A scuola senza bussola

La Riforma Gentile. La più fascista delle riforme?

Origini, tradimenti, sedimenti di una riforma

Origini

A cent’anni dalla riforma Gentile riavvolgere la pellicola della storia e scoprire che il tempo scolastico nel nostro paese è un fermo immagine, potrebbe produrre una fastidiosa interferenza tra ieri e oggi, così fastidiosa da restare vittime di un offuscamento nella percezione del tempo.

I nodi di ieri sono ancora quelli di oggi, li elenco: il rapporto tra cultura umanistica e cultura scientifica, tra istruzione e educazione, l’insegnamento della religione nella scuola pubblica, il monopolio scolastico statale, la libertà di insegnamento, scuola pubblica e scuola privata, la scuola media unica.

L’istruzione per le classi popolari e la formazione delle classi dirigenti. Questione che a noi oggi potrebbe apparire superata, ma che in realtà ha assunto un’altra fisionomia e si esprime nella povertà educativa, nella dispersione scolastica, nel fenomeno dei neet, nelle più basse percentuali di laureati a livello europeo, nella fuga dei cervelli.

Questi i contenuti del contendere allora tra radicali, repubblicani e socialisti da un lato e liberali, cattolici dall’altro, tra positivisti e neo-idealisti, quando le correnti filosofiche erano concezioni di vita totalizzanti.

Dal 1861, all’indomani dell’unità, l’ordinamento dell’istruzione pubblica del paese è normato dalla legge Casati.

Bene o male si è creata una scuola di Stato aperta a tutti, obbligatoria e gratuita per i corsi elementari, un corpo di docenti, la cui preparazione si è andata perfezionando, uno sviluppo delle dottrine pedagogiche, un patrimonio, sia pure inadeguato, di edifici e di attrezzature. 

Gentile difenderà la sua riforma definendola come una autentica “restaurazione”.

Il 4 maggio 1923, parlando a Roma al III° congresso delle donne italiane, spiega che “restaurare” è la parola d’ordine. 

Bisogna restaurare lo Stato. Lo Stato non si restaura se non si restaura la scuola. La scuola non si può restaurare se non si restaura la famiglia, e nella famiglia l’uomo, che è la sostanza della famiglia, della scuola e dello Stato.”

Ma cosa c’era da restaurare? 

Gentile, gli idealisti e i liberali accusano il positivismo di aver deviato l’educazione dagli ideali nazionali risorgimentali e di avere sostenuto in campo pedagogico i principi democratici e socialisti.

Per Gentile filosofo la scuola del positivismo non ha saputo dare all’educazione un contenuto morale, un ideale di vita che sostituisse la fede religiosa.  

La seconda metà del XIX secolo ha visto affermarsi l’egemonia pedagogica del Positivismo a partire dalla legge Coppino, che nel luglio del 1877 ha introdotto alcune novità rispetto alla legge Casati, le scuole elementari da quattro passano a cinque anni, una maggiore attenzione per le materie scientifiche, ma soprattutto sancisce l’esclusione dell’insegnamento della religione dalla scuola.

Era successo che all’esposizione universale a Vienna nel 1871 la scuola italiana fa un cattiva figura, la sua arretratezza appare evidente specie per quel che riguarda l’insegnamento scientifico. (Già allora c’era il problema delle STEM!)

La scuola, denuncia De Sanctis, soffre di due malattie: dogmatismo confessionale e retorica umanistica. Nella scuola “abbonda la teoria manca il laboratorio”.

Accanto all’insegnamento scientifico si lascia sussistere quello catechistico.

E proprio istruzione scientifica e questione confessionale costituiscono il vulnus tra laici e cattolici, tra positivisti e neo-idealisti.

I cattolici ostacolano in ogni modo l’estromissione del catechismo dalle scuole, i cattolici benestanti mandano i loro figli alle scuole private confessionali.

La scuola secondaria, opera dei Gesuiti nei paesi cattolici, e della Riforma in Germania, è quasi interamente classica: greco, latino, poche nozioni di matematica e basta.

La Chiesa ribadirà il suo diritto esclusivo all’educazione del popolo con l’enciclica Libertas di Leone XIII del 20 giugno 1888.

Mentre il fronte costituito dai partiti radicale, repubblicano e socialista porterà avanti la battaglia per la laicità della scuola.

Si apre lo scontro forte fra due concezioni culturali, fra due progetti formativi radicalmente opposti. Dal prevalere dell’uno sull’altro deriveranno le sorti del nostro sistema formativo ben oltre quell’epoca fino ai giorni nostri.

È lo scontro tra positivismo e neo-idealismo. Tra il Fatto e l’Atto. Tra cultura scientifica e cultura umanistica, tra scuola pratica e scuola disinteressata, aristocratica. Tra scuola democratica e scuola di classe.

Tra educazione e istruzione, dopo che, come reazione alla scuola del positivismo, ai programmi del Gabelli, nel 1894  il ministro Guido Baccelli, presentando la revisione dei programmi scolastici in Parlamento, conia una nuova formula: “Istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si può.

Quello che Gentile chiama il tradimento degli ideali nazionali risorgimentali è per Antonio Banfi “l’ annuncio liberatore dalle illusioni romantiche compiuto dal positivismo, il superamento di ogni dogmatismo, per sviluppare la cultura scientifica, per creare il sapere dell’uomocopernicano contro il sapere dell’uomo tolemaico, espressione della rumorosa retorica dello spiritualismo risorgimentale”. 

Per i positivisti come Andrea Angiulli scuola e cultura per il popolo sono una delle rivendicazioni più importanti del movimento democratico. Solo l’educazione scientifica può rigenerare gli uomini e la società.

Per Aristide Gabelli, autore dei programmi per la scuola elementare del 1888, l’istruzione deve “formare lo strumento testa”, precursore, in questo senso, della “testa ben fatta” di Edgar Morin. 

Formare la testa, che serve a tutti, anche al popolo, al bambino povero come al ricco”.

Il suo saggio sul Metodo di insegnamento nelle scuole elementari d’Italia  (1880)  inizia con la storia del pesce vivo e del pesce morto. 

In una animata discussione intorno al quesito se un pesce vivo pesa di più di un  pesce morto, un onesto uomo si prende la briga di pesare un pesce prima vivo e poi morto per poter dichiarare con sicura coscienza che il peso era identico.

Lo scopo della nuova istruzione è per Gabelli quello di “accrescere di mano in mano il numero di coloro ai quali venga in testa di pesare il pesce innanzi di darsi a credere, nonché dimostrare, che morto  pesi più che non vivo”.

Formare la testa significa formare l’uomo razionale, ma a questo non si riesce con un’istruzione fatta di parole, monca o unilaterale”.

Nella sua lotta contro la scienza positivista Gentile è sorretto validamente da Croce, il quale attacca il positivismo dalle pagine della sua rivista La Critica,  organo di ispirazione idealistica. Croce, tra l’altro, considera la matematica come materia da commessi viaggiatori.

Si arriva all’assurdo. Nel 1902 i professori di lettere dei ginnasi chiedono un aumento di stipendio e propongono, per i fondi necessari, l’abolizione dei 200 posti di professore di scienze nelle scuole tecniche, addossando l’insegnamento relativo, senza retribuzione, ai professori di matematica delle stesse scuole.

Secondo Croce e Gentile nella scuoia italiana si può essere o idealisti o cattolici; meglio se si è idealisti; ma se non si è o non si può essere idealisti, si deve essere cattolici; perché, se non si è né idealisti né cattolici, si può essere una delle cose che essi cordialmente respingono, e cioè giacobini, radicali, democratici, socialisti o cattolici bastardi, cioè modernisti.

