’hanno compresa e hanno continuato a pensare e ad agire come se non fossero intervenute importanti novità sul versante dell’istruzione del paese. 

C’è chi, invece, ha continuato a lavorare ostinatamente, non sempre con successo, perché non venisse meno la spinta al rinnovamento della nostra scuola, indispensabile per evitare di fallire il compito assegnatole dalla Costituzione, quello che sta scritto soprattutto nell’articolo 3 dei suoi principi fondamentali.

Il paesaggio scolastico italiano si è arricchito di quanto in quell’inverno del ’62 forse era inimmaginabile: gli asili nido, le scuole dell’infanzia, una nuova scuola primaria, le scuole a tempo pieno, gli istituti comprensivi, una scuola inclusiva. Nuovi compiti hanno qualificato il profilo degli insegnati dalla programmazione curricolare, all’individualizzazione dell’insegnamento, le verifiche e la valutazione, l’interdisciplinarità, la ricerca d’ambiente, le osservazioni sistematiche, il master learning.

Compiti nuovi di una professionalità docente ripensata, non sempre vissuta con la disponibilità giusta da tutti gli insegnanti. Compiti spesso subiti come pratiche burocratiche da evadere per mancanza di preparazione sia dei singoli che della struttura, più spesso per il mancato sostegno da parte di chi è stato chiamato a dirigere il dicastero dell’istruzione e per la inadeguatezza della politica.

Il rischio reale oggi è che la strada percorsa fin qui finisca in un vicolo cieco. Perché la scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 è molto più impegnativa di quella prospettata dalla scuola media unica, che pure resta la pietra miliare di una grande conquista democratica. Rappresenta i passi avanti che, anche per effetto di quella riforma, ha compiuto il pensiero della scuola in questo paese.

Un pensiero che impegna la scuola a far acquisire “le competenze indispensabili per continuare ad apprendere lungo l’intero arco della vita” con “particolare attenzione ai processi di apprendimento di tutti gli alunni e di ciascuno di essi”. Tutti e ciascuno, proprio ogni singolo, preso uno per uno.

Qui sta il nodo vero: competenze indispensabili all’istruzione permanente e forte individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento. Più che individualizzazione sarei tentato di usare l’espressione “singolarizzazione”. Tutto nella prospettiva di accrescere in ciascuno l’individuale autonomia di studio. 

O questi nodi si affrontano con una cultura nuova o, nonostante la prescrittività delle Indicazioni nazionali, la nostra scuola secondaria di primo grado continuerà a funzionare né più né meno come la sua progenitrice scuola media unica. 

E allora l’Istat tornerà a fornirci dati sempre più imbarazzanti come quelli che fanno registrare il 40% degli studenti di terza media non sufficienti in italiano  e in matematica. Una scuola soprattutto ininfluente nel colmare non solo gli svantaggi sociali e culturali,  ma anche quelli accumulati nel corso degli anni scolastici.

Ciò significa che la sfida democratica lanciata sessant’anni fa dalla scuola media unica non è stata ancora vinta.

La scuola di oggi, già a partire dalle Indicazioni nazionali, si dichiara impotente a realizzare le proprie finalità senza il concorso con “altre istituzioni” e non può pensare di perseguire “con ogni mezzo il miglioramento della qualità dell’istruzione” se le condizioni strutturali ed organizzative sono sempre quelle del 1962: classi, cattedre, orari, discipline.

Eppure le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione avrebbero dovuto permettere di  far compiere al nostro sistema di istruzione un salto di qualità: dalla scuola media unica all’unitarietà della scuola del primo ciclo.

Unitarietà tradotta nell’impianto curricolare delle Indicazioni nazionali per obiettivi di apprendimento e per competenze da acquisire al termine della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado. Impianto che avrebbe dovuto riuscire rafforzato dalla scelta organizzativa degli istituti comprensivi. Il “comprensivo” come ambiente di “apprendimento” esperto di “apprendimenti”, di educazione comprensiva dai 3 ai 14 anni. 

Il comprensivo come luogo di un far scuola rinnovato, come mondo di un apprendimento diverso.

E invece i risultati parlano d’altro, di scuola media come buco nero, come anello debole della catena. Come è possibile? Come spiegarlo?

Forse perché la scuola media da unica è restata unica, separata in casa in un comprensivo che non ha saputo divenire comprensivo, comprendere e comprendersi nonostante dieci anni di Indicazioni nazionali.

Allora viene il sospetto che la cultura di questo paese e di tanta parte dei suoi insegnanti sia ferma alla scuola di sessant’anni fa o forse anche molti di più a leggere i frequenti inviti a rinverdire la riforma Gentile rilanciati dalle pagine dei nostri quotidiani nazionali.

Un ghost written ministeriale

Non conosco l’autore del documento riprodotto qui di seguito essendone venuto in possesso accidentalmente. Le vicende che mi hanno portato a trovarlo mi fanno supporre che il suo estensore potrebbe essere un ghost writer del Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Se qualcuno dovesse riconoscersi nello scritto per comune sentire potrebbe aiutarci nell’attribuzione dello scritto stesso al suo autore.

Nell’accingerci al grande compito di risanamento spirituale e materiale che incombe al nostro Paese in questa epoca gravida di liete promesse e di oscure minacce, il nostro primo pensiero deve essere rivolto al rinnovamento radicale del sistema nazionale di educazione. Bisogna rinnovare la coscienza delle nuove generazioni, se vogliamo trarre frutti adeguati.

La aspra prova delle crisi e dei governi che finora si sono succeduti alla guida del Paese, nonostante  le mirabili doti spontanee del nostro popolo, a nessuno secondo, ha messo a nudo gravi lacune nella compagine spirituale della nazione, specialmente in quelle classi che dagli studi avrebbero dovuto attingere il sentimento religioso della legge e della subordinazione individuale ai supremi interessi collettivi, la fede operosa, l’allenamento morale, la visione realistica delle cose e il senso di concretezza.

Questo sbandamento, questa specie di distrazione della gioventù è il frutto di una scuola invecchiata, svagata, che da troppi anni ormai non tempra, ma piuttosto ne disintegra la coscienza e il carattere.

Occorre che essa trovi in sé stessa la capacità di rinnovarsi: ma non si può avere fiducia  in una classe docente animata da intenti esclusivamente economici, che si è dimostrata incapace di difendere i supremi interessi collettivi.

Occorre fondare una cultura scolastica nuova a partire dagli insegnanti, opposta a quella che fin qui si è affermata attraverso i governi della sinistra. 

Lottare contro il protezionismo monopolistico statale sulla scuola, e incoraggiare, quindi, l’iniziativa privata, contro la sopravvalutazione dei diplomi; operare perché si colmino le gravi lacune della istruzione professionale; imporre una migliore preparazione agli insegnanti di tutti gli ordini e gradi scolastici. 

Scuola nazionale non significa scuola governativa opposta alla scuola clericale o privata: scuola nazionale significa una scuola capace di ridare un’anima all’opera educativa, capace insomma di rinnovare la coscienza nazionale della Patria e della Famiglia.

