Dalla parte della conoscenza

La cultura della destra, la cultura della sinistra, la cultura della chiesa, la cultura delle minoranze, la cultura della gente credevo che stessero tutte dentro ad uno stesso contenitore, forse più che recipiente, diciamo, universo.

Che fossero il contesto, i contesti delle vite terrene, che stanno dentro e fuori di noi, in cui si è immersi e da cui si emerge.

Il farsi una cultura pensavo che fosse il nuotare in questi oceani, a volte stagni o forse piscine. Mi pareva che l’idea di una collisione tra  culture fosse questione da crociate, anzi fosse addirittura il negare la propria natura di cultura per trasformarsi, per usare antichi linguaggi, in sovrastruttura, qualcosa di artefatto che perde  le caratteristiche e i connotati della cultura, semmai per divenire  catechismo, ideologia, visione parziale del mondo che si contraddice col respiro e l’apertura propria della cultura.

La cultura è la pratica di un valore e non esibisce etichette, quel valore si chiama conoscenza. Non accetta abiti cuciti addosso che finirebbero per sterilizzarla, cosa che non è possibile, perché la conoscenza è prolifica e produce sempre altra conoscenza. 

Che senso ha costruire isole di cultura destre e sinistre che siano, se non inaridire il fiume della conoscenza, che mentre scorre genera altra conoscenza. Pretendere un’egemonia che rischia la sua fragilità appena viene a contatto con il divenire del tempo e dei valori.

Indossare i panni del domatore in gabbia con il cerchio e la frusta per addomesticare una folla riluttante, distratta e deviata da pericolose sirene.

Ha il senso della propaganda che brucia i cervelli, l’inganno della manipolazione, la vendita di merce avariata ad una clientela di bocca buona.

Culture statiche, conservate in bacheche, che si pretenderebbe di far uscire dai loro tabernacoli per consegnarle ai nuovi sacerdoti perché diffondano il verbo, convinti che altre religioni hanno occupato gli interstizi mentali del popolo, di una massa che pensa per procura ed ora potrebbe essere affascinata da nuovi procuratori a cui delegare i loro pensieri.

In questa rincorsa ad accaparrarsi una egemonia nella mente collettiva c’è un vizio d’origine, il vizio dell’ignoranza che è l’avversaria della conoscenza. 

È da tempo ormai che indifferenza e diffidenza coltivano la cultura dell’ignoranza come approdo sicuro, lontano dai saperi colti dei radical chic, solitamente quelli di sinistra. Poi c’è il sapere dogmatico, tipico delle chiese e delle religioni, ma quelli sono saperi più identitari con i quali maggiore è la familiarità.

In queste condizioni diventa arduo parlare di conoscenza, di capitale umano, di secolo della conoscenza, di Europa della Conoscenza.

Qui siamo all’analfabetismo. E ciò che più preoccupa è quello che viene dopo. Le nuove generazioni, chi deve formarle, quali adulti, quali famiglie, quali istituzioni educative. Quale scuola.

Imparare, apprendere, istruirsi per divenire cittadini della cultura, per essere egemoni della cultura anziché esserne egemonizzati. Ricevere il testimone per continuare la narrazione che altri hanno compiuto della nostra storia di uomini e di donne, dei suoi miti e dei suoi simboli.

Ciò che chiamiamo educazione con termine improprio è il nostro  ingresso nella cultura, la chiamata a divenire protagonisti delle pagine che la cultura scrive, a continuare quella narrazione che ora dipende anche da noi. Cultura come coltivazione di saperi, come somma dei saperi che nel corso dei secoli l’uomo ha messo a disposizione di sé, È quello che ci serve a stare insieme, a cercare di progredire a condivide la cultura come condizione della nostra convivenza.

II tema della contesa oggi sono invece le culture, quelle plurali, i saperi di cui ognuno è portatore. Il sapere non è mai un punto di arrivo, ma un punto di partenza, per andare oltre per ricercare, è per questo che la cultura si fa narrazione. Quella narrazione che noi abbiamo ingessato, smembrato, inaridito nelle discipline, nelle materie scolastiche, come abbiamo svilito, impoverito l’incontro con la cultura, l’ ingresso nella cultura con i nostri riti scolastici, con il nostro giocare con le parole educazione, istruzione, formazione, calpestando il vero significato della cultura, parola ampia e dinamica, mai paga di sé.

I rigurgiti egemonici culturali non possono che preoccuparci, come segnali di un arretramento pericoloso di valori e di civiltà, come segno di un’insipiente ignoranza che si appresta a spostare all’indietro il futuro, a rinchiudere le menti tra gli steccati dell’antico.

Come se la scienza fosse un convitato di pietra della cultura, una presenza inquietante, nemica del proprio paradigma coniugato al passato remoto, prima che le conquiste della  ricerca spuntassero le armi ai nemici della società aperta.

A meno che si confonda la cultura con gli occhiali che si indossano e si pretendesse che tutti fossero miopi allo stesso modo. Imporre i propri occhiali agli altri, convinti che solo questi consentono universalmente di percepire la realtà. Allora non è più questione di cultura è piuttosto questione di imbonitori, di Dulcamara dei tempi moderni.

La cultura come ingegneria sociale, come igiene del pensiero collettivo, anestetico per procurarsi la sintonia tra governanti e governati.

Ma farsi paladini di una cultura conservatrice piuttosto che illuminista ha più a che fare con l’ignoranza che con la conoscenza.

Edgar Morin ci ricorda che conoscere vuol dire negoziare, lavorare, discutere, battersi con l’incognito che si ricostruisce senza sosta, giacché ogni soluzione di un problema produce una nuova questione. Così come il progresso della scienza è un’idea che implica in se stessa incertezza, conflitto e gioco. Non si può assolutamente porre in alternativa progresso e regresso, conoscenza e ignoranza.

Chi pone la cultura in alternativa pretendendo di possederne l’egemonia si pone di traverso ad ogni progresso della cultura stessa, dimostrando di ignorare o temere la complessità che da sempre è compagna di strada del progresso e della conoscenza. 

Per dirla, prendendo in prestito il lessico del pensiero tedesco da Herder a Weber, più che di fronte a questioni di “Kultur” ci troviamo ancora una volta a fare i conti con un problema di “Zivilisation”.

In Vinitaly veritas

Perché no? Si potrebbe istituire il liceo del made in Italy per dare luce, come dice la parola stessa, alle virtù creative nazionali. Tanti studenti licenziati al termine dei cinque anni di corso con l’etichetta “made in Italy “ stampigliata addosso.

Tutto coerente con quanto già scritto nel programma “Per l’Italia” con cui il centro-destra si presentò alle elezioni del 25 settembre scorso: “Made in Italy, cultura e turismo”, “Italiani all’estero come ambasciatori del Made in Italy”.

L’ultimo governo di centro destra fu un incubo per la scuola. Il Berlusconi IV, con dentro da Meloni a Salvini, da Forza Italia al Movimento per le autonomie del siciliano Raffaele Lombardo, tagliò in maniera drastica e indiscriminata le risorse per l’istruzione pubblica. Ripristinò l’obbligo del grembiulino, la valutazione in decimi alla scuola elementare e media, il maestro unico, tempo scuola a 24 ore settimanali, niente tempo pieno, fino all’affossamento definitivo degli istituti professionali, quelli dell’istruzione che ora il nuovo governo vorrebbe riverniciare.

Già abbiamo sei sorte di licei che divengono dieci se si considerano le diverse opzioni: scienze applicate, indirizzo sportivo, economico-sociale, beni culturali e ambientali. Più  undici indirizzi di istituti professionali e altrettanti di istituti tecnici. Uno dice fatto trentadue si può fare trentatré come le settimane di scuola ogni anno.

Eventualmente si tratterà di comprendere le differenze tra il liceo Made in Italy e l’indirizzo professionale Industria e Artigianato made in Italy, oppure con l’istituto professionale per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera tutto made in Italy, o, ancora, con l’istituto professionale per i servizi culturali e dello spettacolo o gli istituti tecnici per il turismo, quelli per il Sistema Moda sempre made in Italy, per non parlare del  liceo per i beni culturali e ambientali rigorosamente made in Italy.

Forse più che della moltiplicazione dei pani e dei pesci avremmo bisogno di semplificazioni e di sintesi, a meno che non si consideri il proliferare delle cattedre un buon investimento per accrescere il consenso elettorale.

In “Vinitaly veritas” viene da concludere. Perché l’impressione che la proposta del liceo Made in Italy non sia solo un ulteriore passo avanti nella promessa elettorale di rivedere in senso meritocratico e professionalizzante i percorsi scolastici e così andare incontro ai desiderata da tempo avanzati dall’imprenditoria nazionale. Ma sia piuttosto una tappa verso quella revisione culturale che questa destra ideologica, conservatrice e illiberale si è proposta come vero obiettivo della sua permanenza alla guida del paese.

È successo che l’Unione europea, l’immigrazione, la globalizzazione dei mercati e dell’economie minaccino quotidianamente l’identità nazionale, l’identità di un popolo e, dunque, una scuola del made in Italy è lo strumento più efficace per recuperare generazioni che rischiano il cosmopolitismo e la mondializzazione all’orgoglio per la propria italianità. Formarle al senso di appartenenza alla “Civiltà italiana”, quella del Colosseo quadrato all’EUR che sulla facciata porta scritto: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori e di trasmigratori”.

