Due domande pesanti ancora senza risposta

Negli ultimi tre anni tre ministri si sono succeduti alla guida di viale Trastevere: Azzolina, Bianchi, Valditara, ognuno di loro ha reso pubblici i propri intenti attraverso lo strumento dell’ atto di  indirizzo politico-istituzionale.

La ministra Azzolina punta sugli studenti posti, dichiara, al centro dell’azione del ministero dell’istruzione. Rivendica un “notevole incremento” delle risorse pubbliche nazionali destinate all’istruzione, anche se in tre anni la percentuale per l’istruzione sul PIL è passata dal 3,9% del 2020 al 4% del 2023, sempre al di sotto del 5% della media europea.

Promette una “scuola innovativa, aperta, coesa, solidale, ma soprattutto inclusiva, che garantisca il diritto reale di ciascun studente a ricevere un’istruzione “coerente” con le proprie esigenze e inclinazioni, oltre che con le differenti articolazioni dei bisogni da soddisfare e delle aspettative della società nel suo complesso”.

Inutile, ormai, chiedersi cosa la ministra intendesse per “bisogni da soddisfare” e “aspettative della società”.

Un quesito però sorge spontaneo: e se le “proprie esigenze e inclinazioni” non sono coerenti con le “aspettative della società” cosa succede?

Bianchi è un economista della scuola di Prodi e tende a coniugare l’istruzione con l’economia.

Investire sulla formazione, esordisce, è fondamentale per promuovere “una ripresa intelligente, sostenibile e realmente inclusiva”. Istruzione di qualità certo “coerente con le proprie inclinazioni e aspirazioni ma in linea con le nuove competenze richieste dal mercato del lavoro”.

Rivendica un “significativo aumento” delle risorse nazionali stanziate per l’arricchimento e l’ampliamento dell’offerta formativa.

Anche per il ministro Bianchi vale quanto abbiamo già osservato più sopra a proposito del rapporto spesa pubblica per l’istruzione e PIL nazionale. C’è da notare che nel 2021 il bilancio di previsione del ministero ammonta a 51 miliardi e 70 milioni, nel 2022 a 51 miliardi e 369 milioni.

Bianchi promette la costruzione di “un nuovo modello di Scuola”.

Poi venne Valditara che a spiegare il suo nuovo modello di scuola ha provveduto immediatamente: “promozione del merito”, “supporto alla realizzazione di esperienze formative finalizzate alla valorizzazione del merito”.

Promette di restituire “dignità alla scuola, autorevolezza ai docenti e all’intera comunità professionale”.

Merito, dignità, autorevolezza, tre sostantivi che insistono su una comune area semantica. Il merito eleva a dignità, la dignità all’autorevolezza. Dignità e autorevolezza vanno meritate e, dunque, non si possono imporre per legge. 

A meno che non si ritenga che ogni singolo in quanto tale, a prescindere dal sesso, dalla razza, dalla lingua, dalla religione, dalle opinioni politiche, dalle condizioni personali e sociali, abbia pari dignità e, dunque, autorevolezza, come suggerisce l’articolo tre della nostra Costituzione e allora il merito, la dignità e l’autorevolezza del ministro Valditara finiscono per essere nient’altro che l’esercizio verboso di una tautologia retorica.

Il merito, la dignità, l’autorevolezza di uno studente e di un insegnante, di un genitore o di un ministro hanno identico peso e valore, ciò che cambia sono il ruolo e la funzione, ed è solo venendo meno al proprio ruolo e alla propria funzione che si perde di merito, di dignità e di autorevolezza. Pertanto non è necessario stendere il decalogo delle virtù morali, ma interrogarsi sulle ragioni delle proprie condotte e sulle ragioni delle condotte altrui.

Merito, dignità e autorevolezza sono gli a priori di ogni relazione umana e sociale, in modo particolare a scuola dove si dovrebbe imparare a irrobustirli a partire dalla testimonianza che gli adulti sono in grado di dare di se stessi.

Tre ministri, tre stili, tre prospettive differenti. Ma la macchina dell’istruzione è sempre la stessa e non cambia regime solo perché sale un altro autista, anche i percorsi sono già preordinati.

Tanto che, se li andate a leggere, i punti su cui si articolano le direttive dei tre ministri sono pressoché gli stessi: dal diritto allo studio all’edilizia scolastica, dall’offerta formativa alla digitalizzazione, dalla valorizzazione del personale all’autonomia, dalla trasparenza amministrativa al piano nazionale di ripresa e resilienza.

Ma, potrà parere paradossale, al di là delle parole sprecate, continuano a mancare i protagonisti principali: gli Studenti e la Scuola. 

Era già il difetto d’origine, qualche anno fa, della “Buona scuola”, perché la politica dell’istruzione in Italia continua a procedere per aggiustamenti, che non aggiustano mai nulla, con l’esito di accrescere i problemi,  accumulando i nuovi ai vecchi.

Cosa significa essere Studente oggi? Cosa significa essere Scuola oggi? Nel ventunesimo secolo sono le domande pesanti che ancora attendono una risposta, solo da qui è possibile ripartire a ragionare di istruzione, studio e formazione. Se non si ricomincia da qui non si va da nessuna parte e si assiste all’inesorabile logorarsi del nostro sistema formativo.

Le risposte non sono venute né dalla promessa “centralità” dello studente della ministra Azzolina né dal promesso “nuovo modello” di scuola del ministro Bianchi.

Finisce che arriva Valditara con la sua cultura, la cultura della scuola di ieri che pensa di ripristinare attraverso la propria ricetta di mal digerito merito, dignità e autorevolezza. 

Il risultato è inevitabile, sta già scritto: allontanarci sempre più dal porre in cima all’azione del dicastero dell’istruzione gli interrogativi che pongono alla nostra coscienza oggi l’essere Studenti e l’essere Scuola.

Per il resto la macchina continuerà a viaggiare, a prescindere dal suo autista, fino all’esaurimento per usura del tempo.

Dove, quando e come l’istruzione

Ciò che preoccupa è il ritardo culturale del nostro paese sui temi dell’istruzione. L’angustia di pensiero e l’incapacità di interrogarsi, se il sistema formativo che ci ostiniamo a puntellare da tutte le parti, non sia immutabile con il mutare dei tempi. 

Il nostro mondo è a un punto di svolta. Sappiamo già che la conoscenza e l’apprendimento sono la base per il rinnovamento e la trasformazione, ma l’istruzione non sta rispondendo alla sua funzione di aiutarci a plasmare un futuro pacifico, giusto e sostenibile.

Uno dei nostri compiti principali dovrebbe essere quello di ampliare la nostra capacità di pensiero su dove, quando e come si svolge l’istruzione. 

Non è un’idea nuova e neppure astratta, fu sollevata cinquant’anni anni fa dalla Commissione Faure che apriva alla visione della Cité éducatif, oggi learning city, nel tentativo di ripensare i sistemi educativi. 

La “città” è la metafora di uno spazio che racchiude tutte le possibilità e le potenzialità per l’apprendimento diffuso ad ogni età, soprattutto perché qui le opportunità sono tra loro interconnesse. È l’idea della necessità di pensare in modo olistico alla ricchezza e alla diversità degli spazi, alle iniziative sociali che supportano l’istruzione,  a chi ne è coinvolto.

Andare oltre, in questo secolo, i modelli consolidati che ancora oggi concepiscono generalmente l’istruzione in un arco temporale che inizia a cinque o sei anni e raggiunge il suo punto finale circa un decennio dopo. Rompere la resistenza del formato scolastico, eredità dell’Ottocento, per promuovere processi e strutture di istruzione differenti. Fondamentali per il futuro planetario dell’istruzione come l’educazione permanente e la società dell’apprendimento. Da tempo avrebbero dovuto divenire le chiavi di volta da un lato delle politiche dell’istruzione, dall’altro del coinvolgimento delle nostre società come partecipanti e attori dell’istruzione stessa.

