Cosa vi state a stupire?

Il ministro Valditara deve essere a corto di memoria o le lettere che indirizza alle scuole non le scrive lui e, dunque, non le può ricordare.

Ma il nove novembre scorso, in occasione della “Giornata della libertà”, istituita per ricordare la caduta del Muro di Berlino, ha inviato una lettera a tutte le scuole per mettere in guardia gli studenti contro i danni del comunismo e delle rivoluzioni utopiche.

Non mi sembra, di conseguenza, che possa disporre di argomenti per attaccare una dirigente scolastica che fa altrettanto per mettere in guardia i suoi studenti dal pericolo del fascismo, per di più dopo episodi di pestaggio accaduti davanti a un istituto scolastico della sua città.

“LUr-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare lindice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo.” Umberto Eco, Il fascismo eterno.

È evidente che la dirigente scolastica del liceo scientifico “Leonardo da Vinci” di Firenze l’ha letto, mentre Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione e del Merito, pare di no.

E, dunque, con la lettera indirizzata ai suoi studenti, alle famiglie e a tutto il personale della   scuola la dottoressa Annalisa Savino altro non ha fatto che adempiere ai suoi doveri istituzionali di responsabile di una comunità scolastica della Repubblica fondata sui valori della Costituzione. Del resto non è stata forse introdotta l’educazione civica trasversale di modo che pervada di sé tutta la formazione impartita ai nostri giovani? La lettera della dirigente è un’ottima lezione di democrazia. O il leader educativo di una scuola deve tacersi? Semmai c’è da rammaricarsi che non l’abbiano fatto anche altri dirigenti scolastici.

Il ministro deve avere la coda di paglia per prendere uno scivolone fino a minacciare provvedimenti, calpestando l’autonomia della dirigente e quella dell’istituto scolastico sancite dalla legislazione vigente.

La reazione del ministro è in linea con quelle della “destra” che si registrano sui social.

Ne riporto una a caso: “Quanto di peggio una ottusa cultura bolscevica possa partorire. Ma molti italiani e molti ex-compagni se ne sono accorti e hanno espresso la loro opinione alle appena trascorse elezioni….poi ci sono gli irriducibili ….”

Poi non mancano le foibe: “Il corteo «antiviolenza» inneggia alle foibe e a Tito. A Firenze 2000 in piazza insultano il governo. Ma quando i pestaggi sono rossi la risposta è solo silenzio”.

Se Berlusconi aveva riverniciato e lucidato il pericolo comunista, questi sono andati oltre rispolverando bolscevichi e anarco-insurrezionalisti.

Figuriamoci poi se una dirigente scolastica cita Gramsci unitamente al fascismo, che ce l’ha sulla coscienza, il contorcimento dei visceri deve essere davvero insopportabile.

D’altra parte questo ministro pare che nulla abbia da invidiare ad un suo lontano collega, di nome Giuseppe Bottai, già autore della “Carta della scuola”.

Perché questo ministro deve averci in mente una “carta” tutta sua, di una scuola che deve educare, formare, forgiare senza interferenze, bastano gli ingredienti che ha deciso di fare propri: dio, patria e famiglia, un po’ di umiliazione e merito in funzione educante e che l’istruzione vada a farsi benedire.

Forse il pericolo di un ritorno del fascismo sotto altre spoglie non è ancora alle porte, ma di sicuro c’è che  con un simile ministro è in pericolo la nostra scuola. Per di più il pericolo che la nostra scuola corre è di un non ritorno.

Lascio stare che viviamo in un paese in cui la centralità formativa è ancora squisitamente scolastica come l’ha pensata cent’anni fa Giovanni Gentile con il suo entourage di destra risorgimentale. Lascio stare che nel nostro paese non si sia mai riusciti ad andare oltre l’idea che la formazione della “persona” e del “cittadino”, a partire dalle giovani generazioni, si compie trasmettendo dosi crescenti di contenuti disciplinari, ora dopo ora, per almeno dieci anni, e poi anche dopo, secondo una scansione che solo da noi si chiama programma e programmazione.

Lascio stare che quella che dovrebbe essere l’intellighenzia del paese è convinta che a scuola si dovrebbe usare con gli studenti il Kyosaku dei maestri Zen, vedi Susanna Tamaro, ritornare alle predelle per ridare dignità alle aule vuote di Galli della Loggia, che il danno scolastico è dovuto alla scuola media unica, Barbiana e alla pedagogia progressista, vedi la coppia Mastrocola-Ricolfi.

