Per una governance del XXI secolo

Era la scommessa dell’Illuminismo il cittadino cosmopolita del sapere, come dire che solo la ragione può unire il mondo, perché l’uomo razionale non accetta barriere nazionali.

La società della conoscenza nasce nutrendosi della fiducia nell’universalità del sapere come forza unificatrice contro le spinte scioviniste dei vari nazionalismi.

La seduzione dell’apprendimento permanente, per tutta la vita, è l’enunciazione di un particolare atteggiamento illuministico verso esistenze guidate dalla ragione, dalla compassione per l’altro, dalla continua ricerca di innovazione e cambiamento, in cui l’unica cosa che non è una scelta è compiere delle scelte. 

L’apprendimento è un processo continuo che non tollera più d’essere relegato alle sole aule scolastiche e alle loro forme rituali di istruzione, perché la vita esige sempre un di più di conoscenza per affrontare problemi e innovazioni che non hanno un punto di arrivo, cambiamenti che richiedono responsabilizzazione e processi decisionali i cui effetti non riguardano solo il singolo individuo, ma l’appartenenza collettiva alla comunità mondiale.

Siamo entrati nel tempo del problem solving, dell’apprendere a risolvere problemi, dove non è più sufficiente essere istruiti su problemi già risolti da altri, ma piuttosto è necessario imparare come dare soluzione a quelli che hanno da venire, per i quali non esistono ancora formule ed eserciziari. 

L’apprendimento permanente è la risposta sociale moderna all’esigenza di diventare cittadini della Terra, della Terra Patria, come ci ricorda Edgar Morin,  accedendo a una cultura condivisa, dotati di strumenti intellettuali ed emotivi per vivere una cittadinanza planetaria.

La società come luogo pedagogico, di cui scriveva John Dewey agli albori del secolo scorso, è ora la Terra intera con la potenza del pluralismo e della molteplicità delle sue comunità e culture nelle quali ogni giorno si costruisce il destino comune.

La parola apprendimento è diventata indispensabile per parlare di noi stessi, degli altri e della convivenza con l’ambiente.

Le scienze dell’educazione si sono tradizionalmente occupate dello studio delle istituzioni che forniscono l’istruzione formale, ma oggi  è importante  l’espansione e la diffusione del paradigma pedagogico in aree non tradizionalmente considerate educative, in qualsiasi parte del mondo l’istruzione non è solo una questione di ciò che si insegna a scuola, ma è, in nome dell’apprendimento permanente, qualcosa che permea il governo di tutte le attività sociali.

Diventa importante per gli insegnanti sostenere gli alunni a trovare il modo migliore  di sviluppare la capacità di capire e gestire il proprio futuro, le narrazioni nel contesto dell’istruzione sottolineano che il mondo è diventato sempre più mutevole e difficile da prevedere. Una delle voci all’interno di queste narrazioni chiede come la scuola potrebbe prepararsi per un futuro di cui sappiamo meno ma di cui dobbiamo sapere sempre di più. La risposta data riguarda lo sviluppo di talenti per essere in grado di gestire nuove situazioni.

Il compito più importante per l’insegnante è quindi quello di organizzare ambienti e contesti di apprendimento stimolanti che supportino processi esplorativi in cui l’individuo in modo attivo acquisisca conoscenza e dove la conoscenza è considerata un processo piuttosto che un prodotto.

Una componente cruciale nel processo di apprendimento è, dunque, la metacognizione, come produrre conoscenza su noi stessi, capire come la conoscenza funziona nella pratica, progettare i nostri propri processi di apprendimento come un oggetto di ricerca, una meta-prospettiva per il futuro. 

Pertanto, una dimensione centrale della formazione degli insegnanti è la capacità di sviluppare conoscenze su come la conoscenza è prodotta e costituita. In questo contesto, la conoscenza e i processi di apprendimento degli studenti diventano a loro volta una pratica di conoscenza per la produzione e lo sviluppo della conoscenza degli insegnanti. Senza dubbio “imparare” nelle narrazioni contemporanee significa qualcosa di diverso rispetto a quelle di altri periodi storici. Viviamo in una società rischiosa, incerta e in continua evoluzione. In questo contesto diventa indispensabile la svolta epistemologica che iscrive l’apprendimento permanente e la costante formazione e produzione di conoscenza nella pratica quotidiana come chiave per un futuro gestibile. 

Pianificare il futuro significa pianificare le disposizioni e le sensibilità interiori che ordinano i modi in cui le persone risolvono i problemi in quanto cittadini orientati al futuro. La realizzazione del futuro diventa così un progetto individuale di apprendimento permanente. Non più l’alunno, l’allievo, lo scolaro della tradizione, ma il soggetto singolo pensato come il primo organizzatore del proprio destino.

Considerare l’intera società come luogo di conoscenza, come un luogo di apprendimento diffuso che investe la responsabilità dei singoli soggetti in termini di lifelong e life wide learning costituisce una condizione indispensabile alla governance del ventunesimo secolo.

Bibliografia

Biesta, G. (2006) ‘What’s the point of lifelong learning if lifelong learning has no point? On the democratic deficit of policies for lifelong learning’, European Educational Research Journal, 5: 169–80. 

European Commission (1996) Teaching and Learning: Towards a Learning Society, Luxembourg: Office for Official Publications of the European Communities. 

European Commission (2000) Commission Staff Working Paper, Memorandum on Lifelong Learning, Brussels: European Commission. 

Fejes, A., Nicoll, K. (2008) Foucault and Lifelong Learning. Governing the subject, Routledge, NY.

Field, J. (2000) Lifelong Learning and the New Educational Order, Stoke on Trent: Trentham Books. 

Gustavsson, B. (2002) ‘What do we mean by lifelong learning and knowledge?’ International Journal of Lifelong Education, 21: 13–23. 

UNESCO (1996) Learning: The Treasure Within, Report to UNESCO of the International Commission on Education for the Twenty-first Century, Paris: UNESCO. 

Dove, quando e come l’istruzione

Ciò che preoccupa è il ritardo culturale del nostro paese sui temi dell’istruzione. L’angustia di pensiero e l’incapacità di interrogarsi, se il sistema formativo che ci ostiniamo a puntellare da tutte le parti, non sia immutabile con il mutare dei tempi. 

