Io, ti ho levato da terra

Nell’antica Roma Levana era la dea protettrice dei neonati riconosciuti dal padre, perché levati da terra, sollevati, da cui deriva il verbo allevare. Pertanto non è genitore chi genera ma chi alleva. Anche per la nostra Costituzione è genitore colui che alleva, all’articolo 30 prescrive che è compito dei genitori “mantenere, istruire ed educare i figli”, che sono funzioni proprie dell’allevare. Tra l’altro madre e padre sono termini che non rientrano nel lessico “famigliare” dei padri costituenti.

In definitiva l’allevare è di gran lunga più importante nella vita degli uomini e delle donne del generare.

Non si comprende, dunque, l’ostilità all’uso della parola “genitore” nei documenti pubblici di questo Stato, se non per un reazionario spirito conservatore di una tradizione culturalmente superata dagli usi e costumi del nuovo millennio.

Ci sono delle storie da narrare, sono quelle dei nostri figli, dei figli che abbiamo sognato e continuiamo a sognare. Quello che i nostri figli sono è la storia di una relazione, la storia di come siamo stati con loro.

Nessuno entra senza timore in un luogo che non conosce e che per questo può temere, nessuno fa qualcosa volentieri se si sente a disagio, se fisicamente non sta bene.

Quando pensiamo ai nostri figli queste due cose dovremmo sempre tenerle presenti.

Quella bella cosa da cui ogni natura ha inizio, la nascita, è proprio questo. Alla nascita tutti ci giochiamo il rischio tra quello che lasciamo, il ventre della donna che ci ha accolti, per noi certo e conosciuto, e quello che ci attende là fuori: incerto e sconosciuto.

Nascere e immediatamente trovare il calore nell’abbraccio del corpo che ci ha voluti, che ci ha desiderati, che ci ama, è il primo messaggio che l’ambiente in cui siamo capitati è buono, ama il mio corpo e avrà cura di lui. Ma il messaggio ora necessita di continue conferme, quel corpo va nutrito, pulito, accudito con cura, con amore, con la comunicazione tra corpo e corpo, fatta di sorrisi, di sguardi, di voci, di carezze, di contatti continui. Il corpo più piccolo deve ancora continuare a sentirsi contenuto nel corpo più grande di chi lo ama, come prima avveniva nel ventre della gestazione. La crescita è distacco dal corpo che ci ha generati e poi dal corpo di chi ci ha amato fino ad allevarci, levarci in alto, per permetterci di passare dall’essere il cucciolo dell’uomo ad essere una donna o un uomo grande e anche una grande donna o un grande uomo. 

Ma ogni distacco che si rispetti richiede prima l’attaccamento a chi ci ha accolto, a chi ci ha accudito, a chi ci ha amato, a chi ci ha preso tra le braccia dopo aver varcato l’utero che dal ventre della gestazione ci ha condotto al dove siamo venuti al mondo. Del resto è il messaggio della vita che si svela da subito, ogni nostro passaggio è sempre un distacco, qualcosa che si lascia per altro, ma il distacco c’è solo se ho messo le radici come ogni pianta che cresce, e per mettere le radici occorre il terreno buono.

L’affetto comporta dedizione perché è effetto sull’altro, è fare per l’altro, è il discorso della passione per l’altro. L’affetto per i figli non ha sesso, non è lo stesso che si prova per chi si sceglie per compagno o compagna della propria vita. L’affetto per i figli ha una gratuità unica, sconosciuta a tutte le altre forme d’amore.

Ti sarò padre, ti sarò madre, questo è l’unico diritto ad essere dei genitori, che non è un diritto uterino.  Appare arduo pensare al crescete e moltiplicatevi della genesi biblica, dalla creazione al diluvio universale, senza presumere che diffusi nuclei omogenitoriali  e consistenti pratiche di uteri in affitto siano stati all’origine delle tante generazioni bibliche.

I padri e le madri sono quelli che sanno metterti le briciole in tasca, perché non ti perda nel bosco, perché nella vita siamo tutti dei Pollicino, il bosco attende tutti e non a tutti consente i ritorni.

Ecco perché non si può essere figli solo se generati dal fai da te coniugale, che chiama “figliastro” chi non nasce dall’unico selfservice omologato, come se la genitorialità fosse prerogativa esclusiva di chi ti ha fisicamente generato e non prevedesse l’amore, la donazione di sé, la dedizione. Qui misuriamo quanti passi manchino ancora da fare alla nostra cultura laica o cristiana che sia. Pare che facciamo fatica a voltarci indietro, ma dovremmo ancora vergognare di una cultura che ha coniato il termine “figliastro”, che ancora oggi non prova vergogna ad utilizzarlo. Una cultura che ha considerato fino a non molto tempo fa i figli nati fuori dal matrimonio come “illegittimi”, una storia che ha prodotto cognomi come “Degli Esposti” “D’Ignoto” “Lacagnina”, “Diotallevi” e potremmo citarne tanti e tanti altri, per cui viene da pensare se parlare di matrimonio non sia ostinarsi in una pratica davvero insana. 

Come scriveva Bruno Bettelheim non c’è un manuale che insegni a fare il genitore, per fortuna non è come le istruzioni per montare una bicicletta, perché il manuale è la nostra umanità, la nostra capacità di amare, la nostra capacità di mettere noi stessi a disposizione di una vita che deve avventurarsi nella vita, come è capitato a ciascuno di noi, una vita che non ha bisogno di noi per quello che siamo o che pensiamo, ma per come sappiamo starle accanto, essere presenti, trasmetterle calore, sicurezza, solidarietà, rifugio. Rifugiare la sua vita nella nostra e crescerla. 

Che dimensione e che portata hanno le onde dell’affetto! Fortunatamente sono in grado di infrangere i muri delle leggi umane, figuriamoci poi i ridicoli muri di carta edificati a preservare la famiglia naturale che tanto naturale non può essere, se in antitesi all’idea che ciò che esiste in natura non sia naturale. È come i prodotti di mercato che millantano ingredienti genuini.

E dov’è la gioia per una nascita, per una vita nuova, quando di una nascita si ha il coraggio di farne una disgrazia. Per quanto tempo Stato e Religioni sono stati i becchini della vita, e qualcuno ha la spudoratezza di fingere il pianto per i bambini mai nati.

Dove inizia e dove finisce il dritto della legge di intervenire sugli affetti delle persone? Quando è giusto e quando tutto ciò è ingiusto?

Se alzo dal suolo questa bambina o questo bambino, come erano usi fare i nostri progenitori, questa è mia figlia, questo è mio figlio e la legge non deve che prenderne atto a prescindere dal mio sesso, dal mio genere, da ciò che io mi sento. Diversamente lo Stato compie una prevaricazione nei confronti di quanto di più caro le persone possiedono che sono gli affetti. 

C’è ancora un analfabetismo nei confronti dei figli che spaventa. Ma questo alfabeto non si apprende dagli abbecedari per genitori, che insegnano a giocare al ruolo di mamma e papà con cui prendersi gioco della vita dei propri figli, con risultati che evidentemente non sono dei più entusiasmanti se ancora viviamo una democrazia e una società per le quali i catechismi continuano a prevalere sui diritti di bambine e bambini, dei ragazzi e delle ragazze, sul diritto degli affetti umani.