Ora è finalmente giunto il momento del riscatto, restituendo alle nostre scuole il compito di educare, di affermare il valore morale dell’educazione per formare lo spirito, perché ognuno se ne faccia interprete e si appropri del ruolo che la Storia gli ha assegnato.

Benemerito è il ministro che con ascetico coraggio ha inteso richiamare i nostri studenti alla disciplina dell’Umiltà, virtù cristiana che lungi dall’abbattere l’individuo lo esalta al di sopra delle proprie debolezze umane.

E ancora li abbia spronati al cimento nel concorrere al merito per le proprie qualità di studio e di impegno, come sacrificio degli ardui studi, delle sudate carte. Sana competizione nella corsa verso il sapere, verso quella Scienza, anzi Verità, che i nostri antichi greci collocavano al disopra delle vicende mortali, di là dalla storia tormentata da contrasti fatali di errori, da tentennamenti, dubbi e desideri insoddisfatti di sapere.

Educazione intellettuale ed educazione morale sono tutt’uno; educazione dello spirito ed educazione del corpo sono egualmente una stessa educazione. Fruga di qua, fruga di là, si ottiene sempre lo stesso risultato: che cioè l’educazione è formazione, e cioè sviluppo, o divenire dello spirito; e poiché lo spirito consiste appunto nel suo divenire chi dice educazione dice spirito, e nient’altro.

Mens sana in corpore sano abbiamo appreso dagli antichi. Il valore dell’educazione fisica. L’educazione fisica degli antichi è educazione spirituale in quanto per gli antichi lo spirito essenzialmente è corpo anch’esso. L’educazione fisica dei moderni è la formazione spirituale del corpo: è l’addestramento del corpo che serve allo spirito, così come lo voleva l’asceta medievale; ma a uno spirito che non intende chiudersi astrattamente in se stesso, sequestrandosi dal mondo dell’esistente; anzi vuole spaziare liberamente e investire la natura, e soggiogarla ai propri fini, strumento e specchio della propria volontà. L’educazione fisica dei moderni è educazione spirituale in quanto lo stesso corpo è spirito; e la scienza non è più soltanto speculazione di verità oltramondane, ma scienza dell’uomo, e dell’uomo nell’universo. In questo concreto concetto dello spirito, che non esclude più nulla da sé, acquista concretezza il concetto cristiano dell’educazione fisica. La quale mira bensì al corpo strumento del volere, ma non del volere che rinunzia al mondo, bensì del volere che al mondo si volge come al campo delle sue battaglie e delle sue vittorie, anzi della sua stessa vita.  Al mondo che gli sta sempre innanzi quasi in atto di sfida, e come ribelle, e che egli doma faticosamente facendone la forma del proprio divenire.

Allora benvenga l’iniziativa del nostro presidente del Senato, il quale al raduno degli alpini  a Milano ha annunciato di essersi fatto promotore di un disegno di legge per ripristinare in questo paese, per una più maschia formazione della nostra gioventù lasca e choosy, la naja. Non la leva, non la coscrizione, ma la naja volontaria, per quaranta giorni. 

L’uso del termine “naja” volutamente scelto sta a significare l’importanza di questa esperienza ormai perduta, per la formazione del carattere dei nostri giovani. Altroché bullismo, una sana naja per quaranta giorni, con il vantaggio non solo di forgiare la propria personalità ma di godere poi dei benefici che ne deriveranno come i crediti formativi da vantare all’esame di maturità e il punteggio aggiuntivo per la laurea e per la partecipazione ai concorsi pubblici.

Un modello di educazione nazionale che consentirà di invertire la parabola di caduta nella formazione dei nostri giovani come effetto dei danni prodotti dalla scuola progressista.

Per troppo tempo i problemi educativi sono stati trattati con superficialità, senza il necessario rigore. 

Non si può rientrare nella scuola senza recarvi uno spirito nuovo per rimuovere le tante abitudini accettate passivamente dall’andazzo realistico, materialistico e pedantesco dell’educazione democratica. In ogni parola, in ogni istante dell’opera nostra si farà sentire un nuovo dovere e innanzitutto la necessità di far diversamente da quello che è stato insegnato dai seguaci del pedagogismo progressista.

IL VOLTO GESUITICO DEI VOTI

 

Era facilmente prevedibile che l’attenzione dal merito scivolasse sui voti. È stato sufficiente  il lancio di stampa che al liceo Morgagni di Roma si sperimenta la scuola senza voti  che l’italico qualunquismo pedagogico si scatenasse, come se una scuola senza voti fosse destinata all’estinzione. Del resto, se questo governo ritiene che l’istruzione deve essere sorretta dalla stampella del merito, è evidente che una scuola senza voti è una pugnalata alla schiena. Il merito per essere tale necessita di una graduatoria, appunto la graduatoria di merito, e a scuola le graduatorie (come tante altre cose) dai tempi della gesuitica ratio studiorum si fanno con la scala ordinale dei voti in numeri o in lettere come nei paesi anglosassoni.

Quando l’idraulico viene a casa ad aggiustarmi la doccia che non funziona, al termine del suo lavoro non gli do un voto, lo pago sulla base della fattura che mi rilascia. O ha riparato la doccia o non l’ha riparata, è abile o non è abile, è competente o non è competente. In definitiva funziona una logica binaria.

Tutta la nostra vita poggia sull’aperto/chiuso, dentro/fuori, sopra/sotto, negativo o positivo.

A scuola no. La logica è quantitativa, il sapere va a peso. Domina la domanda che la figlia fa al padre in un famoso metalogo di Gregory Batison: “Papà, quante cose sai?”

E siccome il sapere non si può pesare e neppure misurare è compito degli insegnanti impilarlo nella scala decimale, ne va del loro ruolo, della loro autorità, del loro prestigio sociale.

Il voto è un potente ricatto, una punizione morale double face che fa dello studente un somaro come un secchione. È comunque l’anima del profitto scolastico, l’incentivo a studiare.

Sui voti a scuola si potrebbero scrivere pagine di luoghi comuni e a leggere certe giudizi che definiscono la sperimentazione del Morgagni “un’idea scellerata” si ha l’impressione  che se a qualcuno gli togli dalla scuola il registro e le pagelle gli crolli un intero mondo di certezze addosso. La sociologia ci insegna che la resistenza alle scuole senza voti è dovuta tanto al peso dell’abitudine quanto al conforto che la loro comunicazione fornisce.

Il fatto è che le ragioni dei sostenitori del sistema dei voti non hanno nulla a che vedere con le pratiche di valutazione fondamentali per dar forma all’insegnamento e all’apprendimento.

I voti da 1 a 6 delle scuole gestite dai gesuiti nel secolo XVI° facevano parte di una didattica fondata sulla ripetizione come metodo per assimilare le materie di studio. Pratica ancora in auge nei nostri istituti secondari in cui prevale la didattica della ripetizione: lezioni ex cathedra, interrogazioni e quindi voti sul registro. Ma si tratta di scuole che sono fuori dal tempo, dove ancora si misurano le nozioni anziché i processi per acquisire quelle competenze che pure sono dettagliate dalle Indicazioni nazionali. Le competenze non si misurano né con la scala decimale né con quella pentenaria. Le competenze o sono possedute o non sono possedute. Ciò che è necessario valutare è lo stato del processo per acquisirle pienamente, che richiede due forme di autovalutazione quella del sistema per individuare come sostenere lo studente nel suo processo di apprendimento e quella dello studente stesso, per essere consapevole di sé, per conoscere come procedere, cosa ha acquisito e cosa ancora gli manca.