Ma allora che ministro dell’istruzione vi spettavate?

Ora qualcuno mi spieghi cosa deve accadere perché l’istruzione possa rinascere in questo paese dove democratici, sinistra, sindacati dai lontani anni  dell’Ulivo di Prodi non sono stati in grado di elaborare uno straccio di idea di scuola per i nostri giovani, non quelli di ieri ma quelli di oggi che vivranno nel duemila.

E soprattutto, per favore, ditemi dove stanno gli insegnanti?

Invece ci tocca leggere dichiarazioni come quelle rilasciate nel novembre scorso al Corriere della Sera da un intellettuale come Andrea Carandini, archeologo, professore ordinario di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana alla Sapienza di Roma.  Già presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali e Presidente del FAI.

Il problema sta nel fatto che nell’ultima generazione e mezza né la destra-centro né il centro-sinistra — entrambi distruttori della buona scuola di Giovanni Gentile inaugurata un secolo fa — hanno saputo edificarne una nuova almeno altrettanto formativa.

La notizia che mi renderebbe felice sarebbe questa: «Oggi i leader delle diverse parti politiche sono saliti insieme all’Altare della Patria, hanno fatto autocritica per la distruzione della scuola italiana e si sono impegnati a rifondarla ab imis fundamentis».

Ci vorrebbe un Giovanni Gentile per questo millennio — cento anni esatti dopo la sua riforma — cioè, oggi, un miracolo! “

E allora questo ministro che vi ritrovate, non state a stupirvi, è lo specchio del paese in cui viviamo.

Sessant’anni e li porta male

La scuola media unica ha sessant’anni, la legge istitutiva li ha compiuti il 31 dicembre scorso. Anche la sua gestazione è stata lunga, circa altri sessant’anni prima di vedere la luce. Nel 1905 la Reale Commissione, istituita per volontà dell’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi, si era pronunciata a favore della scuola media unica, ma l’opposizione si manifestò subito soprattutto da parte liberale e socialista, tanto che si opposero Salvemini e Galletti, Croce, Gentile e Codignola. Poi come è andata la storia è ormai cosa nota.

Del resto nel dicembre del 1962 a votare contro la legge numero 1859  non furono solo missini e monarchici, ma anche i comunisti, sebbene con motivazioni differenti.

Ma di scuole di “mezzo” non ne abbiamo più, né inferiori né superiori. L’istruzione è ora organizzata per cicli: primo e secondo. Poi le scuole sono primarie e secondarie.

L’articolo 1 della legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 affidava alla scuola media unica il compito di concorrere “a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi della Costituzione” e a favorire “l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”.

Cinquant’anni dopo, nel 2012, le Indicazioni nazionali per il curricolo del Primo Ciclo, a proposito di finalità da affidare alla scuola, puntano direttamente allo scopo: “La finalità è l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità fondamentali per sviluppare le competenze culturali di base”. 

“Conoscenze”, “abilità”, “competenze”, un trinomio e una consequenzialità inedita. 

Nuova rispetto anche ai programmi per la scuola media, quelli che furono scritti nel 1979, dopo importanti provvedimenti come la legge n. 517 del 1977, che aboliva i voti e dava avvio all’integrazione scolastica nella scuola di tutti, dopo i Decreti delegati del 1974, che  hanno aperto la strada alla partecipazione democratica nella scuola.

Conoscenza, abilità, competenza disegnano un itinerario di apprendimento molto preciso, ben definito nei suoi contorni: la conoscenza deve trasformarsi in abilità e una volta divenuti abili allora è  possibile mettere alla prova la propria competenza.

Una visione dell’apprendimento assai avanzata rispetto alla genericità dell’articolo 1 della legge istitutiva della scuola media unica ed alla fumosità dei programmi del 1979: “la scuola media risponde al principio democratico di elevare il livello di educazione e di istruzione personale di ciascun cittadino e generale di tutto il popolo italiano”.

Ma se siamo arrivati alla scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 lo dobbiamo alla strada che è stato possibile percorrere partendo da quella data di sessant’anni fa: il 31 dicembre del 1962.

Da allora sono accadute tantissime cose, che prima non c’erano, che hanno contribuito a mutare la cultura italiana sulla scuola, anche se questa cultura in gran parte nuova non è stata recepita da tutti. 

Alcuni, sia all’interno che all’esterno dell’istituzione, l’hanno subita, altri non l’hanno compresa e hanno continuato a pensare e ad agire come se non fossero intervenute importanti novità sul versante dell’istruzione del paese. 