Un’idea di apprendimento come funzione sociale che rispetto al passato assume una nuova rilevanza nel mondo globalizzato delle economie della conoscenza e delle società dell’informazione, che richiederebbe la creazione o la reinvenzione di meccanismi istituzionali distinti ma complementari alle istituzioni educative formali tradizionali.

Nel rapporto Faure c’è scritto che: «Se l’apprendimento coinvolge tutta la vita, intesa sia come arco di tempo che come diversità, e tutta la società, comprese le sue risorse sociali ed economiche oltre che educative, allora dobbiamo andare ancora oltre la necessaria revisione dei “sistemi educativi” fino a raggiungere lo stadio di una società dell’apprendimento» (Faure et al., 1972, xxxiii).

Dagli anni ’70 del secolo scorso avrebbe dovuto essere acquisito dai governi e da quanti si sono succeduti alla guida del dicastero dell’istruzione che istruirsi è un processo continuo, che coinvolge necessariamente una grande varietà di metodi e di fonti, caratterizzato da una triplice tipologia: formale, non formale e informale.

La necessità ora è dare visibilità alle diverse attività educative come componenti potenziali di un sistema complessivo di apprendimento, coerente e flessibile, che deve essere costantemente rafforzato, diversificato e maggiormente legato alle esigenze e ai processi di sviluppo nazionale. E, quindi, le nazioni dovrebbero sforzarsi di costruire “sistemi di apprendimento permanente”, offrendo a ogni individuo diverse opportunità di apprendimento nel corso della sua vita (Coombs e Ahmed, 1974, 9).

Il concetto di apprendimento lungo tutto l’arco della vita doveva essere la chiave di accesso al ventunesimo secolo, ma deve essersi smarrito per strada.

Con ogni evidenza il persistere di un’ottusità scolastica ancora impedisce a tutto il paese di andare oltre la tradizionale distinzione tra formazione iniziale e continua per aprire il varco di passaggio alla società dell’apprendimento in cui tutto offre un’opportunità di apprendimento e di realizzazione del proprio potenziale . (Delors et al., 1996, 38)

“La Città siamo noi e noi siamo la Città”,  scriveva Paulo Freire in Politica e istruzione, “La Città diventa educativa attraverso la necessità di educare, imparare, insegnare, conoscere, creare, sognare e immaginare che tutti noi – uomini e donne – che ne occupiamo i campi, le montagne, le valli, i fiumi, le strade, le piazze, le fontane, le case, i palazzi, lasciamo su ogni cosa l’impronta di un certo tempo e di uno stile, il gusto di una certa epoca.. .”

Ma certo se la nostra cultura della scuola resta arenata alle sole istituzioni formali non potrà mai comprendere le ricche possibilità di istruzione, sapere e conoscenza che si possono acquisire all’interno e attraverso la società nel suo insieme.

Lavoro, assistenza, tempo libero, attività artistiche, pratiche culturali, sport, vita civica e comunitaria, azione sociale, infrastrutture, impegno digitale e mediatico: sono tutte opportunità di apprendimento potenzialmente istruttive, pedagogiche e significative per il nostro futuro, tra innumerevoli altre. Un nuovo contratto sociale per l’istruzione deve contemplare la necessità e il valore di opportunità dinamiche di apprendimento in tutti i tempi e in tutti gli spazi.

Ciò non significa che trasformiamo le nostre comunità, le nostre città in un’immensa aula. Dobbiamo innanzitutto compiere un cambiamento profondo nel nostro modo di pensare, passare dalla diffidenza, dal sospetto e dalla condanna a realizzare e capire che le società di oggi hanno innumerevoli opportunità istruttive, attraverso la cultura, il lavoro,  la scienza del lavoro e la cultura del lavoro, i social media e il digitale, che devono essere valutate nei loro termini e costruite come importanti opportunità di apprendimento. 

La novità di questo secolo in campo educativo dovrebbe consistere proprio in questo, nel comprendere la centralità dell’istruzione come sempre più intrecciata con la vita, tanto che le scuole non sono più per l’istruzione lo spazio-tempo unico, ma è necessario estendere la nostra visione a tutti gli spazi e  tempi della vita.

Sessant’anni e li porta male

La scuola media unica ha sessant’anni, la legge istitutiva li ha compiuti il 31 dicembre scorso. Anche la sua gestazione è stata lunga, circa altri sessant’anni prima di vedere la luce. Nel 1905 la Reale Commissione, istituita per volontà dell’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi, si era pronunciata a favore della scuola media unica, ma l’opposizione si manifestò subito soprattutto da parte liberale e socialista, tanto che si opposero Salvemini e Galletti, Croce, Gentile e Codignola. Poi come è andata la storia è ormai cosa nota.

Del resto nel dicembre del 1962 a votare contro la legge numero 1859  non furono solo missini e monarchici, ma anche i comunisti, sebbene con motivazioni differenti.

Ma di scuole di “mezzo” non ne abbiamo più, né inferiori né superiori. L’istruzione è ora organizzata per cicli: primo e secondo. Poi le scuole sono primarie e secondarie.

L’articolo 1 della legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 affidava alla scuola media unica il compito di concorrere “a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi della Costituzione” e a favorire “l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”.

Cinquant’anni dopo, nel 2012, le Indicazioni nazionali per il curricolo del Primo Ciclo, a proposito di finalità da affidare alla scuola, puntano direttamente allo scopo: “La finalità è l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità fondamentali per sviluppare le competenze culturali di base”. 

“Conoscenze”, “abilità”, “competenze”, un trinomio e una consequenzialità inedita. 

Nuova rispetto anche ai programmi per la scuola media, quelli che furono scritti nel 1979, dopo importanti provvedimenti come la legge n. 517 del 1977, che aboliva i voti e dava avvio all’integrazione scolastica nella scuola di tutti, dopo i Decreti delegati del 1974, che  hanno aperto la strada alla partecipazione democratica nella scuola.

Conoscenza, abilità, competenza disegnano un itinerario di apprendimento molto preciso, ben definito nei suoi contorni: la conoscenza deve trasformarsi in abilità e una volta divenuti abili allora è  possibile mettere alla prova la propria competenza.

Una visione dell’apprendimento assai avanzata rispetto alla genericità dell’articolo 1 della legge istitutiva della scuola media unica ed alla fumosità dei programmi del 1979: “la scuola media risponde al principio democratico di elevare il livello di educazione e di istruzione personale di ciascun cittadino e generale di tutto il popolo italiano”.

Ma se siamo arrivati alla scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 lo dobbiamo alla strada che è stato possibile percorrere partendo da quella data di sessant’anni fa: il 31 dicembre del 1962.

Da allora sono accadute tantissime cose, che prima non c’erano, che hanno contribuito a mutare la cultura italiana sulla scuola, anche se questa cultura in gran parte nuova non è stata recepita da tutti. 

Alcuni, sia all’interno che all’esterno dell’istituzione, l’hanno subita, altri non l’hanno compresa e hanno continuato a pensare e ad agire come se non fossero intervenute importanti novità sul versante dell’istruzione del paese. 

C’è chi, invece, ha continuato a lavorare ostinatamente, non sempre con successo, perché non venisse meno la spinta al rinnovamento della nostra scuola, indispensabile per evitare di fallire il compito assegnatole dalla Costituzione, quello che sta scritto soprattutto nell’articolo 3 dei suoi principi fondamentali.

Il paesaggio scolastico italiano si è arricchito di quanto in quell’inverno del ’62 forse era inimmaginabile: gli asili nido, le scuole dell’infanzia, una nuova scuola primaria, le scuole a tempo pieno, gli istituti comprensivi, una scuola inclusiva. Nuovi compiti hanno qualificato il profilo degli insegnati dalla programmazione curricolare, all’individualizzazione dell’insegnamento, le verifiche e la valutazione, l’interdisciplinarità, la ricerca d’ambiente, le osservazioni sistematiche, il master learning.