L’assurdo dei voti numerici è che per essere comunicabili e compresi hanno bisogno di descrittori, vale a dire di narrazioni, grande conquista democratica rispetto ai tempi andati quando il voto dell’insegnante era una cifra e niente più, se non un “non si impegna”, “si deve impegnare di più”. Ma se i voti si devono narrare che senso hanno i numeri, se non per fare delle graduatorie di merito o di demerito?

È che poi le narrazioni dei voti sollevano il velo su una scuola che non è poi tanto diversa dalle istituzioni gesuitiche nonostante i secoli che ci separano. Sulle competenze che neppure sono prese in considerazione prevale la ripetizione.

Non cito la fonte, prendo “una griglia di descrizione del valore numerico dei voti” da un liceo a caso:

10. Eccellente: conoscenze complete e approfondite, elaborate in modo personale e critico anche operando collegamenti interdisciplinari. Uso competente della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche. Esposizione brillante.

9. Ottimo: conoscenze complete e approfondite, sostenute da capacità argomentativa e di collegamento tra discipline. Fluidità ed organicità espositiva, uso appropriato della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

5. Insufficiente: conoscenze incomplete e superficiali dei contenuti. Difficoltà nel coordinamento logico. Uso improprio della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

Già la descrizione del valore numerico dei voti è inquietante per una mente normale, ma passiamo oltre. Il valore quantitativo del numero è trasposto in un aggettivo qualificativo, tanto vale usare direttamente gli aggettivi, ma questo lasciamolo ai tanti misteri gloriosi del nostro sistema scolastico.

La cosa che colpisce è la narrazione che si fa del sapere, delle conoscenze la cui padronanza è evidentemente misurata sulla ripetizione e sulla retorica, sull’oratoria: “esposizione brillante”, ne più ne meno di quanto accadeva nei collegi della ratio studiorum. Le conoscenze non sono competenze, nulla di applicativo che emerga da queste narrazioni, fatto salvo per quella linguistica, che ci sta con la scuola della retorica. Prevale la nozione, la quale in quantità incompleta produce l’insufficienza.

Senza voti come si fa a motivare gli studenti, ottenere il loro impegno nello studio? Se manca la pratica del bastone e della carota nessuno più si impegnerà a scuola e il risultato sarà una società di ignoranti e di incompetenti.

No. Abbiamo la necessità che a scuola si affermi una cultura differente.

Una scuola capace di trasmettere la passione per lo studio, per la sua forza attrattiva, dove l’apprendimento è un follow up individualizzato. Una scuola senza voti rende più facile apprezzare lo studio per se stesso e il pensiero critico, rompendo con la pratica della strumentalizzazione del sapere in funzione del voto, costringendo alla massima attenzione  verso i  fattori motivazionali degli studenti e la psicologia dell’apprendimento.

La scuola senza voto richiede  insegnanti preparati nelle pratiche di valutazione verso approcci sempre più formativi nell’ottica di una progressiva ottimizzazione degli apprendimenti e delle competenze.

La sperimentazione del liceo Morgagni di Roma è sulla lunghezza d’onda di tutto questo e  delle tante scuole che dalla Francia agli Stati Uniti stanno sperimentando come passare dal sistema di valutazione della scuola delle nozioni al sistema di valutazione della scuola dell’apprendimento basato sulla padronanza e sulla competenza.

Moheeb Kaied frequenta la seconda alla Scuola Media 442 di Brooklyn, una mattina ha detto: “Vediamo. Posso trovare l’area e il perimetro di un poligono. Riesco a risolvere problemi matematici e del mondo reale utilizzando un piano di coordinate. Devo ancora migliorare nella divisione di numeri a più cifre, il che significa che probabilmente dovrei esercitarmi di più”. Moheeb fa parte di un nuovo programma che sta sfidando il modo in cui insegnanti e studenti pensano ai risultati dell’apprendimento,  la sua scuola è una delle centinaia che hanno eliminato i tradizionali voti in lettere all’interno delle loro classi. 

Alla Scuola Media 442, gli studenti sono incoraggiati a concentrarsi invece sulla padronanza delle competenze. Non c’è fallimento. L’unico obiettivo è apprendere il materiale da padroneggiare, prima o poi.

Per gli studenti in difficoltà c’è molto tempo per esercitarsi finché non sono acquisite le capacità. Per coloro che afferrano rapidamente i concetti c’è l’opportunità di andare avanti rapidamente. La strategia sembra diversa da classe a classe, così come il materiale che gli studenti devono padroneggiare. Ma in generale, gli studenti lavorano secondo i propri ritmi attraverso fogli di lavoro, lezioni online e discussioni in piccoli gruppi con gli insegnanti. Ricevono frequenti aggiornamenti sulle competenze apprese e su quelle che devono ancora acquisire. (1)

Anche qui niente di nuovo, nulla da inventare che non sia già stato sperimentato. Chi ha familiarità con la storia della pedagogia ricorderà certo il Piano Dalton dal nome della cittadina del Massachussets dove agli inizi del secolo scorso Helen Parkhurst sperimentò il suo metodo.

Nella scuola senza voti, senza registri e pagelle cessano di esistere le continue bugie che i numeri e le lettere raccontano sull’apprendimento. Gli albi d’onore e di merito scompaiono. Scompare di conseguenza anche il ministero dell’istruzione e del merito, per tornare Ministero della Pubblica Istruzione come impegno della Scuola dello Stato ancora prima che degli studenti.

Gli insegnanti imparano a valutare efficacemente i risultati scolastici e gli studenti diventano studenti indipendenti, spinti dalla curiosità e dall’ispirazione piuttosto che dalla vuota promessa di un voto “buono” o dalla minaccia di uno “cattivo”.

Ora, questa può sembrare solo un’idea grande, forse persino irrealistica. Ma la scuola senza voti esiste già nelle scuole di tutto il mondo, basta guardarsi attorno e, naturalmente, studiare. 

 

(1) “A New Kind of Classroom: No Grades, No Falling, No Hurry, in The New York Times, 11 agosto 2017

Una scuola sconfinata

“Una scuola sconfinata” è il programma che raccoglie la mappa delle opportunità formative, ben 131 progetti, offerte alle scuole dalla nuova Giunta Capitolina, con il coinvolgimento di una pluralità di soggetti istituzionali, cooperative, volontariato e associazioni con l’ambizione di raccontare e ridefinire la relazione tra scuola e città in direzione di Roma Città Educante.