C’è chi, invece, ha continuato a lavorare ostinatamente, non sempre con successo, perché non venisse meno la spinta al rinnovamento della nostra scuola, indispensabile per evitare di fallire il compito assegnatole dalla Costituzione, quello che sta scritto soprattutto nell’articolo 3 dei suoi principi fondamentali.

Il paesaggio scolastico italiano si è arricchito di quanto in quell’inverno del ’62 forse era inimmaginabile: gli asili nido, le scuole dell’infanzia, una nuova scuola primaria, le scuole a tempo pieno, gli istituti comprensivi, una scuola inclusiva. Nuovi compiti hanno qualificato il profilo degli insegnati dalla programmazione curricolare, all’individualizzazione dell’insegnamento, le verifiche e la valutazione, l’interdisciplinarità, la ricerca d’ambiente, le osservazioni sistematiche, il master learning.

Compiti nuovi di una professionalità docente ripensata, non sempre vissuta con la disponibilità giusta da tutti gli insegnanti. Compiti spesso subiti come pratiche burocratiche da evadere per mancanza di preparazione sia dei singoli che della struttura, più spesso per il mancato sostegno da parte di chi è stato chiamato a dirigere il dicastero dell’istruzione e per la inadeguatezza della politica.

Il rischio reale oggi è che la strada percorsa fin qui finisca in un vicolo cieco. Perché la scuola disegnata dalle Indicazioni nazionali del 2012 è molto più impegnativa di quella prospettata dalla scuola media unica, che pure resta la pietra miliare di una grande conquista democratica. Rappresenta i passi avanti che, anche per effetto di quella riforma, ha compiuto il pensiero della scuola in questo paese.

Un pensiero che impegna la scuola a far acquisire “le competenze indispensabili per continuare ad apprendere lungo l’intero arco della vita” con “particolare attenzione ai processi di apprendimento di tutti gli alunni e di ciascuno di essi”. Tutti e ciascuno, proprio ogni singolo, preso uno per uno.

Qui sta il nodo vero: competenze indispensabili all’istruzione permanente e forte individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento. Più che individualizzazione sarei tentato di usare l’espressione “singolarizzazione”. Tutto nella prospettiva di accrescere in ciascuno l’individuale autonomia di studio. 

O questi nodi si affrontano con una cultura nuova o, nonostante la prescrittività delle Indicazioni nazionali, la nostra scuola secondaria di primo grado continuerà a funzionare né più né meno come la sua progenitrice scuola media unica. 

E allora l’Istat tornerà a fornirci dati sempre più imbarazzanti come quelli che fanno registrare il 40% degli studenti di terza media non sufficienti in italiano  e in matematica. Una scuola soprattutto ininfluente nel colmare non solo gli svantaggi sociali e culturali,  ma anche quelli accumulati nel corso degli anni scolastici.

Ciò significa che la sfida democratica lanciata sessant’anni fa dalla scuola media unica non è stata ancora vinta.

La scuola di oggi, già a partire dalle Indicazioni nazionali, si dichiara impotente a realizzare le proprie finalità senza il concorso con “altre istituzioni” e non può pensare di perseguire “con ogni mezzo il miglioramento della qualità dell’istruzione” se le condizioni strutturali ed organizzative sono sempre quelle del 1962: classi, cattedre, orari, discipline.

Eppure le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione avrebbero dovuto permettere di  far compiere al nostro sistema di istruzione un salto di qualità: dalla scuola media unica all’unitarietà della scuola del primo ciclo.

Unitarietà tradotta nell’impianto curricolare delle Indicazioni nazionali per obiettivi di apprendimento e per competenze da acquisire al termine della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado. Impianto che avrebbe dovuto riuscire rafforzato dalla scelta organizzativa degli istituti comprensivi. Il “comprensivo” come ambiente di “apprendimento” esperto di “apprendimenti”, di educazione comprensiva dai 3 ai 14 anni. 

Il comprensivo come luogo di un far scuola rinnovato, come mondo di un apprendimento diverso.

E invece i risultati parlano d’altro, di scuola media come buco nero, come anello debole della catena. Come è possibile? Come spiegarlo?

Forse perché la scuola media da unica è restata unica, separata in casa in un comprensivo che non ha saputo divenire comprensivo, comprendere e comprendersi nonostante dieci anni di Indicazioni nazionali.

Allora viene il sospetto che la cultura di questo paese e di tanta parte dei suoi insegnanti sia ferma alla scuola di sessant’anni fa o forse anche molti di più a leggere i frequenti inviti a rinverdire la riforma Gentile rilanciati dalle pagine dei nostri quotidiani nazionali.