Compiti nuovi di una professionalità docente ripensata, non sempre vissuta con la disponibilità giusta da tutti gli insegnanti. Compiti spesso subiti come pratiche burocratiche da evadere per mancanza di preparazione sia dei singoli che della struttura, più spesso per il mancato sostegno da parte di chi è stato chiamato a dirigere il dicastero dell’istruzione e per la inadeguatezza della politica.

Il rischio reale oggi è che la strada percorsa fin qui finisca in un vicolo cieco. Perché la scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 è molto più impegnativa di quella prospettata dalla scuola media unica, che pure resta la pietra miliare di una grande conquista democratica. Rappresenta i passi avanti che, anche per effetto di quella riforma, ha compiuto il pensiero della scuola in questo paese.

Un pensiero che impegna la scuola a far acquisire “le competenze indispensabili per continuare ad apprendere lungo l’intero arco della vita” con “particolare attenzione ai processi di apprendimento di tutti gli alunni e di ciascuno di essi”. Tutti e ciascuno, proprio ogni singolo, preso uno per uno.

Qui sta il nodo vero: competenze indispensabili all’istruzione permanente e forte individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento. Più che individualizzazione sarei tentato di usare l’espressione “singolarizzazione”. Tutto nella prospettiva di accrescere in ciascuno l’individuale autonomia di studio. 

O questi nodi si affrontano con una cultura nuova o, nonostante la prescrittività delle Indicazioni nazionali, la nostra scuola secondaria di primo grado continuerà a funzionare né più né meno come la sua progenitrice scuola media unica. 

E allora l’Istat tornerà a fornirci dati sempre più imbarazzanti come quelli che fanno registrare il 40% degli studenti di terza media non sufficienti in italiano  e in matematica. Una scuola soprattutto ininfluente nel colmare non solo gli svantaggi sociali e culturali,  ma anche quelli accumulati nel corso degli anni scolastici.

Ciò significa che la sfida democratica lanciata sessant’anni fa dalla scuola media unica non è stata ancora vinta.

La scuola di oggi, già a partire dalle Indicazioni nazionali, si dichiara impotente a realizzare le proprie finalità senza il concorso con “altre istituzioni” e non può pensare di perseguire “con ogni mezzo il miglioramento della qualità dell’istruzione” se le condizioni strutturali ed organizzative sono sempre quelle del 1962: classi, cattedre, orari, discipline.

Eppure le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione avrebbero dovuto permettere di  far compiere al nostro sistema di istruzione un salto di qualità: dalla scuola media unica all’unitarietà della scuola del primo ciclo.

Unitarietà tradotta nell’impianto curricolare delle Indicazioni nazionali per obiettivi di apprendimento e per competenze da acquisire al termine della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado. Impianto che avrebbe dovuto riuscire rafforzato dalla scelta organizzativa degli istituti comprensivi. Il “comprensivo” come ambiente di “apprendimento” esperto di “apprendimenti”, di educazione comprensiva dai 3 ai 14 anni. 

Il comprensivo come luogo di un far scuola rinnovato, come mondo di un apprendimento diverso.

E invece i risultati parlano d’altro, di scuola media come buco nero, come anello debole della catena. Come è possibile? Come spiegarlo?

Forse perché la scuola media da unica è restata unica, separata in casa in un comprensivo che non ha saputo divenire comprensivo, comprendere e comprendersi nonostante dieci anni di Indicazioni nazionali.

Allora viene il sospetto che la cultura di questo paese e di tanta parte dei suoi insegnanti sia ferma alla scuola di sessant’anni fa o forse anche molti di più a leggere i frequenti inviti a rinverdire la riforma Gentile rilanciati dalle pagine dei nostri quotidiani nazionali.

La vocazione religiosa del Merito

Dunque, il MIM, ministero dell’istruzione e del merito dovrà amministrare e gestire l’istruzione e il merito, insomma un dicastero al servizio, per stare alle etimologie, dell’istruzione e del merito. Prima doveva amministrare e gestire solo l’istruzione, ancora prima anche l’università e la ricerca scientifica, ora istruzione e merito insieme.

Viene spontaneo interrogarsi, trattandosi di esperienza nuova, priva di antecedenti storici, in cosa consista di preciso l’amministrare il merito. Dal sito web del ministero nulla risulta al riguardo, poiché alla voce “Missione e Funzione” non vengono fornite informazioni utili a cogliere la novità di questa “innovazione”.

Il grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia al lemma “merito” attribuisce ben sedici accezioni, tra queste l’accezione “scolastica”, che in assenza di altre indicazioni, essendo il merito ministeriale associato alla parola istruzione, si presume che si debba intendere in senso scolastico, vale a dire nel significato di: “Giudizio, valutazione che l’insegnante dà del prodotto e del rendimento dell’allievo esprimendolo per lo più attraverso punteggi e votazioni (anche nelle espressioni punti o voti di merito)”.

Se di questo si trattasse è difficile scorgerci una novità. Pare che una delle funzioni precipue della docenza, che sia scolastica o accademica, consista nell’attribuire un giudizio o un punteggio, in sintesi un voto, alle performance di studentesse e di studenti, che può essere seguito dal “cum laude” per i più meritevoli.

Non pare che tale prassi si sia offuscata nel tempo, tanto da doverne rinverdire e rinvigorire il valore facendo assurgere il merito a intitolazione di un ministero della repubblica.

Né si profilano all’orizzonte provvedimenti di frequenza obbligatoria, da parte di ciascun docente, di corsi in scienze docimologiche, con notevoli oneri per le già esigue casse dello Stato, al fine di bandire ogni rischio di soggettività nell’attribuire valore al merito di ogni singola ragazza e di ogni singolo ragazzo, garantendo così il massimo di oggettività nell’amministrazione e nella gestione del merito stesso.

Come intendere, pertanto, quel merito improvvisamente giustapposto all’istruzione, se non come una forma retorica, una sorta di tautologia, considerato che già l’articolo trentaquattro della nostra Costituzione obbliga la Repubblica a garantire che “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” raggiungano i gradi più alti degli studi. E perché allora non aggiungere al “merito” anche la “capacità”? Sarebbe come se all’intitolazione di ogni dicastero venisse aggiunto in pezzo dell’articolo tre della Costituzione, tipo: Ministero della Salute e della Dignità Sociale.

Quel “merito”, gestito così, denuncia un apparato visivo arcaico, come le rane che non possono percepire il mondo se non come un movimento di ombre, l’ombra del merito si estende sull’istruzione, con una logica rudimentale di conflitto e di contrapposizione.

C’è anche un’ombra teologica, quella della grazia amministrata dai sacerdoti di una Scuola che si fa Chiesa, la grazia salvifica che assicura la riuscita nella vita e la condanna dei reprobi nel sovraffollato girone della dispersione scolastica e dei Neet.

Cos’è il merito se non l’aspirazione a quello che non c’è, a quello che “non so se ce la farò”, a quello che non sono. Il principio del desiderio dell’io, desiderio dell’io indotto al di sopra di me e contro di me, senza interrogarmi, senza prendermi in considerazione, senza avermi consultato.

L’idolo che ha la sua antitesi nel fallimento, come condanna e come caduta a terra, nell’annientamento della propria stima. La negazione d’ogni formazione all’autostima, alla fiducia in se stessi, occorre apprendere a competere, non a sapere, non a conoscere. Non ad apprendere che il mondo non è fatto di bianco e nero, di più e meno, non è una realtà binaria come un computer o come il mio smartphone, ma qualcosa di estremamente complesso che non si impara a comprendere con la competizione alla formula uno del  merito.