Questa mappa punta alla contaminazione tra scuola e vita culturale della città, scommette sui “bordi”, sulle zone liminali, sugli sconfinamenti. Con l’idea che una scuola sconfinata produca una città educante”

(Clicca qui sotto) 

Entriamo nel “merito”

Se sono povero di parole anche il mio pensiero sarà povero, se le parole sono sempre le stesse anche il mio pensiero sarà sempre lo stesso.

Ci mancano le parole per immaginare un mondo nuovo e rischiamo di usare solo quelle vecchie che appartengono a un mondo che non c’è più.

Per chi guarda al passato e sogna una sua restaurazione questo non costituisce un problema perché il  vocabolario che gli serve è sempre lo stesso.

Contrapporre alla riproposizione di quel passato le parole che possediamo da sempre è come cadere nella trappola, oltre a rilevare la debolezza del nostro pensiero ormai usurato dal tempo.

È quello che ci accade nella comunicazione pubblica per cui ci facciamo catturare dalle parole che ci sono famigliari e diffidiamo dei linguaggi che ci sembrano stranieri. 

E soprattutto sono lingue straniere quelle che provengono da mondi che ancora non ci sono e che non ci saranno mai se nessuno si assumerà l’ardire di iniziare a gettare le fondamenta per costruirli.

Un mondo che attende di essere costruito di nuovo è quello della scuola che non c’è. Mentre tutti bombardano l’edificio vetusto d’oltre un secolo, c’è chi pensa di ricostruirlo a immagine di come era e di come è sempre stato.

Allora se c’è chi pensa che la scuola deve selezionare, deve bocciare e in questo fa consistere il merito, semmai trovando d’accordo ampia parte di un pensiero pubblico immiserito dalle parole, che crede che chi non si impegna non merita di essere aiutato e quindi va sanzionato, caschiamo nell’inganno del moralismo per cui un furto è sempre un furto anche se rubi per fame.

Allora non è che i vessilliferi del merito li sconfiggi contrapponendogli l’articolo 3 della nostra Costituzione, perché il problema non sta nella selezione, nel merito e nelle bocciature, ma nel mantenere nel secolo nuovo un sistema formativo forse buono per il passato ma non per il futuro dei nostri giovani.

È la morte del futuro che continuamente ci viene proposta e da questa logica non possiamo farci irretire.

Non è più accettabile fornire ossigeno a un sistema formativo che è nato per selezionare anziché per promuovere, anziché stare accanto alla persona che cresce per sostenerla, accompagnarla, sorreggerla, sollevarla quando cade, assisterla quando si ferma, accelerare il passo quando riprende a correre. Ma occorre avercele queste parole nel cervello e averle strettamente connesse con l’idea di scuola e di istruzione, in modo che si accendano automaticamente quando la mente entra in questo campo semantico.

Lo scandalo non è che il Ministero ora si chiami dell’Istruzione e del Merito, ma perché non sia stato intitolato invece “Ministero della Conoscenza e dell’Istruzione Permanente” come avrebbe dovuto essere  stato fatto da tempo, al momento del nostro ingresso nel secolo della Conoscenza.

C’erano queste parole nel pensiero delle forze progressiste e di sinistra? No, non c’erano. Allora non urliamo allo scandalo, perché lo scandalo è l’assenza di una cultura dell’istruzione nel nostro paese che non sia la brutta copia del ‘900 e che guardi al futuro.

L’Unesco ha lanciato l’allarme: è urgente un nuovo patto formativo, ma nessuno ne parla e ne ha parlato. 

Un ribaltamento della nostra piramide scolastica, un protagonismo sociale, politico e culturale degli insegnanti come lavoratori della cultura. E dove sono da noi gli insegnanti lavoratori della cultura, della cultura del paese, quella che sta dentro e fuori dalle scuole?

Nessuna delle forze politiche in campo nella contesa elettorale si è ricordata che viviamo nel secolo della Conoscenza e che la Conoscenza è la grande sfida del nostro secolo, a partire dalla realizzazione dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. La centralità dell’istruzione permanente e del ruolo delle amministrazioni pubbliche, a partire dal governo e dagli enti locali, per la sua realizzazione, mai citata nel discorso di insediamento alle Camere dalla Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma nessuna delle forze politiche sedute alle Camere l’ha notato.

Listruzione è anche unespressione damore per i bambini e i giovani, che dobbiamo sapere accogliere nella società offrendo loro, senza alcuna riserva, il posto che appartiene loro di diritto: un posto nel sistema educativo, ovviamente, ma anche nella famiglia, nella comunità locale, e nella nazione.”  

Queste sono le parole da contrapporre ad una sistema scolastico che, a prescindere dal fatto che si enfatizzi sulla parola “merito”, è nato per produrre una selezione sociale e che nella sue strutture portanti ancora seleziona, nel XXI° secolo, tra liceo classico  e istituti professionali, senza scandalo per alcuno,  neppure i buon pensanti di sinistra che di fronte al “merito” pronunciato a destra gridano al lupo. 

Quelle parole sono scritte da più di 25 anni nel rapporto Delors, Rapporto all’UNESCO della Commissione Internazionale sull’Educazione per il XXI secolo, caduto nel dimenticatoio insieme ad ogni parola nuova, ad ogni pensiero  innovatore delle nostre categorie mentali sulla scuola e l’istruzione.

C’erano pure i quattro pilastri dell’istruzione: Imparare a vivere insieme, Imparare a conoscere, Imparare a fare, Imparare ad essere.

Il Ministero dell’Imparare. Sarebbe stata una sintesi bellissima tra istruzione e educazione, parole spesso usate in modo inappropriato.

Listruzione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i propri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali.”

Sono sempre parole del Rapporto Delors o il cervello le possiede e da qui muove per ragionare di scuola, di istruzione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, del loro futuro o tornano solo le vecchie parole trite e ritrite che segnano la povertà di pensiero della politica, a Destra come a Sinistra, nel nostro Paese.

Scuola e programmi elettorali

Se il problema di cosa studiano e di come studiano a scuola le nostre ragazze e i nostri ragazzi non viene affrontato le possibilità sono solo due: o non è un problema o non si possiede una soluzione al problema.

A leggere i voti, che le forze politiche formulano per la scuola nei loro programmi elettorali  al fine di ottenere voti, non si può che concludere che nel nostro paese cosa si studia e come si studia nelle aule del sistema formativo non costituisce un problema. Nonostante gli esiti decisamente non brillanti delle indagini Ocse Pisa e dell’Invalsi sui risultati scolastici, il grado di istruzione del paese non sembra meritare attenzione. Anzi c’è chi, come Italexit, vuole “Eliminare le prove Invalsi e i sistemi valutativi basati sui quesiti a risposta multipla.” Insomma, il tuo parlare sia sì sì, no no.

Anni di letteratura scolastica che hanno sfornato titoli poco rassicuranti: Requiem per la scuola, La scuola bloccata, Senza educazione, L’aula vuota, La scuola imperfetta, La scuola impossibile, Liberiamo la scuola, La scuola è sfinita fino al recente Il danno scolastico della coppia Mastrocola-Ricolfi, vengono volutamente o meno ignorati dalle formazioni politiche scese in campo per l’agone elettorale, possibile che neppure uno dei libri citati l’abbiano mai letto.

