Autore: fioravantigiovanni
A scuola senza bussola
Per il Censis siamo affetti da sonnambulismo, precipitati nel profondo sonno della ragione che continuerà a generare mostri, se non ci riscuotiamo.
“Non sappiamo che cosa ci sta accadendo, ed è precisamente questo che ci sta accadendo” è la celebre frase di José Ortega y Gasset, che Edgar Morin ha posto, due anni or sono, ad epigrafe del suo Svegliamoci!
Per il filosofo francese è necessario trovare una bussola per orientarci nell’oceano dell’incertezza in cui vaghiamo come sonnambuli. Una bussola che ci aiuti a comprendere la storia che stiamo vivendo.
E qui sta la difficoltà. Ad uscirne dovrebbero aiutarci i nostri sistemi di istruzione i quali, benché rincorrano i cambiamenti del tempo, restano però nella sostanza identici a se stessi, ancora espressione di culture da noi ormai lontane, tanto da essere impotenti a generare nuovi modelli di pensiero, indispensabili al benessere e alla sopravvivenza dell’umanità.
Con l’ingresso nel nuovo secolo credevamo che si sarebbero aperti nuovi orizzonti, nuove prospettive fondate sulla potenza dei saperi e della scienza. Pensavamo che l’Antropocene potesse conoscere un’epoca di rigenerazione ambientale e sociale, di nuova umanizzazione, di solidarietà e coesione, un nuovo spirito comunitario come alternativa alla esclusione e alla devitalizzazione suicida del tessuto sociale.
Il corso della storia ha già deturpato il volto di questo secolo ancora adolescente con le cicatrici delle guerre e di un’economia finanziaria implacabile, minacciando le fondamenta sociali e peggiorando le condizioni di disuguaglianza nel mondo.
A questa crisi di umanizzazione corrisponde la crisi dei sistemi educativi incapaci di porsi come argini e come luoghi di recupero dell’umanizzazione, di apprendimento ad essere umani.
Su questo dovrebbero riflettere i sistemi scolastici nel mondo, oggi scossi da numerose contraddizioni e da difficoltà nuove, di fronte a generazioni di alunni e di adulti che sempre più appaiono disorientati, quando non sbandati. Ma disorientamento, e sbandamento, impreparazione e ritardi non possono essere ammessi per le istituzioni scolastiche che sono la fonte del capitale umano, di quello culturale e sociale.
Insegnare a vivere è il manifesto che Edgar Morin ha scritto per rifondare l’educazione, bastava leggerlo e assumerlo come guida, come suggerimento di un percorso di rinnovamento dei nostri sistemi formativi.
Riforma del pensiero e riforma dell’insegnamento ne rappresentano gli elementi essenziali.
Come negare che qui si gioca il destino delle nuove generazioni e come non guardare con apprensione alla meschinità con cui si discute di scuola nel nostro paese, dal merito, al voto in condotta, al made in Italy, con la preoccupazione per un sonnambulismo profondo da cui pare assai difficile il risveglio. “Svegli, dormono”, diceva Eraclito.
Il sapere è in espansione, ma la saggezza purtroppo languisce. L’abisso che si spalanca sotto i nostri piedi richiede di essere colmato per rovesciare l’attuale tendenza che conduce al disastro, e proprio in questo l’educazione, nel senso più ampio del termine, riveste un’importanza vitale.
Il compito non può essere ignorato perché da esso dipende il destino sociale di questo secolo.
Nel momento in cui abbiamo colto che la vita delle nostre comunità poteva essere minacciata da generazioni prive di senso civico, ci siamo precipitati a riempire il vuoto con l’insegnamento dell’educazione civica.
Ora che è gravemente minacciata la convivenza mondiale sarebbe urgente provvedere con l’insegnamento dell’ educazione alla mondialità che investa tutti i sistemi formativi del pianeta.
Comprendere la realtà, quella dell’umanità e quella del mondo, riconoscere le interdipendenze che creano il bisogno di varie forme di solidarietà.
La coesione sociale e la solidarietà appaiono come aspirazioni e finalità indissolubilmente legate, in armonia con la dignità dell’individuo. Il rispetto dei diritti umani va di pari passo con un senso di responsabilità che incita uomini e donne ad imparare a vivere insieme.
Ciò richiede innanzitutto di rimuovere la patina etnocentrica che ancora riveste i contenuti dei nostri sistemi formativi, che impedisce di dialogare tra loro, che ostacola il riconoscimento dell’interdipendenza planetaria.
Etica, felicità, tradizioni religiose, problema della conoscenza, problemi logici, il rapporto tra le forme del sapere, in particolare con la scienza, il senso della bellezza, la libertà sono destinati a isterilirsi, a divenire paratie costruite a difesa della propria identità contro l’identità dell’altro, se non ritrovano comuni significati entro un quadro di cultura mondiale condivisa.
La cultura che trasmettono le nostre scuole è ancora essenzialmente monoetnica rispetto alla mondialità che sempre più incombe.
Lo scriveva il sociologo messicano Rodolfo Stavenhagen, occupandosi delle minoranze, come la maggior parte dei moderni stati-nazioni sia organizzata sul presupposto della omogeneità culturale. Questa omogeneità costituisce l’essenza della “nazionalità” moderna, su cui si basano oggi le nozioni di stato e di cittadinanza. L’idea di una nazione monoetnica, culturalmente omogenea, viene usata prevalentemente per nascondere il fatto che questi stati meriterebbero di essere definiti più propriamente etnocrati, nella misura in cui solo un gruppo etnico maggioritario o dominante arriva a imporvi il proprio concetto di “nazionalità” alle altre componenti della società.
Il risultato è sotto i nostri occhi dall’emigrazione all’escalation dei conflitti sociali e bellici a cui impotenti oggi assistiamo, da quello russo-ucraino a quello israelo-palestinese.
Attenzione, dunque, anche a sottovalutare o a interpretare in modo folcloristico le pretese di una cultura che intende rilanciarsi con il culto della nazione e lo slogan Dio, Patria e Famiglia, specie se di mezzo ci sono le nostre scuole e la formazione della nostra gioventù la cui patria sempre più sarà il mondo intero.
Obiettivi di apprendimento e competenze forse sono utili per un sistema sociale chiuso, non per società aperte al mondo che necessitano, per dirla con Morin, di due parole chiave: conoscenza della conoscenza e comprensione.
La conoscenza della conoscenza per cogliere i nostri errori e quelli degli altri, la comprensione come virtù principale di ogni vita sociale che consiste nel riconoscimento della piena umanità e della piena dignità degli altri. Comprensione, benevolenza, riconoscimento permetteranno, scrive Morin, non solo un “miglior vivere” in ogni relazione umana, ma anche di combattere il male morale più crudele, il più atroce che un essere umano possa fare a un altro essere umano: l’umiliazione.
Dobbiamo preoccuparci seriamente perché i nostri sistemi formativi non sono più in grado di garantire un “miglior vivere” alle nuove generazioni, segnale allarmante sono le parole sporche tornate a circolare come: merito, punizione, umiliazione, anche queste espressione evidente della crisi di pensiero che stiamo vivendo, immersi in una sorta di sonnambulismo generalizzato.