Un ghost written ministeriale

Non conosco l’autore del documento riprodotto qui di seguito essendone venuto in possesso accidentalmente. Le vicende che mi hanno portato a trovarlo mi fanno supporre che il suo estensore potrebbe essere un ghost writer del Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Se qualcuno dovesse riconoscersi nello scritto per comune sentire potrebbe aiutarci nell’attribuzione dello scritto stesso al suo autore.

Nell’accingerci al grande compito di risanamento spirituale e materiale che incombe al nostro Paese in questa epoca gravida di liete promesse e di oscure minacce, il nostro primo pensiero deve essere rivolto al rinnovamento radicale del sistema nazionale di educazione. Bisogna rinnovare la coscienza delle nuove generazioni, se vogliamo trarre frutti adeguati.

La aspra prova delle crisi e dei governi che finora si sono succeduti alla guida del Paese, nonostante  le mirabili doti spontanee del nostro popolo, a nessuno secondo, ha messo a nudo gravi lacune nella compagine spirituale della nazione, specialmente in quelle classi che dagli studi avrebbero dovuto attingere il sentimento religioso della legge e della subordinazione individuale ai supremi interessi collettivi, la fede operosa, l’allenamento morale, la visione realistica delle cose e il senso di concretezza.

Questo sbandamento, questa specie di distrazione della gioventù è il frutto di una scuola invecchiata, svagata, che da troppi anni ormai non tempra, ma piuttosto ne disintegra la coscienza e il carattere.

Occorre che essa trovi in sé stessa la capacità di rinnovarsi: ma non si può avere fiducia  in una classe docente animata da intenti esclusivamente economici, che si è dimostrata incapace di difendere i supremi interessi collettivi.

Occorre fondare una cultura scolastica nuova a partire dagli insegnanti, opposta a quella che fin qui si è affermata attraverso i governi della sinistra. 

Lottare contro il protezionismo monopolistico statale sulla scuola, e incoraggiare, quindi, l’iniziativa privata, contro la sopravvalutazione dei diplomi; operare perché si colmino le gravi lacune della istruzione professionale; imporre una migliore preparazione agli insegnanti di tutti gli ordini e gradi scolastici. 

Scuola nazionale non significa scuola governativa opposta alla scuola clericale o privata: scuola nazionale significa una scuola capace di ridare un’anima all’opera educativa, capace insomma di rinnovare la coscienza nazionale della Patria e della Famiglia.

Ora è finalmente giunto il momento del riscatto, restituendo alle nostre scuole il compito di educare, di affermare il valore morale dell’educazione per formare lo spirito, perché ognuno se ne faccia interprete e si appropri del ruolo che la Storia gli ha assegnato.

Benemerito è il ministro che con ascetico coraggio ha inteso richiamare i nostri studenti alla disciplina dell’Umiltà, virtù cristiana che lungi dall’abbattere l’individuo lo esalta al di sopra delle proprie debolezze umane.

E ancora li abbia spronati al cimento nel concorrere al merito per le proprie qualità di studio e di impegno, come sacrificio degli ardui studi, delle sudate carte. Sana competizione nella corsa verso il sapere, verso quella Scienza, anzi Verità, che i nostri antichi greci collocavano al disopra delle vicende mortali, di là dalla storia tormentata da contrasti fatali di errori, da tentennamenti, dubbi e desideri insoddisfatti di sapere.

Educazione intellettuale ed educazione morale sono tutt’uno; educazione dello spirito ed educazione del corpo sono egualmente una stessa educazione. Fruga di qua, fruga di là, si ottiene sempre lo stesso risultato: che cioè l’educazione è formazione, e cioè sviluppo, o divenire dello spirito; e poiché lo spirito consiste appunto nel suo divenire chi dice educazione dice spirito, e nient’altro.