Questo in forte contrasto con la visione di una scuola luogo di formazione alla multiculturalità, alla mondialità, alla cittadinanza planetaria attraverso un’istruzione dal respiro globale a beneficio dell’intera umanità.

Non è un’operazione nuova quella di difendere la propria integrità nazionale, appartiene alla storia della nascita ottocentesca degli stati-nazione, ma da tempo avrebbe dovuto essere superata dalla globalizzazione, dalla domanda di libero movimento di merci, denaro e lavoratori, di culture e saperi.

Questo governo non si smentisce e ancora una volta dimostra di puntare ad una scuola come luogo dove plasmare le coscienze nazionali, promettendo un ritorno al passato, a un modello di scolarizzazione che serva esclusivamente alle necessità della nazione. In questo modello il contenuto dell’istruzione è determinato dall’interesse e dalle necessità nazionali in opposizione a quelle puramente individuali dell’ I Care, legate alla realizzazione dei singoli e al loro successo formativo.

Un sistema scolastico che supporti le necessità politiche della nazione attraverso l’educazione e la disciplina alla lealtà, alla patriottica cittadinanza imbevuta di made in Italy: una scuola etica e professionalizzante.

Ciò che interessa a questo governo non è dare realizzazione al PNRR per la scuola con i suoi ambiziosi traguardi e i i suoi diciannove miliardi da spendere entro il 2026. Forse  sono proprio quelli che pensano di restituire piuttosto che spenderli male in direzioni non desiderate, perché non condivise come asili nido, tempo pieno e mense, riduzione dei divari territoriali, competenze e nuovi linguaggi, nuove aule didattiche e laboratori, riqualificazione dell’edilizia scolastica. 

No, l’importante è ristabilire l’ordine in opposizione alle pedagogie progressiste, accusate di aver rovinato la scuola dai tempi della scuola media unica e di Barbiana fino ad averla ridotta addirittura ad essere causa di discriminazione. È scoccata l’ora della restaurazione, del restyling della scuola vera, quella del modello occidentale, diffuso in tutto il mondo dagli stati-nazione dei secoli già tramontati.

L’ educazione, quella vera, impartita in edifici specifici dove bambine e bambini, ragazze e ragazzi stiano separati dagli adulti. Con i rituali e le usanze di sempre, proprie delle scolaresche. Alunni contenuti nelle classi a cui deve essere insegnato secondo i metodi standardizzati in accordo con gli obiettivi del curricolo, con il libro di testo specificatamente scritto per l’uso scolastico come fonte maggiore di apprendimento. Giovani separati dalla comunità e sistemati in ambienti in cui controllarli, che consentano di plasmare intere generazioni per servire agli interessi politici ed economici della patria.

Un sistema scolastico che torni a dar forza allo patria-nazione attraverso l’unificazione culturale contro le minacce etniche, linguistiche e culturali, che sviluppi il senso di appartenenza alla propria cultura made in Italy, con scuole nelle quali apprendere la preparazione professionale necessaria a servire il sistema delle infrastrutture economiche made in Italy.

Un incubo che il paese digerirà come normalità, come assoluta normalità della scuola, anzi come una scuola “finalmente” tornata normale.

La Riforma Gentile. La più fascista delle riforme?

Origini, tradimenti, sedimenti di una riforma

Origini

A cent’anni dalla riforma Gentile riavvolgere la pellicola della storia e scoprire che il tempo scolastico nel nostro paese è un fermo immagine, potrebbe produrre una fastidiosa interferenza tra ieri e oggi, così fastidiosa da restare vittime di un offuscamento nella percezione del tempo.

I nodi di ieri sono ancora quelli di oggi, li elenco: il rapporto tra cultura umanistica e cultura scientifica, tra istruzione e educazione, l’insegnamento della religione nella scuola pubblica, il monopolio scolastico statale, la libertà di insegnamento, scuola pubblica e scuola privata, la scuola media unica.

L’istruzione per le classi popolari e la formazione delle classi dirigenti. Questione che a noi oggi potrebbe apparire superata, ma che in realtà ha assunto un’altra fisionomia e si esprime nella povertà educativa, nella dispersione scolastica, nel fenomeno dei neet, nelle più basse percentuali di laureati a livello europeo, nella fuga dei cervelli.

Questi i contenuti del contendere allora tra radicali, repubblicani e socialisti da un lato e liberali, cattolici dall’altro, tra positivisti e neo-idealisti, quando le correnti filosofiche erano concezioni di vita totalizzanti.

Dal 1861, all’indomani dell’unità, l’ordinamento dell’istruzione pubblica del paese è normato dalla legge Casati.

Bene o male si è creata una scuola di Stato aperta a tutti, obbligatoria e gratuita per i corsi elementari, un corpo di docenti, la cui preparazione si è andata perfezionando, uno sviluppo delle dottrine pedagogiche, un patrimonio, sia pure inadeguato, di edifici e di attrezzature. 

Gentile difenderà la sua riforma definendola come una autentica “restaurazione”.

Il 4 maggio 1923, parlando a Roma al III° congresso delle donne italiane, spiega che “restaurare” è la parola d’ordine. 

Bisogna restaurare lo Stato. Lo Stato non si restaura se non si restaura la scuola. La scuola non si può restaurare se non si restaura la famiglia, e nella famiglia l’uomo, che è la sostanza della famiglia, della scuola e dello Stato.”

Ma cosa c’era da restaurare? 

Gentile, gli idealisti e i liberali accusano il positivismo di aver deviato l’educazione dagli ideali nazionali risorgimentali e di avere sostenuto in campo pedagogico i principi democratici e socialisti.

Per Gentile filosofo la scuola del positivismo non ha saputo dare all’educazione un contenuto morale, un ideale di vita che sostituisse la fede religiosa.  

La seconda metà del XIX secolo ha visto affermarsi l’egemonia pedagogica del Positivismo a partire dalla legge Coppino, che nel luglio del 1877 ha introdotto alcune novità rispetto alla legge Casati, le scuole elementari da quattro passano a cinque anni, una maggiore attenzione per le materie scientifiche, ma soprattutto sancisce l’esclusione dell’insegnamento della religione dalla scuola.

Era successo che all’esposizione universale a Vienna nel 1871 la scuola italiana fa un cattiva figura, la sua arretratezza appare evidente specie per quel che riguarda l’insegnamento scientifico. (Già allora c’era il problema delle STEM!)

La scuola, denuncia De Sanctis, soffre di due malattie: dogmatismo confessionale e retorica umanistica. Nella scuola “abbonda la teoria manca il laboratorio”.

Accanto all’insegnamento scientifico si lascia sussistere quello catechistico.

E proprio istruzione scientifica e questione confessionale costituiscono il vulnus tra laici e cattolici, tra positivisti e neo-idealisti.

I cattolici ostacolano in ogni modo l’estromissione del catechismo dalle scuole, i cattolici benestanti mandano i loro figli alle scuole private confessionali.

La scuola secondaria, opera dei Gesuiti nei paesi cattolici, e della Riforma in Germania, è quasi interamente classica: greco, latino, poche nozioni di matematica e basta.

La Chiesa ribadirà il suo diritto esclusivo all’educazione del popolo con l’enciclica Libertas di Leone XIII del 20 giugno 1888.

Mentre il fronte costituito dai partiti radicale, repubblicano e socialista porterà avanti la battaglia per la laicità della scuola.

Si apre lo scontro forte fra due concezioni culturali, fra due progetti formativi radicalmente opposti. Dal prevalere dell’uno sull’altro deriveranno le sorti del nostro sistema formativo ben oltre quell’epoca fino ai giorni nostri.

È lo scontro tra positivismo e neo-idealismo. Tra il Fatto e l’Atto. Tra cultura scientifica e cultura umanistica, tra scuola pratica e scuola disinteressata, aristocratica. Tra scuola democratica e scuola di classe.

Tra educazione e istruzione, dopo che, come reazione alla scuola del positivismo, ai programmi del Gabelli, nel 1894  il ministro Guido Baccelli, presentando la revisione dei programmi scolastici in Parlamento, conia una nuova formula: “Istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si può.

Quello che Gentile chiama il tradimento degli ideali nazionali risorgimentali è per Antonio Banfi “l’ annuncio liberatore dalle illusioni romantiche compiuto dal positivismo, il superamento di ogni dogmatismo, per sviluppare la cultura scientifica, per creare il sapere dell’uomocopernicano contro il sapere dell’uomo tolemaico, espressione della rumorosa retorica dello spiritualismo risorgimentale”. 

Per i positivisti come Andrea Angiulli scuola e cultura per il popolo sono una delle rivendicazioni più importanti del movimento democratico. Solo l’educazione scientifica può rigenerare gli uomini e la società.

Per Aristide Gabelli, autore dei programmi per la scuola elementare del 1888, l’istruzione deve “formare lo strumento testa”, precursore, in questo senso, della “testa ben fatta” di Edgar Morin. 

Formare la testa, che serve a tutti, anche al popolo, al bambino povero come al ricco”.

Il suo saggio sul Metodo di insegnamento nelle scuole elementari d’Italia  (1880)  inizia con la storia del pesce vivo e del pesce morto. 

In una animata discussione intorno al quesito se un pesce vivo pesa di più di un  pesce morto, un onesto uomo si prende la briga di pesare un pesce prima vivo e poi morto per poter dichiarare con sicura coscienza che il peso era identico.