Il nostro mondo è a un punto di svolta. Sappiamo già che la conoscenza e l’apprendimento sono la base per il rinnovamento e la trasformazione, ma l’istruzione non sta rispondendo alla sua funzione di aiutarci a plasmare un futuro pacifico, giusto e sostenibile.

Uno dei nostri compiti principali dovrebbe essere quello di ampliare la nostra capacità di pensiero su dove, quando e come si svolge l’istruzione. 

Non è un’idea nuova e neppure astratta, fu sollevata cinquant’anni anni fa dalla Commissione Faure che apriva alla visione della Cité éducatif, oggi learning city, nel tentativo di ripensare i sistemi educativi. 

La “città” è la metafora di uno spazio che racchiude tutte le possibilità e le potenzialità per l’apprendimento diffuso ad ogni età, soprattutto perché qui le opportunità sono tra loro interconnesse. È l’idea della necessità di pensare in modo olistico alla ricchezza e alla diversità degli spazi, alle iniziative sociali che supportano l’istruzione,  a chi ne è coinvolto.

Andare oltre, in questo secolo, i modelli consolidati che ancora oggi concepiscono generalmente l’istruzione in un arco temporale che inizia a cinque o sei anni e raggiunge il suo punto finale circa un decennio dopo. Rompere la resistenza del formato scolastico, eredità dell’Ottocento, per promuovere processi e strutture di istruzione differenti. Fondamentali per il futuro planetario dell’istruzione come l’educazione permanente e la società dell’apprendimento. Da tempo avrebbero dovuto divenire le chiavi di volta da un lato delle politiche dell’istruzione, dall’altro del coinvolgimento delle nostre società come partecipanti e attori dell’istruzione stessa.

Un’idea di apprendimento come funzione sociale che rispetto al passato assume una nuova rilevanza nel mondo globalizzato delle economie della conoscenza e delle società dell’informazione, che richiederebbe la creazione o la reinvenzione di meccanismi istituzionali distinti ma complementari alle istituzioni educative formali tradizionali.

Nel rapporto Faure c’è scritto che: «Se l’apprendimento coinvolge tutta la vita, intesa sia come arco di tempo che come diversità, e tutta la società, comprese le sue risorse sociali ed economiche oltre che educative, allora dobbiamo andare ancora oltre la necessaria revisione dei “sistemi educativi” fino a raggiungere lo stadio di una società dell’apprendimento» (Faure et al., 1972, xxxiii).

Dagli anni ’70 del secolo scorso avrebbe dovuto essere acquisito dai governi e da quanti si sono succeduti alla guida del dicastero dell’istruzione che istruirsi è un processo continuo, che coinvolge necessariamente una grande varietà di metodi e di fonti, caratterizzato da una triplice tipologia: formale, non formale e informale.

La necessità ora è dare visibilità alle diverse attività educative come componenti potenziali di un sistema complessivo di apprendimento, coerente e flessibile, che deve essere costantemente rafforzato, diversificato e maggiormente legato alle esigenze e ai processi di sviluppo nazionale. E, quindi, le nazioni dovrebbero sforzarsi di costruire “sistemi di apprendimento permanente”, offrendo a ogni individuo diverse opportunità di apprendimento nel corso della sua vita (Coombs e Ahmed, 1974, 9).

Il concetto di apprendimento lungo tutto l’arco della vita doveva essere la chiave di accesso al ventunesimo secolo, ma deve essersi smarrito per strada.

Con ogni evidenza il persistere di un’ottusità scolastica ancora impedisce a tutto il paese di andare oltre la tradizionale distinzione tra formazione iniziale e continua per aprire il varco di passaggio alla società dell’apprendimento in cui tutto offre un’opportunità di apprendimento e di realizzazione del proprio potenziale . (Delors et al., 1996, 38)

“La Città siamo noi e noi siamo la Città”,  scriveva Paulo Freire in Politica e istruzione, “La Città diventa educativa attraverso la necessità di educare, imparare, insegnare, conoscere, creare, sognare e immaginare che tutti noi – uomini e donne – che ne occupiamo i campi, le montagne, le valli, i fiumi, le strade, le piazze, le fontane, le case, i palazzi, lasciamo su ogni cosa l’impronta di un certo tempo e di uno stile, il gusto di una certa epoca.. .”

Ma certo se la nostra cultura della scuola resta arenata alle sole istituzioni formali non potrà mai comprendere le ricche possibilità di istruzione, sapere e conoscenza che si possono acquisire all’interno e attraverso la società nel suo insieme.

Lavoro, assistenza, tempo libero, attività artistiche, pratiche culturali, sport, vita civica e comunitaria, azione sociale, infrastrutture, impegno digitale e mediatico: sono tutte opportunità di apprendimento potenzialmente istruttive, pedagogiche e significative per il nostro futuro, tra innumerevoli altre. Un nuovo contratto sociale per l’istruzione deve contemplare la necessità e il valore di opportunità dinamiche di apprendimento in tutti i tempi e in tutti gli spazi.

Ciò non significa che trasformiamo le nostre comunità, le nostre città in un’immensa aula. Dobbiamo innanzitutto compiere un cambiamento profondo nel nostro modo di pensare, passare dalla diffidenza, dal sospetto e dalla condanna a realizzare e capire che le società di oggi hanno innumerevoli opportunità istruttive, attraverso la cultura, il lavoro,  la scienza del lavoro e la cultura del lavoro, i social media e il digitale, che devono essere valutate nei loro termini e costruite come importanti opportunità di apprendimento. 

La novità di questo secolo in campo educativo dovrebbe consistere proprio in questo, nel comprendere la centralità dell’istruzione come sempre più intrecciata con la vita, tanto che le scuole non sono più per l’istruzione lo spazio-tempo unico, ma è necessario estendere la nostra visione a tutti gli spazi e  tempi della vita.

Una scuola sconfinata

“Una scuola sconfinata” è il programma che raccoglie la mappa delle opportunità formative, ben 131 progetti, offerte alle scuole dalla nuova Giunta Capitolina, con il coinvolgimento di una pluralità di soggetti istituzionali, cooperative, volontariato e associazioni con l’ambizione di raccontare e ridefinire la relazione tra scuola e città in direzione di Roma Città Educante.

Questa mappa punta alla contaminazione tra scuola e vita culturale della città, scommette sui “bordi”, sulle zone liminali, sugli sconfinamenti. Con l’idea che una scuola sconfinata produca una città educante”

(Clicca qui sotto) 

Agenda 2030: come giocarsi la credibilità dell’Educazione civica nelle nostre scuole.