Alle elezioni del 1919, le prime dopo la guerra, Benito Mussolini è  uscito sconfitto. 

Questo gli fa capire che deve cucire rapporti con le forze che contano: il capitale agrario e industriale, l’apparato cattolico, convincendole che solo il fascismo può sbarrare la strada al socialismo avanzante, anzi allo “spettro bolscevico incombente”.

Mentre i socialisti e i cattolici popolari di don Sturzo litigano sulla questione della reintroduzione dell’insegnamento religioso almeno nelle scuole elementari, Mussolini si dimostra favorevole alla richiesta cattolica e va a trattare direttamente con il Vaticano.

Raggiunto l’accordo con il Vaticano e fatta la marcia su Roma, non gli sembra vero affidare la politica educativa al fascista, neo tesserato ad honorem, Giovanni Gentile, prestigioso uomo di cultura, che per di più sostiene le richieste dei cattolici.

Mussolini chiama Giovanni Gentile a far parte del suo governo di coalizione, anzi di unità nazionale, dal quale però sono esclusi socialisti, repubblicani e comunisti, innanzitutto perché ha bisogno di dimostrare che il Partito Nazionale Fascista non è un’accolita di soli personaggi rozzi e violenti, ma gode dell’adesione di intellettuali del calibro del filosofo Giovanni Gentile.

Si tratta di un colpo grosso, una mossa per accreditarsi verso una parte notevole della cultura italiana e nello stesso tempo ottenere la benevolenza del Vaticano, che seppure perplesso in doctrina per le posizioni del filosofo neo-idealista, condivide però le sue tendenze antisocialiste e antimassoniche 

e soprattutto la sua vecchia richiesta di introdurre l’insegnamento religioso nelle elementari, oltre alle sue posizioni favorevoli alla libertà della scuola, in primo luogo di quella cattolica, rivendicata dal Partito popolare, con l’introduzione dell’esame di stato, come legittimazione delle scuole private accanto a quelle pubbliche.

Una condizione perfetta per poter affermare mentendo, sapendo di mentire, che la riforma Gentile è la “più fascista delle riforme”. 

Ma l’uscita del Duce non è però sufficiente a difendere a lungo la riforma da un malcontento diffuso dalle file fasciste alla stessa S.Sede.

Protestano i genitori per la riduzione delle scuole pubbliche, (poche ma buone) perché non possono iscrivere i figli per mancanza di posti. 

Protestano i professori danneggiati per la soppressione delle scuole e delle così dette “classi aggiuntive”.

Protestano politici e amministratori locali per la chiusura delle piccole scuole elementari ridotte a scuola “sussidiate”.

Protestano gli  editori che devono mandare al macero edizioni vecchie per centinaia di migliaia di copie e per l’ipotesi del libro di Stato che avrebbe nuovamente rimescolato le carte almeno alle elementari. 

Protestano, infine, gli studenti per il rigore del nuovo esame di Stato e per il fatto che esso è entrato in vigore fin dalla sessione estiva del 1924.

La Riforma Gentile prevede un esame strutturato in 4 prove per conseguire la licenza liceale classica e scientifica. Le prime due di italiano e di latino (materie comuni ad entrambe le scuole), le seconde di greco e latino al classico e di matematica e disegno tecnico allo scientifico. Commissione esterna, formata da docenti universitari. 

Il livello di selettività spinge il governo Mussolini a rivedere le modalità di svolgimento dell’esame. Nell’ a.s. 1924/1925 la percentuale dei promossi non arrivava al 55% per il classico e al 60% per lo scientifico. 

Tradimenti

La riforma del neo-tesserato fascista Gentile poco c’entra con le politiche educative del ventennio.

La fascistizzazione della scuola  la fecero altri, non lui.

La confezionarono i ministri che gli succedettero dopo che diede le dimissioni dal primo governo Mussolini nel luglio del 1924. 

In particolare con il Ministero dell’Educazione Nazionale istituito nel settembre del 1929 dopo il Concordato, con l’Opera Nazionale Balilla e con la Carta della Scuola di Bottai nel gennaio 1939.

Uno dei massimi oppositori al regime fascista, Augusto Monti, parla di “tradimento” della riforma Gentile a partire dai programmi della scuola media fascista, varati dal ministro Balbino Giuliano.

L’ introduzione accanto al Galilei e al Sarpi di autori graditi alla Chiesa come i padri gesuiti Daniello Bartoli e Paolo Segneri. A far che? si chiede Monti.

Soprattutto l’esclusione di Vincenzo Cuoco dal programma di italiano per il liceo classico nell’intento di spezzare il legame tra il Vico e gli altri scrittori idealistici del protoromanticismo e del Risorgimento, fino a De Sanctis. Nella polemica del Monti echeggiano le preoccupazioni per i riflessi scolastici del recente Concordato, il destino riservato al Cuoco è paradigmatico di quello di tutta la riforma Gentile: cancellando uno degli autori più cari al filosofo.

Agli inizi del 1925 è lo stesso Gentile a parlare per la prima volta di “tradimento della riforma”, quando il ministro Pietro Fedele, che successe alle sue dimissioni, concede una terza sessione all’esame di maturità con lo scopo di placare le proteste sollevate dalla severità delle prove gentiliane. 

Gentile è un liberale risorgimentale, è per lo Stato forte, etico e fino al 1922 resta tale, firmando insieme a Luigi Einaudi il manifesto del Gruppo Nazionale Liberale romano. Nel 1922 prende posizione a favore del fascismo perché  vede in Mussolini il difensore del liberalismo risorgimentale, di una cultura spirituale, idealista, conservatrice, antidemocratica.

È convinto che il Risorgimento è un momento dello storia nazionale, o meglio dello “Spirito”, rimasto incompiuto. Occorre che lo Spirito si attualizzi nella coscienza del popolo. Il Risorgimento deve essere portato a compimento promuovendo la formazione di un carattere nazionale consapevole della propria missione. Per questo il rinnovamento radicale della scuola è il maggior dovere che spetta all’Italia, costituisce la riforma per eccellenza.

In una intervista rilasciata al Corriere della Sera nel 1929, dichiara: “Io posso dire di aver nulla inventato”. Rivendica la continuità della politica scolastica del fascismo con la grande tradizione teorica dell’età giolittiana. 

Tesi che aveva già sostenuto nel 1925 al senato nella difesa “apologetica” della sua riforma, definendosi San Sebastiano trafitto dalle critiche che gli piovevano da ogni parte. 

Tutto era già scritto, ma era rimasto nei libri e quelle idee là sarebbero rimaste se non fosse giunto il Fascismo a tradurle in atto. 

C’era stata la commissione del 1905 i cui lavori furono raccolti in due grossi volumi pubblicati nel 1909. Gentile ricorda che ne usci fuori anche un libro dedicato all’onorevole Filippo Turati, il libro di Salvemini e Galletti sulla riforma della scuola.

La commissione è quella nominata dal ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi con il compito di studiare l’ordinamento degli studi secondari in Italia. La commissione reale si pronuncia fin dall’inizio per la scuola media unica.

La discussione intorno alla riforma della scuola media è rimasta sempre viva dall’Unità in poi.

Non è d’accordo il socialista Salvemini che, chiamato in quanto presidente della FNISM a far parte della commissione, contrario alla scuola media unica si dimette.