La vocazione religiosa del Merito

Dunque, il MIM, ministero dell’istruzione e del merito dovrà amministrare e gestire l’istruzione e il merito, insomma un dicastero al servizio, per stare alle etimologie, dell’istruzione e del merito. Prima doveva amministrare e gestire solo l’istruzione, ancora prima anche l’università e la ricerca scientifica, ora istruzione e merito insieme.

Viene spontaneo interrogarsi, trattandosi di esperienza nuova, priva di antecedenti storici, in cosa consista di preciso l’amministrare il merito. Dal sito web del ministero nulla risulta al riguardo, poiché alla voce “Missione e Funzione” non vengono fornite informazioni utili a cogliere la novità di questa “innovazione”.

Il grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia al lemma “merito” attribuisce ben sedici accezioni, tra queste l’accezione “scolastica”, che in assenza di altre indicazioni, essendo il merito ministeriale associato alla parola istruzione, si presume che si debba intendere in senso scolastico, vale a dire nel significato di: “Giudizio, valutazione che l’insegnante dà del prodotto e del rendimento dell’allievo esprimendolo per lo più attraverso punteggi e votazioni (anche nelle espressioni punti o voti di merito)”.

Se di questo si trattasse è difficile scorgerci una novità. Pare che una delle funzioni precipue della docenza, che sia scolastica o accademica, consista nell’attribuire un giudizio o un punteggio, in sintesi un voto, alle performance di studentesse e di studenti, che può essere seguito dal “cum laude” per i più meritevoli.

Non pare che tale prassi si sia offuscata nel tempo, tanto da doverne rinverdire e rinvigorire il valore facendo assurgere il merito a intitolazione di un ministero della repubblica.

Né si profilano all’orizzonte provvedimenti di frequenza obbligatoria, da parte di ciascun docente, di corsi in scienze docimologiche, con notevoli oneri per le già esigue casse dello Stato, al fine di bandire ogni rischio di soggettività nell’attribuire valore al merito di ogni singola ragazza e di ogni singolo ragazzo, garantendo così il massimo di oggettività nell’amministrazione e nella gestione del merito stesso.

Come intendere, pertanto, quel merito improvvisamente giustapposto all’istruzione, se non come una forma retorica, una sorta di tautologia, considerato che già l’articolo trentaquattro della nostra Costituzione obbliga la Repubblica a garantire che “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” raggiungano i gradi più alti degli studi. E perché allora non aggiungere al “merito” anche la “capacità”? Sarebbe come se all’intitolazione di ogni dicastero venisse aggiunto in pezzo dell’articolo tre della Costituzione, tipo: Ministero della Salute e della Dignità Sociale.

Quel “merito”, gestito così, denuncia un apparato visivo arcaico, come le rane che non possono percepire il mondo se non come un movimento di ombre, l’ombra del merito si estende sull’istruzione, con una logica rudimentale di conflitto e di contrapposizione.

C’è anche un’ombra teologica, quella della grazia amministrata dai sacerdoti di una Scuola che si fa Chiesa, la grazia salvifica che assicura la riuscita nella vita e la condanna dei reprobi nel sovraffollato girone della dispersione scolastica e dei Neet.

Cos’è il merito se non l’aspirazione a quello che non c’è, a quello che “non so se ce la farò”, a quello che non sono. Il principio del desiderio dell’io, desiderio dell’io indotto al di sopra di me e contro di me, senza interrogarmi, senza prendermi in considerazione, senza avermi consultato.

L’idolo che ha la sua antitesi nel fallimento, come condanna e come caduta a terra, nell’annientamento della propria stima. La negazione d’ogni formazione all’autostima, alla fiducia in se stessi, occorre apprendere a competere, non a sapere, non a conoscere. Non ad apprendere che il mondo non è fatto di bianco e nero, di più e meno, non è una realtà binaria come un computer o come il mio smartphone, ma qualcosa di estremamente complesso che non si impara a comprendere con la competizione alla formula uno del  merito.

Il merito è il premio, il paradiso, la virtù, il bello e il bene, l’iperuranio scolastico. Il resto è il cavallo imbizzarrito che costringe l’auriga a ricadere a terra, a reincarnarsi in un’altra prova, in un’altra gara per tentare l’ascesa tra le anime elette, degne di contemplare il mondo dove risiedono le idee, dove risiede il sapere vero, non quella volgare mimesi che ti ammanniscono sui banchi di scuola.

La teologia del merito salvifico pretende il sacrificio, ossia il farsi “sacer”: sacri o maledetti.

Idolatrati, ammirati, premiati, incoronati dall’alloro o detestati, innanzitutto da se stessi, e umiliati.

Il merito è desiderio, è mira, target da conquistare. Solo un soggetto animato dal desiderio può idolatrare, il desiderio fa dell’oggetto che si vuole possedere il suo idolo.

Il merito si trasforma in idolo, in narcisismo umano, scriverebbe Nietzsche, togliendo valore all’istruzione in quanto tale, asservendo a sé generazioni di studenti come il vincolo di una qualunque religione che, come il combustibile VUDD, la Voglia Universale di Diventare, muove il mondo immaginario di Kurt Vonnegut nel suo “Le sirene di Titano”.

Un ghost written ministeriale

Non conosco l’autore del documento riprodotto qui di seguito essendone venuto in possesso accidentalmente. Le vicende che mi hanno portato a trovarlo mi fanno supporre che il suo estensore potrebbe essere un ghost writer del Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Se qualcuno dovesse riconoscersi nello scritto per comune sentire potrebbe aiutarci nell’attribuzione dello scritto stesso al suo autore.

Nell’accingerci al grande compito di risanamento spirituale e materiale che incombe al nostro Paese in questa epoca gravida di liete promesse e di oscure minacce, il nostro primo pensiero deve essere rivolto al rinnovamento radicale del sistema nazionale di educazione. Bisogna rinnovare la coscienza delle nuove generazioni, se vogliamo trarre frutti adeguati.

La aspra prova delle crisi e dei governi che finora si sono succeduti alla guida del Paese, nonostante  le mirabili doti spontanee del nostro popolo, a nessuno secondo, ha messo a nudo gravi lacune nella compagine spirituale della nazione, specialmente in quelle classi che dagli studi avrebbero dovuto attingere il sentimento religioso della legge e della subordinazione individuale ai supremi interessi collettivi, la fede operosa, l’allenamento morale, la visione realistica delle cose e il senso di concretezza.

Questo sbandamento, questa specie di distrazione della gioventù è il frutto di una scuola invecchiata, svagata, che da troppi anni ormai non tempra, ma piuttosto ne disintegra la coscienza e il carattere.

Occorre che essa trovi in sé stessa la capacità di rinnovarsi: ma non si può avere fiducia  in una classe docente animata da intenti esclusivamente economici, che si è dimostrata incapace di difendere i supremi interessi collettivi.

Occorre fondare una cultura scolastica nuova a partire dagli insegnanti, opposta a quella che fin qui si è affermata attraverso i governi della sinistra. 

Lottare contro il protezionismo monopolistico statale sulla scuola, e incoraggiare, quindi, l’iniziativa privata, contro la sopravvalutazione dei diplomi; operare perché si colmino le gravi lacune della istruzione professionale; imporre una migliore preparazione agli insegnanti di tutti gli ordini e gradi scolastici. 