Lo scopo della nuova istruzione è per Gabelli quello di “accrescere di mano in mano il numero di coloro ai quali venga in testa di pesare il pesce innanzi di darsi a credere, nonché dimostrare, che morto  pesi più che non vivo”.

Formare la testa significa formare l’uomo razionale, ma a questo non si riesce con un’istruzione fatta di parole, monca o unilaterale”.

Nella sua lotta contro la scienza positivista Gentile è sorretto validamente da Croce, il quale attacca il positivismo dalle pagine della sua rivista La Critica,  organo di ispirazione idealistica. Croce, tra l’altro, considera la matematica come materia da commessi viaggiatori.

Si arriva all’assurdo. Nel 1902 i professori di lettere dei ginnasi chiedono un aumento di stipendio e propongono, per i fondi necessari, l’abolizione dei 200 posti di professore di scienze nelle scuole tecniche, addossando l’insegnamento relativo, senza retribuzione, ai professori di matematica delle stesse scuole.

Secondo Croce e Gentile nella scuoia italiana si può essere o idealisti o cattolici; meglio se si è idealisti; ma se non si è o non si può essere idealisti, si deve essere cattolici; perché, se non si è né idealisti né cattolici, si può essere una delle cose che essi cordialmente respingono, e cioè giacobini, radicali, democratici, socialisti o cattolici bastardi, cioè modernisti.

Alle elezioni del 1919, le prime dopo la guerra, Benito Mussolini è  uscito sconfitto. 

Questo gli fa capire che deve cucire rapporti con le forze che contano: il capitale agrario e industriale, l’apparato cattolico, convincendole che solo il fascismo può sbarrare la strada al socialismo avanzante, anzi allo “spettro bolscevico incombente”.

Mentre i socialisti e i cattolici popolari di don Sturzo litigano sulla questione della reintroduzione dell’insegnamento religioso almeno nelle scuole elementari, Mussolini si dimostra favorevole alla richiesta cattolica e va a trattare direttamente con il Vaticano.

Raggiunto l’accordo con il Vaticano e fatta la marcia su Roma, non gli sembra vero affidare la politica educativa al fascista, neo tesserato ad honorem, Giovanni Gentile, prestigioso uomo di cultura, che per di più sostiene le richieste dei cattolici.

Mussolini chiama Giovanni Gentile a far parte del suo governo di coalizione, anzi di unità nazionale, dal quale però sono esclusi socialisti, repubblicani e comunisti, innanzitutto perché ha bisogno di dimostrare che il Partito Nazionale Fascista non è un’accolita di soli personaggi rozzi e violenti, ma gode dell’adesione di intellettuali del calibro del filosofo Giovanni Gentile.

Si tratta di un colpo grosso, una mossa per accreditarsi verso una parte notevole della cultura italiana e nello stesso tempo ottenere la benevolenza del Vaticano, che seppure perplesso in doctrina per le posizioni del filosofo neo-idealista, condivide però le sue tendenze antisocialiste e antimassoniche 

e soprattutto la sua vecchia richiesta di introdurre l’insegnamento religioso nelle elementari, oltre alle sue posizioni favorevoli alla libertà della scuola, in primo luogo di quella cattolica, rivendicata dal Partito popolare, con l’introduzione dell’esame di stato, come legittimazione delle scuole private accanto a quelle pubbliche.

Una condizione perfetta per poter affermare mentendo, sapendo di mentire, che la riforma Gentile è la “più fascista delle riforme”. 

Ma l’uscita del Duce non è però sufficiente a difendere a lungo la riforma da un malcontento diffuso dalle file fasciste alla stessa S.Sede.

Protestano i genitori per la riduzione delle scuole pubbliche, (poche ma buone) perché non possono iscrivere i figli per mancanza di posti. 

Protestano i professori danneggiati per la soppressione delle scuole e delle così dette “classi aggiuntive”.

Protestano politici e amministratori locali per la chiusura delle piccole scuole elementari ridotte a scuola “sussidiate”.

Protestano gli  editori che devono mandare al macero edizioni vecchie per centinaia di migliaia di copie e per l’ipotesi del libro di Stato che avrebbe nuovamente rimescolato le carte almeno alle elementari. 

Protestano, infine, gli studenti per il rigore del nuovo esame di Stato e per il fatto che esso è entrato in vigore fin dalla sessione estiva del 1924.

La Riforma Gentile prevede un esame strutturato in 4 prove per conseguire la licenza liceale classica e scientifica. Le prime due di italiano e di latino (materie comuni ad entrambe le scuole), le seconde di greco e latino al classico e di matematica e disegno tecnico allo scientifico. Commissione esterna, formata da docenti universitari. 

Il livello di selettività spinge il governo Mussolini a rivedere le modalità di svolgimento dell’esame. Nell’ a.s. 1924/1925 la percentuale dei promossi non arrivava al 55% per il classico e al 60% per lo scientifico. 

Tradimenti

La riforma del neo-tesserato fascista Gentile poco c’entra con le politiche educative del ventennio.

La fascistizzazione della scuola  la fecero altri, non lui.

La confezionarono i ministri che gli succedettero dopo che diede le dimissioni dal primo governo Mussolini nel luglio del 1924. 

In particolare con il Ministero dell’Educazione Nazionale istituito nel settembre del 1929 dopo il Concordato, con l’Opera Nazionale Balilla e con la Carta della Scuola di Bottai nel gennaio 1939.

Uno dei massimi oppositori al regime fascista, Augusto Monti, parla di “tradimento” della riforma Gentile a partire dai programmi della scuola media fascista, varati dal ministro Balbino Giuliano.

L’ introduzione accanto al Galilei e al Sarpi di autori graditi alla Chiesa come i padri gesuiti Daniello Bartoli e Paolo Segneri. A far che? si chiede Monti.

Soprattutto l’esclusione di Vincenzo Cuoco dal programma di italiano per il liceo classico nell’intento di spezzare il legame tra il Vico e gli altri scrittori idealistici del protoromanticismo e del Risorgimento, fino a De Sanctis. Nella polemica del Monti echeggiano le preoccupazioni per i riflessi scolastici del recente Concordato, il destino riservato al Cuoco è paradigmatico di quello di tutta la riforma Gentile: cancellando uno degli autori più cari al filosofo.

Agli inizi del 1925 è lo stesso Gentile a parlare per la prima volta di “tradimento della riforma”, quando il ministro Pietro Fedele, che successe alle sue dimissioni, concede una terza sessione all’esame di maturità con lo scopo di placare le proteste sollevate dalla severità delle prove gentiliane. 

Gentile è un liberale risorgimentale, è per lo Stato forte, etico e fino al 1922 resta tale, firmando insieme a Luigi Einaudi il manifesto del Gruppo Nazionale Liberale romano. Nel 1922 prende posizione a favore del fascismo perché  vede in Mussolini il difensore del liberalismo risorgimentale, di una cultura spirituale, idealista, conservatrice, antidemocratica.

È convinto che il Risorgimento è un momento dello storia nazionale, o meglio dello “Spirito”, rimasto incompiuto. Occorre che lo Spirito si attualizzi nella coscienza del popolo. Il Risorgimento deve essere portato a compimento promuovendo la formazione di un carattere nazionale consapevole della propria missione. Per questo il rinnovamento radicale della scuola è il maggior dovere che spetta all’Italia, costituisce la riforma per eccellenza.

In una intervista rilasciata al Corriere della Sera nel 1929, dichiara: “Io posso dire di aver nulla inventato”. Rivendica la continuità della politica scolastica del fascismo con la grande tradizione teorica dell’età giolittiana. 

Tesi che aveva già sostenuto nel 1925 al senato nella difesa “apologetica” della sua riforma, definendosi San Sebastiano trafitto dalle critiche che gli piovevano da ogni parte. 

Tutto era già scritto, ma era rimasto nei libri e quelle idee là sarebbero rimaste se non fosse giunto il Fascismo a tradurle in atto. 

C’era stata la commissione del 1905 i cui lavori furono raccolti in due grossi volumi pubblicati nel 1909. Gentile ricorda che ne usci fuori anche un libro dedicato all’onorevole Filippo Turati, il libro di Salvemini e Galletti sulla riforma della scuola.

La commissione è quella nominata dal ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi con il compito di studiare l’ordinamento degli studi secondari in Italia. La commissione reale si pronuncia fin dall’inizio per la scuola media unica.

La discussione intorno alla riforma della scuola media è rimasta sempre viva dall’Unità in poi.

Non è d’accordo il socialista Salvemini che, chiamato in quanto presidente della FNISM a far parte della commissione, contrario alla scuola media unica si dimette.

Agli inizi del ‘900, dopo i torbidi di fine secolo, le classi dirigenti italiane accusano la scuola di fomentare desideri e bisogni pericolosi nel popolo, richiamando la scuola al dovere di formare sudditi ossequenti e docili.

Contemporaneamente Galletti e Salvemini osservano “un elevamento impetuoso delle classi inferiori le cui condizioni economiche migliorano e che non si contentano più della semplice istruzione elementare”.

Col primo anno del nuovo secolo, il 1901, si formano le associazioni degli insegnanti che oltre alla tutela salariale e normativa della categoria, si propongono di  svolgere un ruolo politico attivo nel paese per contribuire alla riforma e a un nuovo ordinamento degli studi. 

Per Salvemini  occorre che il mondo della scuola  abbia la forza di “dominare” il mondo politico contemporaneo.