C’è una sostanziale inscindibilità tra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, e l’istruzione permanente, vale a dire un apprendimento che accompagna l’intero arco della vita delle persone.

Non so se di questo fossero consapevoli gli estensori della legge con la quale si è reintrodotto l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole di ogni ordine e grado del nostro paese.

Tra i temi che durante l’anno scolastico le nostre ragazze e i nostri ragazzi dovranno studiare c’è appunto questo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Nutro il sospetto che il legislatore avesse un’approfondita consapevolezza dei contenuti di questa Agenda, forse più affascinato dagli obiettivi della sostenibilità che interessato a conoscere effettivamente le pratiche richieste per la loro realizzazione dai diversi soggetti promotori dell’Agenda, dall’Onu all’ Unesco.

Questo potrebbe diventare un terreno molto sdrucciolevole per la credibilità e l’efficacia formativa dell’ Educazione civica come materia, dico subito perché e vedrò di spiegarlo meglio di seguito. 

L’Agenda 2030 avendo un obiettivo proiettato nel tempo costituisce un lavoro in progress, per questo studio e riflessione dei suoi contenuti richiederebbero di ritrovare poi una corrispondenza in quanto si va costruendo nell’ambiente sociale in cui le nostre ragazze e i nostri ragazzi sono immersi e la scuola opera.

L’Agenda 2030, come sappiamo, si propone di assicurare ambienti di vita sostenibili per le generazioni presenti e per quelle future, ha come obiettivi, tra gli altri, di assicurare un’istruzione di qualità, promuovendo opportunità di apprendimento permanente a partire dal governo delle città.

Nel nostro paese di Città che Apprendono, di Città della Conoscenza non se ne parla, fatta eccezione per rari casi che si contano sulle dita di una mano. E già qui si pone il problema della coerenza tra ciò che pretendiamo che i nostri ragazzi studino e i luoghi che abitano.

Del ruolo delle città, in particolare delle città che apprendono, le “learning cities”, nel perseguire gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile se ne è parlato in conferenze internazionali con la partecipazione di sindaci, amministratori di città di tutto il mondo, dirigenti scolastici, esperti di apprendimento, rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite, di settori privati, di organizzazioni regionali, internazionali e della società civile, a cui dubito che l’Italia abbia mai partecipato: Pechino nel 2013, Città del Messico nel 2015, Cork, in Irlanda, nel 2017, Medellín, in Colombia, nel 2019. 

Conferenze che si sono sempre concluse con Dichiarazioni nelle quali viene ribadito il ruolo centrale dell’apprendimento permanente come motore della sostenibilità ambientale, sociale, culturale ed economica.

Le città che apprendono sono per l’Onu e l’Unesco lo strumento principe per la realizzazione concreta degli obiettivi posti da qui al 2030 dall’Agenda, ora anche oggetto di studio nelle nostre scuole. 

Ma la prima incongruenza nasce dal constatare che nessuno dei nostri governi nazionali, fino ad oggi, ha fornito le condizioni fondamentali e le risorse sufficienti per costruire città che apprendono capaci di promuovere inclusione e crescita. 

L’idea di educazione permanente praticata nel nostro paese è a dir poco obsoleta, modellata com’è su una concezione dell’istruzione ancorata a categorie del secolo scorso.

Non solo oggi è necessario che l’istruzione permanente pervada tutta la vita delle persone, ma anche l’intero impianto del sistema formativo del paese.

Ora è il governo della città a costituire il fattore chiave per sbloccare tutto il potenziale della comunità urbana, attraverso l’importanza dell’apprendimento permanente, per assicurare ambienti di vita sostenibili alle generazioni presenti e future. 

Ma anche qui parliamo il linguaggio della luna. Se le nostre città non provvedono a divenire città che apprendono sarà proprio lo studio dell’Agenda 2030, nell’ambito dell’educazione civica, a far scoppiare le contraddizioni, che già le giovani generazioni con Greta denunciano.

Eppure si potrebbe fare se solo attori pubblici e privati, settori delle città e delle comunità, compresi istituti di istruzione superiore e di formazione, nonché i rappresentanti dei giovani si riunissero in partenariato per promuovere l’apprendimento permanente a livello locale al fine di garantire che tutte le generazioni siano coinvolte nel processo di crescita della città che apprende.

Gli strumenti non mancano, dalla rete Unesco delle città che apprendono alla Dichiarazione di Città del Messico del 2015 che fornisce una lista di controllo completa dei punti di azione per migliorare e misurare il progresso delle città che apprendono. 

La cosa stravagante del nostro paese è che tante sono le nostre città riconosciute come patrimonio dell’Unesco, ma nessuna di loro aderisce alle Rete delle “Learning cities” dell’Unesco, né, tanto meno, è  impegnata a perseguirne gli obiettivi, a partire dalla città in cui vivo secondo l’adagio latino: nemo propheta in patria.

È probabile che dovremo attendere la generazione degli amministratori istruiti alla scuola della nuova Educazione civica, sempre che decolli, ma temo che entro il 2030 non ce la faremo.

La città della conoscenza

 

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L’imperativo dell’apprendimento

La città della conoscenza è questo: è la città della creatività e dell’innovazione, la città dell’apprendimento continuo, dell’apprendimento per tutta la vita, dell’apprendimento nel modo più piacevole possibile.

È un sogno che molti coltivano da tempo, almeno i viaggiatori nei territori formali e informali del sapere. Ma questo nostro sogno ogni giorno si infrange contro l’ottusità delle menti che non sanno pensare, che del presente non sanno mai scorgere il futuro e pensano di procedere con la testa sempre rivolta all’indietro, perché il passato insegna, come se il futuro, solo per essere futuro, non ci sapesse insegnare.

È inevitabile che al dunque si finisca per sbattere contro il muro di una realtà che ci è sfuggita di mano e nella quale non siamo più in grado di riconoscerci e di orientarci, perché le attese dei nostri sogni erano ben altre, ben più lontane da quello che ora ci troviamo innanzi, sotto i nostri occhi.

E risalire la china, recuperare strada e distanze diventa sempre più arduo.

Che parliamo di educazione permanente, life long learning, si perde negli anni del secolo scorso. In vero combinando assai poco, se non una sorta di vecchia istruzione popolare, malamente rivista e corretta, nella totale insipienza che caratterizza l’educazione degli adulti nel nostro paese. Già usare il termine educazione a proposito di adulti dovrebbe far rabbrividire.