Dell’Educazione
L’educabilità è quella disposizione che, pur non essendo esclusiva dell’uomo, costituisce peraltro uno dei caratteri specifici dell’umanità. Per Louis Meylan, autore di Educazione Umanistica, pubblicato nel 1951 da La Nuova Italia, l’educazione può definirsi come l’attività con la quale gli adulti si sforzano di dare al comportamento, ovvero ai vari modi di pensare, di sentire e di agire del fanciullo e dell’adolescente la forma che ad essi sembri più desiderabile.
Se questa è l’idea di educazione che si intende perseguire, l’educazione non sarà mai diversa dal modo di pensare di chi l’ha concepita. È un’idea che ha sfidato i secoli fino a approdare tra noi sostanzialmente immutata.
Così capita di leggere una pagina scritta dall’abate Lambruschini verso la seconda metà dell’Ottocento: L’educazione del nostro tempo: Mancanza di principi direttivi, e provare la sensazione che potrebbe essere stata scritta oggi, non tanto e non solo da autori come il generale del Mondo al contrario.
La riporto senza usare né virgolette né corsivo per via del restyling che ho dovuto operare relativamente al lessico datato, che però nulla ha alterato del suo autentico contenuto, ma anche per il sottile piacere che provo all’idea del lettore che nello scorrere queste righe potrebbe essere inquietato dal dubbio circa quanto di queste parole giunge dal passato e quante viene dal presente.
Quello che più merita di essere notato e che ostacola una retta educazione è la mancanza di principi direttivi, l’incertezza nella quale gli educatori, insegnanti, adulti, genitori, ondeggiano nei confronti dei giovani, manca loro la coscienza sicura di quello che fanno e di quello che dicono. Di fronte a un comportamento un poco ribelle, a un caso straordinario sono colti alla sprovvista, non sanno cosa fare. Cedono all’indocilità invece di imporre la sottomissione, favoriscono la scioperataggine e la mala grazia invece di pretendere applicazione e maniere composte. Cosicché gli adulti si riducono a dolersi di sé e dei giovani, a non sapere più come condursi e a dare ragione a chi dice che i sistemi moderni di educazione sono inefficaci.
Oggi nella casa i figli conversano continuamente con i loro genitori e parenti, ricevono carezze e lodi, insegnamenti, ammonizioni da voci e mani che sono loro care.
Ma i figlioli che una volta obbedivano e tremavano innanzi ai genitori, oggi non tremano e non obbediscono, prima erano sottomessi nella famiglia, ora sono padroni. Prima non aprivano bocca, fissavano gli occhi a terra, stavano immobili e composti, ora chiacchierano senza posa, urlano, s’abbracciano, interrompono il discoro altrui, non accettano la correzione se non è addolcita da parole soavi, quasi direi da scuse.
E (mi costa dirlo, ma lo devo dire) le madri hanno in ciò la colpa maggiore. Gustano la dolcezza, le delizie dell’amore materno e ne sono inebriate, si dolgono talvolta, si sdegnano anche per le molestie arrecate dalla baldanza dei loro figlioli, dal loro essere indocili, ma questi stessi sdegni sono segno della loro debolezza.
Quando i figlioli sono tranquilli, allora si abbandonano alla tenerezza, li guardano con ammirazione come idoli, li adorano, prevengono i loro desideri, cedono volonterose a tutte o quasi tutte le loro voglie.
Ma io noto ora l’amore cieco come pernicioso, l’amore debole, l’amore che in luogo di governare si sottomette, l’amore che rende i figlioli arroganti, inquieti, li rende per di più insofferenti d’ogni più lieve disagio.
Ora questa forza di negare ai fanciulli certe delicatezze, di avvezzarli per tempo ad una vita sobria e un poco dura, è rarità miracolosa tra noi.
La nostra gioventù è svagata, non sa piegarsi all’applicazione profonda e costante, a questa svagatezza e svogliatezza, a questo leggero svolazzare dello spirito sopra le più gravi cose conduce in primo luogo l’instabilità del loro animo, la vivacità della loro immaginazione eccitati oggi più di prima dalla maggior confidenza che si dà loro e dal loro vivere più libero e più allegro.(1)
Ne emerge una visione dell’educazione come strumento di direzione e di subordinazione nei confronti di chi ancora non è adulto, di chi è immaturo e ancora sta crescendo. Un’idea di sottomissione del minor al major come condizione dell’età evolutiva.
Ora che si pensi che l’educazione è fallita, e con essa il ruolo degli adulti e delle istituzioni educative, perché non è più quella di ieri, fa sorgere il dubbio che il fallimento non sia dell’educazione ma della società e della sua cultura quando questa convinzione si fa diffusa fino a divenire un luogo comune.
Perché, se tutto per essere corretto e giusto dovesse corrispondere al passato, significherebbe che si vive una vita disancorata, incapaci di riadattarsi ai continui cambiamenti culturali, sociali e ambientali. Significherebbe essere inanimati, perché la distinzione più notevole tra gli esseri viventi e gli esseri inanimati consiste proprio nel fatto che i primi si mantengono rinnovandosi.
Ma la cecità e l’arroganza culturale che fanno ritenere che educare significhi forgiare l’altro a propria immagine e somiglianza sono di per sé già ciò che impedisce ogni possibile rinnovamento. Portano a non considerare che l’educazione è partecipazione, è coinvolgimento, è relazione, è comunicazione per divenire attivi protagonisti della vita sociale della propria specie, per dirla con Dewey.
Relazione e comunicazione stanno a significare che venendo al mondo non si è ingranaggi di una macchina e neppure animali da addestrare, ma vite che assumono significato in relazione agli altri, all’ambiente sociale, non attraverso indottrinamenti ma attraverso la comunicazione, che significa possedere insieme, appunto in comune.
Ora il rischio è essere espressione di una generazione di adulti che non sa porre in “relazione” con il proprio ambiente sociale e culturale le giovani generazioni, proprio perché non sa “comunicare”, cioè non è capace di condividere, di porre in comune su un piano di parità tra chi cresce e chi, in quanto adulto, è già cresciuto.
C’è un’autorità che presiede alla formazione di ciascun essere umano che è il processo della vita nel suo insieme, ed è questo processo ad essere educativo. La vera natura della vita è quella di lottare per continuare ad essere.(2) E l’educazione serve ad apprendere come lottare per essere.
Relazione e comunicazione dovrebbero, dunque, esprimersi nella naturale empatia degli adulti nei confronti dell’infanzia e dei giovani.
La solidarietà e la comprensione verso età che sono state anche le nostre, verso quelle condizioni, quegli stati, che a nostra volta abbiamo vissuto. Questa consapevolezza dovrebbe portare a stare a fianco dei giovani, senza sostituirsi a loro, di modo che ciascuno trovi le vie d’uscita e le soluzioni che gli confanno, come anche a noi è capitato. Essere vicini significa anche essere sempre disposti a dare una mano se richiesti, a porsi in relazione per comunicare, per stare in comunione.