Scuola nazionale non significa scuola governativa opposta alla scuola clericale o privata: scuola nazionale significa una scuola capace di ridare un’anima all’opera educativa, capace insomma di rinnovare la coscienza nazionale della Patria e della Famiglia.

Ora è finalmente giunto il momento del riscatto, restituendo alle nostre scuole il compito di educare, di affermare il valore morale dell’educazione per formare lo spirito, perché ognuno se ne faccia interprete e si appropri del ruolo che la Storia gli ha assegnato.

Benemerito è il ministro che con ascetico coraggio ha inteso richiamare i nostri studenti alla disciplina dell’Umiltà, virtù cristiana che lungi dall’abbattere l’individuo lo esalta al di sopra delle proprie debolezze umane.

E ancora li abbia spronati al cimento nel concorrere al merito per le proprie qualità di studio e di impegno, come sacrificio degli ardui studi, delle sudate carte. Sana competizione nella corsa verso il sapere, verso quella Scienza, anzi Verità, che i nostri antichi greci collocavano al disopra delle vicende mortali, di là dalla storia tormentata da contrasti fatali di errori, da tentennamenti, dubbi e desideri insoddisfatti di sapere.

Educazione intellettuale ed educazione morale sono tutt’uno; educazione dello spirito ed educazione del corpo sono egualmente una stessa educazione. Fruga di qua, fruga di là, si ottiene sempre lo stesso risultato: che cioè l’educazione è formazione, e cioè sviluppo, o divenire dello spirito; e poiché lo spirito consiste appunto nel suo divenire chi dice educazione dice spirito, e nient’altro.

Mens sana in corpore sano abbiamo appreso dagli antichi. Il valore dell’educazione fisica. L’educazione fisica degli antichi è educazione spirituale in quanto per gli antichi lo spirito essenzialmente è corpo anch’esso. L’educazione fisica dei moderni è la formazione spirituale del corpo: è l’addestramento del corpo che serve allo spirito, così come lo voleva l’asceta medievale; ma a uno spirito che non intende chiudersi astrattamente in se stesso, sequestrandosi dal mondo dell’esistente; anzi vuole spaziare liberamente e investire la natura, e soggiogarla ai propri fini, strumento e specchio della propria volontà. L’educazione fisica dei moderni è educazione spirituale in quanto lo stesso corpo è spirito; e la scienza non è più soltanto speculazione di verità oltramondane, ma scienza dell’uomo, e dell’uomo nell’universo. In questo concreto concetto dello spirito, che non esclude più nulla da sé, acquista concretezza il concetto cristiano dell’educazione fisica. La quale mira bensì al corpo strumento del volere, ma non del volere che rinunzia al mondo, bensì del volere che al mondo si volge come al campo delle sue battaglie e delle sue vittorie, anzi della sua stessa vita.  Al mondo che gli sta sempre innanzi quasi in atto di sfida, e come ribelle, e che egli doma faticosamente facendone la forma del proprio divenire.

Allora benvenga l’iniziativa del nostro presidente del Senato, il quale al raduno degli alpini  a Milano ha annunciato di essersi fatto promotore di un disegno di legge per ripristinare in questo paese, per una più maschia formazione della nostra gioventù lasca e choosy, la naja. Non la leva, non la coscrizione, ma la naja volontaria, per quaranta giorni. 

L’uso del termine “naja” volutamente scelto sta a significare l’importanza di questa esperienza ormai perduta, per la formazione del carattere dei nostri giovani. Altroché bullismo, una sana naja per quaranta giorni, con il vantaggio non solo di forgiare la propria personalità ma di godere poi dei benefici che ne deriveranno come i crediti formativi da vantare all’esame di maturità e il punteggio aggiuntivo per la laurea e per la partecipazione ai concorsi pubblici.

Un modello di educazione nazionale che consentirà di invertire la parabola di caduta nella formazione dei nostri giovani come effetto dei danni prodotti dalla scuola progressista.

Per troppo tempo i problemi educativi sono stati trattati con superficialità, senza il necessario rigore. 

Non si può rientrare nella scuola senza recarvi uno spirito nuovo per rimuovere le tante abitudini accettate passivamente dall’andazzo realistico, materialistico e pedantesco dell’educazione democratica. In ogni parola, in ogni istante dell’opera nostra si farà sentire un nuovo dovere e innanzitutto la necessità di far diversamente da quello che è stato insegnato dai seguaci del pedagogismo progressista.

Il Ministro dell’Umiliazione Nazionale

Oliver Twist. *watercolour drawing *29 x 21.7 cm *signed b.l.: C.E. Brock

In un celebre Fioretto riportato dai libri di lettura della mia infanzia, san Francesco spiega a frate Leone cosa sia la “perfetta letizia” alla quale la laica e pagana resilienza neppure assomiglia. La perfetta letizia è il piacere d’essere umiliato, vilipeso, una sorta di masochismo esaltato come ascesi. Non so se l’attuale ministro dell’istruzione e del merito (diciamolo tra parentesi, già il merito puzza di umiliazione per quelli che merito non hanno) sia un terziario francescano, certo è a digiuno, per stare nell’ascesi, di pedagogia, per lo meno di quella non nera.

Di fronte all’uscita, rivelatrice, del ministro mi è tornata immediatamente alla mente l’iniziativa del suo alleato di governo, onorevole Maurizio Lupi, che nella scorsa legislatura si fece promotore di un disegno di legge per introdurre nei programmi scolastici della Repubblica l’educazione alle competenze non cognitive. Ecco che il ministro l’ha preso in parola, pensando bene di iniziare con l’educare all’umiliazione; competenza indubbiamente non cognitiva, con i lavori socialmente utili come conseguenza punitiva. Tenere pulita e in ordine l’aula dove lavori e studi è umiliante, perché è come se fosse una punizione. Bella educazione a proposito di educazione civica, materia reintrodotta al posto di Cittadinanza e Costituzione!

Comunque invito a riflettere i fautori della comunità educante, con cui si sono riempite nei tempi recenti circolari e pagine di buoni propositi, a considerare quanto può puzzare una comunità quando pretende di essere “educante”, solo questo dovrebbe consigliare molti a rivedere il proprio lessico e la propria riflessione pedagogica.

Certo, invece di perdersi a discutere di merito senza entrare nel merito, qualcuno un po’ più avveduto in materia di scuola e formazione avrebbe dovuto intuire immediatamente che dietro al Ministero dell’Istruzione e del Merito in realtà si celava il Ministero dell’Educazione Nazionale di antica memoria, ora uscito smaccatamente allo scoperto con le parole del suo ministro.

In pieno revival gentiliano il ministro propone il ritorno alla restaurazione dei valori della “gloriosa Destra che guidò l’Italia al Risorgimento”, rivalutando quindi l’autorità dello “Stato forte, concepito come realtà etica” anche nel campo formativo, da qui la missione  di cui il ministro ha deciso di farsi paladino di “correggere” e “raddrizzare” il legno storto della gioventù.

Humus è la radice latina di umiltà, di umiliazione, e humus è la terra, ciò che sta in basso, ciò che sta sotto i nostri piedi. Invece di levarti da terra, invece di farti crescere, ti abbatto, ti respingo a terra, annichilito, annullo la tua vita, la tua identità. 