Agli inizi del ‘900, dopo i torbidi di fine secolo, le classi dirigenti italiane accusano la scuola di fomentare desideri e bisogni pericolosi nel popolo, richiamando la scuola al dovere di formare sudditi ossequenti e docili.

Contemporaneamente Galletti e Salvemini osservano “un elevamento impetuoso delle classi inferiori le cui condizioni economiche migliorano e che non si contentano più della semplice istruzione elementare”.

Col primo anno del nuovo secolo, il 1901, si formano le associazioni degli insegnanti che oltre alla tutela salariale e normativa della categoria, si propongono di  svolgere un ruolo politico attivo nel paese per contribuire alla riforma e a un nuovo ordinamento degli studi. 

Per Salvemini  occorre che il mondo della scuola  abbia la forza di “dominare” il mondo politico contemporaneo.

I nodi del dibattito sono principalmente la questione della scuola media unica, il monopolio statale della scuola, l’insegnamento della religione cattolica.

Si tratta dell’Unione Magistrale Nazionale, fondata e presieduta da Luigi Credaro, nel 1906 si staccheranno i maestri cattolici per confluire nell’Associazione Magistrale Nicolò Tommaseo e della Federazione Nazionale Insegnanti di Scuola Media fondata da Giuseppe Kirner e Gaetano Salvemini. Giovanni Gentile, Giuseppe Lombardo Radice, Ernesto Codignola saranno i principali protagonisti del dibattito all’interno dell’associazione.

Per i socialisti Giovanni Calò, Galletti e Salvemini  la scuola è aristocratica, perché la scuola deve mantenere rigidamente un carattere disinteressato, il che significa tenere lontane le masse popolari che hanno necessità di lavorare e quindi di una rapida preparazione professionale. La preponderanza dell’insegnamento del greco e del latino garantisce questa assoluta aristocrazia.

Salvemini sostiene che non si può dare a tutti i piedi la stessa scarpa: “Non v’ha ineguaglianza peggiore che quella di voler trattare allo stesso modo individui che hanno bisogno di trattamento diverso.”

Circa sessant’anni prima Salvemini è il precursore del “Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali” di don Milani, muovendo però da premesse opposte.

Per tutto il primo ventennio del secolo le rivendicazioni dei socialisti non vanno oltre una buona scuola popolare e professionale.

Almeno fino a quando, il 1°maggio 1919, Antonio Gramsci, altri intellettuali e socialisti, tra cui Palmiro Togliatti, Angelo Tasca e Umberto Terracini, danno vita a Torino alla rivista LOrdine Nuovo.

Da quelle pagine la questione scolastica è per la prima volta affrontata in funzione della  preparazione della classe operaia a classe dirigente e i problemi della scuola media considerati come problemi strettamente connessi agli interessi diretti e indiretti dei lavoratori.

Per Gramsci  vanno spezzate “quelle fittizie barriere” che tengono chiusi i figli dei lavoratori entro “l’angusto limite di una cultura utilitaria e non formativa”.

All’interno della federazione degli insegnanti non mancano dissensi rispetto alla linea della maggioranza da parte di chi difende la scuola media unica come luogo comune di educazione e rivendica alle materie scientifiche, alle lingue moderne lo stesso valore formativo attribuito alle lingue classiche, per dare uno sbocco agli studi universitari anche a quegli studenti che si trovano avviati a studi non classici.

Istruzione secondaria e forte selezione costituiscono il luogo privilegiato della battaglia politica gentiliana per il rinnovamento della scuola e del paese. 

Nel maggio del 1918 Gentile ha scritto una lettera aperta, pubblicata dal Carlino, al ministro della Pubblica Istruzione, accusando il degrado della Scuola come conseguenza del monopolio statale, che va soppresso, l’istruzione media deve essere riservata alle élites della nazione, selezionate con un esame di Stato. « Poche scuole, ma buone », in questo in sintonia con Croce.

Nel maggio del 1919 i gentiliani rompono con le organizzazioni degli insegnanti perché la mozione votata a maggioranza dal congresso di Pisa della Federazione Nazionale Insegnanti Medi difende il monopolio statale della scuola.

Dalla rivista che dirige, Educazione nazionale, organo del Fascio di educazione nazionale, il 15 gennaio del 1920 Giuseppe Lombardo Radice lancia un appello agli insegnanti perché si riuniscano, all’indomani della guerra, nella missione per il “rinnovamento radicale dei nostri organi di educazione nazionale”.

Sbandamento e distrazione della gioventù, è scritto nell’appello, sono frutto di una scuola invecchiata, svagata che da troppi anni ormai “non tempra, ma disintegra piuttosto la coscienza e i caratteri”.

La nascita del  “fascio di educazione nazionale”, da non confondere con i fasci di Mussolini, liquida, ritenendola ormai conclusa, l’esperienza dell’Unione Magistrale e della Federazione degli Insegnanti Medi.  

Il 22 maggio del 1920 si era presentata l’occasione perché finalmente l’ideale educativo e scolastico di liberali e neo-idealisti, coltivato per tanti anni fin dal secolo precedente, si potesse realizzare.

Benedetto Croce diviene ministro della Pubblica Istruzione nel quinto governo Giolitti. 

La riforma tanta auspicata finalmente pare a portata di mano a partire dall’ introduzione dell’esame di Stato nelle scuole medie e dell’insegnamento religioso nelle elementari. 

Lombardo Radice teme che l’opinione dei deputati possa essere condizionata da quella che chiama la “repubblica dei maestri e dei professori”. 

E infatti i provvedimenti di Croce sono bocciati in parlamento dall’opposizione laica dei “maestrucoli elementari socialisti”, come lo stesso Croce li definirà.

Ecco cosa intendeva dire Gentile quando nel 1929 dichiara al Corriere della Serra: “Io posso dire di aver nulla inventato”. 

Gentile e con lui molti altri si erano illusi di realizzare, grazie a una forza politica esterna, il programma scolastico invano discusso nel periodo giolittiano. E come tale continueranno a difenderla, anche dopo l’allontanamento di Gentile dal governo Mussolini nel 1924, anche quanti di loro approdarono su sponde antifasciste.

Così scrive nel 1925 Ernesto Codignola nell’introduzione di un volume dei suoi interventi sulla riforma Gentile: “Con un’intuizione geniale Mussolini ha chiamato al ministero dell’istruzione «il maestro del nuovo pensiero educativo e il capo del manipolo dei novatori»” 

Gentile ministro significa l’egemonia del pensiero idealista che utilizza la conquista fascista per tradursi in prassi politica dello stato.

A questo si riferiva Monti con l’idea di tradimento: riaffermare l’opposizione tra il  fascismo e la riforma Gentile.

Codignola dopo la firma dei Patti lateranensi si distacca dal regime abbandonando l’illusione di un fascismo a supporto “dell’irreversibile riforma spirituale della cultura idealistica.”

Lombardo Radice, che Gentile aveva chiamato al ministero come direttore generale dell’istruzione elementare, ha lasciato l’incarico e ogni rapporto con il fascismo a seguito del delitto Matteotti.

Sedimenti

L’idea del “tradimento” ha trovato applicazione sul piano storiografico nel termine “controriforma”, usato comunemente per definire la politica scolastica successiva all’intervento gentiliano con cui fu portata a termine la fascistizzazione della scuola; il che ha lasciato presupporre un rapporto conflittuale tra la riforma Gentile e il regime ben oltre la realtà dei fatti.

È in questo modo che si fa strada il mito della riforma liberale “accidentalmente” realizzata dal fascismo. 