(1) R. Lambruschini, Della Educazione e Della Istruzione, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pp. 2-5
(2) J. Dewey, Democrazia e Educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 12
A proposito di integrazione, quando il made in Italy è indigesto
Ecco che Galli Della Loggia risale in cattedra, quella con la predella, per dichiarare che è ora di abbattere gli idoli e i loro miti come l’inclusione di tutti nella scuola di tutti.
È giunto il momento di riporre in soffitta la scuola inclusiva e sottrarre alle ragnatele dell’abbandono, spolverata e lustrata, la scuola meritocratica e competitiva.
Sa di parlare all’orecchio di un governo sensibile alle sue sirene e certamente al repertorio suonato dai pifferai, dalla Mastrocola al Gruppo di Firenze, della scuola oltraggiata.
Ora siamo alla “scuola menzogna” che copre lo scandalo — caso unico al mondo — scrive il nostro professore, per cui nelle nostre aule convivono regolarmente, accanto ad allievi cosiddetti normali, ragazze e ragazzi disabili, alunni con bisogni educativi speciali, ragazze e ragazzi stranieri. Il professore tralascia di dire che questo scandalo ci è invidiato da tutto il mondo.
Un made in Italy di quelli che non rendono quattrini e che semmai turba alcune coscienze, comunque un made in Italy che non piace al professore e non è certo quello che intende promuovere questo governo.
Mi sembra che ora il professor Galli Della Loggia faccia la parte dell’asino che si affaccia alla finestra della classe, quell’asino che Andrea Canevaro, fortemente indiziato per la diffusione del mito dell’inclusione, considera una grossa fortuna per un educatore, come meraviglioso strumento didattico. Noi però, contrariamente a Canevaro, sappiamo cosa pensa l’asino di quello che vede.
La cosa che inquieta in questo paese è che non c’è uno, dico uno, intellettuale a Destra o a Sinistra, che sia in grado di usare il verbo “innovare” o il sostantivo “innovazione” a proposito della scuoia e dell’istruzione. Non c’è una visione di prospettiva, una dimensione di processo, un’idea che sia un’idea per innovare, migliorare quello che questa nostra scuola si è conquistata con l’impegno professionale di tanti insegnanti e educatori, come l’inclusione, che certo non è perfetta, ma non ha bisogno di essere cancellata, piuttosto necessita di idee e risorse per progredire.
Invece no, il solone di turno, che nulla sa di scuola perché non la vive quotidianamente, perché l’avversa culturalmente, trova che anziché curare è meglio liberarsi dell’arto infetto..
E allora ci sono quelli che sottoscrivono Manifesti per improbabili Nuove Scuole, quelli che la scuola non educa più, che, alla faccia del patriarcato, lamentano che l’educazione ha smesso di essere la proiezione della funzione del padre, vedi Adolfo Scotto di Luzio.
Altri, come Susanna Tamaro, che incolpano Rousseau di tutti i mali di cui soffre l’educazione e vagheggiano l’uso del kyosaku, il bastone dei maestri Zen, da impiegare sui ragazzi selvaggi del nostro tempo.
Non so se ci rendiamo conto di sprofondare sempre più nella palude dei pregiudizi culturali che si fanno pensiero diffuso nell’anestesia mentale collettiva che insidia questo paese.
Il problema è che questi asini che infilano il muso dalle finestre nelle nostre aule sono talmente sicuri di se stessi che neppure si prendono la briga di studiare, perché tanto una volta sì che si studiava, quando andavano a scuola loro, e tanto a loro è bastato.
Se avessero letto ad esempio documenti come Nell’Educazione un tesoro, quello della Commissione UNESCO presieduta nel 1996 da Jacques Delors, ignorato nell’occasione della sua morte, a partire dal nostro ministro dell’Istruzione e del Merito.
In quel documento, di circa trent’anni fa, vengono indicati i quattro pilastri su cui dovrebbe poggiare l’educazione del ventunesimo secolo: Imparare a conoscere, Imparare a fare, Imparare a vivere insieme, Imparare ad essere.
Ora non dovrei essere io a spiegare al ministro dell’Istruzione e del Merito che se Imparare a vivere insieme e Imparare ad essere fossero praticati nelle nostre scuole, costituissero i pilastri portanti dei curricoli, non ci sarebbe bisogno né di ripristinare un arnese arrugginito come il merito né di inventarsi educazioni alla relazione. Non dovrei essere io neppure a spiegare al professor Galli Della Loggia che considerare l’Inclusione un mito da escludere dalle nostre aule fa palesemente a pugni con i due pilastri appena citati sopra.
E visto che sono sulla strada di utili suggerimenti inviterei a leggere l’ultimo documento dell’UNESCO, giusto per uscire dal campanilismo patriottico. È del 2021 e porta come titolo: Re-immaginare i nostri futuri insieme.
Reimmaginare, cioè immaginare di nuovo, non sognare il passato. Il passato, è ovvio, che non si può immaginare, è il futuro che si immagina, capisco che per il professor Galli Della Loggia e quanti come lui il futuro sia difficile da coniugare.
Però l’UNESCO l’ha coniugato anche per loro: Le scuole dovrebbero essere luoghi educativi protetti per l’inclusione, l’equità e il benessere individuale e collettivo […]. Le scuole devono essere luoghi che riuniscono gruppi diversi di persone e li espongono a sfide e possibilità non disponibili altrove.
Non si può equivocare:“luoghi educativi protetti per l’inclusione”, “luoghi che riuniscono gruppi diversi di persone e li espongono a sfide e possibilità non disponibili altrove”, Nietzsche scriverebbe che le scuole sono i luoghi dei “temerari del sapere”.
Fortunatamente l’inclusione è una realtà radicata e destinata a crescere, perché noi vogliamo vivere e vogliamo che le generazioni in avvenire vivano in un mondo in cui i bambini che si perdono nel bosco appartengano soltanto al mondo delle favole.
Merito e relazione l’ossimoro scolastico
Non si chiamano materie, neppure discipline, tanto meno aree disciplinari, anche se a volte rivendicano una non ben precisata interdisciplinarità o transdisciplinarità.
Sono le “Educazioni”. Educazione civica, educazione stradale, educazione alimentare, educazione ambientale, educazione alla salute e potremmo proseguire.
Non hanno vita facile, neppure hanno l’imprimatur dei Programmi o delle Indicazioni nazionali come le loro antenate Educazione domestica e Educazione fisica, tanto da non meritare né una cattedra né un orario, così col tempo finiscono per infrattarsi in qualche ripostiglio scolastico, salvo che non giunga un PTOF a rispolverarle.
È questo il modo in cui a scuola, luogo di apprendimento delle conoscenze e della cultura della propria specie, si esercita l’educabilità, cioè quella disposizione che, pur non essendo esclusiva dell’uomo, costituisce peraltro uno dei caratteri specifici dell’umanità.