Del resto conserviamo con lodevole ostinazione il nostro buon vecchio sistema scolastico, funzionale ad una società fondata sulla divisione del lavoro, di un lavoro che non c’è più, perché da tempo quel mondo si è eclissato.

L’educazione permanente è in realtà episodica, quasi clandestina a volte, non riesce a diventare sistema di vita, andare a regime, dar luogo a una nuova organizzazione sociale, a un diverso modo di vivere, a un sistema formativo esteso.

Al di là delle proclamazioni, ancora viviamo come se ci fosse un’età per lo studio, un’età per il lavoro, un’età per mettere su famiglia. Sappiamo benissimo tutti che non è più così da lungo tempo. Ma i luoghi della nostra vita e del nostro studio continuano ancora ad essere organizzati come se tutto fosse come prima.

Le nostre città ci sono cambiate sotto gli occhi in questi anni e cambieranno ancora nei prossimi. Così come c’è un cambiamento a cui oggi assistiamo e, forse proprio perché noi per primi ne siamo coinvolti, forse perché l’abbiamo quotidianamente intorno e innanzi a noi, forse per questo non lo vediamo.

È l’aspetto mentale del cambiamento. Quello che non si vede. Il modo in cui le persone pensano, interagiscono, collaborano, risolvono problemi, prendono decisioni, gestiscono le informazioni, convivono tra loro.

Alla parola “educazione” che implica adattamento, assuefazione all’esistente, occorre contrapporre “apprendimento”, apprendimento e ancora apprendimento, carico di respiro perché carico di curiosità, perché il concetto di apprendimento comporta dinamicità, un futurismo permanente, l’idea di attrezzarsi compiutamente e in modo sempre rinnovato per affrontare le sfide che ci stanno di fronte.

Non è una questione di competenza delle nostre scuole, delle nostre università, dei nostri insegnanti, dei nostri amministratori. È l’idea che nessuno può più chiamarsi fuori, l’idea che tutti noi dobbiamo farci coinvolgere se vogliamo creare una società in cui sentirci sicuri e appagati.

L’apprendimento è alla radice di ogni futuro e, dunque, di tutto il nostro futuro. Del resto l’apprendimento è uno dei nostri istinti fondamentali; se non fosse così non saremmo in grado di parlare, di camminare, di nutrirci.

Che cosa deve cambiare nell’apprendimento perché apprendere diventi un diritto universale che non può essere barattato e nello stesso tempo un piacere?

E che cosa c’è di tanto importante nella creazione di una cultura dell’apprendimento nelle nostre città e nelle nostre regioni?

Ci sono già parecchie città e regioni, in molte parti del mondo, impegnate in questo viaggio.

Le riflessioni e le suggestioni che propongo non mi appartengono, sono tratte dalla rilettura del libro di Norman Longworth, Città che imparano, che Raffaello Cortina Editore ha pubblicato già da alcuni anni, nel 2007.

L’autore è stato per anni presidente dell’associazione ELLI, acronimo di European Lifelong Learning Initiative.

Il richiamo al viaggio non è a caso, perché il progetto europeo delle città che apprendono, che ha visto la Dublino di Joyce rivestire un ruolo di primo piano, si chiama LILLIPUT.

Il viaggio verso l’apprendimento è un’avventura che ci porta in nuovi mondi e ci spinge verso nuovi lidi. Quelle terre da scoprire sono il punto d’arrivo di percorsi personali che richiedono coraggio, ottimismo e senso dell’avventura. Come Colombo, dobbiamo iniziare il nostro viaggio con un atto di fede; e diversamente da lui dobbiamo preoccuparci di rispettare e onorare le nuove culture e le nuove esperienze che incontreremo lungo la via.

Si sono autodichiarate learning city e learning region città dove le persone più avvedute si rendono conto che ciò non accadrà senza l’appoggio di milioni di cittadini, dell’ambiente economico, degli studiosi, delle scuole, degli ospedali e delle comunità locali.

Tra le linee guida della politica ufficiale dell’Unione Europea sulla dimensione locale e regionale dell’apprendimento continuo si legge:

Le città e le cittadine di un mondo globalizzato non si posso permettere di non diventare città e cittadine che apprendono. Ci sono in gioco la prosperità, la stabilità e lo sviluppo personale di tutti i cittadini”.

Sta di fatto che learning city, learning town, learning region, learning community sono termini ormai divenuti d’uso comune in tutto il mondo sviluppato e in via di sviluppo, soprattutto perché le amministrazioni locali e regionali hanno capito che un futuro più prospero dipende dallo sviluppo del capitale umano e sociale di cui dispongono al loro interno.

E la chiave di questo sviluppo è riducibile a tre parole: apprendimento, apprendimento, apprendimento.

Significa instillare l’abitudine ad imparare nel maggior numero possibile di cittadini e aiutarli a costruire comunità che siano comunità di apprendimento.

Obiettivo questo che dal vertice di Lisbona (UE 2000) avrebbe dovuto appartenere ed essere perseguito da tutti gli Stati membri, ma il nostro Paese è parso impegnato in ben altro, tanto da aver smarrito la strada.

Che cosa significa apprendimento continuo nel contesto della città?

E come fa una città a rendersi conto di essere diventata una “learning city ”?

Come può una città sviluppare una cultura dell’apprendimento o della conoscenza all’interno dei propri confini?

James W. Botkin, autore di Imparare il futuro: apprendimento e istruzione, settimo rapporto al Club di Roma, nel lontano 1979 predicava una società della saggezza. Intendendo sagge quelle società che hanno tolleranza per i valori alternativi e apprezzano l’eterogeneità, le cui culture si sono affrancate dall’arroganza monopolistica di chi crede di avere le risposte e di dover dire agli altri come vivere. Società abitate da un gran numero di persone in grado di accettare più di un punto di vista.

Ma diventare una società della saggezza implica un processo di apprendimento che ci renda più tolleranti, più rispettosi del valore delle opinioni alternative e degli altri modi di vivere, più aperti alla differenza e meno desiderosi di preservare stili di vita che poggiano sul dominare su altre persone.

La risposta dunque sta nell’apertura di un gran numero di menti all’apprendimento.