Come chiamare tutto ciò, se diventasse pedagogia della scuola, se non bullismo di Stato? L’umiltà praticata come obiettivo formativo è violenza ovunque essa si concretizzi, in famiglia come a scuola, perché è negazione di sé, è sfiducia in se stessi, pastoia culturale e psicologica che impedisce la crescita e la piena realizzazione della propria vita. “Meglio la morte con dignità che la vita con umiliazione”, non ricordo dove l’ho letto, ma mi è rimasto impresso.

L’umiltà sarà pure una virtù cristiana ma confligge con la dignità che è una virtù laica.

Ma l’umiliazione dal sen fuggita al ministro neppure avrebbe dovuto attraversare la mente di chi occupa il dicastero dell’istruzione, perché il lapsus freudiano è rivelatore di un modo di pensare, di una cultura, di pulsioni radicate.

Per troppo tempo la pratica dell’umiliazione ha accompagnato la storia scolastica di generazioni di bambine e bambini, di ragazze e di ragazzi. Quanti hanno affrontato l’esperienza di essere umiliati dai loro insegnanti e compagni di classe. Insegnanti che non hanno mai pensato a come ci si possa sentire male in quei momenti, danneggiando la fiducia nella scuola, fino a odiare l’insegnante e lo studio. E semmai si comportavano così, perché a loro volta era accaduto di essere stati umiliati a scuola.

Secondo diversi sondaggi, gli insegnanti scelgono di umiliare gli studenti per ottenere il controllo su di loro, per spaventare la classe e mantenere la disciplina. Alcuni insegnanti pensano che sia giusto umiliare gli studenti come rinforzo negativo. Altri ancora ritengono che gli studenti siano abituati a umiliarsi tra loro, soprattutto sui social, per cui dal cyber bullismo si passa al bullismo della cattedra.

D’altra parte anche recentemente le cronache non hanno mancato di riferire pratiche di umiliazione scolastica, dal professore che si rifiuta di ritirare il compito dello studente trans, a quello che si rivolge agli studenti di religione ebraica dicendo: ”voi nasoni dovete essere cremati”, per finire con la maestra elementare che, alla mamma che chiede alla sua piccola, sofferente di autismo, perché piange, risponde: “cosa glielo chiede a fare, tanto non sa parlare!”. E l’elenco potrebbe ancora continuare.

A un ministro giurista non è richiesto di avere né una competenza pedagogica e neppure psicologica, ma di riflettere prima di parlare questo sì, specie relativamente a terreni particolarmente delicati e scivolosi. 

Sapendo che mio figlio è nelle mani di un simile ministro io non esiterei a scendere in piazza e a chiederne le dimissioni, ma ho l’impressione che il paese soffra di una corruzione culturale che ormai non salva più nessuna forza politica.

La cosa maggiormente preoccupante è che, di fronte a chi pensa di azzerare le conquiste dell’educazione progressista, riproponendo la pedagogia correttiva, non vi sia un sussulto di dignità professionale di chi lavora nella scuola, a partire dagli insegnanti e dai dirigenti. 

A meno che vi sia chi nelle iniziative del ministro scorga un recupero di ruolo e di autorità dopo decenni di caduta  del proprio prestigio sociale.

Allora significa che davvero questa scuola ha toccato il fondo, è giunta al punto di non ritorno. Significa aver abbandonato la scuola nelle mani di un personale sempre più squalificato  e frustrato, privo delle competenze indispensabili per poter affiancare i nostri giovani di ogni età nell’incontro con i saperi e nella loro crescita.

C’è di peggio. Di fronte a giovani riottosi all’autorità dei genitori e degli insegnanti, la ricetta populista è quella dell’umiliazione nazionale con il ritorno all’autorità di uno Stato educante.

IL VOLTO GESUITICO DEI VOTI

 

Era facilmente prevedibile che l’attenzione dal merito scivolasse sui voti. È stato sufficiente  il lancio di stampa che al liceo Morgagni di Roma si sperimenta la scuola senza voti  che l’italico qualunquismo pedagogico si scatenasse, come se una scuola senza voti fosse destinata all’estinzione. Del resto, se questo governo ritiene che l’istruzione deve essere sorretta dalla stampella del merito, è evidente che una scuola senza voti è una pugnalata alla schiena. Il merito per essere tale necessita di una graduatoria, appunto la graduatoria di merito, e a scuola le graduatorie (come tante altre cose) dai tempi della gesuitica ratio studiorum si fanno con la scala ordinale dei voti in numeri o in lettere come nei paesi anglosassoni.

Quando l’idraulico viene a casa ad aggiustarmi la doccia che non funziona, al termine del suo lavoro non gli do un voto, lo pago sulla base della fattura che mi rilascia. O ha riparato la doccia o non l’ha riparata, è abile o non è abile, è competente o non è competente. In definitiva funziona una logica binaria.

Tutta la nostra vita poggia sull’aperto/chiuso, dentro/fuori, sopra/sotto, negativo o positivo.

A scuola no. La logica è quantitativa, il sapere va a peso. Domina la domanda che la figlia fa al padre in un famoso metalogo di Gregory Batison: “Papà, quante cose sai?”

E siccome il sapere non si può pesare e neppure misurare è compito degli insegnanti impilarlo nella scala decimale, ne va del loro ruolo, della loro autorità, del loro prestigio sociale.

Il voto è un potente ricatto, una punizione morale double face che fa dello studente un somaro come un secchione. È comunque l’anima del profitto scolastico, l’incentivo a studiare.

Sui voti a scuola si potrebbero scrivere pagine di luoghi comuni e a leggere certe giudizi che definiscono la sperimentazione del Morgagni “un’idea scellerata” si ha l’impressione  che se a qualcuno gli togli dalla scuola il registro e le pagelle gli crolli un intero mondo di certezze addosso. La sociologia ci insegna che la resistenza alle scuole senza voti è dovuta tanto al peso dell’abitudine quanto al conforto che la loro comunicazione fornisce.

Il fatto è che le ragioni dei sostenitori del sistema dei voti non hanno nulla a che vedere con le pratiche di valutazione fondamentali per dar forma all’insegnamento e all’apprendimento.

I voti da 1 a 6 delle scuole gestite dai gesuiti nel secolo XVI° facevano parte di una didattica fondata sulla ripetizione come metodo per assimilare le materie di studio. Pratica ancora in auge nei nostri istituti secondari in cui prevale la didattica della ripetizione: lezioni ex cathedra, interrogazioni e quindi voti sul registro. Ma si tratta di scuole che sono fuori dal tempo, dove ancora si misurano le nozioni anziché i processi per acquisire quelle competenze che pure sono dettagliate dalle Indicazioni nazionali. Le competenze non si misurano né con la scala decimale né con quella pentenaria. Le competenze o sono possedute o non sono possedute. Ciò che è necessario valutare è lo stato del processo per acquisirle pienamente, che richiede due forme di autovalutazione quella del sistema per individuare come sostenere lo studente nel suo processo di apprendimento e quella dello studente stesso, per essere consapevole di sé, per conoscere come procedere, cosa ha acquisito e cosa ancora gli manca.