Il teorico dell’educazione umanistica, il francese Louis Meylan, definisce l’educazione “come l’attività con la quale gli adulti si sforzano di dare al comportamento, ovvero ai vari modi di pensare, di sentire e di agire del fanciullo e dell’adolescente la forma che ad essi sembri più desiderabile.”(1)
Meylan, che scriveva nella prima metà del Novecento, doveva però essere consapevole della crisi che già allora attraversava l’educazione, se un secolo prima l’abate Lambruschini dalla sua tenuta di San Cerbone in Toscana avvertiva: “Ma quel che più merita di essere notato […] è la mancanza di principi direttivi, l’incertezza nella quale gli educatori ondeggiano sopra un tenore ben ordinato e costante di condotta verso i fanciulli […]. Un naturale un poco ribelle, un caso straordinario li coglie alla sprovvista; […] e s’abbandonano a quel partito che un propizio, ma ceco, buon senso suggerisce loro; o a quello che consiglia loro l’insipienza, la noia, l’amor proprio ferito. L’indocilità invece della sottomissione, la scioperataggine e la mala grazia invece della applicatezza e delle composte maniere. […] Cosicché si riducono a dolersi di sé e dei giovani, a non sapere più come condursi e a dare ragione a chi dice che i sistemi moderni di educazione sono inefficaci.”(2)
Al di là dello stile e del lessico pare scritto oggi, da questo punto di vista i social sono rivelatori. Prendo da un post di insegnanti a caso: “La riprovazione no, perché altrimenti ci sono i sensi di colpa e guai a sentirsi in colpa quando si sbaglia. E per evitare i traumi, abbiamo smesso di educare, abbiamo avuto paura di educare, di dire no, di dire che quel comportamento non va bene, di dire che quella cosa non la puoi fare perché non è giusto farla. Abbiamo paura, non ne abbiamo voglia, la coerenza costa energia, fatica, impegno. […] Poi, quando succedono le tragedie, tutti ad interrogarsi, a fare la disamina del disagio psicologico giovanile, a dare la colpa alla malattia mentale.”
Ora il ministro dell’Istruzione e del Merito decide che è giunto il momento, spinto dallo sgomento che l’assassinio di Giulia Cecchettin ha prodotto nel paese, di sperimentare nelle secondarie di secondo grado una nuova educazione: l’Educazione alle relazioni.
Alla notizia mi è venuto d’istinto pensare che una mela sana posta insieme a mele guaste finisce anche lei per marcire.
Semplicemente perché a scuola le relazioni sono malate e non è che si curano con interventi estemporanei rivolti agli studenti, semplicemente per il fatto che il problema di sapersi relazionare non è questione che riguarda solo i giovani, ma prima di tutto gli adulti a partire da quelli con cui i giovani trattengono rapporti ogni giorno a scuola. E se gli insegnanti sono quelli che scrivono post del tipo di quello sopra riportato non si fa che seminare in un terreno arido.
Quando il primo febbraio del 2023 una ragazza lascia un biglietto: “ho fallito negli studi” e si suicida, lo scalpore non è stato lo stesso che proviamo oggi per la sorte di Giulia e il tema della relazione a partire dalle aule scolastiche non ha sfiorato la mente di nessuno.
Anzi si è ciechi circa cosa può voler dire e può produrre per dei giovani adolescenti quel “Merito” che gli adulti di questo governo hanno voluto aggiungere all’Istruzione.
L’ha spiegato Albert Ellis con la sua RET, la terapia razionale-emotiva per liberarsi dei propri irrational beliefs, convinzioni rigide e irrazionali, come il bisogno dell’approvazione di chi si stima per sentire di valere, che occorre avere successo diversamente si è dei falliti, che la mancanza di rispetto degli altri e l’ostilità del mondo sono orribili e insopportabili.(3)
All’indomani del suicidio della ragazza del biglietto, un’altra ragazza scrive a la Repubblica: “La scuola italiana insegna che valiamo quanto un numero tracciato con la penna rossa. La scuola insegna la competizione, la demonizzazione di ogni sentimento. Se invece che darci un bonus da spendere ci regalaste professori che hanno una formazione, che amano quello che insegnano…”
Allora viene da pensare che il problema vero non sia nella relazione con gli altri, ma nella relazione con se stessi a partire dagli adulti.
Quando si oltrepassa il confine dell’inviolabilità della vita propria o dell’altro ritengo che si entri in un territorio che va ben oltre l’educazione alle relazioni, all’affettività e alla sessualità.
Ma sono convinto che servirebbe una campagna a tappeto, come si è fatto con la pandemia da Covid, di vaccinazione con la RET, per liberare adulti e giovani dai costrutti mentali che condizionano i nostri comportamenti.
Qui ritornano le parole con cui Freud chiude la sua lettera di risposta a Einstein che lo interroga sulla guerra: “La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni probabilità questa è una speranza utopistica. […] E’ triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina.”
“La dittatura della ragione”, ma la nostra scuola è uno dei mulini di Freud.
- L. Meylan, Educazione Umanistica, La Nuova Italia, Firenze, 1951
- R. Lambruschini, Della Educazione e della Istruzione, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pp. 2-3
- A. Ellis, R.A. Harper, A guide to rational living, Wilshire Book Co, 1997, pp. 101-127
La Maieutica
Leggo su Education Week l’articolo di un ricercatore, direttore degli studi sulle politiche educative presso l’American Enterprise Institute. Un articolo dedicato alla riscoperta del metodo socratico, che evidentemente pare essere stato dimenticato dalle scuole americane. Possibile che altrettanto valga per quelle italiane, non dispongo di dati in merito, sempre che si praticasse.
Quando studiavo pedagogia alle magistrali la maieutica socratica andava forte, cioè, ci spiegavano, l’arte della levatrice, quella di fare nascere il sapere dal di dentro dell’alunno, del resto l’etimologia di educazione, l’insegnante ricordava, è ex ducere, cioè condurre fuori. Le implicazioni poi di questo modo di concepire il sapere e l’insegnamento si perdevano nella nebbia del nozionismo scolastico.
Insomma, l’idea che il sapere per essere estratto, o meglio, per essere portato a galla, dovesse essere in qualche modo già posseduto, non era oggetto né di riflessioni né di approfondimenti.
D’altra parte il Socrate che noi si studia è quello che ci ha raccontato Platone col suo iperuranio, le anime che cadono per via dei cavalli imbizzarriti e la conseguente metempsicosi.
Non è che poi ti facevano leggere il Menone, sostanzialmente la dimostrazione pratica di come Socrate metteva in atto attraverso l’arte del dialogo, domanda e risposta, la sua maieutica.
Menone, schiavo illetterato, sollecitato dalle domande del filosofo, giunge a risolvere complessi problemi di geometria. Chi l’ha letto ricorderà che Socrate pone al giovane schiavo un quesito: “Se io ti disegnassi un quadrato, sapresti trovarmi un quadrato dall’area esattamente doppia del primo?” Menone, che nulla sa di geometria, d’istinto risponde: ”Il quadrato con l’area doppia lo ottengo creandone uno nuovo che abbia per lato il doppio del lato del primo quadrato”.
La risposta è sbagliata, ma lo schiavo riflettendo, sollecitato dalle domande del maestro, giunge a dare quella corretta.
Il dialogo, dunque, è l’esplicazione di come funziona la maieutica socratica. Potremmo dire che Socrate è stato il precursore di ciò che noi oggi chiamiamo problem solving.
Fra parentesi, per coloro che non avessero letto il Menone e fossero curiosi di conoscere la soluzione del problema posto da Socrate, consiglio di disegnare un quadrato e di tracciare le due diagonali, a questo punto la risposta dovrebbe essere intuitiva.