Qualcuno ci prova. Ad esempio il “Programma per l’Italia” della Destra al primo punto si impegna a “Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico”. Cosa significhi non è spiegato. È il ritorno all’avviamento scolastico? Agli esami di ammissione? Si prospetta un sistema scolastico stile tedesco?

Anche il programma di Italexit a proposito di cosa studiare promette un recupero della nostra “cultura umanistica e civica”. E anche qui non è dato sapere che cosa effettivamente si intenda.

Il Movimento Cinque Stelle vorrebbe una “Scuola dei Mestieri” per valorizzare e recuperare le tradizioni dell’artigianato italiano, forse una riedizione degli “Artigianelli”di don Orione,  in linea comunque con la vocazione professionalizzante delle destre.

Dai voti elettorali emerge poi un profilo di “scuola clinica” che i nostri giovani dovrebbero frequentare come luogo di cura dove, dopo la moltiplicazione delle certificazioni, ora si  mettono a disposizione medici scolastici, psicologi e pedagogisti come se essere studenti e giovani fosse una malattia, come se disagio sociale e modalità di apprendimento non per forza standard fossero dei disturbi che necessitano di cure anziché di una scuola diversa. 

Non avevamo bisogno dell’appuntamento elettorale per scoprire che questo nostro paese non ha mai curato un’idea di istruzione, di sistema formativo, non ha una cultura dell’istruzione e dell’apprendimento, perché non ha mai avuto considerazione per i suoi insegnanti, della loro professione e soprattutto della scuola.

Vanno di moda i “patti educativi” come se l’istruzione fosse un campo di conflitti e avesse bisogno di siglare armistizi tra contendenti, le “comunità educanti” come comunità di salute pubblica. Una gioventù malata che qualcuno vuole raddrizzare con lo sport e il ritorno al servizio di leva. Anche i seminari sono comunità educanti e le comunità che si propongono come educanti sono pericolose perché mettono a rischio la libertà delle persone, mentre la scuola deve essere palestra di libertà e non di manipolazione.

L’Unesco invita a un nuovo contratto sociale per l’istruzione all’altezza delle sfide dei tempi e del futuro delle nuove generazioni, ma noi non possiamo permetterci tutto questo, non avendo curato la casa dobbiamo ricorrere ai ripari, occuparci delle sovrastrutture del nostro sistema formativo: gli edifici scolastici, lo stipendio degli insegnanti, il tempo pieno, l’obbligo scolastico, medici e psicologi scolastici.

Così i programmi di tutte le forze politiche si caratterizzano per tre filoni: scuola come servizio sociale, scuola e mercato del lavoro, scuola e cultura nazionale e tutti brillano per le grandi assenze. Oltre all’istruzione e all’apprendimento, non rispondono all’appello il tema dell’autonomia delle scuole, gli Organi Collegiali, l’apertura delle scuole al territorio e il ruolo del territorio per un sistema formativo integrato e soprattutto l’apprendimento permanente. Distrazione, ignoranza, superficialità, impotenza, mancanza di idee, incompetenza? Forse tutti questi insieme.

Il programma di Azione e Italia Viva cita l’autonomia per affermare la necessità di passare: “dal concetto di autonomia scolastica a quello di scuole realmente autonome”. 

Pare di comprendere che dietro a quel “realmente autonome” si nasconda un concetto di concorrenza di mercato, di competizione tra scuole che consenta alle famiglie di scegliere la migliore, un scimmiottamento delle Champions School d’oltre oceano. Ma cosa fare per portare a compimento il processo di autonomia scolastica, spesso osteggiato dalla stessa politica e amministrazione pubblica, cosa fare a partire dalle risorse necessarie a garantire una reale autonomia questo non è detto. Che l’autonomia scolastica sia in pericolo è nella consapevolezza di quanti sono più attenti ai bisogni della nostra scuola e ad essere in pericolo è l’unica vera riforma, sebbene ancora incompiuta, che il nostro sistema formativo, tradizionalmente piramidale, abbia conosciuto.

Difendere l’autonomia scolastica significa coltivare un’idea di scuola come risorsa centrale del territorio, come perno di un sistema formativo integrato che poco ha a che vedere con surrogati e ripieghi tipo patti educativi e comunità educanti. Un obiettivo che per essere perseguito richiede lucide e solide politiche territoriali da parte degli enti locali insieme a risorse finanziarie che consentano di portare a sistema la scuola come ambiente di apprendimento che si integra con il territorio, che al territorio si allarga e si apre per usarne strutture e risorse, prima condizione affinché le scuole siano “luoghi sicuri, belli, aperti tutto il giorno. Vere e proprie palestre di cittadinanza” come promette il programma del PD.

Scuola e territorio è un binomio che conduce agli Organi Collegiali che si trascinano da  troppo tempo pigramente, sviliti e snervati, che hanno bisogno di manutenzione, di una cura ricostituente soprattutto alla luce della scuola dell’autonomia, di una scuola sempre più hub formativo del territorio.

In fine, last but not least, l’apprendimento permanente. Decenni di life long learning ignorati, insieme all’Europa della “Conoscenza”, al Memorandum di Lisbona 2000 e alla stessa Agenda 2030 dell’Onu.

Apprendimento permanente che non è l’educazione degli adulti in chiave scolastica del programma di Possibile, l’unico che meritoriamente la richiama, insieme alla necessità di rivedere i cicli scolastici, ma la mobilitazione delle conoscenze, dei saperi, l’apprendimento diffuso, le città che apprendono, il rapporto tra apprendimento formale, non formale e informale che già la Riforma Fornero del 2012 aveva riconosciuto su pressione dell’Europa. Quanto basta per rivedere integralmente l’intero impianto del nostro sistema formativo in un mondo dove si apprende dalla culla alla tomba. 

La complementarietà e l’osmosi tra forme di apprendimento, unitamente agli altri grandi assenti, al momento dovranno attendere il prossimo giro.

Non sparate a zero sul Docente Esperto

Si conosce poco circa il docente esperto spuntato durante la calura estiva tra le norme del decreto Aiuti bis. Si sa che saranno in tutto ottomila per quattro anni, per un totale di trentaduemila, che per diventare esperti occorre studiare per dieci anni e che al termine del percorso si riceverà un aumento stipendiale pensionabile. Pare che non sarà una nuova figura di sistema perché continuerà a esercitare la sua funzione docente.

La reazione del mondo della scuola a leggere petizioni, stampa e social è senza alcun dubbio di generale rigetto rispetto al trapianto che sembrerebbe nelle intenzioni del ministero, per cui non si comprende come sia possibile produrre un rinnovamento, se tale era nelle intenzioni governative, senza il coinvolgimento dei diretti interessati, vale a dire gli insegnanti.

Compulsando internet ho scoperto che l’idea del docente esperto non è nuova, qualcuno ci ha già pensato da tempo e siccome ormai nulla è novità, se non assume un brand anglosassone, si tratta dei corsi di formazione e-learning con esame in presenza per  acquisire la qualifica di Expert Teacher organizzati dall’Erickson in collaborazione con la UIL, Università Telematica  degli Studi, e con lANPA, associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola.