Il merito è il premio, il paradiso, la virtù, il bello e il bene, l’iperuranio scolastico. Il resto è il cavallo imbizzarrito che costringe l’auriga a ricadere a terra, a reincarnarsi in un’altra prova, in un’altra gara per tentare l’ascesa tra le anime elette, degne di contemplare il mondo dove risiedono le idee, dove risiede il sapere vero, non quella volgare mimesi che ti ammanniscono sui banchi di scuola.

La teologia del merito salvifico pretende il sacrificio, ossia il farsi “sacer”: sacri o maledetti.

Idolatrati, ammirati, premiati, incoronati dall’alloro o detestati, innanzitutto da se stessi, e umiliati.

Il merito è desiderio, è mira, target da conquistare. Solo un soggetto animato dal desiderio può idolatrare, il desiderio fa dell’oggetto che si vuole possedere il suo idolo.

Il merito si trasforma in idolo, in narcisismo umano, scriverebbe Nietzsche, togliendo valore all’istruzione in quanto tale, asservendo a sé generazioni di studenti come il vincolo di una qualunque religione che, come il combustibile VUDD, la Voglia Universale di Diventare, muove il mondo immaginario di Kurt Vonnegut nel suo “Le sirene di Titano”.

Un ghost written ministeriale

Non conosco l’autore del documento riprodotto qui di seguito essendone venuto in possesso accidentalmente. Le vicende che mi hanno portato a trovarlo mi fanno supporre che il suo estensore potrebbe essere un ghost writer del Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Se qualcuno dovesse riconoscersi nello scritto per comune sentire potrebbe aiutarci nell’attribuzione dello scritto stesso al suo autore.

Nell’accingerci al grande compito di risanamento spirituale e materiale che incombe al nostro Paese in questa epoca gravida di liete promesse e di oscure minacce, il nostro primo pensiero deve essere rivolto al rinnovamento radicale del sistema nazionale di educazione. Bisogna rinnovare la coscienza delle nuove generazioni, se vogliamo trarre frutti adeguati.

La aspra prova delle crisi e dei governi che finora si sono succeduti alla guida del Paese, nonostante  le mirabili doti spontanee del nostro popolo, a nessuno secondo, ha messo a nudo gravi lacune nella compagine spirituale della nazione, specialmente in quelle classi che dagli studi avrebbero dovuto attingere il sentimento religioso della legge e della subordinazione individuale ai supremi interessi collettivi, la fede operosa, l’allenamento morale, la visione realistica delle cose e il senso di concretezza.

Questo sbandamento, questa specie di distrazione della gioventù è il frutto di una scuola invecchiata, svagata, che da troppi anni ormai non tempra, ma piuttosto ne disintegra la coscienza e il carattere.

Occorre che essa trovi in sé stessa la capacità di rinnovarsi: ma non si può avere fiducia  in una classe docente animata da intenti esclusivamente economici, che si è dimostrata incapace di difendere i supremi interessi collettivi.

Occorre fondare una cultura scolastica nuova a partire dagli insegnanti, opposta a quella che fin qui si è affermata attraverso i governi della sinistra. 

Lottare contro il protezionismo monopolistico statale sulla scuola, e incoraggiare, quindi, l’iniziativa privata, contro la sopravvalutazione dei diplomi; operare perché si colmino le gravi lacune della istruzione professionale; imporre una migliore preparazione agli insegnanti di tutti gli ordini e gradi scolastici. 

Scuola nazionale non significa scuola governativa opposta alla scuola clericale o privata: scuola nazionale significa una scuola capace di ridare un’anima all’opera educativa, capace insomma di rinnovare la coscienza nazionale della Patria e della Famiglia.

Ora è finalmente giunto il momento del riscatto, restituendo alle nostre scuole il compito di educare, di affermare il valore morale dell’educazione per formare lo spirito, perché ognuno se ne faccia interprete e si appropri del ruolo che la Storia gli ha assegnato.

Benemerito è il ministro che con ascetico coraggio ha inteso richiamare i nostri studenti alla disciplina dell’Umiltà, virtù cristiana che lungi dall’abbattere l’individuo lo esalta al di sopra delle proprie debolezze umane.

E ancora li abbia spronati al cimento nel concorrere al merito per le proprie qualità di studio e di impegno, come sacrificio degli ardui studi, delle sudate carte. Sana competizione nella corsa verso il sapere, verso quella Scienza, anzi Verità, che i nostri antichi greci collocavano al disopra delle vicende mortali, di là dalla storia tormentata da contrasti fatali di errori, da tentennamenti, dubbi e desideri insoddisfatti di sapere.

Educazione intellettuale ed educazione morale sono tutt’uno; educazione dello spirito ed educazione del corpo sono egualmente una stessa educazione. Fruga di qua, fruga di là, si ottiene sempre lo stesso risultato: che cioè l’educazione è formazione, e cioè sviluppo, o divenire dello spirito; e poiché lo spirito consiste appunto nel suo divenire chi dice educazione dice spirito, e nient’altro.

Mens sana in corpore sano abbiamo appreso dagli antichi. Il valore dell’educazione fisica. L’educazione fisica degli antichi è educazione spirituale in quanto per gli antichi lo spirito essenzialmente è corpo anch’esso. L’educazione fisica dei moderni è la formazione spirituale del corpo: è l’addestramento del corpo che serve allo spirito, così come lo voleva l’asceta medievale; ma a uno spirito che non intende chiudersi astrattamente in se stesso, sequestrandosi dal mondo dell’esistente; anzi vuole spaziare liberamente e investire la natura, e soggiogarla ai propri fini, strumento e specchio della propria volontà. L’educazione fisica dei moderni è educazione spirituale in quanto lo stesso corpo è spirito; e la scienza non è più soltanto speculazione di verità oltramondane, ma scienza dell’uomo, e dell’uomo nell’universo. In questo concreto concetto dello spirito, che non esclude più nulla da sé, acquista concretezza il concetto cristiano dell’educazione fisica. La quale mira bensì al corpo strumento del volere, ma non del volere che rinunzia al mondo, bensì del volere che al mondo si volge come al campo delle sue battaglie e delle sue vittorie, anzi della sua stessa vita.  Al mondo che gli sta sempre innanzi quasi in atto di sfida, e come ribelle, e che egli doma faticosamente facendone la forma del proprio divenire.

Allora benvenga l’iniziativa del nostro presidente del Senato, il quale al raduno degli alpini  a Milano ha annunciato di essersi fatto promotore di un disegno di legge per ripristinare in questo paese, per una più maschia formazione della nostra gioventù lasca e choosy, la naja. Non la leva, non la coscrizione, ma la naja volontaria, per quaranta giorni. 

L’uso del termine “naja” volutamente scelto sta a significare l’importanza di questa esperienza ormai perduta, per la formazione del carattere dei nostri giovani. Altroché bullismo, una sana naja per quaranta giorni, con il vantaggio non solo di forgiare la propria personalità ma di godere poi dei benefici che ne deriveranno come i crediti formativi da vantare all’esame di maturità e il punteggio aggiuntivo per la laurea e per la partecipazione ai concorsi pubblici.

Un modello di educazione nazionale che consentirà di invertire la parabola di caduta nella formazione dei nostri giovani come effetto dei danni prodotti dalla scuola progressista.

Per troppo tempo i problemi educativi sono stati trattati con superficialità, senza il necessario rigore. 

Non si può rientrare nella scuola senza recarvi uno spirito nuovo per rimuovere le tante abitudini accettate passivamente dall’andazzo realistico, materialistico e pedantesco dell’educazione democratica. In ogni parola, in ogni istante dell’opera nostra si farà sentire un nuovo dovere e innanzitutto la necessità di far diversamente da quello che è stato insegnato dai seguaci del pedagogismo progressista.

Entriamo nel “merito”

Se sono povero di parole anche il mio pensiero sarà povero, se le parole sono sempre le stesse anche il mio pensiero sarà sempre lo stesso.