L’assurdo dei voti numerici è che per essere comunicabili e compresi hanno bisogno di descrittori, vale a dire di narrazioni, grande conquista democratica rispetto ai tempi andati quando il voto dell’insegnante era una cifra e niente più, se non un “non si impegna”, “si deve impegnare di più”. Ma se i voti si devono narrare che senso hanno i numeri, se non per fare delle graduatorie di merito o di demerito?

È che poi le narrazioni dei voti sollevano il velo su una scuola che non è poi tanto diversa dalle istituzioni gesuitiche nonostante i secoli che ci separano. Sulle competenze che neppure sono prese in considerazione prevale la ripetizione.

Non cito la fonte, prendo “una griglia di descrizione del valore numerico dei voti” da un liceo a caso:

10. Eccellente: conoscenze complete e approfondite, elaborate in modo personale e critico anche operando collegamenti interdisciplinari. Uso competente della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche. Esposizione brillante.

9. Ottimo: conoscenze complete e approfondite, sostenute da capacità argomentativa e di collegamento tra discipline. Fluidità ed organicità espositiva, uso appropriato della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

5. Insufficiente: conoscenze incomplete e superficiali dei contenuti. Difficoltà nel coordinamento logico. Uso improprio della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

Già la descrizione del valore numerico dei voti è inquietante per una mente normale, ma passiamo oltre. Il valore quantitativo del numero è trasposto in un aggettivo qualificativo, tanto vale usare direttamente gli aggettivi, ma questo lasciamolo ai tanti misteri gloriosi del nostro sistema scolastico.

La cosa che colpisce è la narrazione che si fa del sapere, delle conoscenze la cui padronanza è evidentemente misurata sulla ripetizione e sulla retorica, sull’oratoria: “esposizione brillante”, ne più ne meno di quanto accadeva nei collegi della ratio studiorum. Le conoscenze non sono competenze, nulla di applicativo che emerga da queste narrazioni, fatto salvo per quella linguistica, che ci sta con la scuola della retorica. Prevale la nozione, la quale in quantità incompleta produce l’insufficienza.

Senza voti come si fa a motivare gli studenti, ottenere il loro impegno nello studio? Se manca la pratica del bastone e della carota nessuno più si impegnerà a scuola e il risultato sarà una società di ignoranti e di incompetenti.

No. Abbiamo la necessità che a scuola si affermi una cultura differente.

Una scuola capace di trasmettere la passione per lo studio, per la sua forza attrattiva, dove l’apprendimento è un follow up individualizzato. Una scuola senza voti rende più facile apprezzare lo studio per se stesso e il pensiero critico, rompendo con la pratica della strumentalizzazione del sapere in funzione del voto, costringendo alla massima attenzione  verso i  fattori motivazionali degli studenti e la psicologia dell’apprendimento.

La scuola senza voto richiede  insegnanti preparati nelle pratiche di valutazione verso approcci sempre più formativi nell’ottica di una progressiva ottimizzazione degli apprendimenti e delle competenze.

La sperimentazione del liceo Morgagni di Roma è sulla lunghezza d’onda di tutto questo e  delle tante scuole che dalla Francia agli Stati Uniti stanno sperimentando come passare dal sistema di valutazione della scuola delle nozioni al sistema di valutazione della scuola dell’apprendimento basato sulla padronanza e sulla competenza.

Moheeb Kaied frequenta la seconda alla Scuola Media 442 di Brooklyn, una mattina ha detto: “Vediamo. Posso trovare l’area e il perimetro di un poligono. Riesco a risolvere problemi matematici e del mondo reale utilizzando un piano di coordinate. Devo ancora migliorare nella divisione di numeri a più cifre, il che significa che probabilmente dovrei esercitarmi di più”. Moheeb fa parte di un nuovo programma che sta sfidando il modo in cui insegnanti e studenti pensano ai risultati dell’apprendimento,  la sua scuola è una delle centinaia che hanno eliminato i tradizionali voti in lettere all’interno delle loro classi. 

Alla Scuola Media 442, gli studenti sono incoraggiati a concentrarsi invece sulla padronanza delle competenze. Non c’è fallimento. L’unico obiettivo è apprendere il materiale da padroneggiare, prima o poi.

Per gli studenti in difficoltà c’è molto tempo per esercitarsi finché non sono acquisite le capacità. Per coloro che afferrano rapidamente i concetti c’è l’opportunità di andare avanti rapidamente. La strategia sembra diversa da classe a classe, così come il materiale che gli studenti devono padroneggiare. Ma in generale, gli studenti lavorano secondo i propri ritmi attraverso fogli di lavoro, lezioni online e discussioni in piccoli gruppi con gli insegnanti. Ricevono frequenti aggiornamenti sulle competenze apprese e su quelle che devono ancora acquisire. (1)

Anche qui niente di nuovo, nulla da inventare che non sia già stato sperimentato. Chi ha familiarità con la storia della pedagogia ricorderà certo il Piano Dalton dal nome della cittadina del Massachussets dove agli inizi del secolo scorso Helen Parkhurst sperimentò il suo metodo.

Nella scuola senza voti, senza registri e pagelle cessano di esistere le continue bugie che i numeri e le lettere raccontano sull’apprendimento. Gli albi d’onore e di merito scompaiono. Scompare di conseguenza anche il ministero dell’istruzione e del merito, per tornare Ministero della Pubblica Istruzione come impegno della Scuola dello Stato ancora prima che degli studenti.

Gli insegnanti imparano a valutare efficacemente i risultati scolastici e gli studenti diventano studenti indipendenti, spinti dalla curiosità e dall’ispirazione piuttosto che dalla vuota promessa di un voto “buono” o dalla minaccia di uno “cattivo”.

Ora, questa può sembrare solo un’idea grande, forse persino irrealistica. Ma la scuola senza voti esiste già nelle scuole di tutto il mondo, basta guardarsi attorno e, naturalmente, studiare. 

 

(1) “A New Kind of Classroom: No Grades, No Falling, No Hurry, in The New York Times, 11 agosto 2017

Una scuola sconfinata

“Una scuola sconfinata” è il programma che raccoglie la mappa delle opportunità formative, ben 131 progetti, offerte alle scuole dalla nuova Giunta Capitolina, con il coinvolgimento di una pluralità di soggetti istituzionali, cooperative, volontariato e associazioni con l’ambizione di raccontare e ridefinire la relazione tra scuola e città in direzione di Roma Città Educante.

Questa mappa punta alla contaminazione tra scuola e vita culturale della città, scommette sui “bordi”, sulle zone liminali, sugli sconfinamenti. Con l’idea che una scuola sconfinata produca una città educante”

(Clicca qui sotto) 

Entriamo nel “merito”

Se sono povero di parole anche il mio pensiero sarà povero, se le parole sono sempre le stesse anche il mio pensiero sarà sempre lo stesso.

Ci mancano le parole per immaginare un mondo nuovo e rischiamo di usare solo quelle vecchie che appartengono a un mondo che non c’è più.

Per chi guarda al passato e sogna una sua restaurazione questo non costituisce un problema perché il  vocabolario che gli serve è sempre lo stesso.

Contrapporre alla riproposizione di quel passato le parole che possediamo da sempre è come cadere nella trappola, oltre a rilevare la debolezza del nostro pensiero ormai usurato dal tempo.