Questo è importante perché spiega la tenacia con cui ancora oggi la destra, ma non solo, difende questa riforma, come Mastrocola, Ernesto Galli della Loggia  e quanti vedono nella scuola media unica e in don Milani con la sua Lettera ad una professoressa il grande vulnus al nostro sistema scolastico e alla riforma Gentile.

Un secolo è trascorso dalla Riforma del 1923 e ancora oggi quella riforma è organica alla scuola italiana.

Certamente la religione come filosofia baby per le classi popolari non è più fondamento e coronamento dell’istruzione elementare e media, ma l’unico fatto legislativo sostanzialmente e culturalmente nuovo è stato la realizzazione della scuola media unica con la legge n. 1859 del 31 dicembre 1962. 

L’impianto umanistico prevale su quello scientifico, greco e latino ancora sono pensate come le materie formative per le classi dirigenti.

La riforma Gentile ha sacrificato la questione formativa, come ha osservato Antonio Santoni Rugiu, a una visione angusta e soffocante esclusivamente ridotta alla questione scolastica.

La fisionomia culturale di un popolo ristretta all’esclusività del momento scolastico, la personalità individuale e sociale dei giovani plasmata attraverso l’insegnamento per materie che assicura una progressiva assimilazione dei contenuti, da quelli rudimentali del leggere, scrivere e far di conto agli altri ben più complessi e interconnessi dell’istruzione universitaria.

Così nella nostra pedagogia assumono centralità contenuti, discipline, la loro specificazione e metodologia, in una parola quella cosa tipicamente italiana che è il programma di insegnamento. 

Ottica che ancora oggi non ci abbandona, nonostante l’Europa del Manifesto di Lisbona 2000 abbia sdoganato l’apprendimento non formale e informale nella pratica dell’istruzione permanente.

Se si usano sempre le stesse categorie non giungeremo mai ad un sistema di istruzione permanente. Non faremo mai il salto dal sistema tolemaico, scuola centrico,  a quello copernicano.

Ma il vero vulnus della Riforma Gentile non è solo la sua impronta spiritualista e a-scientifica che perdura nella formazione delle giovani generazioni italiane, ma la sua chiusura nazionalista. 

Il nazionalismo di Gentile lo rende ostile a quanto si muove fuori dal paese fino a contestare con una recensione del 20 gennaio del 1904 al  libro La scuola media e le classi dirigenti di Alfredo Piazzi, docente di Pedagogia all’Università di Pavia, direttore della “Rivista Pedagogica”, di aver voluto condurre il suo studio sulla base di esami comparativi tra la scuola italiana e la  scuola di altri paesi.

Gentile e Croce sono chiusi ad ogni innovazione pedagogica, anzi sono ostili alla pedagogia, su tutto deve dominare la filosofia dello Spirito che unitamente al personalismo di Jacques Maritain alimenterà la cultura scolastica del nostro paese.

Gentile, autore di un fortunatissimo Sommario di pedagogia come scienza filosofica apparso nel 1913, risolve tutto il problema pedagogico con la superiorità spirituale del maestro nel rapporto con il discente, che ancora costituisce la base dell’impianto del nostro sistema scolastico cattedra-centrico. Che oggi ha la sua nuova versione nell’erotismo in cattedra di Massimo Recalcati e nel manifesto per La nuova scuola in cui si rivendica la centralità dell’ora di lezione, manifesto sottoscritto da intellettuali come Barbero, Salvatore Settis, Dacia Maraini, Zagrebelsky, Tomaso Montanari, Chiara Frugoni, Vito Mancuso e altri.

La Riforma Gentile si realizza nel momento in cui al di fuori del paese il fermento della ricerca pedagogica e dell’innovazione didattica è al massimo livello, tagliando fuori il nostro paese dal movimento di rinnovamento delle New School che investe gli Stati Uniti e l’Europa, e di questo continueremo a pagare a lungo il prezzo.

Nel 1897 John Dewey ha pubblicato “Il mio credo pedagogico”, seguiranno “Scuola e società”, “Come pensiamo”, “Democrazia e educazione”, tutti libri che la cultura italiana potrà leggere per i caratteri de La Nuova Italia solo negli anni ’50 del secondo dopo guerra.

Tralascio Adolphe Ferrière, Éduard Claparède, Helen Parkhurst con il Piano Dalton: la scuola dei laboratori. Helen è stata in Italia e ha studiato il metodo Monessori, con la Montessori ha lavorato all’Esposizione Internazionale di San Francisco nel 1915. Il Piano Dalton viene pubblicato dalla Nuova Italia nel 1955.

Ernesto Codignola nel 1945, con la moglie,  fonda a Firenze “La scuola città Pestalozzi” prima esperienza di scuola attiva nel nostro paese, nel 1950 la rivista  Scuola e città.

Si fa animatore della casa editrice la Nuova Italia, per la quale nel 1950, cura la pubblicazione del libro di Aristide Gabelli, il positivista che aveva avversato, “L’Istruzione e l’educazione in Italia”.

In questa dimensione di tempo scolastico sospeso, un intellettuale come Andrea Carandini, archeologo, professore ordinario di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana alla Sapienza di Roma, già presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali e del FAI, in due articoli pubblicati sul Corriere della Sera uno il 16 novembre, l’altro l’11 dicembre del 2022 sostiene:

“Il problema sta nel fatto che nell’ultima generazione e mezza né la destra-centro né il centro-sinistra — entrambi distruttori della buona scuola di Giovanni Gentile inaugurata un secolo fa — hanno saputo edificarne una nuova almeno altrettanto formativa. 

La notizia che mi renderebbe felice sarebbe questa: «Oggi i leader delle diverse parti politiche sono saliti insieme all’Altare della Patria, hanno fatto autocritica per la distruzione della scuola italiana e si sono impegnati a rifondarla ab imis fundamentis». 

Ci vorrebbe un Giovanni Gentile per questo millennio — cento anni esatti dopo la sua riforma — cioè, oggi, un miracolo! “

Potremmo concludere, rubando le parole a Umberto Eco, che questo paese oltre a soffrire di Fascismo Eterno (Ur-fascismo) soffre di “Gentilismo Eterno” (Ur-Gentilismo) che continua a soffocare ogni possibile discorso di rinnovamento del nostro sistema formativo.

Bibliografia

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C. Betti, L’Opera Nazionale Balilla e l’educazione fascista, La Nuova Italia, 1984

G. Canestri, G. Ricuperati, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi, Loescher, 1977

M. Galfré, Cuoco, Gentile e la scuola fascista, Contemporanea Vol. 4, No 3 (luglio 2001), pp. 475-495, il Mulino

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G. Gentile, La riforma dell’educazione. KKIEN P.I., 1919

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S. Soldani, G. Turi, Introduzione a Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, Bologna, il Mulino, 1993, pp.17-25

G. Spadafora (a cura di), G. Gentile. La pedagogia, la scuola, Armando, Roma. 1996

Sessant’anni e li porta male

La scuola media unica ha sessant’anni, la legge istitutiva li ha compiuti il 31 dicembre scorso. Anche la sua gestazione è stata lunga, circa altri sessant’anni prima di vedere la luce. Nel 1905 la Reale Commissione, istituita per volontà dell’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi, si era pronunciata a favore della scuola media unica, ma l’opposizione si manifestò subito soprattutto da parte liberale e socialista, tanto che si opposero Salvemini e Galletti, Croce, Gentile e Codignola. Poi come è andata la storia è ormai cosa nota.