L’ apprendimento continuo

 Del resto il rapporto tra cittadinanza e apprendimento non è nuovo alla storia e alla cultura dell’Occidente. Già Platone 2500 anni fa aveva definito “la responsabilità che grava su ogni cittadino di educare se stesso e sviluppare appieno il proprio potenziale ”.

Ad Atene e in molte altre città greche, per centinaia di anni, l’apprendimento e il contributo allo sviluppo della società furono attività quotidiane e naturali per tantissimi cittadini.

Una simile rivoluzione culturale ebbe luogo nel mondo islamico mediorientale dell’VIII e del IX secolo, in cui Damasco, Gerusalemme e Alessandria divennero capitali del sapere e dell’apprendimento.

Oggi per noi parlare di città della conoscenza, di learning city significa operare per realizzare il nostro desiderio di vivere in una società, a partire dalla nostra città, più uguale, più democratica, più stimolante.

E mi sembra che l’avvio non possa che muovere dalla nostra intelligenza e capacità di rimettere in discussione, di porre sul tavolo anatomico innanzitutto i modelli educativi fin qui da noi praticati, fondare sistemi formativi sul diritto universale ad apprendere, sul piacere, sul promuovere e certificare il successo anziché sanzionare l’insuccesso, sull’abbattere le barriere dell’apprendimento, sulla soddisfazione dei bisogni e delle istanze di chi apprende, sul celebrare l’apprendimento con festival dedicati all’apprendimento.

Questo vuol dire confrontarsi con l’idea di città della conoscenza.

Dobbiamo sapere che ciò che oggi accade alle nostre bambine, alle nostre ragazze, ai nostri bambini, ai nostri ragazzi nelle nostre scuole è destinato a determinare, a segnare, a condizionare valori e modi dell’apprendimento, i loro atteggiamenti di persone quando giungeranno alla loro età adulta.

Perché è l’approccio positivo e continuativo all’apprendimento che sta alla base di una possibile città della conoscenza, di una città del benessere individuale, della stabilità e della prosperità.

È quindi a partire dalle scuole che si determinano le condizioni per la creazione di una città della conoscenza.

La conoscenza, il sapere, l’istruzione, la curiosità, la meraviglia sono la nostra libertà. Si nasce che è tutto un darsi da fare per assimilare il mondo che ci sta intorno e che ci deve ospitare. E quello è un imparare, un apprendere incessante, spontaneo, naturale. I tempi che non sapevamo di questo ormai ci sono distanti, lontani per durata e per cultura.

La stupenda avventura della crescita come cammino nel mondo è storicamente imbrigliata, mortificata dalle culture e dai costumi sociali, attraverso un’educazione che è ancora un universo di riti di passaggio, obbligatori per essere accolti nell’alveo degli adulti.

L’amore per i nostri piccoli non è ancora così forte da difenderli dai nostri condizionamenti, dalle nostre aspettative, dalle nostre visioni del mondo.

Il Rinascimento è la rinascita della conoscenza, nella conoscenza e attraverso la conoscenza. L’umana avventura è solo nostra, individuale, intersecata alla avventura umana degli altri a noi contemporanei o già vissuti, condotta portando la responsabilità nei confronti degli altri che vengono e che verranno. Il rispetto della libertà dell’individuo, dell’autodeterminazione dovrebbe portare a diffidare della parola educazione che si sostituisca all’istruzione, alla conoscenza, all’esperienza, ai processi di adattamento che ne discendono. Abbiamo un eccesso di cultura di integrazione sociale che distrae dai sentieri dell’apprendimento, dai percorsi che conducono ai saperi, alle conoscenze.

L’infelicità è nella classe, è nel banco, nell’anonima solitudine delle nostre scuole, degli apprendimenti gelidi, dei tradimenti del pensiero, della mente, dell’intelligenza. La noia che precipita le sue nubi sul tempo dei nostri giovani, che ne oscura il sole, che ne anticipa i tramonti.

Il cambiamento è la condizione necessaria ormai inevitabile.

La Commissione dell’Unione Europea da tempo ha coraggiosamente affermato che l’apprendimento continuo non è più solo un aspetto dell’educazione e della formazione: deve diventare il fondamento, il principio guida dell’intero sistema formativo, dell’intero sistema di erogazione e di partecipazione sullo spettro totale dei contesti di apprendimento.

L’enfasi va posta sui diritti dell’individuo come discente e sullo sviluppo del potenziale individuale. In questa prospettiva è evidente che tutta la società deve farsi apprendimento, perché gli individui e la scuola con le solo loro forze non sarebbero in grado di risolvere tutti i problemi dell’apprendimento.

Nonostante i fiumi di inchiostro che sono stati versati per propugnare la causa dell’apprendimento continuo, siamo ancora lontani dall’aver compreso e assimilato la sostanza e il significato dell’apprendimento così come si estrinseca attualmente.

Il messaggio che “continuativo” significa “per tutta la vita”, l’intera vita dall’alfa all’omega, e che l’apprendimento è un processo attivo focalizzato sulla persona e aperto a tutti, non è ancora arrivato alla coscienza delle persone, dei politici, degli amministratori, alla maggior parte degli insegnanti.

In questa dimensione l’apprendimento è condivisione, è cura, è evento quotidiano gestito dalle persone, anziché processo collettivo che avviene in una istituzione scolastica.

Ciò in tanto comporterebbe adottare procedure e processi più bottom-up, più basati sui reali bisogni e sulle effettive istanze dei discenti, con un ribaltamento del rapporto di potere e della titolarità dell’apprendimento dal docente verso il discente.

Secondo il programma della Commissione dell’Unione Europea una learning city va al di là del proprio compito istituzionale di fornire istruzione e formazione […], crea un ambiente partecipativo, culturalmente consapevole ed economicamente vivace attraverso la fornitura e la promozione attiva di opportunità di apprendimento in grado di sviluppare il potenziale di tutti i suoi abitanti.

Riconosce e comprende il ruolo fondamentale dell’apprendimento per la prosperità, la stabilità sociale e la realizzazione personale, mobilita creativamente e sensibilmente tutte le risorse umane, fisiche e finanziarie per sviluppare appieno il potenziale umano di tutti i suoi abitanti.

La città della conoscenza enfatizza l’importanza della partnership tra istituzioni e organizzazioni.

Le partnership locali per l’apprendimento continuo sono composte da rappresentanti di scuole, università, imprese, enti locali e regionali, centri di formazione per gli adulti e associazioni di volontariato.