In cuor mio confidavo che ci fosse un nesso tra l’iniziativa del ministro e l’offerta dell’Erickson, un nesso che avrebbe aiutato a fornire un senso all’evanescente figura scaturita dal decreto Aiuti bis. Non pensavo a nulla che non fosse più che legittimo e trasparente, ma evidentemente, indubbiamente per causa mia, ho suscitato con un mio articolo la sensibilità degli ideatori e promotori dell’Expert Teacher, della qualcosa mi dolgo pubblicamente.

Tuttavia di fronte all’alzo zero con il quale pare sarà impallinata la proposta del docente esperto mi rimangono aperti tutti i miei interrogativi.

Siamo tutti convinti che il nostro sistema scolastico necessita di una rifondazione radicale? Che il differenziale fra noi e gli altri Paesi è cresciuto anche perché non abbiamo saputo pensare al nostro sistema scolastico in termini moderni, un sistema scolastico che accusa una crisi profonda nei suoi moduli organizzativi, nelle sue strutture organizzative, nella formazione dei suoi docenti.

Che la scuola è una grande questione nazionale che deve essere affrontata con grandissima lungimiranza e fortissimo impegno, perché un paese e una comunità vivono del futuro che sanno preparare ai loro giovani, ragazze e ragazzi.

L’ultimo rapporto dell’Unesco sollecita un nuovo contratto sociale per l’istruzione al cui centro siano gli insegnanti e la loro professione rivalutata e reimmaginata come uno sforzo collaborativo che stimola nuove conoscenze per realizzare una trasformazione educativa e sociale. Gli insegnanti hanno un ruolo unico da svolgere nella costruzione di un nuovo contratto sociale per l’istruzione. Per svolgere questo lavoro complesso, gli insegnanti hanno senza dubbio bisogno di comunità di insegnamento collaborative ricche, caratterizzate da ampi spazi di autonomia e da un generale sostegno. Sostenere l’autonomia, lo sviluppo e la collaborazione degli insegnanti è un’importante espressione di solidarietà pubblica per il futuro dell’istruzione.

Quando gli insegnanti sono riconosciuti come professionisti riflessivi e produttori di conoscenza, contribuiscono alla crescita dei corpi di conoscenza necessari per trasformare gli ambienti di apprendimento, le politiche, la ricerca e la pratica, all’interno e al di fuori della loro stessa professione.

Ma come incamminarsi verso tutto questo, che richiede tempo, pazienza, lungimiranza, investimenti nelle risorse umane?

Non sono certo sufficienti le petizioni di principio, le dichiarazioni di intenti, né le elocubrazioni sulla scuola che ognuno  vorrebbe.

Occorre scegliere, occorre scommettere, come sempre nella scuola.

Occorre decidere contro le resistenze al cambiamento dall’interno, e pure dall’esterno,  contro chi invoca il passato e accusa di tutti i mali il progressismo educativo. 

Bisogna decidere sapendo che la chiave del cambiamento sono gli insegnanti, coloro che ogni giorno lavorano nel rumore d’aula, che su di loro bisogna puntare e investire. Sapendo che non possiamo convincerli tutti e coinvolgerli tutti contemporaneamente, i mezzi al momento non ci sono e vanno rispettate le opinioni di ciascuno. Ma l’interesse della Scuola e del Paese, in particolare delle giovani generazioni, deve prevalere su ogni corporativismo e immobilismo.

Se la strategia è quella di intervenire sul versante della formazione e del reclutamento da un lato e dall’altro sulla riqualificazione di quote di personale in servizio, non mi sembra una strategia sbagliata e ritengo che valga la pena impegnarsi in questa direzione. 

Si avvierà  così un processo di innovazione dall’interno della scuola attraverso il ricambio di personale per via dell’avvicendamento tra i docenti che vanno in pensione e i neo assunti che avranno ricevuto una nuova formazione e quelli in servizio che nel frattempo avranno compiuto il percorso per essere riconosciuti come docenti esperti.

Da tutto questo si evincono due piani di intervento per riqualificare il nostro sistema formativo facendo leva sull’unica leva credibile: il coinvolgimento degli insegnanti, perché solo da loro dipende il destino del nostro sistema formativo. 

Intervenendo sui due fronti è credibile pensare che nel giro di dieci anni si possa realizzare già un profondo rinnovamento e una autentica riqualificazione della nostra scuola con un’efficacia e una capacità di centrare l’obiettivo che nessuna riforma del sistema potrebbe assicurare, starà poi alla politica accompagnare tempestivamente con lo strumento delle leggi le innovazioni che si produrranno nella nostra scuola per effetto del processo di riqualificazione del personale docente.

È indispensabile che questo processo veda il coinvolgimento e il protagonismo di altri soggetti irrinunciabili per la formazione dei docenti e il rinnovamento del nostro sistema formativo, dalle Università all’Indire, alle Avanguardie educative, all’associazionismo professionale degli insegnanti, ai centri studi e alle case editrici qualificate sul piano della didattica e della formazione professionale dei docenti. Un lavoro corale capace di far suonare le corde migliori del nostro sistema scolastico e dei nostri insegnanti.

Si scrive Docente Esperto si legge Expert Teacher*

L’articolo 38 del Decreto Aiuti bis, quello che introduce la figura del “docente esperto”, mica potevano scriverlo in inglese. Ma poiché nella quasi generalità dei paesi europei è d’obbligo la formazione professionale continua per chi insegna e circa la metà dei sistemi educativi prevede carriere strutturate per complessità di lavoro e responsabilità, viene spontaneo supporre che il profilo del docente esperto non sia un’invenzione ministeriale estemporanea prodotta dall’eccessiva calura estiva.

Occorre un po’ di pazienza, riflettere, essere creativi e siccome siamo globalizzati dall’italenglish ti viene di tradurre “docente esperto” e cercare in rete con l’ausilio di Google “Expert Teacher”. E il gioco è fatto perché cade immediatamente il velo di Maya, e comprendi quanto sei sciocco e sprovveduto, perché le cose sono come sempre figlie del rasoio di Occam e maledettamente italiane.

Scopri che Expert Teacher è il Master on line, con sessione finale in presenza, organizzato  dal Centro studi e casa editrice Erickson in collaborazione con la UIL, Università Telematica  degli Studi e con l’ANPA, associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola: 990 euro, scontati,  per 1500 ore e 60 CFU.

Di fronte alla figura del docente esperto la domanda che immediatamente mi è venuta spontanea è stata relativa al ruolo dell’INDIRE e delle Avanguardie educative da questi sostenute, istituzioni immagino costituite da docenti esperti, saranno riconosciuti come tali o dovranno anche loro compiere il percorso previsto dal decreto legge?

Ma non c’è fine alle scoperte perché al progetto di Master dell’Erickson partecipano anche l’INDIRE e l’Università di Firenze.