Del resto nel dicembre del 1962 a votare contro la legge numero 1859  non furono solo missini e monarchici, ma anche i comunisti, sebbene con motivazioni differenti.

Ma di scuole di “mezzo” non ne abbiamo più, né inferiori né superiori. L’istruzione è ora organizzata per cicli: primo e secondo. Poi le scuole sono primarie e secondarie.

L’articolo 1 della legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 affidava alla scuola media unica il compito di concorrere “a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi della Costituzione” e a favorire “l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”.

Cinquant’anni dopo, nel 2012, le Indicazioni nazionali per il curricolo del Primo Ciclo, a proposito di finalità da affidare alla scuola, puntano direttamente allo scopo: “La finalità è l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità fondamentali per sviluppare le competenze culturali di base”. 

“Conoscenze”, “abilità”, “competenze”, un trinomio e una consequenzialità inedita. 

Nuova rispetto anche ai programmi per la scuola media, quelli che furono scritti nel 1979, dopo importanti provvedimenti come la legge n. 517 del 1977, che aboliva i voti e dava avvio all’integrazione scolastica nella scuola di tutti, dopo i Decreti delegati del 1974, che  hanno aperto la strada alla partecipazione democratica nella scuola.

Conoscenza, abilità, competenza disegnano un itinerario di apprendimento molto preciso, ben definito nei suoi contorni: la conoscenza deve trasformarsi in abilità e una volta divenuti abili allora è  possibile mettere alla prova la propria competenza.

Una visione dell’apprendimento assai avanzata rispetto alla genericità dell’articolo 1 della legge istitutiva della scuola media unica ed alla fumosità dei programmi del 1979: “la scuola media risponde al principio democratico di elevare il livello di educazione e di istruzione personale di ciascun cittadino e generale di tutto il popolo italiano”.

Ma se siamo arrivati alla scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 lo dobbiamo alla strada che è stato possibile percorrere partendo da quella data di sessant’anni fa: il 31 dicembre del 1962.

Da allora sono accadute tantissime cose, che prima non c’erano, che hanno contribuito a mutare la cultura italiana sulla scuola, anche se questa cultura in gran parte nuova non è stata recepita da tutti. 

Alcuni, sia all’interno che all’esterno dell’istituzione, l’hanno subita, altri non l’hanno compresa e hanno continuato a pensare e ad agire come se non fossero intervenute importanti novità sul versante dell’istruzione del paese. 

C’è chi, invece, ha continuato a lavorare ostinatamente, non sempre con successo, perché non venisse meno la spinta al rinnovamento della nostra scuola, indispensabile per evitare di fallire il compito assegnatole dalla Costituzione, quello che sta scritto soprattutto nell’articolo 3 dei suoi principi fondamentali.

Il paesaggio scolastico italiano si è arricchito di quanto in quell’inverno del ’62 forse era inimmaginabile: gli asili nido, le scuole dell’infanzia, una nuova scuola primaria, le scuole a tempo pieno, gli istituti comprensivi, una scuola inclusiva. Nuovi compiti hanno qualificato il profilo degli insegnati dalla programmazione curricolare, all’individualizzazione dell’insegnamento, le verifiche e la valutazione, l’interdisciplinarità, la ricerca d’ambiente, le osservazioni sistematiche, il master learning.

Compiti nuovi di una professionalità docente ripensata, non sempre vissuta con la disponibilità giusta da tutti gli insegnanti. Compiti spesso subiti come pratiche burocratiche da evadere per mancanza di preparazione sia dei singoli che della struttura, più spesso per il mancato sostegno da parte di chi è stato chiamato a dirigere il dicastero dell’istruzione e per la inadeguatezza della politica.

Il rischio reale oggi è che la strada percorsa fin qui finisca in un vicolo cieco. Perché la scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 è molto più impegnativa di quella prospettata dalla scuola media unica, che pure resta la pietra miliare di una grande conquista democratica. Rappresenta i passi avanti che, anche per effetto di quella riforma, ha compiuto il pensiero della scuola in questo paese.

Un pensiero che impegna la scuola a far acquisire “le competenze indispensabili per continuare ad apprendere lungo l’intero arco della vita” con “particolare attenzione ai processi di apprendimento di tutti gli alunni e di ciascuno di essi”. Tutti e ciascuno, proprio ogni singolo, preso uno per uno.

Qui sta il nodo vero: competenze indispensabili all’istruzione permanente e forte individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento. Più che individualizzazione sarei tentato di usare l’espressione “singolarizzazione”. Tutto nella prospettiva di accrescere in ciascuno l’individuale autonomia di studio. 

O questi nodi si affrontano con una cultura nuova o, nonostante la prescrittività delle Indicazioni nazionali, la nostra scuola secondaria di primo grado continuerà a funzionare né più né meno come la sua progenitrice scuola media unica. 

E allora l’Istat tornerà a fornirci dati sempre più imbarazzanti come quelli che fanno registrare il 40% degli studenti di terza media non sufficienti in italiano  e in matematica. Una scuola soprattutto ininfluente nel colmare non solo gli svantaggi sociali e culturali,  ma anche quelli accumulati nel corso degli anni scolastici.

Ciò significa che la sfida democratica lanciata sessant’anni fa dalla scuola media unica non è stata ancora vinta.

La scuola di oggi, già a partire dalle Indicazioni nazionali, si dichiara impotente a realizzare le proprie finalità senza il concorso con “altre istituzioni” e non può pensare di perseguire “con ogni mezzo il miglioramento della qualità dell’istruzione” se le condizioni strutturali ed organizzative sono sempre quelle del 1962: classi, cattedre, orari, discipline.

Eppure le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione avrebbero dovuto permettere di  far compiere al nostro sistema di istruzione un salto di qualità: dalla scuola media unica all’unitarietà della scuola del primo ciclo.

Unitarietà tradotta nell’impianto curricolare delle Indicazioni nazionali per obiettivi di apprendimento e per competenze da acquisire al termine della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado. Impianto che avrebbe dovuto riuscire rafforzato dalla scelta organizzativa degli istituti comprensivi. Il “comprensivo” come ambiente di “apprendimento” esperto di “apprendimenti”, di educazione comprensiva dai 3 ai 14 anni. 

Il comprensivo come luogo di un far scuola rinnovato, come mondo di un apprendimento diverso.

E invece i risultati parlano d’altro, di scuola media come buco nero, come anello debole della catena. Come è possibile? Come spiegarlo?

Forse perché la scuola media da unica è restata unica, separata in casa in un comprensivo che non ha saputo divenire comprensivo, comprendere e comprendersi nonostante dieci anni di Indicazioni nazionali.

Allora viene il sospetto che la cultura di questo paese e di tanta parte dei suoi insegnanti sia ferma alla scuola di sessant’anni fa o forse anche molti di più a leggere i frequenti inviti a rinverdire la riforma Gentile rilanciati dalle pagine dei nostri quotidiani nazionali.

Un ghost written ministeriale

Non conosco l’autore del documento riprodotto qui di seguito essendone venuto in possesso accidentalmente. Le vicende che mi hanno portato a trovarlo mi fanno supporre che il suo estensore potrebbe essere un ghost writer del Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Se qualcuno dovesse riconoscersi nello scritto per comune sentire potrebbe aiutarci nell’attribuzione dello scritto stesso al suo autore.

Nell’accingerci al grande compito di risanamento spirituale e materiale che incombe al nostro Paese in questa epoca gravida di liete promesse e di oscure minacce, il nostro primo pensiero deve essere rivolto al rinnovamento radicale del sistema nazionale di educazione. Bisogna rinnovare la coscienza delle nuove generazioni, se vogliamo trarre frutti adeguati.