Abbiamo pagine di psicologia e di pedagogia che avrebbero dovuto facilitare la familiarizzazione della didattica con le tecniche del problem solving, rendere naturale il dialogo tra docente e studenti, il saper porre le domande da parte dell’insegnante e il saper ricercare le risposte a sua volta da parte dello studente senza il timore di sbagliare.
La vivacità dialettica non mi sembra un connotato delle nostre classi. Se vogliamo anche per comprensibili ragioni pratiche, come fai a gestire una didattica del dialogo con una classe di venticinque alunni, meno consistenti sono le osservazioni che così facendo non porteresti a termine il programma. Meglio teste ben fatte, per dirla con Morin, che teste infarcite come uova.
Ma la questione è di grande attualità, la formazione al problem solving, la richiede per primo il mercato del lavoro, ma a prescindere da questo, e per evitare critiche di aziendalismo, pensiamo per davvero di poter formare e crescere generazioni di giovani che non abbiano familiarità e confidenza con la problematizzazione della realtà? Con l’abitudine a ricercare le risposte, accedere alle banche dati, alle fonti del sapere che possono fornire gli strumenti per confezionare le risposte stesse?
Qualcuno ha parlato, ci ha scritto pure, di risveglio della classe creativa, ma è inconcepibile che ci sia ancora chi pensi che il progresso nel sapere, nella conoscenza, nella ricerca scientifica non richieda di sviluppare forti capacità creative, intelligenze capaci di pensare la realtà oltre la realtà stessa, di interrogarla e formulare ipotesi.
Le televisioni commerciali con la creatività ci fanno i soldi. I giovani devono capire ed essere attrezzati a fare della creatività il loro futuro e non soggiogare le loro menti ai prodotti più deteriori della commercializzazione della creatività umana.
La ricerca scientifica consiste nel risolvere problemi, la vita è costituita da problemi da risolvere e, quindi, apprendere a risolvere problemi significa apprendere a vivere, scriveva Karl Popper, come già più di un secolo fa John Dewey teorizzava la didattica per problemi, per non parlare di quello che è venuto dopo nel campo della ricerca. Ma noi abbiamo fatto la scuola dello spirito, la scuola dell’umanesimo dimenticando di allenare e tenere esercitate le menti dei nostri giovani, troppo faticoso.
E qui viene il dunque, che per praticare la maieutica, il problem solving non solo bisognerebbe organizzarsi in maniera differente da come sono strutturate le nostre scuole, e questo è già un problema, perché menti che lavorano hanno bisogno di laboratori, ma bisogna anche essere competenti, essere preparati.
Se non si è mai fatto, nessuno te l’ha insegnato come fai ad averlo imparato.
Forse è questa la ragione vera per cui nelle scuole americane la maieutica non ha radicato, come del resto nelle scuole di casa nostra, la maieutica moderna intendo, il problem solving, quello dell’insight alla Wertheimer.
Noi al massimo pratichiamo la maieutica del fai da te come canta in Spazio Tempo Francesco Gabbani.
La didattica della nostra scuola è ancora quella delle risposte, le risposte da apprendere dalla voce dell’insegnante, dalle pagine dei libri di testo, le risposte da riferire nelle interrogazioni, da esercitare con i compiti, da verificare con i test, con le prove oggettive a risposta multipla. Ma formulare le domande giuste per interrogarsi e ricercare è tutta un’altra storia.
E allora il metodo socratico diventa complicato, difficile da applicare bene. Il metodo socratico, osserva l’autore dell’articolo a cui facevo riferimento all’inizio, richiede che un insegnante abbia una profonda conoscenza dell’argomento specifico, una biblioteca di analogie rilevanti, una padronanza delle strade che il dialogo può prendere e la capacità di interpretare l’avvocato del diavolo.
Fare tutto questo bene richiede tempo e pratica, entrambi elementi che scarseggiano per gli insegnanti che corrono per portare a termine il programma, anche questo vecchio retaggio gentiliano.
Pertanto il problema più grosso che ha la nostra scuola e il suo futuro è quale profilo docente sia necessario progettare. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui lo sviluppo professionale, se adeguatamente disegnato può fare una grande differenza.
Oggi, naturalmente, alla faccia della maieutica socratica e della sua versione più moderna, quasi nessun insegnante ha ricevuto nemmeno un briciolo di tale formazione.
Psicopatologia del voto
C’era il professore di fisica che l’aveva interrogato sulla puleggia, ma lo studente aveva fatto scena muta e quindi era stato rimandato al posto con due. Eppure conosceva tutto sulle carrucole, ma non sapeva che puleggia e carrucola fossero la stessa cosa.
Da questo aneddoto molti anni fa, erano gli anni novanta del secolo scorso, prendeva l’avvio uno dei primi libri, pubblicati nel nostro paese, sulla valutazione scolastica del docimologo Gaetano Domenici. Docimologia è la scienza degli esami, termine introdotto dallo psicologo francese Henry Piéron, quando iniziò le sue prime ricerche sugli esami di licenza elementare nel lontano 1922.
Si poneva così la questione della valutazione scolastica e della sua affidabilità sulla base della quale docenti e responsabili del governo della scuola avrebbero dovuto strutturare le loro decisioni.
È che la valutazione come consapevolezza dei processi d’apprendimento e dei loro risultati ha sempre faticato a trovare cittadinanza nello spirito delle nostre scuole e del nostro insegnamento, timorosi d’essere contaminati dal germe dell’aziendalismo, tanto che ancora troppi sono i docenti, e non solo, che guardano con sospetto, quando non con ostilità, ai dati forniti di anno in anno dai test Ocse Pisa e da quelli dell’ Invalsi.
In compenso resistono i voti, con i loro ingredienti di soggettività ed emotività, di giudizi morali, di effetti pigmalione che nulla c’entrano con la misurazione degli apprendimenti e dei processi scolastici. I voti per cui, se sei anche un campione in fisica, ti abbasso il voto perché la tua condotta scolastica lascia a desiderare.
Ora il voto è imputato di produrre ansia e stress ed ogni discorso sulla validità e finalità delle valutazioni scolastiche passa in secondo piano.
Dalla scuola del merito all’ansia da prestazione degli studenti, al burnout degli insegnanti. La nostra scuola sempre più si avvia ad essere una maionese impazzita. Da un lato un ministro che ripristina lo spirito di competizione, dall’altro studenti e docenti che non reggono, che denunciano tutta la loro fragilità.
Studenti stressati dall’essere valutati, insegnanti, sempre più immiseriti nel loro ruolo, che, perdendo lo strumento del voto, temono di vedere ancora più svilita la loro funzione, dall’altra parte i genitori restii a rinunciare al voto che resta comunque l’indicatore prioritario per esercitare il controllo sull’andamento scolastico dei figli.
Psicopatologie, dunque, stati d’animo, stress dei protagonisti come se il teatro e il testo della commedia da mettere in scena ogni giorno poco contassero.
Dopo la pandemia da Covid il voto è divenuto l’imputato numero uno delle psicopatologie di tanti studenti, tale da indurre taluni istituti a relegarli esclusivamente al termine dell’anno scolastico.