I nodi del dibattito sono principalmente la questione della scuola media unica, il monopolio statale della scuola, l’insegnamento della religione cattolica.

Si tratta dell’Unione Magistrale Nazionale, fondata e presieduta da Luigi Credaro, nel 1906 si staccheranno i maestri cattolici per confluire nell’Associazione Magistrale Nicolò Tommaseo e della Federazione Nazionale Insegnanti di Scuola Media fondata da Giuseppe Kirner e Gaetano Salvemini. Giovanni Gentile, Giuseppe Lombardo Radice, Ernesto Codignola saranno i principali protagonisti del dibattito all’interno dell’associazione.

Per i socialisti Giovanni Calò, Galletti e Salvemini  la scuola è aristocratica, perché la scuola deve mantenere rigidamente un carattere disinteressato, il che significa tenere lontane le masse popolari che hanno necessità di lavorare e quindi di una rapida preparazione professionale. La preponderanza dell’insegnamento del greco e del latino garantisce questa assoluta aristocrazia.

Salvemini sostiene che non si può dare a tutti i piedi la stessa scarpa: “Non v’ha ineguaglianza peggiore che quella di voler trattare allo stesso modo individui che hanno bisogno di trattamento diverso.”

Circa sessant’anni prima Salvemini è il precursore del “Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali” di don Milani, muovendo però da premesse opposte.

Per tutto il primo ventennio del secolo le rivendicazioni dei socialisti non vanno oltre una buona scuola popolare e professionale.

Almeno fino a quando, il 1°maggio 1919, Antonio Gramsci, altri intellettuali e socialisti, tra cui Palmiro Togliatti, Angelo Tasca e Umberto Terracini, danno vita a Torino alla rivista LOrdine Nuovo.

Da quelle pagine la questione scolastica è per la prima volta affrontata in funzione della  preparazione della classe operaia a classe dirigente e i problemi della scuola media considerati come problemi strettamente connessi agli interessi diretti e indiretti dei lavoratori.

Per Gramsci  vanno spezzate “quelle fittizie barriere” che tengono chiusi i figli dei lavoratori entro “l’angusto limite di una cultura utilitaria e non formativa”.

All’interno della federazione degli insegnanti non mancano dissensi rispetto alla linea della maggioranza da parte di chi difende la scuola media unica come luogo comune di educazione e rivendica alle materie scientifiche, alle lingue moderne lo stesso valore formativo attribuito alle lingue classiche, per dare uno sbocco agli studi universitari anche a quegli studenti che si trovano avviati a studi non classici.

Istruzione secondaria e forte selezione costituiscono il luogo privilegiato della battaglia politica gentiliana per il rinnovamento della scuola e del paese. 

Nel maggio del 1918 Gentile ha scritto una lettera aperta, pubblicata dal Carlino, al ministro della Pubblica Istruzione, accusando il degrado della Scuola come conseguenza del monopolio statale, che va soppresso, l’istruzione media deve essere riservata alle élites della nazione, selezionate con un esame di Stato. « Poche scuole, ma buone », in questo in sintonia con Croce.

Nel maggio del 1919 i gentiliani rompono con le organizzazioni degli insegnanti perché la mozione votata a maggioranza dal congresso di Pisa della Federazione Nazionale Insegnanti Medi difende il monopolio statale della scuola.

Dalla rivista che dirige, Educazione nazionale, organo del Fascio di educazione nazionale, il 15 gennaio del 1920 Giuseppe Lombardo Radice lancia un appello agli insegnanti perché si riuniscano, all’indomani della guerra, nella missione per il “rinnovamento radicale dei nostri organi di educazione nazionale”.

Sbandamento e distrazione della gioventù, è scritto nell’appello, sono frutto di una scuola invecchiata, svagata che da troppi anni ormai “non tempra, ma disintegra piuttosto la coscienza e i caratteri”.

La nascita del  “fascio di educazione nazionale”, da non confondere con i fasci di Mussolini, liquida, ritenendola ormai conclusa, l’esperienza dell’Unione Magistrale e della Federazione degli Insegnanti Medi.  

Il 22 maggio del 1920 si era presentata l’occasione perché finalmente l’ideale educativo e scolastico di liberali e neo-idealisti, coltivato per tanti anni fin dal secolo precedente, si potesse realizzare.

Benedetto Croce diviene ministro della Pubblica Istruzione nel quinto governo Giolitti. 

La riforma tanta auspicata finalmente pare a portata di mano a partire dall’ introduzione dell’esame di Stato nelle scuole medie e dell’insegnamento religioso nelle elementari. 

Lombardo Radice teme che l’opinione dei deputati possa essere condizionata da quella che chiama la “repubblica dei maestri e dei professori”. 

E infatti i provvedimenti di Croce sono bocciati in parlamento dall’opposizione laica dei “maestrucoli elementari socialisti”, come lo stesso Croce li definirà.

Ecco cosa intendeva dire Gentile quando nel 1929 dichiara al Corriere della Serra: “Io posso dire di aver nulla inventato”. 

Gentile e con lui molti altri si erano illusi di realizzare, grazie a una forza politica esterna, il programma scolastico invano discusso nel periodo giolittiano. E come tale continueranno a difenderla, anche dopo l’allontanamento di Gentile dal governo Mussolini nel 1924, anche quanti di loro approdarono su sponde antifasciste.

Così scrive nel 1925 Ernesto Codignola nell’introduzione di un volume dei suoi interventi sulla riforma Gentile: “Con un’intuizione geniale Mussolini ha chiamato al ministero dell’istruzione «il maestro del nuovo pensiero educativo e il capo del manipolo dei novatori»” 

Gentile ministro significa l’egemonia del pensiero idealista che utilizza la conquista fascista per tradursi in prassi politica dello stato.

A questo si riferiva Monti con l’idea di tradimento: riaffermare l’opposizione tra il  fascismo e la riforma Gentile.

Codignola dopo la firma dei Patti lateranensi si distacca dal regime abbandonando l’illusione di un fascismo a supporto “dell’irreversibile riforma spirituale della cultura idealistica.”

Lombardo Radice, che Gentile aveva chiamato al ministero come direttore generale dell’istruzione elementare, ha lasciato l’incarico e ogni rapporto con il fascismo a seguito del delitto Matteotti.

Sedimenti

L’idea del “tradimento” ha trovato applicazione sul piano storiografico nel termine “controriforma”, usato comunemente per definire la politica scolastica successiva all’intervento gentiliano con cui fu portata a termine la fascistizzazione della scuola; il che ha lasciato presupporre un rapporto conflittuale tra la riforma Gentile e il regime ben oltre la realtà dei fatti.

È in questo modo che si fa strada il mito della riforma liberale “accidentalmente” realizzata dal fascismo. 

Questo è importante perché spiega la tenacia con cui ancora oggi la destra, ma non solo, difende questa riforma, come Mastrocola, Ernesto Galli della Loggia  e quanti vedono nella scuola media unica e in don Milani con la sua Lettera ad una professoressa il grande vulnus al nostro sistema scolastico e alla riforma Gentile.

Un secolo è trascorso dalla Riforma del 1923 e ancora oggi quella riforma è organica alla scuola italiana.

Certamente la religione come filosofia baby per le classi popolari non è più fondamento e coronamento dell’istruzione elementare e media, ma l’unico fatto legislativo sostanzialmente e culturalmente nuovo è stato la realizzazione della scuola media unica con la legge n. 1859 del 31 dicembre 1962. 

L’impianto umanistico prevale su quello scientifico, greco e latino ancora sono pensate come le materie formative per le classi dirigenti.

La riforma Gentile ha sacrificato la questione formativa, come ha osservato Antonio Santoni Rugiu, a una visione angusta e soffocante esclusivamente ridotta alla questione scolastica.

La fisionomia culturale di un popolo ristretta all’esclusività del momento scolastico, la personalità individuale e sociale dei giovani plasmata attraverso l’insegnamento per materie che assicura una progressiva assimilazione dei contenuti, da quelli rudimentali del leggere, scrivere e far di conto agli altri ben più complessi e interconnessi dell’istruzione universitaria.

Così nella nostra pedagogia assumono centralità contenuti, discipline, la loro specificazione e metodologia, in una parola quella cosa tipicamente italiana che è il programma di insegnamento. 

Ottica che ancora oggi non ci abbandona, nonostante l’Europa del Manifesto di Lisbona 2000 abbia sdoganato l’apprendimento non formale e informale nella pratica dell’istruzione permanente.

Se si usano sempre le stesse categorie non giungeremo mai ad un sistema di istruzione permanente. Non faremo mai il salto dal sistema tolemaico, scuola centrico,  a quello copernicano.

Ma il vero vulnus della Riforma Gentile non è solo la sua impronta spiritualista e a-scientifica che perdura nella formazione delle giovani generazioni italiane, ma la sua chiusura nazionalista. 

Il nazionalismo di Gentile lo rende ostile a quanto si muove fuori dal paese fino a contestare con una recensione del 20 gennaio del 1904 al  libro La scuola media e le classi dirigenti di Alfredo Piazzi, docente di Pedagogia all’Università di Pavia, direttore della “Rivista Pedagogica”, di aver voluto condurre il suo studio sulla base di esami comparativi tra la scuola italiana e la  scuola di altri paesi.