Mens sana in corpore sano abbiamo appreso dagli antichi. Il valore dell’educazione fisica. L’educazione fisica degli antichi è educazione spirituale in quanto per gli antichi lo spirito essenzialmente è corpo anch’esso. L’educazione fisica dei moderni è la formazione spirituale del corpo: è l’addestramento del corpo che serve allo spirito, così come lo voleva l’asceta medievale; ma a uno spirito che non intende chiudersi astrattamente in se stesso, sequestrandosi dal mondo dell’esistente; anzi vuole spaziare liberamente e investire la natura, e soggiogarla ai propri fini, strumento e specchio della propria volontà. L’educazione fisica dei moderni è educazione spirituale in quanto lo stesso corpo è spirito; e la scienza non è più soltanto speculazione di verità oltramondane, ma scienza dell’uomo, e dell’uomo nell’universo. In questo concreto concetto dello spirito, che non esclude più nulla da sé, acquista concretezza il concetto cristiano dell’educazione fisica. La quale mira bensì al corpo strumento del volere, ma non del volere che rinunzia al mondo, bensì del volere che al mondo si volge come al campo delle sue battaglie e delle sue vittorie, anzi della sua stessa vita.  Al mondo che gli sta sempre innanzi quasi in atto di sfida, e come ribelle, e che egli doma faticosamente facendone la forma del proprio divenire.

Allora benvenga l’iniziativa del nostro presidente del Senato, il quale al raduno degli alpini  a Milano ha annunciato di essersi fatto promotore di un disegno di legge per ripristinare in questo paese, per una più maschia formazione della nostra gioventù lasca e choosy, la naja. Non la leva, non la coscrizione, ma la naja volontaria, per quaranta giorni. 

L’uso del termine “naja” volutamente scelto sta a significare l’importanza di questa esperienza ormai perduta, per la formazione del carattere dei nostri giovani. Altroché bullismo, una sana naja per quaranta giorni, con il vantaggio non solo di forgiare la propria personalità ma di godere poi dei benefici che ne deriveranno come i crediti formativi da vantare all’esame di maturità e il punteggio aggiuntivo per la laurea e per la partecipazione ai concorsi pubblici.

Un modello di educazione nazionale che consentirà di invertire la parabola di caduta nella formazione dei nostri giovani come effetto dei danni prodotti dalla scuola progressista.

Per troppo tempo i problemi educativi sono stati trattati con superficialità, senza il necessario rigore. 

Non si può rientrare nella scuola senza recarvi uno spirito nuovo per rimuovere le tante abitudini accettate passivamente dall’andazzo realistico, materialistico e pedantesco dell’educazione democratica. In ogni parola, in ogni istante dell’opera nostra si farà sentire un nuovo dovere e innanzitutto la necessità di far diversamente da quello che è stato insegnato dai seguaci del pedagogismo progressista.

IL VOLTO GESUITICO DEI VOTI

 

Era facilmente prevedibile che l’attenzione dal merito scivolasse sui voti. È stato sufficiente  il lancio di stampa che al liceo Morgagni di Roma si sperimenta la scuola senza voti  che l’italico qualunquismo pedagogico si scatenasse, come se una scuola senza voti fosse destinata all’estinzione. Del resto, se questo governo ritiene che l’istruzione deve essere sorretta dalla stampella del merito, è evidente che una scuola senza voti è una pugnalata alla schiena. Il merito per essere tale necessita di una graduatoria, appunto la graduatoria di merito, e a scuola le graduatorie (come tante altre cose) dai tempi della gesuitica ratio studiorum si fanno con la scala ordinale dei voti in numeri o in lettere come nei paesi anglosassoni.

Quando l’idraulico viene a casa ad aggiustarmi la doccia che non funziona, al termine del suo lavoro non gli do un voto, lo pago sulla base della fattura che mi rilascia. O ha riparato la doccia o non l’ha riparata, è abile o non è abile, è competente o non è competente. In definitiva funziona una logica binaria.

Tutta la nostra vita poggia sull’aperto/chiuso, dentro/fuori, sopra/sotto, negativo o positivo.

A scuola no. La logica è quantitativa, il sapere va a peso. Domina la domanda che la figlia fa al padre in un famoso metalogo di Gregory Batison: “Papà, quante cose sai?”

E siccome il sapere non si può pesare e neppure misurare è compito degli insegnanti impilarlo nella scala decimale, ne va del loro ruolo, della loro autorità, del loro prestigio sociale.

Il voto è un potente ricatto, una punizione morale double face che fa dello studente un somaro come un secchione. È comunque l’anima del profitto scolastico, l’incentivo a studiare.

Sui voti a scuola si potrebbero scrivere pagine di luoghi comuni e a leggere certe giudizi che definiscono la sperimentazione del Morgagni “un’idea scellerata” si ha l’impressione  che se a qualcuno gli togli dalla scuola il registro e le pagelle gli crolli un intero mondo di certezze addosso. La sociologia ci insegna che la resistenza alle scuole senza voti è dovuta tanto al peso dell’abitudine quanto al conforto che la loro comunicazione fornisce.