Le sorprese non terminano qui. Navigando nel sito dell’Erickson vieni a scoprire che il progetto Expert Teacher è curato e sviluppato da Laura Biancato, dirigente scolastica che ha lavorato presso il Ministero dell’Istruzione partecipando a diverse commissioni, in particolare alla stesura del piano nazionale Scuola Digitale.

A questo punto è difficile non immaginare che il Docente Esperto del ministro Patrizio Bianchi e l’Expert Teacher dell’Erickson-Biancato  siano parenti stretti.

Del resto l’obiettivo è comune. Non è certo quello di aprire la carriera docente a figure di sistema, perché se così fosse stato la strada era già in parte tracciata, non era necessario rovinarsi la vita con il rischio di vedersi rivoltare contro il corpo insegnante come già accadde più di vent’anni fa al ministro Luigi Berlinguer che partorì l’idea del “concorsone”.

No, la strategia del ministro, forse con la complicità dell’Erickson, è quella del cavallo di Troia, trentaduemila cavalli di Troia tra il 2033 e il 2036, nella consapevolezza che riformare la scuola richiede tempo, tanto tempo e che soprattutto ogni riforma dall’esterno è destinata a fallire, mentre la scuola si può solo rinnovare dall’interno, attraverso gli insegnanti, i trentaduemila cavalli di Troia, appunto, su cui investire. Del resto il secolo scorso ci ha insegnato che le uniche innovazioni che hanno consentito di migliorare il sistema formativo sono quelle nate sul campo dalle esperienze di grandi maestri come Montessori, Freinet, Lodi, Ciari, Lorenzo Milani.

Il Centro Studi Erickson presenta il proprio Master come una proposta formativa altamente professionalizzante per preparare docenti in grado di affrontare il cambiamento della scuola.

La scuola è un “bene comune” come ci ricorda anche l’ultimo rapporto dell’Unesco e in una società in costante evoluzione anche il profilo docente non può che essere dinamico, già lo sapevamo ma le resistenze al cambiamento dall’interno, e pure dall’esterno, quando si tratta di scuola sono prepotenti, è sempre il passato che viene invocato contro il progressismo che avrebbe alterato gli equilibri Casati-gentiliani del nostro sistema formativo.

La professione docente si è fatta sempre più complessa e anche questa è una banalità,  ma solo ora, perché l’Europa ce lo impone, con il Pnrr si affronta nell’arco di una prospettiva di dieci anni il problema della formazione docente. Non si specifica come, se non introducendo il profilo del docente esperto. 

Se è parente dell’Expert Teacher, l’Erickson specifica che la sua offerta formativa nasce da un progetto di ricerca che ha coinvolto oltre 200 insegnanti della scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado. Sono state così individuate quattro figure di “insegnanti esperti”. Progettano, organizzano, monitorano, valutano progetti estesi all’intero istituto, per contribuire a qualificare e innovare la scuola.

Ne è derivato addirittura un Syllabus, “Il Syllabus Expert Teacher per le competenze del docente innovativo” suddivise in tre aree fondamentali: Professione, Didattica, Organizzazione.

I corsi dell’Erickson sono chiaramente finalizzati al conseguimento del Master di I livello e al rilascio di 60 CFU necessari per essere assunti a scuola secondo la nuova normativa del reclutamento.

Ai Master è affiancata l’offerta di singoli Corsi di perfezionamento pensati come “palestre” con un project work finale per un totale di 500 ore e 20 CUF. Le palestre sono dedicate all’Innovazione della professione docente e alla Progettazione e valutazione nella scuola delle competenze.

Il prestigio del Centro Studi e della casa editrice Erickson non sono certo messi in discussione, indiscutibile il contributo dato in tutti questi anni ai temi dell’inclusione scolastica e al rinnovamento della didattica, in particolare del suo animatore il professor Dario Ianes.

Da tutto questo si evincono due piani di intervento per riqualificare il nostro sistema formativo facendo leva sull’unica leva credibile: il coinvolgimento degli insegnanti, perché solo da loro dipende il destino del nostro sistema formativo. 

Non so quale sia la strategia del ministro Bianchi, forse sarebbe il caso che ce la spiegasse, ma non sono portato a credere che ognuno viaggi per conto suo, anzi, credo che i piani convergano, uno finalizzato a formare i nuovi docenti, l’altro, quello ministeriale, che interviene sui docenti già in servizio, certamente quelli che potranno garantire una maggiore permanenza e non ovviamente quelli destinati ad andare in pensione negli ultimi dieci anni. Intervenendo sui due fronti è credibile pensare che nel giro di dieci anni si possa realizzare un profondo rinnovamento e una autentica riqualificazione della nostra scuola con un’efficacia e una capacità di centrare l’obiettivo che nessuna riforma del sistema potrebbe assicurare, starà poi alla politica accompagnare tempestivamente con lo strumento delle leggi le innovazioni che si produrranno nella nostra scuola per effetto del processo di riqualificazione del personale docente.

*N.B.

Erickson. Buonasera dott. Fioravanti, sono Francesco Zambotti, responsabile dell’Area Educazione di Erickson. L’articolo che mi trovo a commentare parte semplicemente da un assunto falso e anche irrealistico. Non c’è nessuna vicinanza nè tantomeno dialogo o accordo tra Erickson e il MIUR (la cosa mi fa anche sorridere sapendo la diffidenza che il Ministero ha nei confronti delle ditte private). È vero che il nome del docente esperto può richiamare Expert Teacher che è però un progetto del tutto diverso nei fondamenti e negli obiettivi, dalla proposta recente ministeriale e con molto anni alle spalle. Esiste da più di cinque anni e prevede sia il master che lei cita ma anche altre forme di formazione professionale. Se vuole conoscere meglio il progetto Expert Teacher la invito personalmente al nostro convegno Didattiche2022 a Rimini in novembre, ci saranno diversi momenti dedicati anche a Expert Teacher e più in generale spero di capisca che l’idea di innovazione inclusiva che Erickson propone , promuove e sostiene è un idea molto diversa dalla lotteria dell’incentivo economico individuale prevista nel recente DL. Venga a conoscere la profondità del syllabo di Expert Teacher e il lavoro di ricerca triennale che c’è stato alle spalle facendo dialogare mondo della ricerca, dirigenti, insegnanti e centro di formazione. Le assicuro che è un panorama molto diverso da quello previsto dal docente esperto. Se vorrà essere nostro ospite ci farà molto piacere.

Laura Biancato. Per quello che mi riguarda direttamente, visto che mi ha citata, si tratta di fantasie prive di qualsiasi fondamento, anzi del tutto opposte alla realtà. Sta di fatto che trovo diffamatorie alcune frasi come quelle che ipotizzano una combutta tra Erickson (vengo citata direttamente) e ministero, peraltro per impedire una vera carriera dei docenti che da decenni porto avanti come battaglia personale. Ho scritto diversi articoli e partecipato ad eventi anche di rilievo sempre con l’obiettivo di promuovere un cambiamento verso il middle management. Infatti, il profilo 3 di Expert Teacher era stato pensato nel 2017 proprio come prototipo del collaboratore del DS. In ogni caso, è veramente un paradosso che lei mi nomini co-fautrice di una disposizione (quella del docente esperto) che per me è intollerabile, che ho criticato in lungo in largo e che è l’opposto di ciò che (forse non l’ha approfondito bene…) promuove il progetto Expert Teacher.