La città della conoscenza incoraggia lo spirito di cittadinanza e il volontariato, i progetti che permettono di attivare l’impegno, il talento, l’esperienza, le conoscenze presenti nelle comunità.

La città della conoscenza estende il numero dei luoghi in cui avviene l’apprendimento, in modo che i cittadini possano riceverlo dovunque, quando e come vogliono: nei centri di formazione istituiti all’interno di centri commerciali, nei learning shops, negli stadi, in tutte le strade, nelle sale parrocchiali, nei centri sociali, e forse addirittura nei ristoranti, negli ambulatori, e in altri luoghi di riunione.

L’apprendimento è considerato creativo, appagante e piacevole.

L’apprendimento è un’attività rivolta all’esterno, in grado di aprire la mente e promuove tolleranza, rispetto e comprensione per le altre culture, le altre religioni, le altre razze e le altre tradizioni.

Tutti accettano una certa responsabilità per l’apprendimento degli altri.

Uomini, donne, disabili e minoranze hanno pari accesso alle opportunità di apprendimento

L’apprendimento viene frequentemente celebrato a livello individuale, nelle famiglie, nella comunità e nella società in generale.

Ogni aspetto della comunità fa parte integrante del programma di apprendimento.

Le biblioteche, i musei, i parchi, le palestre, i negozi, le banche, le aziende, gli uffici municipali, le fattorie, le fabbriche, le strade e l’ambiente forniscono opportunità di apprendimento, strutture e servizi per autodidatti.

Nello stesso tempo, l’apprendimento diventa un servizio alla comunità perché i futuri cittadini vengono coinvolti nella comunità locale. L’educazione concerne l’apprendimento, e non la ricezione passiva dell’insegnamento.

Un apprendimento che procede dal basso e non promana dall’alto, quasi per concessione o calcolo politico. Un apprendimento il cui focus è contenuto nel concetto di realizzazione del potenziale umano di tutti, dello sviluppo del capitale umano come risorsa per la crescita del capitale sociale.

 

Cittadini del sapere: cittadini di un nuovo Umanesimo

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Un cantiere per il futuro

Dalla Legge Casati sulla scuola in poi si è legiferato certo non concependo l’idea  di una cittadinanza del sapere e nel sapere, bensì nella considerazione che gli alunni hanno ad essere dei sudditi del sapere. E così noi siamo sempre stati  e tali continuiamo a trattare le nostre ragazze e i nostri ragazzi nelle nostre scuole: sudditi del sapere, coltivando più la soggezione delle loro menti e dei loro comportamenti nei confronti del sapere che non la familiarità, la naturalezza che deriva dall’abitudine  a percorrere le strade della conoscenza.

Suddito è esattamente l’opposto del termine cittadino, è colui che dipende dalla sovranità di uno Stato di cui non è membro, le nostre alunne e i nostri alunni dipendono da una comunità di saperi di cui non sono, non si sentono e non li facciamo sentire membri, per questo sono e continuano ad essere sudditi.

Ma quella società che rendeva sudditi gli studenti e le famiglie promettendo loro mobilità sociale, riuscita nella vita, un posto di lavoro non c’è più e non tornerà mai più, è morta, definitivamente defunta.

In questo pianeta, che Morin ha definito come una nave spaziale che viaggia grazie alla propulsione di quattro motori scatenati: scienza, tecnica, industria, profitto e dove nello stesso tempo la minaccia nucleare e la minaccia ecologica impongono alla umanità una comunità di destino[1], non c’è possibile futuro che valga la pena costruire se non riscoprendo la centralità dell’individuo, la centralità dell’intelligenza, la centralità del pensare oggi  per il futuro.

Dobbiamo chiamare all’appello tutte le nostre forze e la nostra creatività, e come già avvenne per il Rinascimento tornare a collocare al centro della nostra civiltà la donna e l’uomo, ogni singola donna e ogni singolo uomo, è inevitabile perché solo questa è l’unica risorsa che ci resta per poter tentare di scommettere sul futuro.

Replicare una rivoluzione scientifica che ci porti a superare il dogmatismo del sapere scolastico così come fino ad oggi l’abbiamo concepito e praticato, restituendo centralità alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi in quanto risorse e non più sudditi nelle nostre classi, in quanto innanzitutto  intelligenze da attivare, modi di pensare da coltivare,  da condurre fuori dal  torpore delle nostre aule e della nostra cultura di massa. È tempo che anche  la cosiddetta “cultura di massa”  tramonti per consentire di compiere un passo  oltre, è giunto il momento di praticare la “cittadinanza del sapere” che è ben altra cosa, assai diversa dall’evento, dal grande evento che richiama file di utenti, utenti perché non cittadini del sapere, ai botteghini delle grandi mostre.

In questo senso il cantiere scuola deve essere cantiere per un nuovo umanesimo, in grado di rimettere con forza al centro: il pensiero, la mente, la psicologia della conoscenza, il come pensiamo e conosciamo del buon vecchio e mai tramontato John Dewey.

Diversamente rischiamo che solo per la scuola e per i nostri giovani lo Stato continui ad essere uno Stato Mistagogo e Leviatano che non è in grado di offrire loro speranze, la speranza del domani, che mortifica ogni possibilità di coltivare i sogni sul futuro, perché pervicace nel pretendere da loro che apprendano il passato senza mai condurli ad imparare il futuro, il futuro di cui hanno bisogno come l’aria che respirano, perché quello, perché il futuro sarà la loro sicura dimensione di vita.

Da suddito a cittadino del sapere

Ma quando parliamo di “sapere” cosa intendiamo? Il “sapere” in quanto sostantivo  o  “sapere” in quanto verbo. Il patrimonio di conoscenze accumulato o il sapere agito che  mai ha termine?

Da suddito del sapere a cittadino del sapere, al sapere agito per dare sapore alla nostra esistenza di cittadini, considerato che i due termini hanno una comune radice latina. La distanza tra suddito e cittadino del sapere è enorme. Il suddito è  formato, il suddito è educato, il suddito deve conformarsi e convergere.

Il cittadino, al contrario, deve partecipare attivamente del sapere e dunque apprendere, non può e non deve conformarsi, è obbligato a divergere perché diversamente non si formulerebbero le ipotesi di cui la scienza necessita per nutrirsi e finirebbe per perire,  negherebbe il fine stesso della sua cittadinanza che è l’ apprendimento continuo e rinnovato.