È quello che ci accade nella comunicazione pubblica per cui ci facciamo catturare dalle parole che ci sono famigliari e diffidiamo dei linguaggi che ci sembrano stranieri. 

E soprattutto sono lingue straniere quelle che provengono da mondi che ancora non ci sono e che non ci saranno mai se nessuno si assumerà l’ardire di iniziare a gettare le fondamenta per costruirli.

Un mondo che attende di essere costruito di nuovo è quello della scuola che non c’è. Mentre tutti bombardano l’edificio vetusto d’oltre un secolo, c’è chi pensa di ricostruirlo a immagine di come era e di come è sempre stato.

Allora se c’è chi pensa che la scuola deve selezionare, deve bocciare e in questo fa consistere il merito, semmai trovando d’accordo ampia parte di un pensiero pubblico immiserito dalle parole, che crede che chi non si impegna non merita di essere aiutato e quindi va sanzionato, caschiamo nell’inganno del moralismo per cui un furto è sempre un furto anche se rubi per fame.

Allora non è che i vessilliferi del merito li sconfiggi contrapponendogli l’articolo 3 della nostra Costituzione, perché il problema non sta nella selezione, nel merito e nelle bocciature, ma nel mantenere nel secolo nuovo un sistema formativo forse buono per il passato ma non per il futuro dei nostri giovani.

È la morte del futuro che continuamente ci viene proposta e da questa logica non possiamo farci irretire.

Non è più accettabile fornire ossigeno a un sistema formativo che è nato per selezionare anziché per promuovere, anziché stare accanto alla persona che cresce per sostenerla, accompagnarla, sorreggerla, sollevarla quando cade, assisterla quando si ferma, accelerare il passo quando riprende a correre. Ma occorre avercele queste parole nel cervello e averle strettamente connesse con l’idea di scuola e di istruzione, in modo che si accendano automaticamente quando la mente entra in questo campo semantico.

Lo scandalo non è che il Ministero ora si chiami dell’Istruzione e del Merito, ma perché non sia stato intitolato invece “Ministero della Conoscenza e dell’Istruzione Permanente” come avrebbe dovuto essere  stato fatto da tempo, al momento del nostro ingresso nel secolo della Conoscenza.

C’erano queste parole nel pensiero delle forze progressiste e di sinistra? No, non c’erano. Allora non urliamo allo scandalo, perché lo scandalo è l’assenza di una cultura dell’istruzione nel nostro paese che non sia la brutta copia del ‘900 e che guardi al futuro.

L’Unesco ha lanciato l’allarme: è urgente un nuovo patto formativo, ma nessuno ne parla e ne ha parlato. 

Un ribaltamento della nostra piramide scolastica, un protagonismo sociale, politico e culturale degli insegnanti come lavoratori della cultura. E dove sono da noi gli insegnanti lavoratori della cultura, della cultura del paese, quella che sta dentro e fuori dalle scuole?

Nessuna delle forze politiche in campo nella contesa elettorale si è ricordata che viviamo nel secolo della Conoscenza e che la Conoscenza è la grande sfida del nostro secolo, a partire dalla realizzazione dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. La centralità dell’istruzione permanente e del ruolo delle amministrazioni pubbliche, a partire dal governo e dagli enti locali, per la sua realizzazione, mai citata nel discorso di insediamento alle Camere dalla Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma nessuna delle forze politiche sedute alle Camere l’ha notato.

Listruzione è anche unespressione damore per i bambini e i giovani, che dobbiamo sapere accogliere nella società offrendo loro, senza alcuna riserva, il posto che appartiene loro di diritto: un posto nel sistema educativo, ovviamente, ma anche nella famiglia, nella comunità locale, e nella nazione.”  

Queste sono le parole da contrapporre ad una sistema scolastico che, a prescindere dal fatto che si enfatizzi sulla parola “merito”, è nato per produrre una selezione sociale e che nella sue strutture portanti ancora seleziona, nel XXI° secolo, tra liceo classico  e istituti professionali, senza scandalo per alcuno,  neppure i buon pensanti di sinistra che di fronte al “merito” pronunciato a destra gridano al lupo. 

Quelle parole sono scritte da più di 25 anni nel rapporto Delors, Rapporto all’UNESCO della Commissione Internazionale sull’Educazione per il XXI secolo, caduto nel dimenticatoio insieme ad ogni parola nuova, ad ogni pensiero  innovatore delle nostre categorie mentali sulla scuola e l’istruzione.

C’erano pure i quattro pilastri dell’istruzione: Imparare a vivere insieme, Imparare a conoscere, Imparare a fare, Imparare ad essere.

Il Ministero dell’Imparare. Sarebbe stata una sintesi bellissima tra istruzione e educazione, parole spesso usate in modo inappropriato.

Listruzione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i propri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali.”

Sono sempre parole del Rapporto Delors o il cervello le possiede e da qui muove per ragionare di scuola, di istruzione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, del loro futuro o tornano solo le vecchie parole trite e ritrite che segnano la povertà di pensiero della politica, a Destra come a Sinistra, nel nostro Paese.

Dio, Patria, Famiglia e Merito

E il merito torna a varcare il portone del palazzo del ministero di viale Trastevere. In questo non ci sarebbe nulla di straordinario, semmai verrebbe da chiedersi quando è accaduto che il merito ha divorziato dall’istruzione. 

Nel nostro paese, come nel resto del mondo, a scuola il merito di ciascuno nello studio è misurato dalla scala numerica dei voti o da quella pentenaria delle lettere.

Nel 2007 il Ministero dell’istruzione ha pure istituito l’albo delle eccellenze a disposizione delle università e delle imprese. 

Del resto è compito della Repubblica per dettato dell’art 34 della Costituzione garantire ai “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi,  di raggiungere i gradi più alti degli studi.” 

Il discorso qui si fa più arduo per via dello stato delle finanze pubbliche e per le condizioni in cui versa l’ascensore sociale da tempo bloccato senza che nessuno si preoccupi di provvedere alla sua manutenzione, per non parlare del crescente problema della fuga dei cervelli.

È dunque naturale che venga da chiedersi perché intitolare un dicastero all’Istruzione e al Merito e, se è un modo per richiamare il monito costituzionale, perché allora non anche alla Capacità?

Le parole non sono mai a caso, cariche come sono di significati compongono il lessico di una cultura e ogni cultura è portatrice di una interpretazione del mondo. Per dirla con Umberto Eco: “Le abitudini linguistiche sono spesso sintomi importanti di sentimenti inespressi“. (1)

Se dici dio, patria e famiglia dichiari i tuoi archetipi, i pilastri che reggono i tuoi pensieri, i tuoi costrutti mentali, per cui le tue scelte, i tuoi concetti, le tue idee non possono che passare di lì. Quelle sono le tue certezze, tali da non ammetterne altre, perché viceversa non sarebbero più certezze.

Viene da concludere che quel ministero all’Istruzione e al Merito abbia la stessa lunghezza d’onda semantica di Dio, Patria e Famiglia.

Insomma bisogna guadagnarsi il riconoscimento della patria e il paradiso a partire dalla scuola e chi se lo guadagna di più merita di essere premiato, non si sa per ora come, con la forza degli encomi, degli attestati, delle medaglie o dei concorsi Veritas, staremo a vedere.