Gentile e Croce sono chiusi ad ogni innovazione pedagogica, anzi sono ostili alla pedagogia, su tutto deve dominare la filosofia dello Spirito che unitamente al personalismo di Jacques Maritain alimenterà la cultura scolastica del nostro paese.

Gentile, autore di un fortunatissimo Sommario di pedagogia come scienza filosofica apparso nel 1913, risolve tutto il problema pedagogico con la superiorità spirituale del maestro nel rapporto con il discente, che ancora costituisce la base dell’impianto del nostro sistema scolastico cattedra-centrico. Che oggi ha la sua nuova versione nell’erotismo in cattedra di Massimo Recalcati e nel manifesto per La nuova scuola in cui si rivendica la centralità dell’ora di lezione, manifesto sottoscritto da intellettuali come Barbero, Salvatore Settis, Dacia Maraini, Zagrebelsky, Tomaso Montanari, Chiara Frugoni, Vito Mancuso e altri.

La Riforma Gentile si realizza nel momento in cui al di fuori del paese il fermento della ricerca pedagogica e dell’innovazione didattica è al massimo livello, tagliando fuori il nostro paese dal movimento di rinnovamento delle New School che investe gli Stati Uniti e l’Europa, e di questo continueremo a pagare a lungo il prezzo.

Nel 1897 John Dewey ha pubblicato “Il mio credo pedagogico”, seguiranno “Scuola e società”, “Come pensiamo”, “Democrazia e educazione”, tutti libri che la cultura italiana potrà leggere per i caratteri de La Nuova Italia solo negli anni ’50 del secondo dopo guerra.

Tralascio Adolphe Ferrière, Éduard Claparède, Helen Parkhurst con il Piano Dalton: la scuola dei laboratori. Helen è stata in Italia e ha studiato il metodo Monessori, con la Montessori ha lavorato all’Esposizione Internazionale di San Francisco nel 1915. Il Piano Dalton viene pubblicato dalla Nuova Italia nel 1955.

Ernesto Codignola nel 1945, con la moglie,  fonda a Firenze “La scuola città Pestalozzi” prima esperienza di scuola attiva nel nostro paese, nel 1950 la rivista  Scuola e città.

Si fa animatore della casa editrice la Nuova Italia, per la quale nel 1950, cura la pubblicazione del libro di Aristide Gabelli, il positivista che aveva avversato, “L’Istruzione e l’educazione in Italia”.

In questa dimensione di tempo scolastico sospeso, un intellettuale come Andrea Carandini, archeologo, professore ordinario di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana alla Sapienza di Roma, già presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali e del FAI, in due articoli pubblicati sul Corriere della Sera uno il 16 novembre, l’altro l’11 dicembre del 2022 sostiene:

“Il problema sta nel fatto che nell’ultima generazione e mezza né la destra-centro né il centro-sinistra — entrambi distruttori della buona scuola di Giovanni Gentile inaugurata un secolo fa — hanno saputo edificarne una nuova almeno altrettanto formativa. 

La notizia che mi renderebbe felice sarebbe questa: «Oggi i leader delle diverse parti politiche sono saliti insieme all’Altare della Patria, hanno fatto autocritica per la distruzione della scuola italiana e si sono impegnati a rifondarla ab imis fundamentis». 

Ci vorrebbe un Giovanni Gentile per questo millennio — cento anni esatti dopo la sua riforma — cioè, oggi, un miracolo! “

Potremmo concludere, rubando le parole a Umberto Eco, che questo paese oltre a soffrire di Fascismo Eterno (Ur-fascismo) soffre di “Gentilismo Eterno” (Ur-Gentilismo) che continua a soffocare ogni possibile discorso di rinnovamento del nostro sistema formativo.

Bibliografia

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C. Betti, L’Opera Nazionale Balilla e l’educazione fascista, La Nuova Italia, 1984

G. Canestri, G. Ricuperati, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi, Loescher, 1977

M. Galfré, Cuoco, Gentile e la scuola fascista, Contemporanea Vol. 4, No 3 (luglio 2001), pp. 475-495, il Mulino

M. Galfré, Una riforma alla prova. La scuola media di Gentile e il Fascismo, Angeli, Milano, 2000, p.31

G. Genovesi, Storia dell’educazione,Corso Editore, 1994

G. Gentile, Il problema scolastico del dopoguerra, Napoli, 1919

G. Gentile, La riforma dell’educazione. KKIEN P.I., 1919

G. Gentile, La riforma della scuola italiana, Firenze, Le Lettere, 1989, pp.240-241

S. Soldani, G. Turi, Introduzione a Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, Bologna, il Mulino, 1993, pp.17-25

G. Spadafora (a cura di), G. Gentile. La pedagogia, la scuola, Armando, Roma. 1996

Sessant’anni e li porta male

La scuola media unica ha sessant’anni, la legge istitutiva li ha compiuti il 31 dicembre scorso. Anche la sua gestazione è stata lunga, circa altri sessant’anni prima di vedere la luce. Nel 1905 la Reale Commissione, istituita per volontà dell’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi, si era pronunciata a favore della scuola media unica, ma l’opposizione si manifestò subito soprattutto da parte liberale e socialista, tanto che si opposero Salvemini e Galletti, Croce, Gentile e Codignola. Poi come è andata la storia è ormai cosa nota.

Del resto nel dicembre del 1962 a votare contro la legge numero 1859  non furono solo missini e monarchici, ma anche i comunisti, sebbene con motivazioni differenti.

Ma di scuole di “mezzo” non ne abbiamo più, né inferiori né superiori. L’istruzione è ora organizzata per cicli: primo e secondo. Poi le scuole sono primarie e secondarie.

L’articolo 1 della legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 affidava alla scuola media unica il compito di concorrere “a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi della Costituzione” e a favorire “l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”.

Cinquant’anni dopo, nel 2012, le Indicazioni nazionali per il curricolo del Primo Ciclo, a proposito di finalità da affidare alla scuola, puntano direttamente allo scopo: “La finalità è l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità fondamentali per sviluppare le competenze culturali di base”. 

“Conoscenze”, “abilità”, “competenze”, un trinomio e una consequenzialità inedita. 

Nuova rispetto anche ai programmi per la scuola media, quelli che furono scritti nel 1979, dopo importanti provvedimenti come la legge n. 517 del 1977, che aboliva i voti e dava avvio all’integrazione scolastica nella scuola di tutti, dopo i Decreti delegati del 1974, che  hanno aperto la strada alla partecipazione democratica nella scuola.

Conoscenza, abilità, competenza disegnano un itinerario di apprendimento molto preciso, ben definito nei suoi contorni: la conoscenza deve trasformarsi in abilità e una volta divenuti abili allora è  possibile mettere alla prova la propria competenza.

Una visione dell’apprendimento assai avanzata rispetto alla genericità dell’articolo 1 della legge istitutiva della scuola media unica ed alla fumosità dei programmi del 1979: “la scuola media risponde al principio democratico di elevare il livello di educazione e di istruzione personale di ciascun cittadino e generale di tutto il popolo italiano”.

Ma se siamo arrivati alla scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 lo dobbiamo alla strada che è stato possibile percorrere partendo da quella data di sessant’anni fa: il 31 dicembre del 1962.

Da allora sono accadute tantissime cose, che prima non c’erano, che hanno contribuito a mutare la cultura italiana sulla scuola, anche se questa cultura in gran parte nuova non è stata recepita da tutti. 

Alcuni, sia all’interno che all’esterno dell’istituzione, l’hanno subita, altri non l’hanno compresa e hanno continuato a pensare e ad agire come se non fossero intervenute importanti novità sul versante dell’istruzione del paese. 

C’è chi, invece, ha continuato a lavorare ostinatamente, non sempre con successo, perché non venisse meno la spinta al rinnovamento della nostra scuola, indispensabile per evitare di fallire il compito assegnatole dalla Costituzione, quello che sta scritto soprattutto nell’articolo 3 dei suoi principi fondamentali.

Il paesaggio scolastico italiano si è arricchito di quanto in quell’inverno del ’62 forse era inimmaginabile: gli asili nido, le scuole dell’infanzia, una nuova scuola primaria, le scuole a tempo pieno, gli istituti comprensivi, una scuola inclusiva. Nuovi compiti hanno qualificato il profilo degli insegnati dalla programmazione curricolare, all’individualizzazione dell’insegnamento, le verifiche e la valutazione, l’interdisciplinarità, la ricerca d’ambiente, le osservazioni sistematiche, il master learning.

Compiti nuovi di una professionalità docente ripensata, non sempre vissuta con la disponibilità giusta da tutti gli insegnanti. Compiti spesso subiti come pratiche burocratiche da evadere per mancanza di preparazione sia dei singoli che della struttura, più spesso per il mancato sostegno da parte di chi è stato chiamato a dirigere il dicastero dell’istruzione e per la inadeguatezza della politica.

Il rischio reale oggi è che la strada percorsa fin qui finisca in un vicolo cieco. Perché la scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 è molto più impegnativa di quella prospettata dalla scuola media unica, che pure resta la pietra miliare di una grande conquista democratica. Rappresenta i passi avanti che, anche per effetto di quella riforma, ha compiuto il pensiero della scuola in questo paese.

Un pensiero che impegna la scuola a far acquisire “le competenze indispensabili per continuare ad apprendere lungo l’intero arco della vita” con “particolare attenzione ai processi di apprendimento di tutti gli alunni e di ciascuno di essi”. Tutti e ciascuno, proprio ogni singolo, preso uno per uno.