E allora in questo gioco di parole e di rovesciamenti, viene a ribaltarsi un altro luogo comune, quello che dice: la scuola deve aprirsi all’ambiente.

Ma se  si è cittadini del sapere è evidente che non è più così, perché è innanzi tutto l’ambiente a doversi aprire alla scuola, a coniugarsi con la scuola, anzi è l’ambiente stesso che sempre più si costruisce come scuola, come aula di apprendimento, come abbiamo detto tante volte. Ma qui voglio dire qualcosa di più.

Non è sufficiente che sia la scuola ad essere ambiente di apprendimento, perché se non è ambiente di apprendimento prima di tutto la società in cui viviamo quotidianamente, anche la scuola stessa fatica a qualificarsi come ambiente di apprendimento.

Dentro  e fuori del sistema scolastico non più i tradizionali processi del sapere top down, dalle accademie e dalle cattedre ma sempre più processi aperti, processi bottom up che collochino ogni singolo individuo mai più come suddito, mai più come  destinatario di piani di studio personalizzati, ma come  protagonista primo nel vivere  la sua cittadinanza piena e consapevole nella comunità del sapere.

Dobbiamo decisamente passare dalla società dell’ informazione indifferenziata, dalla società della cultura di massa, alla società del sapere diffuso, del sapere distribuito della in-formazione continua.

E come allora la scuola oggi può concorrere a tutto ciò?

Una scuola che, di fronte ai cambiamenti epocali, di fronte ai processi di globalizzazione che ci rendono tutti cittadini del pianeta, non è più luogo e non può più oggettivamente essere il luogo che mantiene le promesse del passato dove le nuove generazioni si preparano al mondo del lavoro o ad affrontare  i problemi pratici di tutti i giorni.

Allora credo che la scuola si debba e si possa qualificare come  quel luogo dove viene svolto un particolare tipo di lavoro, un lavoro intellettuale (intellegere = comprendere): l’addestramento e l’esercizio della riflessione e del ragionamento con l’ausilio degli attrezzi del mestiere che sono le discipline in quanto grandi narrazioni del sapere e dei saperi.

Un lavoro che non coinvolge la massa indistinta della classe, ma che deve avere come obiettivo prioritario e qualificante la capacità di  coinvolgere la mente di ogni singola alunna e ogni singolo alunno in quanto individuo, in quanto unico e irripetibile, renderlo protagonista di un percorso formativo il cui esito è il prodotto certamente dell’apporto di  ognuno, ma alla fine è molto di più della semplice somma delle singole parti che ognuno ha composto nel momento del proprio personale coinvolgimento.

La scuola deve divenire quel luogo in cui si apprende a praticare l’arte, la virtù e la competenza della “distanza” , del “distacco”, dello sguardo “altro”, dello sguardo “critico”, dello sguardo cioè che sa distinguere, che vede da lontano per andare lontano.

Il mondo quotidiano in cui siamo coinvolti, il mondo di fuori, nei luoghi della scuola  si fa contenuto, oggetto privilegiato di riflessione e di ragionamento,  perché è solo così, solo attraverso queste condotte cognitive  è ammesso procedere nei territori della conoscenza e del sapere.

Usare le discipline non in quanto materie di studio fini a se stesse, ma come gli strumenti indispensabili a costruire le competenze, perché le discipline nella storia dell’uomo sono progredite e cresciute nutrendosi di competenze,  cioè della capacità di porre domande, di interrogare in modo nuovo il loro territorio per poter accrescere il loro patrimonio di saperi, di interrogare la città del sapere, per muoversi e addentrasi nei suoi quartieri.

E quindi temo che se ci  limitassimo ai soli obiettivi dell’apprendimento, continueremmo inevitabilmente a restare sudditi del sapere. Solo la competenza, sono convinto, può vincere questa sudditanza, sudditanza che si sconfigge  nel momento in cui esercito e pratico il sapere, manipolandolo, reinventandolo, applicandolo nei laboratori intesi come saperi operosi, come operosità del sapere. Laboratori intesi nel significato etimologico di labor – laboris, cioè di “fatica”. L’apprendimento in quanto tale non è più sufficiente, perché si ferma sulla soglia delle competenze senza mai attraversarla, perché ancora oggi la scuola non conduce  all’ impiego delle conoscenze via via acquisite, così che difficilmente si traducono in saperi la cui padronanza è necessaria per poter esercitare pienamente il proprio diritto di cittadinanza.

La scuola che pratica lo spezzatino del sapere, che disgiunge le conoscenze che dovrebbero essere invece interconnesse, è una scuola che forma menti unidimensionali, è una scuola riduzionista, è una scuola che privilegia una sola dimensione dei problemi umani e che occulta tutte le altre, è la scuola del pensiero pigro, è la scuola del pensiero lento, è la scuola del pensiero asfittico.

Ecco oggi, nell’era planetaria, si può essere cittadini del sapere, si può essere cittadini di un nuovo umanesimo solo se la scuola diventa la sede privilegiata di un nuovo modo di conoscere, di un nuovo modo di pensare, di un nuovo modo di insegnare.

Oltre la Scuola di massa

Si possono scrivere pagine di curricolo, si può combattere il frazionamento del sapere accorpando le discipline per aree, ma se non cambia la mappa mentale della docenza, se l’insegnamento di ieri e dell’altro ieri vale ancora per l’oggi, se non si riforma alla radice l’insegnamento si scriveranno sempre inutilmente pagine e pagine di Indicazioni che agli occhi degli insegnanti sembreranno sempre già viste, sempre già state, sempre indifferentemente tutte uguali. Non perché sia oggettivamente così, ma perché gli occhiali che indossano gli insegnanti sono da troppo tempo sempre gli stessi, per cui il mondo può cambiare, ma la loro percezione resta sempre quella di tutti i giorni, è quella di ieri e continuerà ad essere sempre quella anche domani.

E del resto come può essere diversamente, come può oggi un insegnante che mai lontanamente a scuola, all’università, ecc.  è stato educato ad essere o per lo meno a sentirsi, o aspirare a divenire cittadino del sapere, istruire, educare e formare le sue allieve e i suoi allievi a praticare la cittadinanza del e nel sapere?

Voglio riprendere quanto Edgar Morin scriveva ormai diversi anni fa nel prologo  al suo La testa ben fatta, che del resto porta come sottotitolo, non a caso, Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero. Come dire che non c’è crescita delle intelligenze se non c’è un radicale cambiamento della didattica.