Una sorta di tregua sul campo di battaglia che resta la scuola, una cura psicoterapica per consentire all’adolescenza di riprendersi dai traumi scolastici.
Curioso, perché nel frattempo l’antico ministero della pubblica istruzione ha perso l’aggettivo “pubblica” per recuperare il sostantivo “merito”.
Questo vezzo tutto italiano di affrontare i problemi del sistema scolastico a spizzichi e bocconi, tipo il liceo quadriennale sperimentale, ora la sospensione di voti e quadrimestri, lasciando inalterato tutto il resto come se ogni parte non fosse funzionale al tutto, come se si fosse potuto fare a meno di voti e quadrimestri o trimestri anche prima. E allora perché non si è provveduto per tempo? Perché alcuni sì ed altri no? Perché nascondere i voti per un intero anno scolastico per poi farli ricomparire al termine di esso? Farli ricomparire all’esame di stato?
Altroché psicopatologia del voto, qui siamo di fronte alla schizofrenia scolastica.
Preoccupa la cultura nelle cui mani è oggi posta la nostra scuola, dal ministro ai dirigenti, agli insegnanti.
Ma siete proprio onestamente convinti che siano i voti la vera causa del disagio di tanti studenti? Ci credete davvero? Le alte percentuali di abbandono e di dispersione scolastica non riescono a suggerirvi altro? È davvero preoccupante, perché significa che la nostra scuola non è nelle mani giuste.
Dovrebbe essere chiaro da anni che il problema dei voti è solo un aspetto, un sintomo di una crisi più vasta del nostro sistema formativo, con il suo seguito di modello docente prevalente, di cattedre, di interrogazioni, pagelle ed esami ed altro ancora. Tutto coerente con la filosofia persistente dell’ organizzazione gentiliana del nostro sistema scolastico, che ci si ostina a voler mantenere, quando da alcuni addirittura non si pretenderebbe di ripristinarne l’antico splendore, a dispetto dell’usura dei tempo.
Una struttura scolastica che ancora fa degli esami, anche questi di emanazione gentiliana, non solo il momento finale del processo, ma un fattore di condizionamento di tutto il processo, una motivazione che si sovrappone ad ogni altra motivazione, una gara che esalta il clima competitivo della vita scolastica e l’individualismo conseguente.
Un modello di insegnante che, essendo l’emanazione di questa struttura scolastica, finisce col subordinare alla funzione giudicatrice ogni altra funzione, collocando in essa la sostanziale motivazione dell’insegnamento, quando non la sua gratificazione.
Allora il disagio degli studenti è il sintomo di una contaminazione, di una infezione prodotta da una scuola disagiata e a sua volta disagiante, è l’espressione più eclatante della crisi della sua funzione, quella che dovrebbe essere oggi, rispetto ai bisogni formativi qui e ora, e non quella di ieri, di epoche che non ci sono più.
Lacrime di coccodrillo e sei in condotta
Ho letto e riletto l’articolo di Eraldo Affinati, L’importanza di un “no”, relativo al voto in condotta, pubblicato su la Repubblica del 20 settembre.
Non sono d’accordo. Intanto non ritengo che il sei, come il cinque in condotta, siano una necessità, un provvedimento “necessitato”, anche se accompagnato dall’ammissione muta di una sconfitta come insegnanti. Non abbiamo saputo fare di meglio, è un provvedimento a cui non ci possiamo sottrarre perché abbiamo a cuore la tua crescita.
Ti bastono, le bastonate fanno più male a me che a te, ma un giorno capirai che quelle bastonate sono state una cura benefica.
Non interviene il sospetto dell’anacronismo? Dell’ombra inquietante di una sorta di pedagogia nera? No, Eraldo cita don Milani, quello di L’equivoco don Milani scritto da Adolfo Scotto di Luzio, la nuova vulgata di chi vede la così detta “pedagogia progressista” come il fumo negli occhi.
L’affetto manesco, semmai senza mani, l’educazione preventiva che si nutre della stessa sostanza, come ineluttabili.
E allora il voto in condotta, portato all’estremo del sei e del cinque, e magari la convocazione davanti al giudice a partire dai dodici anni, il daspo urbano, il carcere preventivo, tutto necessitato, sebbene gli adulti avvertano di essere i veri sconfitti, ma questa è la cura per il bene dei giovani che sgarrano.
Se di fronte a provvedimenti punitivi, come sostiene Affinati, sono gli adulti ad aver fallito, equità vorrebbe che a pagare non fosse sempre solo il giovane, il più debole, ma anche l’adulto.
Il giovane punito con il sei in condotta, con la bocciatura e l’adulto, insegnante, o altro che sia, cosa fa, come risponde?
È possibile che Affinati non si renda conto della fragilità del suo ragionamento?
Quella condotta, che a scuola si vuol sanzionare duramente, ha sempre una storia che travalica il suo protagonista, l’ambiente e le persone con cui entra in relazione, emettendo condanne, non si fa altro che aggiungere pagine nere ad altre pagine nere.
A che serve “Insegnare al principe di Danimarca”, se poi esperienze come quelle raccontate da Carla Mellazzini e Cesare Moreno non si traducono mai in prezioso insegnamento per chi è chiamato a governare un’istituzione come la scuola, a chi a contatto con i giovani per crescere e formarsi insieme non sa ritornarvi con la mente?
Non ho ragione di dubitare della sensibilità educativa di Eraldo Affinati, tutt’altro, e forse per questo il suo articolo, soprattutto in questo momento che sta attraversando il paese e la scuola, non me lo aspettavo.
Pensavo che un educatore dovesse prendere posizione di fronte all’assurdità del voto in condotta, rispetto alla complessità dell’animo dei giovani, degli adulti e della loro relazione, complessità che soprattutto a scuola dovrebbe trovare cittadinanza per essere esplorata, sviscerata, compresa, mai catalogata da una censura e da una punizione.
Che non vuol dire che la scuola, come ogni altra comunità, non debba avere le sue regole necessitate dalla funzione di quel luogo che è lo studio e l’apprendimento, regole che di conseguenza devono essere rispettate se si vogliono raggiungere i fini per cui si frequentano le scuole.
Ma tutta la vita è una regola, ogni cosa per essere realizzata richiede che si seguano delle norme e questo si apprende da quando si nasce, fa parte della cultura della relazione tra noi e l’ambiente, che è una relazione obbligata da norme di comportamento.
C’è una educazione proattiva che nasce e si forma al di fuori della scuola. Se vuoi imparare ad andare in bicicletta devi apprendere a tenere l’equilibrio pedalando, se vuoi giocare al calcio devi essere in grado di coordinarti con i compagni di squadra, se vuoi studiare ti devi impegnare, e se le regole non si rispettano se ne pagano le conseguenze.
A scuola no, a scuola c’è “la condotta” che sarebbe il comportamento, ma il termine “condotta”, che sa d’antico, è più pregnante perché richiama un dovere etico, risponde ad un’idea di conformità morale e civile, di modello da eguagliare. Una volta c’erano gli studenti modello additati alla classe come esempio da seguire e premiati con la medaglia della bontà. Ora si addita e si punisce con la medaglia della cattiveria.