Qui sta il nodo vero: competenze indispensabili all’istruzione permanente e forte individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento. Più che individualizzazione sarei tentato di usare l’espressione “singolarizzazione”. Tutto nella prospettiva di accrescere in ciascuno l’individuale autonomia di studio. 

O questi nodi si affrontano con una cultura nuova o, nonostante la prescrittività delle Indicazioni nazionali, la nostra scuola secondaria di primo grado continuerà a funzionare né più né meno come la sua progenitrice scuola media unica. 

E allora l’Istat tornerà a fornirci dati sempre più imbarazzanti come quelli che fanno registrare il 40% degli studenti di terza media non sufficienti in italiano  e in matematica. Una scuola soprattutto ininfluente nel colmare non solo gli svantaggi sociali e culturali,  ma anche quelli accumulati nel corso degli anni scolastici.

Ciò significa che la sfida democratica lanciata sessant’anni fa dalla scuola media unica non è stata ancora vinta.

La scuola di oggi, già a partire dalle Indicazioni nazionali, si dichiara impotente a realizzare le proprie finalità senza il concorso con “altre istituzioni” e non può pensare di perseguire “con ogni mezzo il miglioramento della qualità dell’istruzione” se le condizioni strutturali ed organizzative sono sempre quelle del 1962: classi, cattedre, orari, discipline.

Eppure le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione avrebbero dovuto permettere di  far compiere al nostro sistema di istruzione un salto di qualità: dalla scuola media unica all’unitarietà della scuola del primo ciclo.

Unitarietà tradotta nell’impianto curricolare delle Indicazioni nazionali per obiettivi di apprendimento e per competenze da acquisire al termine della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado. Impianto che avrebbe dovuto riuscire rafforzato dalla scelta organizzativa degli istituti comprensivi. Il “comprensivo” come ambiente di “apprendimento” esperto di “apprendimenti”, di educazione comprensiva dai 3 ai 14 anni. 

Il comprensivo come luogo di un far scuola rinnovato, come mondo di un apprendimento diverso.

E invece i risultati parlano d’altro, di scuola media come buco nero, come anello debole della catena. Come è possibile? Come spiegarlo?

Forse perché la scuola media da unica è restata unica, separata in casa in un comprensivo che non ha saputo divenire comprensivo, comprendere e comprendersi nonostante dieci anni di Indicazioni nazionali.

Allora viene il sospetto che la cultura di questo paese e di tanta parte dei suoi insegnanti sia ferma alla scuola di sessant’anni fa o forse anche molti di più a leggere i frequenti inviti a rinverdire la riforma Gentile rilanciati dalle pagine dei nostri quotidiani nazionali.

Un ghost written ministeriale

Non conosco l’autore del documento riprodotto qui di seguito essendone venuto in possesso accidentalmente. Le vicende che mi hanno portato a trovarlo mi fanno supporre che il suo estensore potrebbe essere un ghost writer del Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Se qualcuno dovesse riconoscersi nello scritto per comune sentire potrebbe aiutarci nell’attribuzione dello scritto stesso al suo autore.

Nell’accingerci al grande compito di risanamento spirituale e materiale che incombe al nostro Paese in questa epoca gravida di liete promesse e di oscure minacce, il nostro primo pensiero deve essere rivolto al rinnovamento radicale del sistema nazionale di educazione. Bisogna rinnovare la coscienza delle nuove generazioni, se vogliamo trarre frutti adeguati.

La aspra prova delle crisi e dei governi che finora si sono succeduti alla guida del Paese, nonostante  le mirabili doti spontanee del nostro popolo, a nessuno secondo, ha messo a nudo gravi lacune nella compagine spirituale della nazione, specialmente in quelle classi che dagli studi avrebbero dovuto attingere il sentimento religioso della legge e della subordinazione individuale ai supremi interessi collettivi, la fede operosa, l’allenamento morale, la visione realistica delle cose e il senso di concretezza.

Questo sbandamento, questa specie di distrazione della gioventù è il frutto di una scuola invecchiata, svagata, che da troppi anni ormai non tempra, ma piuttosto ne disintegra la coscienza e il carattere.

Occorre che essa trovi in sé stessa la capacità di rinnovarsi: ma non si può avere fiducia  in una classe docente animata da intenti esclusivamente economici, che si è dimostrata incapace di difendere i supremi interessi collettivi.

Occorre fondare una cultura scolastica nuova a partire dagli insegnanti, opposta a quella che fin qui si è affermata attraverso i governi della sinistra. 

Lottare contro il protezionismo monopolistico statale sulla scuola, e incoraggiare, quindi, l’iniziativa privata, contro la sopravvalutazione dei diplomi; operare perché si colmino le gravi lacune della istruzione professionale; imporre una migliore preparazione agli insegnanti di tutti gli ordini e gradi scolastici. 

Scuola nazionale non significa scuola governativa opposta alla scuola clericale o privata: scuola nazionale significa una scuola capace di ridare un’anima all’opera educativa, capace insomma di rinnovare la coscienza nazionale della Patria e della Famiglia.

Ora è finalmente giunto il momento del riscatto, restituendo alle nostre scuole il compito di educare, di affermare il valore morale dell’educazione per formare lo spirito, perché ognuno se ne faccia interprete e si appropri del ruolo che la Storia gli ha assegnato.

Benemerito è il ministro che con ascetico coraggio ha inteso richiamare i nostri studenti alla disciplina dell’Umiltà, virtù cristiana che lungi dall’abbattere l’individuo lo esalta al di sopra delle proprie debolezze umane.

E ancora li abbia spronati al cimento nel concorrere al merito per le proprie qualità di studio e di impegno, come sacrificio degli ardui studi, delle sudate carte. Sana competizione nella corsa verso il sapere, verso quella Scienza, anzi Verità, che i nostri antichi greci collocavano al disopra delle vicende mortali, di là dalla storia tormentata da contrasti fatali di errori, da tentennamenti, dubbi e desideri insoddisfatti di sapere.

Educazione intellettuale ed educazione morale sono tutt’uno; educazione dello spirito ed educazione del corpo sono egualmente una stessa educazione. Fruga di qua, fruga di là, si ottiene sempre lo stesso risultato: che cioè l’educazione è formazione, e cioè sviluppo, o divenire dello spirito; e poiché lo spirito consiste appunto nel suo divenire chi dice educazione dice spirito, e nient’altro.

Mens sana in corpore sano abbiamo appreso dagli antichi. Il valore dell’educazione fisica. L’educazione fisica degli antichi è educazione spirituale in quanto per gli antichi lo spirito essenzialmente è corpo anch’esso. L’educazione fisica dei moderni è la formazione spirituale del corpo: è l’addestramento del corpo che serve allo spirito, così come lo voleva l’asceta medievale; ma a uno spirito che non intende chiudersi astrattamente in se stesso, sequestrandosi dal mondo dell’esistente; anzi vuole spaziare liberamente e investire la natura, e soggiogarla ai propri fini, strumento e specchio della propria volontà. L’educazione fisica dei moderni è educazione spirituale in quanto lo stesso corpo è spirito; e la scienza non è più soltanto speculazione di verità oltramondane, ma scienza dell’uomo, e dell’uomo nell’universo. In questo concreto concetto dello spirito, che non esclude più nulla da sé, acquista concretezza il concetto cristiano dell’educazione fisica. La quale mira bensì al corpo strumento del volere, ma non del volere che rinunzia al mondo, bensì del volere che al mondo si volge come al campo delle sue battaglie e delle sue vittorie, anzi della sua stessa vita.  Al mondo che gli sta sempre innanzi quasi in atto di sfida, e come ribelle, e che egli doma faticosamente facendone la forma del proprio divenire.

Allora benvenga l’iniziativa del nostro presidente del Senato, il quale al raduno degli alpini  a Milano ha annunciato di essersi fatto promotore di un disegno di legge per ripristinare in questo paese, per una più maschia formazione della nostra gioventù lasca e choosy, la naja. Non la leva, non la coscrizione, ma la naja volontaria, per quaranta giorni. 

L’uso del termine “naja” volutamente scelto sta a significare l’importanza di questa esperienza ormai perduta, per la formazione del carattere dei nostri giovani. Altroché bullismo, una sana naja per quaranta giorni, con il vantaggio non solo di forgiare la propria personalità ma di godere poi dei benefici che ne deriveranno come i crediti formativi da vantare all’esame di maturità e il punteggio aggiuntivo per la laurea e per la partecipazione ai concorsi pubblici.

Un modello di educazione nazionale che consentirà di invertire la parabola di caduta nella formazione dei nostri giovani come effetto dei danni prodotti dalla scuola progressista.

Per troppo tempo i problemi educativi sono stati trattati con superficialità, senza il necessario rigore. 

Non si può rientrare nella scuola senza recarvi uno spirito nuovo per rimuovere le tante abitudini accettate passivamente dall’andazzo realistico, materialistico e pedantesco dell’educazione democratica. In ogni parola, in ogni istante dell’opera nostra si farà sentire un nuovo dovere e innanzitutto la necessità di far diversamente da quello che è stato insegnato dai seguaci del pedagogismo progressista.

Dietro l’angolo c’è ancora Gentile

Dopo la lezione di conservatorismo, propinata alla leader dei conservatori europei Giorgia Meloni il primo agosto dalle pagine del Corriere della Sera, il professore Ernesto Galli della Loggia che suggeriva alla signora la scuola come terreno privilegiato della conservazione, passa alle proposte concrete, facendo proprio il programma governativo della destra italiana in merito alla riforma degli studi sintetizzato in due parole: meritocrazia e professionalizzante.