Ci mancano le parole per immaginare un mondo nuovo e rischiamo di usare solo quelle vecchie che appartengono a un mondo che non c’è più.

Per chi guarda al passato e sogna una sua restaurazione questo non costituisce un problema perché il  vocabolario che gli serve è sempre lo stesso.

Contrapporre alla riproposizione di quel passato le parole che possediamo da sempre è come cadere nella trappola, oltre a rilevare la debolezza del nostro pensiero ormai usurato dal tempo.

È quello che ci accade nella comunicazione pubblica per cui ci facciamo catturare dalle parole che ci sono famigliari e diffidiamo dei linguaggi che ci sembrano stranieri. 

E soprattutto sono lingue straniere quelle che provengono da mondi che ancora non ci sono e che non ci saranno mai se nessuno si assumerà l’ardire di iniziare a gettare le fondamenta per costruirli.

Un mondo che attende di essere costruito di nuovo è quello della scuola che non c’è. Mentre tutti bombardano l’edificio vetusto d’oltre un secolo, c’è chi pensa di ricostruirlo a immagine di come era e di come è sempre stato.

Allora se c’è chi pensa che la scuola deve selezionare, deve bocciare e in questo fa consistere il merito, semmai trovando d’accordo ampia parte di un pensiero pubblico immiserito dalle parole, che crede che chi non si impegna non merita di essere aiutato e quindi va sanzionato, caschiamo nell’inganno del moralismo per cui un furto è sempre un furto anche se rubi per fame.

Allora non è che i vessilliferi del merito li sconfiggi contrapponendogli l’articolo 3 della nostra Costituzione, perché il problema non sta nella selezione, nel merito e nelle bocciature, ma nel mantenere nel secolo nuovo un sistema formativo forse buono per il passato ma non per il futuro dei nostri giovani.

È la morte del futuro che continuamente ci viene proposta e da questa logica non possiamo farci irretire.

Non è più accettabile fornire ossigeno a un sistema formativo che è nato per selezionare anziché per promuovere, anziché stare accanto alla persona che cresce per sostenerla, accompagnarla, sorreggerla, sollevarla quando cade, assisterla quando si ferma, accelerare il passo quando riprende a correre. Ma occorre avercele queste parole nel cervello e averle strettamente connesse con l’idea di scuola e di istruzione, in modo che si accendano automaticamente quando la mente entra in questo campo semantico.

Lo scandalo non è che il Ministero ora si chiami dell’Istruzione e del Merito, ma perché non sia stato intitolato invece “Ministero della Conoscenza e dell’Istruzione Permanente” come avrebbe dovuto essere  stato fatto da tempo, al momento del nostro ingresso nel secolo della Conoscenza.

C’erano queste parole nel pensiero delle forze progressiste e di sinistra? No, non c’erano. Allora non urliamo allo scandalo, perché lo scandalo è l’assenza di una cultura dell’istruzione nel nostro paese che non sia la brutta copia del ‘900 e che guardi al futuro.

L’Unesco ha lanciato l’allarme: è urgente un nuovo patto formativo, ma nessuno ne parla e ne ha parlato. 

Un ribaltamento della nostra piramide scolastica, un protagonismo sociale, politico e culturale degli insegnanti come lavoratori della cultura. E dove sono da noi gli insegnanti lavoratori della cultura, della cultura del paese, quella che sta dentro e fuori dalle scuole?

Nessuna delle forze politiche in campo nella contesa elettorale si è ricordata che viviamo nel secolo della Conoscenza e che la Conoscenza è la grande sfida del nostro secolo, a partire dalla realizzazione dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. La centralità dell’istruzione permanente e del ruolo delle amministrazioni pubbliche, a partire dal governo e dagli enti locali, per la sua realizzazione, mai citata nel discorso di insediamento alle Camere dalla Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma nessuna delle forze politiche sedute alle Camere l’ha notato.

Listruzione è anche unespressione damore per i bambini e i giovani, che dobbiamo sapere accogliere nella società offrendo loro, senza alcuna riserva, il posto che appartiene loro di diritto: un posto nel sistema educativo, ovviamente, ma anche nella famiglia, nella comunità locale, e nella nazione.”  

Queste sono le parole da contrapporre ad una sistema scolastico che, a prescindere dal fatto che si enfatizzi sulla parola “merito”, è nato per produrre una selezione sociale e che nella sue strutture portanti ancora seleziona, nel XXI° secolo, tra liceo classico  e istituti professionali, senza scandalo per alcuno,  neppure i buon pensanti di sinistra che di fronte al “merito” pronunciato a destra gridano al lupo. 

Quelle parole sono scritte da più di 25 anni nel rapporto Delors, Rapporto all’UNESCO della Commissione Internazionale sull’Educazione per il XXI secolo, caduto nel dimenticatoio insieme ad ogni parola nuova, ad ogni pensiero  innovatore delle nostre categorie mentali sulla scuola e l’istruzione.

C’erano pure i quattro pilastri dell’istruzione: Imparare a vivere insieme, Imparare a conoscere, Imparare a fare, Imparare ad essere.

Il Ministero dell’Imparare. Sarebbe stata una sintesi bellissima tra istruzione e educazione, parole spesso usate in modo inappropriato.

Listruzione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i propri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali.”

Sono sempre parole del Rapporto Delors o il cervello le possiede e da qui muove per ragionare di scuola, di istruzione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, del loro futuro o tornano solo le vecchie parole trite e ritrite che segnano la povertà di pensiero della politica, a Destra come a Sinistra, nel nostro Paese.

Dietro l’angolo c’è ancora Gentile

Dopo la lezione di conservatorismo, propinata alla leader dei conservatori europei Giorgia Meloni il primo agosto dalle pagine del Corriere della Sera, il professore Ernesto Galli della Loggia che suggeriva alla signora la scuola come terreno privilegiato della conservazione, passa alle proposte concrete, facendo proprio il programma governativo della destra italiana in merito alla riforma degli studi sintetizzato in due parole: meritocrazia e professionalizzante.

Così il ventidue settembre, sempre dal Corriere della Sera rompe fragorosamente il silenzio sulla scuola di cui accusa i partiti in campagna elettorale.

Non si tratta di controriforme, avverte, ma bisogna rifare tutto a partire dallintera organizzazione dei cicli scolastici. 

C’è un eccesso di intellettuali che danneggia il mercato del lavoro, occorre porre fine  a mezzo secolo di accesso all’università con il diploma di qualsiasi scuola secondaria, tutto ciò condiziona e distorce profondamente il carattere della scuola che deve essere meritocratica e professionalizzante. La qualità dei contenuti di insegnamento di un liceo classico non può essere sostanzialmente equivalente a quella di un istituto professionale, pertanto non è possibile “leguaglianza delle vocazioni e delle attitudini di tutti i giovani licenziati, tutti ottimi potenziali candidati ai medesimi studi universitari.”

Qualcuno per favore informi il professor Galli che la riforma Gentile non l’ha pensata lui, ma  già un secolo fa il suo titolare, appunto, il professore Giovanni Gentile.

E chi si propone di dare un taglio maggiormente meritocratico, attraverso le bocciature, come vorrebbe il professor Galli e la destra nostrana, e professionalizzante alla scuola, in realtà auspica un ritorno allo spirito primitivo della riforma Gentile.

La riforma gentiliana si è caratterizzata per il suo pesante conservatorismo,  per la sua accentuata canalizzazione professionale, privando l’istruzione scolastica di ogni significato di mobilità sociale che aveva iniziato, sia pure modestamente, ad assumere, grazie ai molti miglioramenti apportati dalla legge Casati e dai lavori della “Commissione per un’indagine sulle condizioni della scuola secondaria e per lo studio di una riforma” istituita con decreto del 19 novembre 1905 dall’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi (quando si dice i corsi e ricorsi della storia!).