Le mie fonti:

Expert Teacher https://www.erickson.it/it/expert-teacher/?gclid=Cj0KCQjwuuKXBhCRARIsAC-gM0hGxVIfMO3_z7wYSSRkL-PtoV11Jdl6o4-9zbbp4XQH_LVC7m4YH5gaAj3dEALw_wcB

https://www.linkedin.com/in/laura-biancato-a93a99139/?originalSubdomain=it

E IO TI BOCCIO

 

Se c’è qualcosa di anacronistico e di incongruente con l’individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento sono le bocciature. 

Aveva tentato nel 2007 il governo Prodi, ministro dell’istruzione Fioroni, di abolirle, almeno nel biennio delle superiori, con un notevole risparmio per le casse dello Stato, ma l’idea incontrò l’opposizione dei sindacati che in quel provvedimento di riforma vedevano una minacciosa caduta del numero delle classi e di conseguenza di cattedre e posti di lavoro.

Poi viene da chiedersi tutti quei miliardi del PNRR per edifici scolastici e edificatori di sapere (quest’ultimi sarebbero i docenti) per fare quale scuola? Un’altra come questa che boccia in seconda elementare, come riportato in questi giorni dalle cronache di Bari?

Sappiamo che l’esito delle bocciature esplicite o implicite che siano è la dispersione scolastica, da noi oltre la soglia del 13%, una dispersione scolastica che ci costa circa 70 miliardi all’anno, pari al 4% del PIL, una dispersione segnata dai primi fallimenti già accumulati alla primaria, micidiali, poiché funzionano come  profezie che poi si avverano.

È che la cultura della formazione vista dalla parte di chi deve essere formato è quella che manca a chi si dovrebbe occupare delle policy scolastiche.

Era già l’errore di fondo contenuto nella Buona scuola del governo Renzi, con l’incongruenza di pretendere di chiamare “buona” una scuola lasciata inalterata nella sua struttura di sempre, per di più perdendo di vista proprio gli studenti punto di partenza e di arrivo di ogni processo formativo.

Ora poi assistiamo alle self-candidacy a fare il ministro dell’istruzione come quella ufficializzata su Il Foglio, dal professore Marco Lodoli che se ne va in pensione e intende mettere a disposizione del paese la sua esperienza di uomo di scuola.

Il suo programma in dieci punti esordisce con l’affermazione: “La scuola ha bisogno di ritrovare a pieno la sua missione che è educare, preparare, formare…”

Come non essere d’accordo! Salvo che sarebbe il caso di dire come. Non è dato di saperlo, a meno che non ci sia qualcuno, sebbene uomo di scuola e intellettuale, così sprovveduto da ritenere che l’impegnativa affermazione d’esordio si realizzi attraverso l’elenco delle cose da fare che il professor Lodoli propone, dall’aumento delle ore di educazione fisica, a quelle di musica, alle lezioni di cinquanta minuti fino, ovviamente, all’aumento dello stipendio degli insegnanti. Il tutto mantenendo la scatola e i suoi contenuti così come sono ora. 

Insomma come questa scuola andava bene ieri andrà bene anche domani, tanto il futuro dei giovani non lo possiamo conoscere, e una generazione vale l’altra, ragazze e ragazzi poi sono tutti uguali, che siano del secolo scorso e dei decenni a venire cosa cambia.

È questa ignoranza che pesa come una cappa sul paese, professori, intellettuali, politici, non ci si salva. La scuola è nata così con Casati e Gentile e così deve continuare a vivere.

Siamo sempre lì, alla Mastrocola e coniuge. Per cui anziché essere considerata una madornalità da licenziamento in tronco di chi ha deliberato la bocciatura di una bimbetta di sette anni in seconda elementare, in questo paese si dibatte circa il de jure della sentenza con la quale il Tar della Puglia invita il collegio dei docenti della scuola a ritornare sui suoi passi.

Non è che uno debba essere costretto a sorbirsi la legislazione scolastica che oltretutto è di una qualità letteraria pessima, ma lo scollamento tra immaginario scolastico collettivo, pratica scolastica e normative scolastiche in questo paese è enorme. Sono come tre strade parallele ognuna delle quali procede verso la propria meta senza alcuna possibilità di comunicare tra loro. Questa assenza di comunicazione fa sì che l’opinione pubblica non si modifichi mai, gli insegnanti continuino a lavorare come hanno sempre fatto incuranti di ogni innovazione e che leggi, norme e circolari restino lettera morta. 

Agisce una sorta di refrattarietà ai cambiamenti per cui l’opinione pubblica non si sposta dai luoghi comuni e la scuola dal suo modus operandi, così che il gattopardesco tutto cambi perché tutto rimanga com’è può giungere comodamente alla sua apoteosi.

Dalle Indicazioni nazionali alle Linee guida ministeriali si sono spesi fiumi di parole sul senso della valutazione in particolare nella scuola primaria, ma rimane una ambiguità irrisolta quella della eccezionalità, dei casi eccezionali.

Noi siamo il paese del tutto è normale salvo eccezioni, guarda caso, abbiamo pure la faccia tosta di affermare che le eccezioni confermano la norma essendo noi tutti discepoli dell’avvocato manzoniano.

Per cui nonostante ci si sia sforzati di spostare la valutazione sui processi si torna sempre, con una sorta di riflesso condizionato ai giudizi, ai giudizi sulla persona, anche se questa ha solo sette anni non può sottrarsi ad una simile mannaia e la mannaia si cela in quel “salvo eccezioni”.

In realtà c’è molto di più e il molto di più sta nel continuare a perpetuare un sistema scolastico fondato sulle classi di età, sulla massificazione delle differenze.

Non si può da un lato licenziare normative che richiedono di adattare l’insegnamento “ai bisogni educativi concreti degli alunni, ai loro processi cognitivi, meta-cognitivi, emotivi e sociali” per poi mortificare tutto nell’uniformità della classe, dove di regola tutti devono giungere allo stesso modo alla classe successiva, salvo ritornare al punto di partenza per ripetere di nuovo l’intero percorso.

Dovrebbe essere ormai evidente che la struttura “casati-gentiliana” del nostro sistema scolastico fondata sulle classi di età costituisce un grave ostacolo ad ogni forma di flessibilità e di individualizzazione dei percorsi di apprendimento. Che se non si aggredisce il nodo strutturale la dispersione scolastica sarà sempre alta e la tentazione delle bocciature sempre latente.

Si tratta di capovolgere la logica e passare da una scuola pensata come progressione verticale, dal basso verso l’alto secondo l’età anagrafica, a una progressione orizzontale lungo un curricolo percorso da ciascuno secondo i propri tempi e i propri bisogni formativi che nessuna classe e bocciatura possono imbrigliare.

Il rischio è che le risorse del PNRR spese per la scuola e per la formazione degli insegnanti siano ancora una volta investite per la scuola di ieri o di oggi, ma non certo per quella di domani.