Così il ventidue settembre, sempre dal Corriere della Sera rompe fragorosamente il silenzio sulla scuola di cui accusa i partiti in campagna elettorale.

Non si tratta di controriforme, avverte, ma bisogna rifare tutto a partire dallintera organizzazione dei cicli scolastici. 

C’è un eccesso di intellettuali che danneggia il mercato del lavoro, occorre porre fine  a mezzo secolo di accesso all’università con il diploma di qualsiasi scuola secondaria, tutto ciò condiziona e distorce profondamente il carattere della scuola che deve essere meritocratica e professionalizzante. La qualità dei contenuti di insegnamento di un liceo classico non può essere sostanzialmente equivalente a quella di un istituto professionale, pertanto non è possibile “leguaglianza delle vocazioni e delle attitudini di tutti i giovani licenziati, tutti ottimi potenziali candidati ai medesimi studi universitari.”

Qualcuno per favore informi il professor Galli che la riforma Gentile non l’ha pensata lui, ma  già un secolo fa il suo titolare, appunto, il professore Giovanni Gentile.

E chi si propone di dare un taglio maggiormente meritocratico, attraverso le bocciature, come vorrebbe il professor Galli e la destra nostrana, e professionalizzante alla scuola, in realtà auspica un ritorno allo spirito primitivo della riforma Gentile.

La riforma gentiliana si è caratterizzata per il suo pesante conservatorismo,  per la sua accentuata canalizzazione professionale, privando l’istruzione scolastica di ogni significato di mobilità sociale che aveva iniziato, sia pure modestamente, ad assumere, grazie ai molti miglioramenti apportati dalla legge Casati e dai lavori della “Commissione per un’indagine sulle condizioni della scuola secondaria e per lo studio di una riforma” istituita con decreto del 19 novembre 1905 dall’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi (quando si dice i corsi e ricorsi della storia!).

La riforma Gentile rappresentò una vera e propria restaurazione, come da sempre restaurare è nelle intenzioni del conservatorismo dal quale certo il nostro professore non si sottrae a partire dal ripristino delle predelle come arredo scolastico.

Il professore Galli propone due tipi di università una di serie A, la sola abilitata a rilasciare il diploma di dottorato per intellettuali puri e una di serie B per le professioni profane con una scelta di vita che uno studente dovrebbe compiere a tredici anni, sostanzialmente il modello tedesco.

La storia non si ripete, se si ripete assume un volto nuovo, però gli ingredienti sono sempre gli stessi. 

Quando nel 1969 Tristano Codignola, che pure insieme a Giuseppe Lombardo Radice aveva contribuito alla riforma Gentile, propose al parlamento la liberalizzazione degli accessi ai corsi universitari, l’obiettivo era quello di porre fine al perdurare dell’aspetto più odioso di quella riforma: la rigida selezione classista, in modo da favorire la mobilità sociale in un paese che aveva bisogno di istruzione per il suo sviluppo economico.

Ora la storia si ripete, si vorrebbe tornare indietro rispetto a tutte le faticose conquiste ottenute dalle forze democratiche nel settore educativo e giuridico della scuola, ritornare a quello spirito classista e borghese che, in definitiva, fu ciò che più di ogni altra cosa accomunò i destini della riforma del 1923 a quelli del fascismo.

Filippo Turati ebbe a dire della riforma Gentile “altro non è che il manganello applicato alla scuola”. 

Pure Galli della Loggia ha il suo manganello, incurante che possa essere definito classista: le bocciature.

Le bocciature come vaglio delle competenze. Perché spendere tempo e risorse nelle attività di orientamento, nella burocrazia di quell’acronimo insopportabile PCTO, che tutte le volte occorre andare a cercare cosa significa perché uno se lo è dimenticato: “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”

Scrive testuale: “cominciare ad esercitare già nelle sue aule un vaglio delle competenze effettive degli alunni, delle loro vocazioni e attitudini, con il solo strumento a disposizione che è quello della bocciatura”.

Bocciature entro i tredici anni, perché questa è l’età che nella sua visione del sistema scolastico, bontà sua non i dieci delle grundschule, si deve scegliere quale orientamento dare ai propri studi, se il liceo classico che ti condurrà alle vette dell’intellettuale puro o tutto il resto che ti avvierà verso le sorti meravigliose e progressive del mercato del lavoro.

Perché l’Italia, scrive il professore “ha un bisogno assoluto di ridare dignità culturale e sociale e quindi economica al mondo del lavoro, di tutto il lavoro, e il modo di farlo parte dalla scuola”.

Il maestro di conservatorismo in definitiva propone un restyling della riforma Gentile, in sostanza fornirle un nuovo look con le stesse motivazioni espresse circa un secolo fa dallo stesso Gentile nella seduta del 5 febbraio 1925 al Senato per difendere la sua riforma: “una risposta  allo squilibrio esistente fra scuola e mercato del lavoro, che si manifesta soprattutto in una crescente sovrapproduzione di forza lavoro intellettuale, e alle tensioni sociali e politiche che questo squilibrio produce.”

Gli ingredienti ci sono tutti perché da dietro l’angolo ritorni a spuntare Giovanni Gentile a realizzare compiutamente gli interessi della conservazione.

Scuola e programmi elettorali

Se il problema di cosa studiano e di come studiano a scuola le nostre ragazze e i nostri ragazzi non viene affrontato le possibilità sono solo due: o non è un problema o non si possiede una soluzione al problema.

A leggere i voti, che le forze politiche formulano per la scuola nei loro programmi elettorali  al fine di ottenere voti, non si può che concludere che nel nostro paese cosa si studia e come si studia nelle aule del sistema formativo non costituisce un problema. Nonostante gli esiti decisamente non brillanti delle indagini Ocse Pisa e dell’Invalsi sui risultati scolastici, il grado di istruzione del paese non sembra meritare attenzione. Anzi c’è chi, come Italexit, vuole “Eliminare le prove Invalsi e i sistemi valutativi basati sui quesiti a risposta multipla.” Insomma, il tuo parlare sia sì sì, no no.

Anni di letteratura scolastica che hanno sfornato titoli poco rassicuranti: Requiem per la scuola, La scuola bloccata, Senza educazione, L’aula vuota, La scuola imperfetta, La scuola impossibile, Liberiamo la scuola, La scuola è sfinita fino al recente Il danno scolastico della coppia Mastrocola-Ricolfi, vengono volutamente o meno ignorati dalle formazioni politiche scese in campo per l’agone elettorale, possibile che neppure uno dei libri citati l’abbiano mai letto.

Qualcuno ci prova. Ad esempio il “Programma per l’Italia” della Destra al primo punto si impegna a “Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico”. Cosa significhi non è spiegato. È il ritorno all’avviamento scolastico? Agli esami di ammissione? Si prospetta un sistema scolastico stile tedesco?

Anche il programma di Italexit a proposito di cosa studiare promette un recupero della nostra “cultura umanistica e civica”. E anche qui non è dato sapere che cosa effettivamente si intenda.

Il Movimento Cinque Stelle vorrebbe una “Scuola dei Mestieri” per valorizzare e recuperare le tradizioni dell’artigianato italiano, forse una riedizione degli “Artigianelli”di don Orione,  in linea comunque con la vocazione professionalizzante delle destre.

Dai voti elettorali emerge poi un profilo di “scuola clinica” che i nostri giovani dovrebbero frequentare come luogo di cura dove, dopo la moltiplicazione delle certificazioni, ora si  mettono a disposizione medici scolastici, psicologi e pedagogisti come se essere studenti e giovani fosse una malattia, come se disagio sociale e modalità di apprendimento non per forza standard fossero dei disturbi che necessitano di cure anziché di una scuola diversa. 

Non avevamo bisogno dell’appuntamento elettorale per scoprire che questo nostro paese non ha mai curato un’idea di istruzione, di sistema formativo, non ha una cultura dell’istruzione e dell’apprendimento, perché non ha mai avuto considerazione per i suoi insegnanti, della loro professione e soprattutto della scuola.

Vanno di moda i “patti educativi” come se l’istruzione fosse un campo di conflitti e avesse bisogno di siglare armistizi tra contendenti, le “comunità educanti” come comunità di salute pubblica. Una gioventù malata che qualcuno vuole raddrizzare con lo sport e il ritorno al servizio di leva. Anche i seminari sono comunità educanti e le comunità che si propongono come educanti sono pericolose perché mettono a rischio la libertà delle persone, mentre la scuola deve essere palestra di libertà e non di manipolazione.

L’Unesco invita a un nuovo contratto sociale per l’istruzione all’altezza delle sfide dei tempi e del futuro delle nuove generazioni, ma noi non possiamo permetterci tutto questo, non avendo curato la casa dobbiamo ricorrere ai ripari, occuparci delle sovrastrutture del nostro sistema formativo: gli edifici scolastici, lo stipendio degli insegnanti, il tempo pieno, l’obbligo scolastico, medici e psicologi scolastici.