Non capita mai a nessuno? Non sfiora la riflessione che l’unico luogo della vita in cui si dà un voto in condotta, in cui la condotta è trattata come una materia senza statuto, è la scuola?
Ovunque si giudica il comportamento di una persona, a scuola invece si assegna un voto. Fuori della scuola, nella vita di ogni giorno ci sono le regole, se le violi sei in qualche modo sanzionato direttamente o indirettamente.
A scuola c’è una voto in condotta, che non è una necessità dello studio, perché in altri luoghi di apprendimento come l’università non esiste.
E allora quel voto che continua a stazionare nella scuola non è di per se stesso un messaggio di minorità nei confronti delle studentesse e degli studenti? È come valutarli, ancora prima di conoscerli, come incapaci di gestire se stessi? Di stare alle regole che sono necessarie allo studio e a chi nello studio vuol riuscire? È una dichiarazione di sfiducia a priori da parte degli adulti, in questo caso gli insegnanti. Non è un buon auspicio d’accoglienza.
Dunque, l’I Care di don Milani non necessita dell’affettività manesca del sei in condotta, ma di formazione alla coerenza a partire dagli adulti nel rispetto delle regole e nel pagare le conseguenze se vieni meno ai tuoi doveri.
Ma il rispetto delle regole si apprende dalla primissima infanzia non perché si è puniti, ma perché nella relazione con gli altri, nella relazione con l’ambiente se vuoi raggiungere il tuo obiettivo, ottenere un risultato è obbligatorio adattare e modificare i propri comportamenti.
Al contrario la schizofrenia degli adulti, a cui spesso assistiamo, è quella di ritenere che i piccoli non debbano avere limiti nei loro comportamenti perché devono crescere liberi e creativi, permettendo loro di tutto, con il risultato che non apprendono le regole dalle condizioni che ogni ambiente di vita impone e, improvvisamente, divenuti adolescenti, quegli stessi adulti, che sanno d’aver fallito, gli rifilano un sei o un cinque in condotta, il daspo urbano e il carcere preventivo per il loro bene.
Quando la scuola viene meno ai patti
Pare che il ministro dell’Istruzione e del Merito sia determinato a voler raddrizzare la schiena agli studenti che a scuola si comportano male. Coerente con la sua teorizzazione della funzione catartica della pedagogia dell’umiliazione, starebbe predisponendo un disegno di legge con il quale sancire che il voto in condotta farà media con le altre materie e con il sei in condotta si sarà rimandati a settembre in educazione civica. Perché poi con il sei che tradizionalmente nella scala scolastica corrisponde alla sufficienza? Per il semplice fatto che con il cinque, introdotto a suo tempo dalla ministra Gelmini, si è automaticamente bocciati in tutte le materie. Inoltre, poiché il salutare beneficio dell’umiliazione non deve mancare, quanti incapperanno in provvedimenti di sospensione superiori ai due giorni dovranno essere impiegati in attività di “cittadinanza solidale”, cosa significa esattamente staremo a vedere.
Da alcuni anni a questa parte, nell’indifferenza generale, come se le parole poco contassero e fossero tra loro intercambiabili, negli atti ufficiali “la comunità scolastica” è andata via via denominandosi “comunità educante”.
Espressioni che solo ad un’attenzione superficiale possono apparire equivalenti, ma che se dovutamente soppesate fanno emergere differenti sfumature semantiche.
La comunità scolastica è facilmente individuabile nella scuola e nelle sue finalità, la comunità educante è di più difficile identificazione, coinvolgendo tutti coloro che hanno in mente un progetto formativo e sono impegnati a perseguirlo a prescindere dalla scuola, o facendo anche uso della scuola.
Si potrebbe essere portati a pensare che la sostituzione della comunità scolastica con la comunità educante sia l’espressione inconscia di adulti frustrati dal loro fallimento nella relazione con i giovani che non sono come li vorrebbero, per cui non trovano altra soluzione se non quella di rafforzare la funzione correttiva dei comportamenti da parte della scuola puntando sulla condotta dei singoli.
Se è questa la “comunità educante” del ministro, a me pare assai prepotente e al limite del bullismo, dove il più forte impone la sua legge. Sì, perché la legge che il ministro vorrebbe vedere approvata dal parlamento confligge con quelle attualmente in vigore. Precisamente con lo statuto delle studentesse e degli studenti e con l’autonomia scolastica.
In particolare, il DPR del 1998, n.249, lo Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria, che ne stabilisce diritti e doveri, dove sta scritto al terzo comma dell’articolo 4 che: “Nessuna infrazione disciplinare connessa al comportamento può influire sulla valutazione del profitto.”
Sostanzialmente che il voto in condotta non può fare media con i voti nelle discipline, che se per il mio profitto nelle materie merito di essere promosso non mi puoi bocciare per via del voto in condotta. Se poi le famiglie ricorrono al TAR e questi dà ragione a loro, non c’è da stupirsi, perché sta scritto nella legge.
Cosa significa questo? Significa che il Ministero dell’Istruzione e del Merito, attraverso il suo ministro pro tempore, decide di venir meno al patto sottoscritto con studentesse e studenti nel 1998 e che è legge della repubblica. E già questo, di per se stesso, è sufficientemente diseducativo!
Viene meno senza aver interpellato né gli studenti né le loro famiglie. Decide di propria iniziativa che quello che in quel patto sta scritto è superato.
Forse qualcuno al ministero dovrebbe rileggersi un po’ di normativa e semmai fare pure avvertito il ministro.
È un principio di elementare docimologia non mischiare le mele con le pere ed è pure sancito da una legge dello stato italiano. È un principio fondamentale che non può essere violato. Punire le competenze per sancire una condotta è un moralismo vigliacco, è un modo per impoverire e svuotare la tua identità. Per svilirti, per umiliarti, per annullarti. È un’arroganza moralistica che si traduce in bullismo da parte dell’istituzione e di chi pretenderebbe di essere “comunità educante”. Sarebbe come negare a chi è rinchiuso in carcere per qualunque reato il diritto di studiare, il diritto a veder riconosciute le proprie competenze.
Un assurdo per un luogo che si definisce mediante lo studio e l’acquisizione delle conoscenze, il prodotto di un accecamento del cervello che non è ammissibile da parte di chi ha in mano le sorti formative dei nostri giovani, e che si spiega solo come l’esito di impotenza e impreparazione nell’affrontare i problemi complessi che pone la crescita di ogni giovane. Si spiega con l’accanimento terapeutico di chi sente di aver fallito come adulto e come scuola e si ostina a non prendere atto della propria inadeguatezza, scaricando come sempre la colpa sui più deboli quelli che ancora sono adolescenti. E questo non può che definirsi bullismo degli adulti.
Pare che ormai sia divenuta la prassi il divorzio tra normativa e quotidianità della scuola;. l’impressione è che gli insegnanti si mettano in cattedra senza mai aver letto neppure le Indicazioni curricolari nazionali relative al ciclo di studi in cui sono chiamati a insegnare. Che ci sia una sorta di routine consolidata a prescindere da quanto sancito dalle normative, tutto è sostituito dai libri di testo, dalle guide, dalle abitudini mai messe in discussione e le norme restano sconosciute nel cassetto.