Oppure chi non intende partecipare alla gara del merito demerita, quindi va ammonito, semmai castigato riportando in auge la bocciatura in una scuola degenerata che nella vulgata ormai comune promuove tutti.

Dio, patria, famiglia e merito contro i danni della scuola progressista denunciati dalla coppia Mastrocola, Ricolfi. Finalmente anche Ernesto Galli della Loggia potrà brindare per il ritorno alla scuola seria di una volta, alla scuola della meritocrazia. 

Lui che dalle pagine del Corriere della Sera ha sempre accusato la scuola italiana di avere abbandonato il merito, di avere abdicato alla selezione e quindi alla pratica delle bocciature, denunciando che così facendo non sono più solo “i capaci e meritevoli” a proseguire negli studi, ma tutti indistintamente in nome di una mal concepita inclusione. 

Con il nuovo Ministero dell’Istruzione e del Merito si tornerà finalmente alla normalizzazione delle scuole e a giudicare la bontà di una scuola non più dal numero dei promossi, ma dal numero dei respinti,

Il Ministero dell’Istruzione e del Merito come lenitivo  a quella specie italiana a cui ancora viene l’orticaria alla sola espressione “Non uno di meno” o alla sola evocazione di don Milani e della sua “Lettera ad una professoressa”, considerati sciagure della scuola italiana.

Ci troviamo di fronte al riavvolgimento di una pellicola già vista, quando a capo del ministero dell’istruzione c’era Maria Stella Gelmini. Nel 2006, di fronte alle deludenti performance dei quindicenni italiani all’ OCSE Pisa, affidò a Roger Abravanel, ingegnere, manager e consulente aziendale di varie multinazionali, oltre che autore di diversi libri sulla meritocrazia, il progetto nazionale PQM acronimo di Piano Nazionale per la Qualità e il Merito, di valutazione degli studenti e della qualità dell’insegnamento nella scuola secondaria di primo grado.

Nella conferenza stampa di illustrazione del piano nazionale la ministra e l’ingegnere dichiaravano la volontà di puntare sulla qualità dell’insegnamento piuttosto che sulla quantità a sostegno dell’idea che solo la meritocrazia negli studi può fungere da volano per l’economia del nostro paese. 

A giudicare dal numero scarsamente rilevante delle classi di scuola media che allora vi  aderirono e dalla esiguità dei fondi nazionali messi a disposizione, sembra che  il PQM sia servito soprattutto all’obiettivo di far emergere gli studenti già dotati di loro, a prescindere dalla qualità della scuola ed evitare nel contempo che la nostra scuola, così come è, li potesse guastare. 

Non è difficile che la prassi quotidiana delle nostre aule finisca per mortificare il merito,  quando addirittura per demotivare allo studio. 

Ricordate nel 2014 Daniele Doronzo, 17 anni di Barletta? Genio della fisica che vuole anticipare di un anno l’esame di maturità per andare a studiare negli Stati Uniti, ma gli viene impedito dal Consiglio di classe nonostante abbia tutti otto, salvo per un sette in condotta beccato perché in gita scolastica ha fatto il bagno in mare disobbedendo ai professori i quali hanno dichiarato: “Ci sfidava, il nostro compito non è promuovere i talenti ma educarli”

Ecco, dietro al merito da affiancare all’istruzione si nasconde la volontà di promuovere i talenti o di educarli?  La risposta a Dio, Patria e Famiglia.

(1) U. Eco, Il fascismo eterno, La nave di Teseo, Milano, 2017

Dietro l’angolo c’è ancora Gentile

Dopo la lezione di conservatorismo, propinata alla leader dei conservatori europei Giorgia Meloni il primo agosto dalle pagine del Corriere della Sera, il professore Ernesto Galli della Loggia che suggeriva alla signora la scuola come terreno privilegiato della conservazione, passa alle proposte concrete, facendo proprio il programma governativo della destra italiana in merito alla riforma degli studi sintetizzato in due parole: meritocrazia e professionalizzante.

Così il ventidue settembre, sempre dal Corriere della Sera rompe fragorosamente il silenzio sulla scuola di cui accusa i partiti in campagna elettorale.

Non si tratta di controriforme, avverte, ma bisogna rifare tutto a partire dallintera organizzazione dei cicli scolastici. 

C’è un eccesso di intellettuali che danneggia il mercato del lavoro, occorre porre fine  a mezzo secolo di accesso all’università con il diploma di qualsiasi scuola secondaria, tutto ciò condiziona e distorce profondamente il carattere della scuola che deve essere meritocratica e professionalizzante. La qualità dei contenuti di insegnamento di un liceo classico non può essere sostanzialmente equivalente a quella di un istituto professionale, pertanto non è possibile “leguaglianza delle vocazioni e delle attitudini di tutti i giovani licenziati, tutti ottimi potenziali candidati ai medesimi studi universitari.”

Qualcuno per favore informi il professor Galli che la riforma Gentile non l’ha pensata lui, ma  già un secolo fa il suo titolare, appunto, il professore Giovanni Gentile.

E chi si propone di dare un taglio maggiormente meritocratico, attraverso le bocciature, come vorrebbe il professor Galli e la destra nostrana, e professionalizzante alla scuola, in realtà auspica un ritorno allo spirito primitivo della riforma Gentile.

La riforma gentiliana si è caratterizzata per il suo pesante conservatorismo,  per la sua accentuata canalizzazione professionale, privando l’istruzione scolastica di ogni significato di mobilità sociale che aveva iniziato, sia pure modestamente, ad assumere, grazie ai molti miglioramenti apportati dalla legge Casati e dai lavori della “Commissione per un’indagine sulle condizioni della scuola secondaria e per lo studio di una riforma” istituita con decreto del 19 novembre 1905 dall’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi (quando si dice i corsi e ricorsi della storia!).

La riforma Gentile rappresentò una vera e propria restaurazione, come da sempre restaurare è nelle intenzioni del conservatorismo dal quale certo il nostro professore non si sottrae a partire dal ripristino delle predelle come arredo scolastico.

Il professore Galli propone due tipi di università una di serie A, la sola abilitata a rilasciare il diploma di dottorato per intellettuali puri e una di serie B per le professioni profane con una scelta di vita che uno studente dovrebbe compiere a tredici anni, sostanzialmente il modello tedesco.

La storia non si ripete, se si ripete assume un volto nuovo, però gli ingredienti sono sempre gli stessi. 

Quando nel 1969 Tristano Codignola, che pure insieme a Giuseppe Lombardo Radice aveva contribuito alla riforma Gentile, propose al parlamento la liberalizzazione degli accessi ai corsi universitari, l’obiettivo era quello di porre fine al perdurare dell’aspetto più odioso di quella riforma: la rigida selezione classista, in modo da favorire la mobilità sociale in un paese che aveva bisogno di istruzione per il suo sviluppo economico.

Ora la storia si ripete, si vorrebbe tornare indietro rispetto a tutte le faticose conquiste ottenute dalle forze democratiche nel settore educativo e giuridico della scuola, ritornare a quello spirito classista e borghese che, in definitiva, fu ciò che più di ogni altra cosa accomunò i destini della riforma del 1923 a quelli del fascismo.