La riforma Gentile rappresentò una vera e propria restaurazione, come da sempre restaurare è nelle intenzioni del conservatorismo dal quale certo il nostro professore non si sottrae a partire dal ripristino delle predelle come arredo scolastico.

Il professore Galli propone due tipi di università una di serie A, la sola abilitata a rilasciare il diploma di dottorato per intellettuali puri e una di serie B per le professioni profane con una scelta di vita che uno studente dovrebbe compiere a tredici anni, sostanzialmente il modello tedesco.

La storia non si ripete, se si ripete assume un volto nuovo, però gli ingredienti sono sempre gli stessi. 

Quando nel 1969 Tristano Codignola, che pure insieme a Giuseppe Lombardo Radice aveva contribuito alla riforma Gentile, propose al parlamento la liberalizzazione degli accessi ai corsi universitari, l’obiettivo era quello di porre fine al perdurare dell’aspetto più odioso di quella riforma: la rigida selezione classista, in modo da favorire la mobilità sociale in un paese che aveva bisogno di istruzione per il suo sviluppo economico.

Ora la storia si ripete, si vorrebbe tornare indietro rispetto a tutte le faticose conquiste ottenute dalle forze democratiche nel settore educativo e giuridico della scuola, ritornare a quello spirito classista e borghese che, in definitiva, fu ciò che più di ogni altra cosa accomunò i destini della riforma del 1923 a quelli del fascismo.

Filippo Turati ebbe a dire della riforma Gentile “altro non è che il manganello applicato alla scuola”. 

Pure Galli della Loggia ha il suo manganello, incurante che possa essere definito classista: le bocciature.

Le bocciature come vaglio delle competenze. Perché spendere tempo e risorse nelle attività di orientamento, nella burocrazia di quell’acronimo insopportabile PCTO, che tutte le volte occorre andare a cercare cosa significa perché uno se lo è dimenticato: “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”

Scrive testuale: “cominciare ad esercitare già nelle sue aule un vaglio delle competenze effettive degli alunni, delle loro vocazioni e attitudini, con il solo strumento a disposizione che è quello della bocciatura”.

Bocciature entro i tredici anni, perché questa è l’età che nella sua visione del sistema scolastico, bontà sua non i dieci delle grundschule, si deve scegliere quale orientamento dare ai propri studi, se il liceo classico che ti condurrà alle vette dell’intellettuale puro o tutto il resto che ti avvierà verso le sorti meravigliose e progressive del mercato del lavoro.

Perché l’Italia, scrive il professore “ha un bisogno assoluto di ridare dignità culturale e sociale e quindi economica al mondo del lavoro, di tutto il lavoro, e il modo di farlo parte dalla scuola”.

Il maestro di conservatorismo in definitiva propone un restyling della riforma Gentile, in sostanza fornirle un nuovo look con le stesse motivazioni espresse circa un secolo fa dallo stesso Gentile nella seduta del 5 febbraio 1925 al Senato per difendere la sua riforma: “una risposta  allo squilibrio esistente fra scuola e mercato del lavoro, che si manifesta soprattutto in una crescente sovrapproduzione di forza lavoro intellettuale, e alle tensioni sociali e politiche che questo squilibrio produce.”

Gli ingredienti ci sono tutti perché da dietro l’angolo ritorni a spuntare Giovanni Gentile a realizzare compiutamente gli interessi della conservazione.

Scuola e programmi elettorali

Se il problema di cosa studiano e di come studiano a scuola le nostre ragazze e i nostri ragazzi non viene affrontato le possibilità sono solo due: o non è un problema o non si possiede una soluzione al problema.

A leggere i voti, che le forze politiche formulano per la scuola nei loro programmi elettorali  al fine di ottenere voti, non si può che concludere che nel nostro paese cosa si studia e come si studia nelle aule del sistema formativo non costituisce un problema. Nonostante gli esiti decisamente non brillanti delle indagini Ocse Pisa e dell’Invalsi sui risultati scolastici, il grado di istruzione del paese non sembra meritare attenzione. Anzi c’è chi, come Italexit, vuole “Eliminare le prove Invalsi e i sistemi valutativi basati sui quesiti a risposta multipla.” Insomma, il tuo parlare sia sì sì, no no.

Anni di letteratura scolastica che hanno sfornato titoli poco rassicuranti: Requiem per la scuola, La scuola bloccata, Senza educazione, L’aula vuota, La scuola imperfetta, La scuola impossibile, Liberiamo la scuola, La scuola è sfinita fino al recente Il danno scolastico della coppia Mastrocola-Ricolfi, vengono volutamente o meno ignorati dalle formazioni politiche scese in campo per l’agone elettorale, possibile che neppure uno dei libri citati l’abbiano mai letto.

Qualcuno ci prova. Ad esempio il “Programma per l’Italia” della Destra al primo punto si impegna a “Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico”. Cosa significhi non è spiegato. È il ritorno all’avviamento scolastico? Agli esami di ammissione? Si prospetta un sistema scolastico stile tedesco?

Anche il programma di Italexit a proposito di cosa studiare promette un recupero della nostra “cultura umanistica e civica”. E anche qui non è dato sapere che cosa effettivamente si intenda.

Il Movimento Cinque Stelle vorrebbe una “Scuola dei Mestieri” per valorizzare e recuperare le tradizioni dell’artigianato italiano, forse una riedizione degli “Artigianelli”di don Orione,  in linea comunque con la vocazione professionalizzante delle destre.

Dai voti elettorali emerge poi un profilo di “scuola clinica” che i nostri giovani dovrebbero frequentare come luogo di cura dove, dopo la moltiplicazione delle certificazioni, ora si  mettono a disposizione medici scolastici, psicologi e pedagogisti come se essere studenti e giovani fosse una malattia, come se disagio sociale e modalità di apprendimento non per forza standard fossero dei disturbi che necessitano di cure anziché di una scuola diversa. 

Non avevamo bisogno dell’appuntamento elettorale per scoprire che questo nostro paese non ha mai curato un’idea di istruzione, di sistema formativo, non ha una cultura dell’istruzione e dell’apprendimento, perché non ha mai avuto considerazione per i suoi insegnanti, della loro professione e soprattutto della scuola.

Vanno di moda i “patti educativi” come se l’istruzione fosse un campo di conflitti e avesse bisogno di siglare armistizi tra contendenti, le “comunità educanti” come comunità di salute pubblica. Una gioventù malata che qualcuno vuole raddrizzare con lo sport e il ritorno al servizio di leva. Anche i seminari sono comunità educanti e le comunità che si propongono come educanti sono pericolose perché mettono a rischio la libertà delle persone, mentre la scuola deve essere palestra di libertà e non di manipolazione.

L’Unesco invita a un nuovo contratto sociale per l’istruzione all’altezza delle sfide dei tempi e del futuro delle nuove generazioni, ma noi non possiamo permetterci tutto questo, non avendo curato la casa dobbiamo ricorrere ai ripari, occuparci delle sovrastrutture del nostro sistema formativo: gli edifici scolastici, lo stipendio degli insegnanti, il tempo pieno, l’obbligo scolastico, medici e psicologi scolastici.

Così i programmi di tutte le forze politiche si caratterizzano per tre filoni: scuola come servizio sociale, scuola e mercato del lavoro, scuola e cultura nazionale e tutti brillano per le grandi assenze. Oltre all’istruzione e all’apprendimento, non rispondono all’appello il tema dell’autonomia delle scuole, gli Organi Collegiali, l’apertura delle scuole al territorio e il ruolo del territorio per un sistema formativo integrato e soprattutto l’apprendimento permanente. Distrazione, ignoranza, superficialità, impotenza, mancanza di idee, incompetenza? Forse tutti questi insieme.

Il programma di Azione e Italia Viva cita l’autonomia per affermare la necessità di passare: “dal concetto di autonomia scolastica a quello di scuole realmente autonome”. 