La aspra prova delle crisi e dei governi che finora si sono succeduti alla guida del Paese, nonostante  le mirabili doti spontanee del nostro popolo, a nessuno secondo, ha messo a nudo gravi lacune nella compagine spirituale della nazione, specialmente in quelle classi che dagli studi avrebbero dovuto attingere il sentimento religioso della legge e della subordinazione individuale ai supremi interessi collettivi, la fede operosa, l’allenamento morale, la visione realistica delle cose e il senso di concretezza.

Questo sbandamento, questa specie di distrazione della gioventù è il frutto di una scuola invecchiata, svagata, che da troppi anni ormai non tempra, ma piuttosto ne disintegra la coscienza e il carattere.

Occorre che essa trovi in sé stessa la capacità di rinnovarsi: ma non si può avere fiducia  in una classe docente animata da intenti esclusivamente economici, che si è dimostrata incapace di difendere i supremi interessi collettivi.

Occorre fondare una cultura scolastica nuova a partire dagli insegnanti, opposta a quella che fin qui si è affermata attraverso i governi della sinistra. 

Lottare contro il protezionismo monopolistico statale sulla scuola, e incoraggiare, quindi, l’iniziativa privata, contro la sopravvalutazione dei diplomi; operare perché si colmino le gravi lacune della istruzione professionale; imporre una migliore preparazione agli insegnanti di tutti gli ordini e gradi scolastici. 

Scuola nazionale non significa scuola governativa opposta alla scuola clericale o privata: scuola nazionale significa una scuola capace di ridare un’anima all’opera educativa, capace insomma di rinnovare la coscienza nazionale della Patria e della Famiglia.

Ora è finalmente giunto il momento del riscatto, restituendo alle nostre scuole il compito di educare, di affermare il valore morale dell’educazione per formare lo spirito, perché ognuno se ne faccia interprete e si appropri del ruolo che la Storia gli ha assegnato.

Benemerito è il ministro che con ascetico coraggio ha inteso richiamare i nostri studenti alla disciplina dell’Umiltà, virtù cristiana che lungi dall’abbattere l’individuo lo esalta al di sopra delle proprie debolezze umane.

E ancora li abbia spronati al cimento nel concorrere al merito per le proprie qualità di studio e di impegno, come sacrificio degli ardui studi, delle sudate carte. Sana competizione nella corsa verso il sapere, verso quella Scienza, anzi Verità, che i nostri antichi greci collocavano al disopra delle vicende mortali, di là dalla storia tormentata da contrasti fatali di errori, da tentennamenti, dubbi e desideri insoddisfatti di sapere.

Educazione intellettuale ed educazione morale sono tutt’uno; educazione dello spirito ed educazione del corpo sono egualmente una stessa educazione. Fruga di qua, fruga di là, si ottiene sempre lo stesso risultato: che cioè l’educazione è formazione, e cioè sviluppo, o divenire dello spirito; e poiché lo spirito consiste appunto nel suo divenire chi dice educazione dice spirito, e nient’altro.

Mens sana in corpore sano abbiamo appreso dagli antichi. Il valore dell’educazione fisica. L’educazione fisica degli antichi è educazione spirituale in quanto per gli antichi lo spirito essenzialmente è corpo anch’esso. L’educazione fisica dei moderni è la formazione spirituale del corpo: è l’addestramento del corpo che serve allo spirito, così come lo voleva l’asceta medievale; ma a uno spirito che non intende chiudersi astrattamente in se stesso, sequestrandosi dal mondo dell’esistente; anzi vuole spaziare liberamente e investire la natura, e soggiogarla ai propri fini, strumento e specchio della propria volontà. L’educazione fisica dei moderni è educazione spirituale in quanto lo stesso corpo è spirito; e la scienza non è più soltanto speculazione di verità oltramondane, ma scienza dell’uomo, e dell’uomo nell’universo. In questo concreto concetto dello spirito, che non esclude più nulla da sé, acquista concretezza il concetto cristiano dell’educazione fisica. La quale mira bensì al corpo strumento del volere, ma non del volere che rinunzia al mondo, bensì del volere che al mondo si volge come al campo delle sue battaglie e delle sue vittorie, anzi della sua stessa vita.  Al mondo che gli sta sempre innanzi quasi in atto di sfida, e come ribelle, e che egli doma faticosamente facendone la forma del proprio divenire.

Allora benvenga l’iniziativa del nostro presidente del Senato, il quale al raduno degli alpini  a Milano ha annunciato di essersi fatto promotore di un disegno di legge per ripristinare in questo paese, per una più maschia formazione della nostra gioventù lasca e choosy, la naja. Non la leva, non la coscrizione, ma la naja volontaria, per quaranta giorni. 

L’uso del termine “naja” volutamente scelto sta a significare l’importanza di questa esperienza ormai perduta, per la formazione del carattere dei nostri giovani. Altroché bullismo, una sana naja per quaranta giorni, con il vantaggio non solo di forgiare la propria personalità ma di godere poi dei benefici che ne deriveranno come i crediti formativi da vantare all’esame di maturità e il punteggio aggiuntivo per la laurea e per la partecipazione ai concorsi pubblici.

Un modello di educazione nazionale che consentirà di invertire la parabola di caduta nella formazione dei nostri giovani come effetto dei danni prodotti dalla scuola progressista.

Per troppo tempo i problemi educativi sono stati trattati con superficialità, senza il necessario rigore. 

Non si può rientrare nella scuola senza recarvi uno spirito nuovo per rimuovere le tante abitudini accettate passivamente dall’andazzo realistico, materialistico e pedantesco dell’educazione democratica. In ogni parola, in ogni istante dell’opera nostra si farà sentire un nuovo dovere e innanzitutto la necessità di far diversamente da quello che è stato insegnato dai seguaci del pedagogismo progressista.

IL VOLTO GESUITICO DEI VOTI

 

Era facilmente prevedibile che l’attenzione dal merito scivolasse sui voti. È stato sufficiente  il lancio di stampa che al liceo Morgagni di Roma si sperimenta la scuola senza voti  che l’italico qualunquismo pedagogico si scatenasse, come se una scuola senza voti fosse destinata all’estinzione. Del resto, se questo governo ritiene che l’istruzione deve essere sorretta dalla stampella del merito, è evidente che una scuola senza voti è una pugnalata alla schiena. Il merito per essere tale necessita di una graduatoria, appunto la graduatoria di merito, e a scuola le graduatorie (come tante altre cose) dai tempi della gesuitica ratio studiorum si fanno con la scala ordinale dei voti in numeri o in lettere come nei paesi anglosassoni.

Quando l’idraulico viene a casa ad aggiustarmi la doccia che non funziona, al termine del suo lavoro non gli do un voto, lo pago sulla base della fattura che mi rilascia. O ha riparato la doccia o non l’ha riparata, è abile o non è abile, è competente o non è competente. In definitiva funziona una logica binaria.

Tutta la nostra vita poggia sull’aperto/chiuso, dentro/fuori, sopra/sotto, negativo o positivo.

A scuola no. La logica è quantitativa, il sapere va a peso. Domina la domanda che la figlia fa al padre in un famoso metalogo di Gregory Batison: “Papà, quante cose sai?”

E siccome il sapere non si può pesare e neppure misurare è compito degli insegnanti impilarlo nella scala decimale, ne va del loro ruolo, della loro autorità, del loro prestigio sociale.