Scrive Morin nel suo prologo: “ […] Sempre più convinto della necessità della riforma del pensiero, quindi di una riforma dell’insegnamento, approfittavo di diverse occasioni per riflettervi. Avevo pronunciato, su suggerimento dell’allora ministro dell’Educazione Jack Lang, “qualche nota per un Emilio contemporaneo”. Avevo pensato a un “manuale per insegnanti e cittadini”, progetto che non ho abbandonato”

Non abbandoniamolo neppure noi questo progetto, facciamolo nostro, investiamo in esso le nostre intelligenze, la nostra passione.

Per imparare, dunque, ad apprendere in forme adeguate alla nostra dimensione planetaria a cui tutto e tutti ogni giorno ci richiamano, dobbiamo convincerci che sono ormai inevitabili e ineludibili  tre riforme: quella del conoscere, quella del pensiero, quella dell’insegnamento.

Noi però, che portiamo la responsabilità sociale di lavorare nella scuola, dobbiamo  sapere molto bene che il luogo per eccellenza deputato a praticare e sperimentare quotidianamente questi intrecci tra pensiero, conoscenza e insegnamento è la scuola e, se chiamati, di questo abbiamo il dovere di rispondere.

Perché è nella scuola che insegnanti e alunni insieme devono imparare a praticare, a esercitare quotidianamente la ragione, la riflessione, l’interconnessione dei saperi, anche di quelli apparentemente più distanti tra loro, la capacità di risolvere problemi, perché è a tutto ciò  che i processi  della società della conoscenza, della società dell’incertezza attribuiscono oggi valore e priorità.

La scuola, dunque,  nella sua migliore espressione, è e deve essere questo luogo.

La richiesta di nuovi saperi, l’affermarsi di un nuovo pensiero sull’essere cittadini di questa contemporaneità sono, dunque, impellenti.

La scuola degli apprendimenti, la scuola delle competenze, del cum-petere, del saper porre  domande, del saper interrogare e interrogarsi circa la realtà, è evidente che non può più essere sempre la vecchia scuola fatta e rifatta dal primo politico di turno che si ritrova al governo del Paese.

Il tema del lifelong learning, dell’apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita, come ugualmente il tema della società della conoscenza, della comunità dell’apprendimento diffuso, il tema della learning city, delle “città che imparano” costituiscono insieme, non solo un nuovo fronte di intervento per la formazione, ma un momento decisivo per ripensare i modi, i tempi e i luoghi dell’ apprendimento.[2]

La sinergia curricolare tra scuola, extrascuola e postscuola richiede scelte politiche in grado di indurre e di  impegnare gli amministratori locali a non curare solo la cultura dei grandi eventi ma di farsi carico con sistematicità di dare qualità formativa ai propri contesti urbani, di restituire alla cittadinanza del sapere i territori rinnovati dei musei, delle pinacoteche, delle biblioteche, delle  emeroteche, delle discoteche, delle ludoteche, dei teatri, dei cinema, delle piazze, dei monumenti e potrei continuare ancora e ancora…perché è solo così che concretamente si diventa cittadini del sapere, non come dovere, ma come diritto da esercitare naturalmente e quotidianamente nella propria crescita, sia quella di oggi che quella di domani, un diritto di portata universale e inalienabile.

Nei fatti, noi sappiamo bene che  la centralità dell’individuo e la cittadinanza del sapere si praticano nel momento in cui il sistema formale dei saperi (la scuola) e il sistema non-formale (il territorio) si coniugano, concorrono cioè a disegnare il curricolo condiviso dalla scuola e dalle agenzie extrascolastiche intenzionalmente educative.

Una scuola dell’autonomia che gestisse la prerogativa dell’autonomia per finire con il coltivare il suo isolamento e i suoi distinguo, nella realtà sarebbe la scuola dei tradimenti, una scuola che tradisce lo spirito del legislatore, perché da soli non ci sono autonomie da esercitare. L’autonomia si esercita se accanto ci sono gli altri, se accanto a noi camminano anche gli altri,  nella misura in cui si opera per un obiettivo comune con altri soggetti diversi da noi sia per istituzione che  per compiti.

Del resto la complessità e la varietà della domanda formativa che oggi esprime il territorio richiede inevitabilmente che si realizzi una sinergia delle istituzioni e tra le istituzioni, nell’ottica del life wide learning.

Vorrei concludere che non si può essere cittadini  del sapere, cittadini di un nuovo umanesimo se la scuola nella società della conoscenza non si fa carico del compito che le compete al di sopra di ogni altro. Quello cioè di essere in prima fila nel condurre la battaglia per la democrazia del sapere e  per  saperi democratici.

Scuola di massa, abbiamo detto, è ormai un concetto obsoleto e ampiamente tramontato.

Oggi la vera sfida rispetto alla quale la stessa scuola rischia di essere tagliata fuori, di decretare la propria irrilevanza e inutilità, è proprio quella che si gioca sul campo della democratizzazione dei saperi, sia nella loro formazione che nella loro fruizione.

E chi deve garantire ciò ai cittadini se non le nostre scuole e le nostre università? Occorre cioè garantire proprio attraverso la scuola e  proprio attraverso il disegno di una società che  sia, non educante, ma diffusamente educativa,  che i linguaggi della società della conoscenza,  quelli orali e scritti,  quelli gestuali e  mediatici, elettronici, etici e bioetici, ecc siano alla portata di tutti e di ognuno.

Ecco perché la scuola di oggi deve tornare a compiere una rivoluzione copernicana, ricollocando al centro della sua scena non più l’alunno attivo del puerocentrismo, ma l’alunno intelligente, che torna a pensare, conoscere, e comprendere.

Di fronte all’incertezza delle nuove sfide a cui impegna la cittadinanza planetaria, mi sembrano queste le armi della certezza con cui attrezzare le nostre ragazze ei nostri ragazzi di oggi, perché domani possano praticare non la cittadinanza di tanti stati nazione tra loro divisi, ma la cittadinanza di un unico intero stato pianeta.

*Intervento alla giornata di studio “Cantiere scuola” organizzata a Ferrara dal CIDI il 7 marzo 2008,

allora presentato con il titolo Cittadini del sapere: cittadini di un nuovo Umanesimo.


[1] G. Bocchi, M. Ceruti, Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004, pp.VII-VIII

[2] N. Longworth, Città che imparano, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, VII-VIII