Il fatto è che le ragioni dei sostenitori del sistema dei voti non hanno nulla a che vedere con le pratiche di valutazione fondamentali per dar forma all’insegnamento e all’apprendimento.

I voti da 1 a 6 delle scuole gestite dai gesuiti nel secolo XVI° facevano parte di una didattica fondata sulla ripetizione come metodo per assimilare le materie di studio. Pratica ancora in auge nei nostri istituti secondari in cui prevale la didattica della ripetizione: lezioni ex cathedra, interrogazioni e quindi voti sul registro. Ma si tratta di scuole che sono fuori dal tempo, dove ancora si misurano le nozioni anziché i processi per acquisire quelle competenze che pure sono dettagliate dalle Indicazioni nazionali. Le competenze non si misurano né con la scala decimale né con quella pentenaria. Le competenze o sono possedute o non sono possedute. Ciò che è necessario valutare è lo stato del processo per acquisirle pienamente, che richiede due forme di autovalutazione quella del sistema per individuare come sostenere lo studente nel suo processo di apprendimento e quella dello studente stesso, per essere consapevole di sé, per conoscere come procedere, cosa ha acquisito e cosa ancora gli manca.

L’assurdo dei voti numerici è che per essere comunicabili e compresi hanno bisogno di descrittori, vale a dire di narrazioni, grande conquista democratica rispetto ai tempi andati quando il voto dell’insegnante era una cifra e niente più, se non un “non si impegna”, “si deve impegnare di più”. Ma se i voti si devono narrare che senso hanno i numeri, se non per fare delle graduatorie di merito o di demerito?

È che poi le narrazioni dei voti sollevano il velo su una scuola che non è poi tanto diversa dalle istituzioni gesuitiche nonostante i secoli che ci separano. Sulle competenze che neppure sono prese in considerazione prevale la ripetizione.

Non cito la fonte, prendo “una griglia di descrizione del valore numerico dei voti” da un liceo a caso:

10. Eccellente: conoscenze complete e approfondite, elaborate in modo personale e critico anche operando collegamenti interdisciplinari. Uso competente della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche. Esposizione brillante.

9. Ottimo: conoscenze complete e approfondite, sostenute da capacità argomentativa e di collegamento tra discipline. Fluidità ed organicità espositiva, uso appropriato della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

5. Insufficiente: conoscenze incomplete e superficiali dei contenuti. Difficoltà nel coordinamento logico. Uso improprio della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

Già la descrizione del valore numerico dei voti è inquietante per una mente normale, ma passiamo oltre. Il valore quantitativo del numero è trasposto in un aggettivo qualificativo, tanto vale usare direttamente gli aggettivi, ma questo lasciamolo ai tanti misteri gloriosi del nostro sistema scolastico.

La cosa che colpisce è la narrazione che si fa del sapere, delle conoscenze la cui padronanza è evidentemente misurata sulla ripetizione e sulla retorica, sull’oratoria: “esposizione brillante”, ne più ne meno di quanto accadeva nei collegi della ratio studiorum. Le conoscenze non sono competenze, nulla di applicativo che emerga da queste narrazioni, fatto salvo per quella linguistica, che ci sta con la scuola della retorica. Prevale la nozione, la quale in quantità incompleta produce l’insufficienza.

Senza voti come si fa a motivare gli studenti, ottenere il loro impegno nello studio? Se manca la pratica del bastone e della carota nessuno più si impegnerà a scuola e il risultato sarà una società di ignoranti e di incompetenti.

No. Abbiamo la necessità che a scuola si affermi una cultura differente.

Una scuola capace di trasmettere la passione per lo studio, per la sua forza attrattiva, dove l’apprendimento è un follow up individualizzato. Una scuola senza voti rende più facile apprezzare lo studio per se stesso e il pensiero critico, rompendo con la pratica della strumentalizzazione del sapere in funzione del voto, costringendo alla massima attenzione  verso i  fattori motivazionali degli studenti e la psicologia dell’apprendimento.

La scuola senza voto richiede  insegnanti preparati nelle pratiche di valutazione verso approcci sempre più formativi nell’ottica di una progressiva ottimizzazione degli apprendimenti e delle competenze.

La sperimentazione del liceo Morgagni di Roma è sulla lunghezza d’onda di tutto questo e  delle tante scuole che dalla Francia agli Stati Uniti stanno sperimentando come passare dal sistema di valutazione della scuola delle nozioni al sistema di valutazione della scuola dell’apprendimento basato sulla padronanza e sulla competenza.