Pare di comprendere che dietro a quel “realmente autonome” si nasconda un concetto di concorrenza di mercato, di competizione tra scuole che consenta alle famiglie di scegliere la migliore, un scimmiottamento delle Champions School d’oltre oceano. Ma cosa fare per portare a compimento il processo di autonomia scolastica, spesso osteggiato dalla stessa politica e amministrazione pubblica, cosa fare a partire dalle risorse necessarie a garantire una reale autonomia questo non è detto. Che l’autonomia scolastica sia in pericolo è nella consapevolezza di quanti sono più attenti ai bisogni della nostra scuola e ad essere in pericolo è l’unica vera riforma, sebbene ancora incompiuta, che il nostro sistema formativo, tradizionalmente piramidale, abbia conosciuto.

Difendere l’autonomia scolastica significa coltivare un’idea di scuola come risorsa centrale del territorio, come perno di un sistema formativo integrato che poco ha a che vedere con surrogati e ripieghi tipo patti educativi e comunità educanti. Un obiettivo che per essere perseguito richiede lucide e solide politiche territoriali da parte degli enti locali insieme a risorse finanziarie che consentano di portare a sistema la scuola come ambiente di apprendimento che si integra con il territorio, che al territorio si allarga e si apre per usarne strutture e risorse, prima condizione affinché le scuole siano “luoghi sicuri, belli, aperti tutto il giorno. Vere e proprie palestre di cittadinanza” come promette il programma del PD.

Scuola e territorio è un binomio che conduce agli Organi Collegiali che si trascinano da  troppo tempo pigramente, sviliti e snervati, che hanno bisogno di manutenzione, di una cura ricostituente soprattutto alla luce della scuola dell’autonomia, di una scuola sempre più hub formativo del territorio.

In fine, last but not least, l’apprendimento permanente. Decenni di life long learning ignorati, insieme all’Europa della “Conoscenza”, al Memorandum di Lisbona 2000 e alla stessa Agenda 2030 dell’Onu.

Apprendimento permanente che non è l’educazione degli adulti in chiave scolastica del programma di Possibile, l’unico che meritoriamente la richiama, insieme alla necessità di rivedere i cicli scolastici, ma la mobilitazione delle conoscenze, dei saperi, l’apprendimento diffuso, le città che apprendono, il rapporto tra apprendimento formale, non formale e informale che già la Riforma Fornero del 2012 aveva riconosciuto su pressione dell’Europa. Quanto basta per rivedere integralmente l’intero impianto del nostro sistema formativo in un mondo dove si apprende dalla culla alla tomba. 

La complementarietà e l’osmosi tra forme di apprendimento, unitamente agli altri grandi assenti, al momento dovranno attendere il prossimo giro.

Prima gli studenti


Il rettore dell’Università IULM di Milano con un articolo sul Corsera del 26 agosto ha gettato il sasso nello stagno. Cosa si studia nelle nostre scuole? Quale formazione viene fornita ai nostri studenti? Centra la questione: se a un secolo dalla riforma Gentile i nostri giovani devono continuare a studiare quello che hanno studiato i loro genitori e i loro nonni, come se il tempo scolastico fosse da sempre fermo. Il tema è come prepariamo i nostri giovani a continuare negli studi o a inserirsi nel mondo del lavoro. 

Per il rettore della IULM non è questione di soldi, ma di quello che si studia. Non è così, perché nel nostro paese soldi e studi sono strettamente dipendenti, senza soldi da noi non si studia. Tanto che è proprio per via del denaro che si evidenzia il ritardo dell’Italia rispetto al resto dell’Europa. Secondo i dati di Education at a Glance” 2020, lItalia investe il 3,9%  del PIL in istruzione primaria, secondaria e terziaria contro la media del 4,9 dei paesi Ocse e 4,5 dellUE. Il Regno Unito investe il 6,3, gli Stati Uniti il 6,1, la Francia il 5,2.

Da noi le famiglie spendono  4,8 volte in più in alcool e fumo rispetto a quanto spendono in  istruzione e questo rapporto sale al 5,3 al Centro e al 6,6 nel Mezzogiorno.(1)

L’inadeguato livello di investimenti pubblici e privati fa sì che l’Italia faccia registrare il numero di laureati più basso in Europa dopo la Romania, un primato non invidiabile. Benjamin Franklin alla sua epoca scriveva: «Un investimento in conoscenza paga il miglior interesse.» Se valeva allora, cosa dovremmo dire noi cittadini di un secolo che si è aperto in nome della centralità della conoscenza per la crescita e lo sviluppo?

Da noi di istruzione, competenze, saperi, cultura non si ragiona. Non c’è mai spazio, su tutto prevalgono i problemi delle cattedre, del precariato, dell’insegnare troppo distanti da casa, degli alunni e dei genitori che non sono più quelli di una volta e potremmo continuare nell’elenco. Ma degli studenti non si parla mai, non si ragiona mai di quello che gli si chiede di imparare secondo una scansione dei saperi che parte dal passato che non arriva mai al futuro e che si ferma sempre distante dal presente. Come se la scuola fosse una prassi, un processo di standardizzazione sociale, secondo regole che prescindono lo studio, cosa e come studiare, chi deve studiare e perché si deve studiare, tanto l’istituzione è antica e ha sempre funzionato così.

Eppure l’istruzione continua a non essere all’altezza delle necessità formative, i dati sulle performance, unitamente alla dispersione e all’abbandono scolastico, indicano l’inadeguatezza dell’attuale modello scolastico.

Nel corso del XX secolo, l’istruzione pubblica è stata essenzialmente finalizzata a sostenere la cittadinanza nazionale e gli sforzi per lo sviluppo del paese. Ha assunto principalmente la forma della scuola dell’obbligo e di massa, oggi non è più sufficiente, le sfide poste dai bisogni formativi per il presente e per il futuro ci devono indurre a reinventare urgentemente l’istruzione.

Innanzitutto il diritto all’istruzione deve essere ampliato per includere il diritto a un’istruzione di qualità per tutta la vita. Non può più continuare ad essere interpretato, come abbiamo fatto troppo a lungo e con colpevole miopia, essenzialmente come diritto all’istruzione dei bambini e dei giovani. Il diritto all’istruzione deve garantire l’istruzione a tutte le età e in tutti gli ambiti della vita. In questa prospettiva più ampia, il diritto all’istruzione è strettamente connesso al diritto all’informazione, alla cultura e alla scienza. Richiede un profondo impegno per la costruzione delle capacità umane. È anche strettamente legato al diritto di accedere e contribuire ai knowledge commons, le risorse condivise e in espansione di informazioni e conoscenze.

È evidente che di fronte a tutto questo il nostro sistema scolastico gentiliano e la cultura che lo sottende sono  vecchi arnesi che necessitano di essere archiviati. Ma non lo si può fare da un giorno all’altro.

Nel 1959 di fronte al pericolo di essere superati in ambito scientifico e delle ricerche aereo spaziali dai sovietici, che due anni prima avevano lanciato nello spazio lo Sputnik, gli USA per prima cosa imputarono il loro sistema scolastico. L’Accademia delle Scienze convocò a Woods Hole, nel Massachusetts, un think tank composto da 35 fra i maggiori esperti di psicologia, biologia, fisica matematica, pedagogia, linguistica per dare vita a un progetto di ricerca interdisciplinare sui processi di apprendimento e per elaborare nuovi programmi per l’insegnamento scientifico, chiamando a dirigere questo consesso Jerome Bruner, allora direttore del Centro Studi Cognitivi dell’università di Harvard.