Il voto è un potente ricatto, una punizione morale double face che fa dello studente un somaro come un secchione. È comunque l’anima del profitto scolastico, l’incentivo a studiare.

Sui voti a scuola si potrebbero scrivere pagine di luoghi comuni e a leggere certe giudizi che definiscono la sperimentazione del Morgagni “un’idea scellerata” si ha l’impressione  che se a qualcuno gli togli dalla scuola il registro e le pagelle gli crolli un intero mondo di certezze addosso. La sociologia ci insegna che la resistenza alle scuole senza voti è dovuta tanto al peso dell’abitudine quanto al conforto che la loro comunicazione fornisce.

Il fatto è che le ragioni dei sostenitori del sistema dei voti non hanno nulla a che vedere con le pratiche di valutazione fondamentali per dar forma all’insegnamento e all’apprendimento.

I voti da 1 a 6 delle scuole gestite dai gesuiti nel secolo XVI° facevano parte di una didattica fondata sulla ripetizione come metodo per assimilare le materie di studio. Pratica ancora in auge nei nostri istituti secondari in cui prevale la didattica della ripetizione: lezioni ex cathedra, interrogazioni e quindi voti sul registro. Ma si tratta di scuole che sono fuori dal tempo, dove ancora si misurano le nozioni anziché i processi per acquisire quelle competenze che pure sono dettagliate dalle Indicazioni nazionali. Le competenze non si misurano né con la scala decimale né con quella pentenaria. Le competenze o sono possedute o non sono possedute. Ciò che è necessario valutare è lo stato del processo per acquisirle pienamente, che richiede due forme di autovalutazione quella del sistema per individuare come sostenere lo studente nel suo processo di apprendimento e quella dello studente stesso, per essere consapevole di sé, per conoscere come procedere, cosa ha acquisito e cosa ancora gli manca.

L’assurdo dei voti numerici è che per essere comunicabili e compresi hanno bisogno di descrittori, vale a dire di narrazioni, grande conquista democratica rispetto ai tempi andati quando il voto dell’insegnante era una cifra e niente più, se non un “non si impegna”, “si deve impegnare di più”. Ma se i voti si devono narrare che senso hanno i numeri, se non per fare delle graduatorie di merito o di demerito?

È che poi le narrazioni dei voti sollevano il velo su una scuola che non è poi tanto diversa dalle istituzioni gesuitiche nonostante i secoli che ci separano. Sulle competenze che neppure sono prese in considerazione prevale la ripetizione.

Non cito la fonte, prendo “una griglia di descrizione del valore numerico dei voti” da un liceo a caso:

10. Eccellente: conoscenze complete e approfondite, elaborate in modo personale e critico anche operando collegamenti interdisciplinari. Uso competente della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche. Esposizione brillante.

9. Ottimo: conoscenze complete e approfondite, sostenute da capacità argomentativa e di collegamento tra discipline. Fluidità ed organicità espositiva, uso appropriato della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

5. Insufficiente: conoscenze incomplete e superficiali dei contenuti. Difficoltà nel coordinamento logico. Uso improprio della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

Già la descrizione del valore numerico dei voti è inquietante per una mente normale, ma passiamo oltre. Il valore quantitativo del numero è trasposto in un aggettivo qualificativo, tanto vale usare direttamente gli aggettivi, ma questo lasciamolo ai tanti misteri gloriosi del nostro sistema scolastico.

La cosa che colpisce è la narrazione che si fa del sapere, delle conoscenze la cui padronanza è evidentemente misurata sulla ripetizione e sulla retorica, sull’oratoria: “esposizione brillante”, ne più ne meno di quanto accadeva nei collegi della ratio studiorum. Le conoscenze non sono competenze, nulla di applicativo che emerga da queste narrazioni, fatto salvo per quella linguistica, che ci sta con la scuola della retorica. Prevale la nozione, la quale in quantità incompleta produce l’insufficienza.

Senza voti come si fa a motivare gli studenti, ottenere il loro impegno nello studio? Se manca la pratica del bastone e della carota nessuno più si impegnerà a scuola e il risultato sarà una società di ignoranti e di incompetenti.

No. Abbiamo la necessità che a scuola si affermi una cultura differente.

Una scuola capace di trasmettere la passione per lo studio, per la sua forza attrattiva, dove l’apprendimento è un follow up individualizzato. Una scuola senza voti rende più facile apprezzare lo studio per se stesso e il pensiero critico, rompendo con la pratica della strumentalizzazione del sapere in funzione del voto, costringendo alla massima attenzione  verso i  fattori motivazionali degli studenti e la psicologia dell’apprendimento.

La scuola senza voto richiede  insegnanti preparati nelle pratiche di valutazione verso approcci sempre più formativi nell’ottica di una progressiva ottimizzazione degli apprendimenti e delle competenze.

La sperimentazione del liceo Morgagni di Roma è sulla lunghezza d’onda di tutto questo e  delle tante scuole che dalla Francia agli Stati Uniti stanno sperimentando come passare dal sistema di valutazione della scuola delle nozioni al sistema di valutazione della scuola dell’apprendimento basato sulla padronanza e sulla competenza.

Moheeb Kaied frequenta la seconda alla Scuola Media 442 di Brooklyn, una mattina ha detto: “Vediamo. Posso trovare l’area e il perimetro di un poligono. Riesco a risolvere problemi matematici e del mondo reale utilizzando un piano di coordinate. Devo ancora migliorare nella divisione di numeri a più cifre, il che significa che probabilmente dovrei esercitarmi di più”. Moheeb fa parte di un nuovo programma che sta sfidando il modo in cui insegnanti e studenti pensano ai risultati dell’apprendimento,  la sua scuola è una delle centinaia che hanno eliminato i tradizionali voti in lettere all’interno delle loro classi. 

Alla Scuola Media 442, gli studenti sono incoraggiati a concentrarsi invece sulla padronanza delle competenze. Non c’è fallimento. L’unico obiettivo è apprendere il materiale da padroneggiare, prima o poi.

Per gli studenti in difficoltà c’è molto tempo per esercitarsi finché non sono acquisite le capacità. Per coloro che afferrano rapidamente i concetti c’è l’opportunità di andare avanti rapidamente. La strategia sembra diversa da classe a classe, così come il materiale che gli studenti devono padroneggiare. Ma in generale, gli studenti lavorano secondo i propri ritmi attraverso fogli di lavoro, lezioni online e discussioni in piccoli gruppi con gli insegnanti. Ricevono frequenti aggiornamenti sulle competenze apprese e su quelle che devono ancora acquisire. (1)

Anche qui niente di nuovo, nulla da inventare che non sia già stato sperimentato. Chi ha familiarità con la storia della pedagogia ricorderà certo il Piano Dalton dal nome della cittadina del Massachussets dove agli inizi del secolo scorso Helen Parkhurst sperimentò il suo metodo.

Nella scuola senza voti, senza registri e pagelle cessano di esistere le continue bugie che i numeri e le lettere raccontano sull’apprendimento. Gli albi d’onore e di merito scompaiono. Scompare di conseguenza anche il ministero dell’istruzione e del merito, per tornare Ministero della Pubblica Istruzione come impegno della Scuola dello Stato ancora prima che degli studenti.

Gli insegnanti imparano a valutare efficacemente i risultati scolastici e gli studenti diventano studenti indipendenti, spinti dalla curiosità e dall’ispirazione piuttosto che dalla vuota promessa di un voto “buono” o dalla minaccia di uno “cattivo”.