Così i programmi di tutte le forze politiche si caratterizzano per tre filoni: scuola come servizio sociale, scuola e mercato del lavoro, scuola e cultura nazionale e tutti brillano per le grandi assenze. Oltre all’istruzione e all’apprendimento, non rispondono all’appello il tema dell’autonomia delle scuole, gli Organi Collegiali, l’apertura delle scuole al territorio e il ruolo del territorio per un sistema formativo integrato e soprattutto l’apprendimento permanente. Distrazione, ignoranza, superficialità, impotenza, mancanza di idee, incompetenza? Forse tutti questi insieme.

Il programma di Azione e Italia Viva cita l’autonomia per affermare la necessità di passare: “dal concetto di autonomia scolastica a quello di scuole realmente autonome”. 

Pare di comprendere che dietro a quel “realmente autonome” si nasconda un concetto di concorrenza di mercato, di competizione tra scuole che consenta alle famiglie di scegliere la migliore, un scimmiottamento delle Champions School d’oltre oceano. Ma cosa fare per portare a compimento il processo di autonomia scolastica, spesso osteggiato dalla stessa politica e amministrazione pubblica, cosa fare a partire dalle risorse necessarie a garantire una reale autonomia questo non è detto. Che l’autonomia scolastica sia in pericolo è nella consapevolezza di quanti sono più attenti ai bisogni della nostra scuola e ad essere in pericolo è l’unica vera riforma, sebbene ancora incompiuta, che il nostro sistema formativo, tradizionalmente piramidale, abbia conosciuto.

Difendere l’autonomia scolastica significa coltivare un’idea di scuola come risorsa centrale del territorio, come perno di un sistema formativo integrato che poco ha a che vedere con surrogati e ripieghi tipo patti educativi e comunità educanti. Un obiettivo che per essere perseguito richiede lucide e solide politiche territoriali da parte degli enti locali insieme a risorse finanziarie che consentano di portare a sistema la scuola come ambiente di apprendimento che si integra con il territorio, che al territorio si allarga e si apre per usarne strutture e risorse, prima condizione affinché le scuole siano “luoghi sicuri, belli, aperti tutto il giorno. Vere e proprie palestre di cittadinanza” come promette il programma del PD.

Scuola e territorio è un binomio che conduce agli Organi Collegiali che si trascinano da  troppo tempo pigramente, sviliti e snervati, che hanno bisogno di manutenzione, di una cura ricostituente soprattutto alla luce della scuola dell’autonomia, di una scuola sempre più hub formativo del territorio.

In fine, last but not least, l’apprendimento permanente. Decenni di life long learning ignorati, insieme all’Europa della “Conoscenza”, al Memorandum di Lisbona 2000 e alla stessa Agenda 2030 dell’Onu.

Apprendimento permanente che non è l’educazione degli adulti in chiave scolastica del programma di Possibile, l’unico che meritoriamente la richiama, insieme alla necessità di rivedere i cicli scolastici, ma la mobilitazione delle conoscenze, dei saperi, l’apprendimento diffuso, le città che apprendono, il rapporto tra apprendimento formale, non formale e informale che già la Riforma Fornero del 2012 aveva riconosciuto su pressione dell’Europa. Quanto basta per rivedere integralmente l’intero impianto del nostro sistema formativo in un mondo dove si apprende dalla culla alla tomba. 

La complementarietà e l’osmosi tra forme di apprendimento, unitamente agli altri grandi assenti, al momento dovranno attendere il prossimo giro.

La lingua fascista batte dove il dente duole

La storia ci ha insegnato che, pur avendone già fatto esperienza, non si ha mai la garanzia di poter riuscire a prevedere un determinato esito, soprattutto se l’esperienza è lontana nel tempo. Questo è vero soprattutto per quelle società che rischiano l’analfabetismo democratico perché non hanno saputo mantenere efficiente la memoria di fatti accaduti molto tempo addietro, in modo particolare per le generazioni che non possono averli vissuti.

Quando la Destra di Giorgia Meloni etichetta come devianze giovanili: droga, alcolismo, tabagismo, obesità, anoressia, bullismo, baby gang, hikikomori promettendo generazioni di italiani “sani e determinati”, ciò che preoccupa non è la possibilità di un regime liberticida prossimo venturo, non il ritorno al ventennio dei fasci littori, ma il persistere e il crescere di una subcultura lugubre e reazionaria, con suggestioni eugenetiche, quella stessa che ha partorito le leggi razziali, le discriminazioni sessuali, l’ostilità contro gli immigrati.

Non è il fascismo evidente, che dovremmo essere in grado di riconoscere, che ci deve preoccupare, ma il fascismo occulto, il fascismo latente. 

Perché dai germi della mentalità fascista questo nostro paese non si è mai liberato del tutto.

Ancora troppe strutture e istituzioni della società sono organizzate in modo gerarchico e piramidale, dove sovente l’autorità non è autorevolezza ma autoritarismo e incompetenza, istituzioni che si prestano ad essere terreno per la germinazione di spiriti e comportamenti fascistoidi. La stessa scuola, che dovrebbe essere il baluardo contro le distorsioni della democrazia, non è esente dal rischio di preoccupanti ritorni reazionari prodotti da una crisi di identità ostinatamente abbarbicata alle cattedre, ai voti in condotta, al latino, alle bocciature, a tutto il repertorio della sua genesi gentiliana.

Anche la reazione piccata che alcuni democratici illuminati hanno nel dichiararsi antifascista, assomiglia tanto al rifiuto degli antibiotici di fronte alla circolazione di batteri che non si vogliono prendere in considerazione. Pertanto la produzione degli anticorpi non è mai abbastanza.

Ciò che chiamiamo fascismo in senso lato, non è tanto il riferimento al ventennio del secolo scorso, che è comunque sempre sottinteso, quanto una forma mentis, una sopraffazione mentale che si esprime con la violenza delle parole e dei pensieri.

E in questo la Meloni non si è smentita, considerando “devianza giovanile” la malattia, il corpo non sano, sia da un punto di vista fisico che psichico, con una semplificazione che mette all’indice ogni complessità, che nega cittadinanza alla psicologia del profondo, alla capacità di comprendere i prodotti delle storture sociali, dei danni coltivati dentro e fuori le relazioni famigliari. Brandendo il principio di autorità del sano e del vigoroso, del culto di una “fortitudo” biologica e sociale da Spartaco dell’esistenza.

Le parole della Meloni sono generate da una cultura fascista che si esprime nell’incapacità clinica, quella di sapersi porre accanto all’altro, di piegarsi nell’ascolto, nel bandire il giudizio e accogliere il suo essere, complesso, conflittuale innanzitutto per se stesso. È la cultura dell’anomia che considera devianza tutto ciò che viola le norme, i pregiudizi e le aspettative sociali.

Questo oggi è il manifestarsi del fascismo: il progetto di rendere opinione diffusa, senso comune la necessità di una società ordinata, igienizzata, normalizzata attraverso la pulizia sociale, l’igiene  mentale, etica e culturale.

Si tratta della malattia sociale che stiamo rischiando di contrarre nuovamente, la cui gravità produrrebbe l’assuefazione a ritenere che è normale solo ciò che è considerato tale dal popolo sovrano. La normalizzazione delle condotte individuali e sociali secondo un principio di ordine e disciplina che è quello imposto dalla semplificazione dei luoghi comuni. I rumori di fondo dei nostri quotidiani rischiano di impedirci di comprendere ciò che sta realmente accadendo, che pare avere le sembianze di un sentire comune, del bisogno di ordine e sicurezza. Il disorientamento generale impedisce di avere menti e orecchie attente a cogliere i sintomi di un fascismo latente a cui assuefare quanti credono di riscattarsi dalla loro mediocrità attraverso il populismo e il sovranismo, attraverso il ritorno agli “uber alles” di antica memoria.

Mettere insieme baby gang, bullismo e hikikomori è il massimo della strumentalizzazione, è una becera volgarità, che gioca d’effetto sull’ignoranza, sapendo che la stragrande maggioranza del pubblico non ha idea di che cosa significhi “hikikomori”. Che non è una violenza, non è una droga, non è una malattia, ma una tragedia per chi ne è vittima e per le famiglie che devono condividere questo dramma. Solo usare questo termine etichettandolo come devianza sociale è una violenza, violenta come una spedizione punitiva di manganellatori, alla stessa stregua di camicie nere e picchiatori mentali.

Gli hikikomori. sono quei nostri figli e figlie che si rinchiudono in casa rifiutando ogni rapporto con il mondo di fuori. Un dramma frutto delle contraddizioni del nostro vivere sociale, un dramma di fronte al quale le famiglie sono lasciate sole e la scuola fino ad oggi si è dimostrata incapace di aiutare e affiancare questi giovani e i loro genitori. L’uscita della Meloni è quanto di più allarmante per il loro futuro perché, anziché una soluzione di aiuto e di presa in carico, preannuncia una risposta di persecuzione, di punizione o di virile prevenzione.

Questa è la lingua fascista della Meloni che non contempla alcun cedimento al “cum patior”, la compassione, l’empatia, il provare le emozioni, il soffrire con te e per te, è una  lingua di condanna senza appello dell’aborto, dell’eutanasia, di ogni uscita dal terreno seminato dal conservatorismo più reazionario. È con lo sport che si crescono generazioni di giovani sani, come si pretendeva con i giochi del Littorio, e le adunate fasciste.

“Fascista è chi fa il fascista” ha scritto con intelligenza Michela Murgia nel suo “Istruzioni per diventare fascisti” da riprendere in mano e da leggere come antidoto contro l’ottundimento di massa che pare circondarci.