Senza andare così lontano nel tempo, neppure dieci anni fa, nel 2013, nell’Ontario, in Canada, il Waterloo Global Science Initiative promosse l’Equinox Summit: Learning 2030. Non c’era tempo da perdere occorreva attrezzarsi circa cosa e come avrebbero appreso le bambine e i bambini che, nati in quell’anno, nel 2030 avrebbero frequentato le scuole superiori. Per attrezzarsi a quella sfida riunirono i maggiori leader in materia di istruzione, i migliori professionisti dell’insegnamento, ricercatori e politici, insieme ai giovani studenti di quelle scuole che nel mondo hanno innovato l’insegnamento. Trentatré rappresentanti provenienti da tutti i continenti, espressioni di diverse realtà socioeconomiche: Sierra Leone, Singapore, Finlandia, United Kingdom, USA, Australia e ancora altri.

Da noi, in tutti questi anni di dibattiti su cattedre, predelle, latino, classico sì classico no, fallimenti della scuola progressista a nessuno che fosse ministro, docente, intellettuale è mai venuta in mente un’idea simile, neppure al rettore dell’università IULM di Milano che ora lamenta la scarsa qualità dell’istruzione dei nostri giovani.

È il caso di dire che non è mai troppo tardi, sempre che ci si dia una mossa prima che la nostra scuola sia definitivamente schiacciata da un lato dall’incalzare di saperi, competenze e apprendimenti, dall’altro dal persistere di un modello scolastico creato dagli stati-nazione a partire dal diciannovesimo secolo, che costringe infanzie e adolescenze ad essere quotidianamente irreggimentate in classi aggregate per età dall’istruzione primaria a quella secondaria, ad apprendere il passato nell’indifferenza degli adulti per il loro futuro.

(1) Si veda ISTAT, 2020d; Osservatorio Talents Venture, 2018.

Non sparate a zero sul Docente Esperto

Si conosce poco circa il docente esperto spuntato durante la calura estiva tra le norme del decreto Aiuti bis. Si sa che saranno in tutto ottomila per quattro anni, per un totale di trentaduemila, che per diventare esperti occorre studiare per dieci anni e che al termine del percorso si riceverà un aumento stipendiale pensionabile. Pare che non sarà una nuova figura di sistema perché continuerà a esercitare la sua funzione docente.

La reazione del mondo della scuola a leggere petizioni, stampa e social è senza alcun dubbio di generale rigetto rispetto al trapianto che sembrerebbe nelle intenzioni del ministero, per cui non si comprende come sia possibile produrre un rinnovamento, se tale era nelle intenzioni governative, senza il coinvolgimento dei diretti interessati, vale a dire gli insegnanti.

Compulsando internet ho scoperto che l’idea del docente esperto non è nuova, qualcuno ci ha già pensato da tempo e siccome ormai nulla è novità, se non assume un brand anglosassone, si tratta dei corsi di formazione e-learning con esame in presenza per  acquisire la qualifica di Expert Teacher organizzati dall’Erickson in collaborazione con la UIL, Università Telematica  degli Studi, e con lANPA, associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola.

In cuor mio confidavo che ci fosse un nesso tra l’iniziativa del ministro e l’offerta dell’Erickson, un nesso che avrebbe aiutato a fornire un senso all’evanescente figura scaturita dal decreto Aiuti bis. Non pensavo a nulla che non fosse più che legittimo e trasparente, ma evidentemente, indubbiamente per causa mia, ho suscitato con un mio articolo la sensibilità degli ideatori e promotori dell’Expert Teacher, della qualcosa mi dolgo pubblicamente.

Tuttavia di fronte all’alzo zero con il quale pare sarà impallinata la proposta del docente esperto mi rimangono aperti tutti i miei interrogativi.

Siamo tutti convinti che il nostro sistema scolastico necessita di una rifondazione radicale? Che il differenziale fra noi e gli altri Paesi è cresciuto anche perché non abbiamo saputo pensare al nostro sistema scolastico in termini moderni, un sistema scolastico che accusa una crisi profonda nei suoi moduli organizzativi, nelle sue strutture organizzative, nella formazione dei suoi docenti.

Che la scuola è una grande questione nazionale che deve essere affrontata con grandissima lungimiranza e fortissimo impegno, perché un paese e una comunità vivono del futuro che sanno preparare ai loro giovani, ragazze e ragazzi.

L’ultimo rapporto dell’Unesco sollecita un nuovo contratto sociale per l’istruzione al cui centro siano gli insegnanti e la loro professione rivalutata e reimmaginata come uno sforzo collaborativo che stimola nuove conoscenze per realizzare una trasformazione educativa e sociale. Gli insegnanti hanno un ruolo unico da svolgere nella costruzione di un nuovo contratto sociale per l’istruzione. Per svolgere questo lavoro complesso, gli insegnanti hanno senza dubbio bisogno di comunità di insegnamento collaborative ricche, caratterizzate da ampi spazi di autonomia e da un generale sostegno. Sostenere l’autonomia, lo sviluppo e la collaborazione degli insegnanti è un’importante espressione di solidarietà pubblica per il futuro dell’istruzione.

Quando gli insegnanti sono riconosciuti come professionisti riflessivi e produttori di conoscenza, contribuiscono alla crescita dei corpi di conoscenza necessari per trasformare gli ambienti di apprendimento, le politiche, la ricerca e la pratica, all’interno e al di fuori della loro stessa professione.

Ma come incamminarsi verso tutto questo, che richiede tempo, pazienza, lungimiranza, investimenti nelle risorse umane?

Non sono certo sufficienti le petizioni di principio, le dichiarazioni di intenti, né le elocubrazioni sulla scuola che ognuno  vorrebbe.

Occorre scegliere, occorre scommettere, come sempre nella scuola.

Occorre decidere contro le resistenze al cambiamento dall’interno, e pure dall’esterno,  contro chi invoca il passato e accusa di tutti i mali il progressismo educativo. 

Bisogna decidere sapendo che la chiave del cambiamento sono gli insegnanti, coloro che ogni giorno lavorano nel rumore d’aula, che su di loro bisogna puntare e investire. Sapendo che non possiamo convincerli tutti e coinvolgerli tutti contemporaneamente, i mezzi al momento non ci sono e vanno rispettate le opinioni di ciascuno. Ma l’interesse della Scuola e del Paese, in particolare delle giovani generazioni, deve prevalere su ogni corporativismo e immobilismo.

Se la strategia è quella di intervenire sul versante della formazione e del reclutamento da un lato e dall’altro sulla riqualificazione di quote di personale in servizio, non mi sembra una strategia sbagliata e ritengo che valga la pena impegnarsi in questa direzione. 

Si avvierà  così un processo di innovazione dall’interno della scuola attraverso il ricambio di personale per via dell’avvicendamento tra i docenti che vanno in pensione e i neo assunti che avranno ricevuto una nuova formazione e quelli in servizio che nel frattempo avranno compiuto il percorso per essere riconosciuti come docenti esperti.

Da tutto questo si evincono due piani di intervento per riqualificare il nostro sistema formativo facendo leva sull’unica leva credibile: il coinvolgimento degli insegnanti, perché solo da loro dipende il destino del nostro sistema formativo. 

Intervenendo sui due fronti è credibile pensare che nel giro di dieci anni si possa realizzare già un profondo rinnovamento e una autentica riqualificazione della nostra scuola con un’efficacia e una capacità di centrare l’obiettivo che nessuna riforma del sistema potrebbe assicurare, starà poi alla politica accompagnare tempestivamente con lo strumento delle leggi le innovazioni che si produrranno nella nostra scuola per effetto del processo di riqualificazione del personale docente.

È indispensabile che questo processo veda il coinvolgimento e il protagonismo di altri soggetti irrinunciabili per la formazione dei docenti e il rinnovamento del nostro sistema formativo, dalle Università all’Indire, alle Avanguardie educative, all’associazionismo professionale degli insegnanti, ai centri studi e alle case editrici qualificate sul piano della didattica e della formazione professionale dei docenti. Un lavoro corale capace di far suonare le corde migliori del nostro sistema scolastico e dei nostri insegnanti.