Ora questo non vale solo per gli insegnanti, pare che valga anche per il ministero di viale Trastevere. Questa dell’idea del ministro e del suo disegno di legge sulla condotta ne è un esempio.
Non solo lo Statuto delle Studentesse e degli Studenti in tutti i suoi articoli, che richiamano la responsabilità degli studenti ma anche quelle della scuola viene ignorato, ma anche il DPR n. 275 del 1999 sull’autonomia scolastica.
Nel momento in cui il ministro vuole sancire per legge il tipo di punizione che deve seguire ai provvedimenti di sospensione si appropria di una competenza che non è sua ma che, per legge, compete ai singoli istituti scolastici ed ai loro organi di governo.
Quello del ministro è puro bullismo propagandistico che viola l’autonomia delle scuole e la finalità educativa a cui devono tendere i provvedimenti disciplinari, che solo a livello locale, caso per caso, realtà per realtà devono essere decisi e valutati, senza che ci sia un ministro a scrivere un codice penale erga omnes.
Adolescenza disturbo degli adulti
Adulto è colui che è cresciuto, si è fatto una cultura, o, per lo meno, una visione del mondo, e attraverso questa procede ad interpretare la propria vita e quella degli altri.
Ogni disturbo ai propri costrutti mentali è una rottura di equilibrio e poiché i corpi viventi tendono all’omeostasi, tutte le volte gli sforzi sono volti a ristabilire gli equilibri messi in pericolo.
Di solito è una buona dose di passato, immagazzinato come scorta delle proprie certezze, che aiuta in questa operazione di recupero dell’omeostasi tra il sé e il fuori di sé. Il nuovo non si può accumulare, figuriamoci poi il futuro che non c’è. Per cui tutto ciò che non appartiene a quanto è già stato consolidato (si potrebbe chiamare tradizione) viene vissuto con diffidenza.
Un giovane che cresce, e dunque non si può prevedere come si manifesterà, è uno dei tanti disturbi di fronte ai quali si possono trovare gli adulti con il rischio di vedere messo in pericolo il proprio equilibrio con sé stessi e il mondo circostante.
La natura ha fornito i mammiferi, tra questi i primati come l’uomo, d’un sistema di difesa che consiste nell’addestramento dei nuovi nati, giusto perché l’equilibrio raggiunto in millenni di evoluzione non venga di volta in volta minacciato.
Gli uomini hanno definito questo processo “educazione” e con il tempo si sono costruiti luoghi e prassi a questo specificamente dedicati.
E poiché è esclusivo degli umani adulti avere ciascuno la sua versione del mondo, ne deriva che anche le idee sull’educazione sono molteplici, alcune assurte a sistemi filosofici, altre a visioni trascendentali della vita con la pretesa di conformare ai loro télos le nuove generazioni in modo da garantire stabilità e continuità alle comunità sociali.
È successo che le comunità sociali cambiassero più rapidamente di quanto se ne potessero avvedere gli adulti, sempre più dipendenti dal passato per poter superare il susseguirsi di nuove crisi, di rotture di equilibrio e di conseguenti sforzi per tornare all’omeostasi.
Cambiamenti e tempi di recupero andavano sempre più assumendo velocità discordanti: le trasformazioni avanzavano e le crisi degli adulti crescevano, non riuscendo più a ricostruire coerenti visioni del mondo, costretti ad assistere al venire meno degli dei e delle ideologie.
Ecco che l’educazione non poteva più funzionare, perché non c’era più una visione del mondo a cui conformare le nuove generazioni, non c’erano più certezze su cui fondare le proprie condotte di adulti e la relazione con le nuove generazioni da educare.
Era successo che i rapidi sviluppi della scienza, delle tecnologie, le ricerche e i saperi avevano preso il sopravvento, rendendo sempre più obsoleta l’educazione e sempre più urgente e necessaria l’istruzione. La necessità cioè di attrezzare se stessi e i giovani ad affrontare le dinamiche di un’esistenza in continuo divenire, portatrice di sempre nuovi problemi e di sfide inaspettate.
Eravamo stati moderni, incantati dalla nostra modernità a cui avevamo affidato il nostro equilibrio perfetto, e non ci siamo accorti, o non abbiamo voluto accorgerci, che al posto della modernità ora c’era la postmodernità e noi c’eravamo dentro.
Intanto iI sapere cambiava di statuto, come ha scritto François Lyotard: “l’antico principio secondo il quale l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione (Bildung) dello spirito, e anche della personalità, cade e cadrà sempre più di senso”.
Cade l’educazione come principio, cadono le sue istituzioni: la famiglia e la scuola. È la morte dell’educazione, è la morte dei principi su cui poggia il nostro sistema scolastico, è la morte di chi ancora ritiene che il rapporto tra adulto e giovani debba fondarsi sull’educazione dei secondi e che, a questo scopo, siano necessarie comunità educanti.
Per Lyotard ciò che la postmodernità ha messo in crisi è il carattere principalmente narrativo del sapere, tanto da delegittimare i luoghi del suo racconto, della sua trasmissione. È, dunque, un gran bene che le nuove generazioni siano naturalmente digitali, perché non è più la trasmissione che li collega ai saperi, ma la connessione per avere accesso alle memorie e alle banche dati.
In “Scienza con coscienza” Edgar Morin scrive: “ Il vero progresso si verifica allorché la conoscenza prende coscienza dell’ignoranza che essa arreca: si tratta quindi di un’ignoranza cosciente di se stessi, e non della superba ignoranza dell’idealismo determinista che crede che un’equazione suprema gli permetta di illuminare l’universo o di dissipare il mistero”.
Abbiamo bisogno di laboratori di istruzione, di botteghe di istruzione, di luoghi dove ci si attrezza ad apprendere, a conoscere, innanzitutto se stessi. Non di cattedre e di classi anagrafiche educanti.
Laboratori, perché conoscere significa negoziare, lavorare. discutere, battersi con l’incognito, che si ricostruisce senza sosta, giacché ogni soluzione di un problema produce una nuova questione.
Allenarsi alla conoscenza, usarne gli strumenti, possederli anziché esserne sottomessi, sono le strade per attrezzare i giovani a gestire se stessi, esercitati fin da piccoli a misurarsi con le loro dinamiche, contraddizioni e aspirazioni, a costruire se stessi lontani da ogni tentativo di educarli per conformarli ad essere ciò che non sono e non saranno.
Mòlavi, teologo e poeta mistico persiano del 13° secolo, scriveva che gli amanti non hanno bisogno di incontrarsi da qualche parte, perché sono l’uno nell’altro da sempre.
Così è per adulti e adolescenti, sono l’uno nell’altro da sempre, ognuno con la propria singolarità.
Tutto ciò che nel tempo abbiamo costruito nel rapporto con le nuove generazioni altro non è che una sovrastruttura, la quale ha finito sempre più per allontanarci dalla possibilità di comprendere questa semplice verità che era sotto i nostri occhi.
È necessario che gli adulti ritrovino se stessi e che gli adolescenti siano forniti dall’istruzione degli strumenti che portano al sapere e a disporre del potere del proprio corpo e del proprio cervello per essere liberi di decidere e di scegliersi la propria adultità.
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