Filippo Turati ebbe a dire della riforma Gentile “altro non è che il manganello applicato alla scuola”. 

Pure Galli della Loggia ha il suo manganello, incurante che possa essere definito classista: le bocciature.

Le bocciature come vaglio delle competenze. Perché spendere tempo e risorse nelle attività di orientamento, nella burocrazia di quell’acronimo insopportabile PCTO, che tutte le volte occorre andare a cercare cosa significa perché uno se lo è dimenticato: “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”

Scrive testuale: “cominciare ad esercitare già nelle sue aule un vaglio delle competenze effettive degli alunni, delle loro vocazioni e attitudini, con il solo strumento a disposizione che è quello della bocciatura”.

Bocciature entro i tredici anni, perché questa è l’età che nella sua visione del sistema scolastico, bontà sua non i dieci delle grundschule, si deve scegliere quale orientamento dare ai propri studi, se il liceo classico che ti condurrà alle vette dell’intellettuale puro o tutto il resto che ti avvierà verso le sorti meravigliose e progressive del mercato del lavoro.

Perché l’Italia, scrive il professore “ha un bisogno assoluto di ridare dignità culturale e sociale e quindi economica al mondo del lavoro, di tutto il lavoro, e il modo di farlo parte dalla scuola”.

Il maestro di conservatorismo in definitiva propone un restyling della riforma Gentile, in sostanza fornirle un nuovo look con le stesse motivazioni espresse circa un secolo fa dallo stesso Gentile nella seduta del 5 febbraio 1925 al Senato per difendere la sua riforma: “una risposta  allo squilibrio esistente fra scuola e mercato del lavoro, che si manifesta soprattutto in una crescente sovrapproduzione di forza lavoro intellettuale, e alle tensioni sociali e politiche che questo squilibrio produce.”

Gli ingredienti ci sono tutti perché da dietro l’angolo ritorni a spuntare Giovanni Gentile a realizzare compiutamente gli interessi della conservazione.

La mente nel cassetto

Se andavi a scuola con le figurine il maestro te le ritirava e le chiudeva a chiave nel cassetto della cattedra. Il maestro buono te le restituiva al termine delle lezioni, invitandoti a non portarle più a scuola, il maestro cattivo non te le restituiva se non fossero venuti i tuoi genitori a riprenderle, in questo modo punendo te, mamma e papà.

La distrazione è sempre stata nemica della cattedra, questo spiega l’austerità degli arredi scolastici. Restano le finestre antitetiche alla lezione, per la loro costante tentazione di guardare fuori dove sta  il mondo. 

Ma le condizioni sottese ad ogni contratto scolastico sono inesorabilmente almeno due: presenza e attenzione. Infatti la DAD non è riuscita ad entrare nel cuore delle scuole perché la presenza non c’era, era solo virtuale e l’attenzione non poteva essere controllata. E poi nel  percorso di trasmissione dalla cattedra al banco non ci possono essere interferenze, figuriamoci se poi ci sono venti computer e più collegati a distanza.

Era il marzo del 2007, ben quindici anni fa, quando l’allora ministro dell’istruzione, Giuseppe Fioroni, inviava a tutte le scuole una circolare con cui proibiva l’uso del cellulare in classe, con conseguenti azioni disciplinari. Circolare che non mancò d’essere ribadita dai dirigenti di diversi istituti anche nell’anno scolastico 2019/2020 alla vigilia della pandemia che avrebbe sfidato il nostro sistema di istruzione. Nelle nostre scuole il tempo  pare sempre ieri.

Ora, che siamo appena a pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico, iPhone e smartphone ritornano alla ribalta della cronaca perché al liceo Malpighi di Bologna, ma non solo, si è deciso il loro sequestro, per tutto il tempo che insegnanti e studenti soggiornano negli ambienti scolastici, compresi gli spazi ricreativi.

A scuola la tentazione va chiusa nel cassetto e la chiave consegnata ai collaboratori scolastici. La compulsione da cellulare è così irrefrenabile in adulti e adolescenti che si è dovuto ricorrere a misure drastiche.

Ricordate l’insegnante di latino che in epoca di covid durante le interrogazioni a distanza pretendeva che la ragazza interrogata si bendasse gli occhi per non essere tentata di sbirciare gli appunti o addirittura leggere dal libro?

Nessuno che abbia qualcosa da obiettare su condotte messe in atto in ambienti la cui mission  per statuto dovrebbe essere formativa. Altro che “comunità educanti”, queste sono comunità vessatorie e inquisitive, perché fanno il processo alle intenzioni, non muovono dalla fiducia nel prossimo che dovrebbe essere l’atto di accoglienza di ogni scuola, ma dalla sfiducia e, dunque, dalla prevenzione, finendo così per deresponsabilizzare, anziché formare al senso di responsabilità e a rispondere dei propri comportamenti.

Non è più sufficiente dettare le norme della convivenza scolastica, non è sufficiente pattuire un contratto formativo, ora la regola è prevenire per non punire, o forse per non rischiare ricorsi e grane legali.

Non è un gran delitto un cellulare a scuola. Permettere agli studenti di utilizzare i loro telefoni in classe, sfruttando i metodi di comunicazione e di ricerca che usano nella loro vita quotidiana, elimina la necessità di costosi computer portatili.

Semmai ciò che deve preoccupare è il fatto che il cellulare sia divenuta una protesi che non sappiamo più governare, sappiamo trattenere le emozioni, ma non siamo più in grado di contenere il nostro bisogno di compulsare il cellulare. Allora c’è un problema formativo che la scuola dovrebbe essere in grado di affrontare senza chiuderlo a chiave in un cassetto.

Perché se così fosse prima o poi si finirà per chiudere anche la mente nel cassetto, da restituire quando si esce, per proibire di pensare quello che non deve essere pensato o decidere di lasciare a casa il cervello perché la prima tentazione di distrazione a scuola, specie se la scuola è noia, sono i nostri pensieri che se ne corrono via, che se ne vanno per conto loro.

La funzione della scuola non consiste nell’imboccare le scorciatoie, la scuola è una comunità di crescita e i tempi come i percorsi sono lunghi, richiedono pazienza e cura, la capacità di affrontare anche le contraddizioni, i passaggi più difficili. La scuola è comunità di dialogo e di condivisione, dove le imposizioni non possono essere la norma, ma l’eccezione.

La scuola non può vivere in tempi e spazi che non corrispondano all’evoluzione sociale dei costumi e della vita dei suoi protagonisti, chiudendoli fuori dalla porta, censurandone l’uso.

La scuola non è una caserma con il caporale di giornata, la scuola è il luogo della cultura e dell’intelligenza e, se non si sanno rispettare norme condivise, con il sequestro non si rimedia all’incapacità di usare cultura e intelligenza, significa che in quella scuola c’è qualcosa che non funziona.

Se sono tentato di rifugiarmi nel mio cellulare, di evadere dalla lezione,  vuol dire che quello che sto facendo a scuola non riesce a coinvolgermi, non ha significato per me, e allora il problema non si risolve censurando i cellulari ma se mai un certo modo che ancora persiste di essere delle nostre scuole, questo sì andrebbe chiuso per sempre nel cassetto del passato per essere dimenticato.