Moheeb Kaied frequenta la seconda alla Scuola Media 442 di Brooklyn, una mattina ha detto: “Vediamo. Posso trovare l’area e il perimetro di un poligono. Riesco a risolvere problemi matematici e del mondo reale utilizzando un piano di coordinate. Devo ancora migliorare nella divisione di numeri a più cifre, il che significa che probabilmente dovrei esercitarmi di più”. Moheeb fa parte di un nuovo programma che sta sfidando il modo in cui insegnanti e studenti pensano ai risultati dell’apprendimento,  la sua scuola è una delle centinaia che hanno eliminato i tradizionali voti in lettere all’interno delle loro classi. 

Alla Scuola Media 442, gli studenti sono incoraggiati a concentrarsi invece sulla padronanza delle competenze. Non c’è fallimento. L’unico obiettivo è apprendere il materiale da padroneggiare, prima o poi.

Per gli studenti in difficoltà c’è molto tempo per esercitarsi finché non sono acquisite le capacità. Per coloro che afferrano rapidamente i concetti c’è l’opportunità di andare avanti rapidamente. La strategia sembra diversa da classe a classe, così come il materiale che gli studenti devono padroneggiare. Ma in generale, gli studenti lavorano secondo i propri ritmi attraverso fogli di lavoro, lezioni online e discussioni in piccoli gruppi con gli insegnanti. Ricevono frequenti aggiornamenti sulle competenze apprese e su quelle che devono ancora acquisire. (1)

Anche qui niente di nuovo, nulla da inventare che non sia già stato sperimentato. Chi ha familiarità con la storia della pedagogia ricorderà certo il Piano Dalton dal nome della cittadina del Massachussets dove agli inizi del secolo scorso Helen Parkhurst sperimentò il suo metodo.

Nella scuola senza voti, senza registri e pagelle cessano di esistere le continue bugie che i numeri e le lettere raccontano sull’apprendimento. Gli albi d’onore e di merito scompaiono. Scompare di conseguenza anche il ministero dell’istruzione e del merito, per tornare Ministero della Pubblica Istruzione come impegno della Scuola dello Stato ancora prima che degli studenti.

Gli insegnanti imparano a valutare efficacemente i risultati scolastici e gli studenti diventano studenti indipendenti, spinti dalla curiosità e dall’ispirazione piuttosto che dalla vuota promessa di un voto “buono” o dalla minaccia di uno “cattivo”.

Ora, questa può sembrare solo un’idea grande, forse persino irrealistica. Ma la scuola senza voti esiste già nelle scuole di tutto il mondo, basta guardarsi attorno e, naturalmente, studiare. 

 

(1) “A New Kind of Classroom: No Grades, No Falling, No Hurry, in The New York Times, 11 agosto 2017

Entriamo nel “merito”

Se sono povero di parole anche il mio pensiero sarà povero, se le parole sono sempre le stesse anche il mio pensiero sarà sempre lo stesso.

Ci mancano le parole per immaginare un mondo nuovo e rischiamo di usare solo quelle vecchie che appartengono a un mondo che non c’è più.

Per chi guarda al passato e sogna una sua restaurazione questo non costituisce un problema perché il  vocabolario che gli serve è sempre lo stesso.

Contrapporre alla riproposizione di quel passato le parole che possediamo da sempre è come cadere nella trappola, oltre a rilevare la debolezza del nostro pensiero ormai usurato dal tempo.

È quello che ci accade nella comunicazione pubblica per cui ci facciamo catturare dalle parole che ci sono famigliari e diffidiamo dei linguaggi che ci sembrano stranieri. 

E soprattutto sono lingue straniere quelle che provengono da mondi che ancora non ci sono e che non ci saranno mai se nessuno si assumerà l’ardire di iniziare a gettare le fondamenta per costruirli.

Un mondo che attende di essere costruito di nuovo è quello della scuola che non c’è. Mentre tutti bombardano l’edificio vetusto d’oltre un secolo, c’è chi pensa di ricostruirlo a immagine di come era e di come è sempre stato.

Allora se c’è chi pensa che la scuola deve selezionare, deve bocciare e in questo fa consistere il merito, semmai trovando d’accordo ampia parte di un pensiero pubblico immiserito dalle parole, che crede che chi non si impegna non merita di essere aiutato e quindi va sanzionato, caschiamo nell’inganno del moralismo per cui un furto è sempre un furto anche se rubi per fame.