Ora, questa può sembrare solo un’idea grande, forse persino irrealistica. Ma la scuola senza voti esiste già nelle scuole di tutto il mondo, basta guardarsi attorno e, naturalmente, studiare. 

 

(1) “A New Kind of Classroom: No Grades, No Falling, No Hurry, in The New York Times, 11 agosto 2017

Scuola e programmi elettorali

Se il problema di cosa studiano e di come studiano a scuola le nostre ragazze e i nostri ragazzi non viene affrontato le possibilità sono solo due: o non è un problema o non si possiede una soluzione al problema.

A leggere i voti, che le forze politiche formulano per la scuola nei loro programmi elettorali  al fine di ottenere voti, non si può che concludere che nel nostro paese cosa si studia e come si studia nelle aule del sistema formativo non costituisce un problema. Nonostante gli esiti decisamente non brillanti delle indagini Ocse Pisa e dell’Invalsi sui risultati scolastici, il grado di istruzione del paese non sembra meritare attenzione. Anzi c’è chi, come Italexit, vuole “Eliminare le prove Invalsi e i sistemi valutativi basati sui quesiti a risposta multipla.” Insomma, il tuo parlare sia sì sì, no no.

Anni di letteratura scolastica che hanno sfornato titoli poco rassicuranti: Requiem per la scuola, La scuola bloccata, Senza educazione, L’aula vuota, La scuola imperfetta, La scuola impossibile, Liberiamo la scuola, La scuola è sfinita fino al recente Il danno scolastico della coppia Mastrocola-Ricolfi, vengono volutamente o meno ignorati dalle formazioni politiche scese in campo per l’agone elettorale, possibile che neppure uno dei libri citati l’abbiano mai letto.

Qualcuno ci prova. Ad esempio il “Programma per l’Italia” della Destra al primo punto si impegna a “Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico”. Cosa significhi non è spiegato. È il ritorno all’avviamento scolastico? Agli esami di ammissione? Si prospetta un sistema scolastico stile tedesco?

Anche il programma di Italexit a proposito di cosa studiare promette un recupero della nostra “cultura umanistica e civica”. E anche qui non è dato sapere che cosa effettivamente si intenda.

Il Movimento Cinque Stelle vorrebbe una “Scuola dei Mestieri” per valorizzare e recuperare le tradizioni dell’artigianato italiano, forse una riedizione degli “Artigianelli”di don Orione,  in linea comunque con la vocazione professionalizzante delle destre.

Dai voti elettorali emerge poi un profilo di “scuola clinica” che i nostri giovani dovrebbero frequentare come luogo di cura dove, dopo la moltiplicazione delle certificazioni, ora si  mettono a disposizione medici scolastici, psicologi e pedagogisti come se essere studenti e giovani fosse una malattia, come se disagio sociale e modalità di apprendimento non per forza standard fossero dei disturbi che necessitano di cure anziché di una scuola diversa. 

Non avevamo bisogno dell’appuntamento elettorale per scoprire che questo nostro paese non ha mai curato un’idea di istruzione, di sistema formativo, non ha una cultura dell’istruzione e dell’apprendimento, perché non ha mai avuto considerazione per i suoi insegnanti, della loro professione e soprattutto della scuola.

Vanno di moda i “patti educativi” come se l’istruzione fosse un campo di conflitti e avesse bisogno di siglare armistizi tra contendenti, le “comunità educanti” come comunità di salute pubblica. Una gioventù malata che qualcuno vuole raddrizzare con lo sport e il ritorno al servizio di leva. Anche i seminari sono comunità educanti e le comunità che si propongono come educanti sono pericolose perché mettono a rischio la libertà delle persone, mentre la scuola deve essere palestra di libertà e non di manipolazione.

L’Unesco invita a un nuovo contratto sociale per l’istruzione all’altezza delle sfide dei tempi e del futuro delle nuove generazioni, ma noi non possiamo permetterci tutto questo, non avendo curato la casa dobbiamo ricorrere ai ripari, occuparci delle sovrastrutture del nostro sistema formativo: gli edifici scolastici, lo stipendio degli insegnanti, il tempo pieno, l’obbligo scolastico, medici e psicologi scolastici.

Così i programmi di tutte le forze politiche si caratterizzano per tre filoni: scuola come servizio sociale, scuola e mercato del lavoro, scuola e cultura nazionale e tutti brillano per le grandi assenze. Oltre all’istruzione e all’apprendimento, non rispondono all’appello il tema dell’autonomia delle scuole, gli Organi Collegiali, l’apertura delle scuole al territorio e il ruolo del territorio per un sistema formativo integrato e soprattutto l’apprendimento permanente. Distrazione, ignoranza, superficialità, impotenza, mancanza di idee, incompetenza? Forse tutti questi insieme.

Il programma di Azione e Italia Viva cita l’autonomia per affermare la necessità di passare: “dal concetto di autonomia scolastica a quello di scuole realmente autonome”. 

Pare di comprendere che dietro a quel “realmente autonome” si nasconda un concetto di concorrenza di mercato, di competizione tra scuole che consenta alle famiglie di scegliere la migliore, un scimmiottamento delle Champions School d’oltre oceano. Ma cosa fare per portare a compimento il processo di autonomia scolastica, spesso osteggiato dalla stessa politica e amministrazione pubblica, cosa fare a partire dalle risorse necessarie a garantire una reale autonomia questo non è detto. Che l’autonomia scolastica sia in pericolo è nella consapevolezza di quanti sono più attenti ai bisogni della nostra scuola e ad essere in pericolo è l’unica vera riforma, sebbene ancora incompiuta, che il nostro sistema formativo, tradizionalmente piramidale, abbia conosciuto.

Difendere l’autonomia scolastica significa coltivare un’idea di scuola come risorsa centrale del territorio, come perno di un sistema formativo integrato che poco ha a che vedere con surrogati e ripieghi tipo patti educativi e comunità educanti. Un obiettivo che per essere perseguito richiede lucide e solide politiche territoriali da parte degli enti locali insieme a risorse finanziarie che consentano di portare a sistema la scuola come ambiente di apprendimento che si integra con il territorio, che al territorio si allarga e si apre per usarne strutture e risorse, prima condizione affinché le scuole siano “luoghi sicuri, belli, aperti tutto il giorno. Vere e proprie palestre di cittadinanza” come promette il programma del PD.

Scuola e territorio è un binomio che conduce agli Organi Collegiali che si trascinano da  troppo tempo pigramente, sviliti e snervati, che hanno bisogno di manutenzione, di una cura ricostituente soprattutto alla luce della scuola dell’autonomia, di una scuola sempre più hub formativo del territorio.

In fine, last but not least, l’apprendimento permanente. Decenni di life long learning ignorati, insieme all’Europa della “Conoscenza”, al Memorandum di Lisbona 2000 e alla stessa Agenda 2030 dell’Onu.

Apprendimento permanente che non è l’educazione degli adulti in chiave scolastica del programma di Possibile, l’unico che meritoriamente la richiama, insieme alla necessità di rivedere i cicli scolastici, ma la mobilitazione delle conoscenze, dei saperi, l’apprendimento diffuso, le città che apprendono, il rapporto tra apprendimento formale, non formale e informale che già la Riforma Fornero del 2012 aveva riconosciuto su pressione dell’Europa. Quanto basta per rivedere integralmente l’intero impianto del nostro sistema formativo in un mondo dove si apprende dalla culla alla tomba. 

La complementarietà e l’osmosi tra forme di apprendimento, unitamente agli altri grandi assenti, al momento dovranno attendere il prossimo giro.