Allora non è che i vessilliferi del merito li sconfiggi contrapponendogli l’articolo 3 della nostra Costituzione, perché il problema non sta nella selezione, nel merito e nelle bocciature, ma nel mantenere nel secolo nuovo un sistema formativo forse buono per il passato ma non per il futuro dei nostri giovani.

È la morte del futuro che continuamente ci viene proposta e da questa logica non possiamo farci irretire.

Non è più accettabile fornire ossigeno a un sistema formativo che è nato per selezionare anziché per promuovere, anziché stare accanto alla persona che cresce per sostenerla, accompagnarla, sorreggerla, sollevarla quando cade, assisterla quando si ferma, accelerare il passo quando riprende a correre. Ma occorre avercele queste parole nel cervello e averle strettamente connesse con l’idea di scuola e di istruzione, in modo che si accendano automaticamente quando la mente entra in questo campo semantico.

Lo scandalo non è che il Ministero ora si chiami dell’Istruzione e del Merito, ma perché non sia stato intitolato invece “Ministero della Conoscenza e dell’Istruzione Permanente” come avrebbe dovuto essere  stato fatto da tempo, al momento del nostro ingresso nel secolo della Conoscenza.

C’erano queste parole nel pensiero delle forze progressiste e di sinistra? No, non c’erano. Allora non urliamo allo scandalo, perché lo scandalo è l’assenza di una cultura dell’istruzione nel nostro paese che non sia la brutta copia del ‘900 e che guardi al futuro.

L’Unesco ha lanciato l’allarme: è urgente un nuovo patto formativo, ma nessuno ne parla e ne ha parlato. 

Un ribaltamento della nostra piramide scolastica, un protagonismo sociale, politico e culturale degli insegnanti come lavoratori della cultura. E dove sono da noi gli insegnanti lavoratori della cultura, della cultura del paese, quella che sta dentro e fuori dalle scuole?

Nessuna delle forze politiche in campo nella contesa elettorale si è ricordata che viviamo nel secolo della Conoscenza e che la Conoscenza è la grande sfida del nostro secolo, a partire dalla realizzazione dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. La centralità dell’istruzione permanente e del ruolo delle amministrazioni pubbliche, a partire dal governo e dagli enti locali, per la sua realizzazione, mai citata nel discorso di insediamento alle Camere dalla Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma nessuna delle forze politiche sedute alle Camere l’ha notato.

Listruzione è anche unespressione damore per i bambini e i giovani, che dobbiamo sapere accogliere nella società offrendo loro, senza alcuna riserva, il posto che appartiene loro di diritto: un posto nel sistema educativo, ovviamente, ma anche nella famiglia, nella comunità locale, e nella nazione.”  

Queste sono le parole da contrapporre ad una sistema scolastico che, a prescindere dal fatto che si enfatizzi sulla parola “merito”, è nato per produrre una selezione sociale e che nella sue strutture portanti ancora seleziona, nel XXI° secolo, tra liceo classico  e istituti professionali, senza scandalo per alcuno,  neppure i buon pensanti di sinistra che di fronte al “merito” pronunciato a destra gridano al lupo. 

Quelle parole sono scritte da più di 25 anni nel rapporto Delors, Rapporto all’UNESCO della Commissione Internazionale sull’Educazione per il XXI secolo, caduto nel dimenticatoio insieme ad ogni parola nuova, ad ogni pensiero  innovatore delle nostre categorie mentali sulla scuola e l’istruzione.

C’erano pure i quattro pilastri dell’istruzione: Imparare a vivere insieme, Imparare a conoscere, Imparare a fare, Imparare ad essere.

Il Ministero dell’Imparare. Sarebbe stata una sintesi bellissima tra istruzione e educazione, parole spesso usate in modo inappropriato.

Listruzione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i propri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali.”

Sono sempre parole del Rapporto Delors o il cervello le possiede e da qui muove per ragionare di scuola, di istruzione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, del loro futuro o tornano solo le vecchie parole trite e ritrite che segnano la povertà di pensiero della politica, a Destra come a Sinistra, nel nostro Paese.

Dietro l’angolo c’è ancora Gentile

Dopo la lezione di conservatorismo, propinata alla leader dei conservatori europei Giorgia Meloni il primo agosto dalle pagine del Corriere della Sera, il professore Ernesto Galli della Loggia che suggeriva alla signora la scuola come terreno privilegiato della conservazione, passa alle proposte concrete, facendo proprio il programma governativo della destra italiana in merito alla riforma degli studi sintetizzato in due parole: meritocrazia e professionalizzante.

Così il ventidue settembre, sempre dal Corriere della Sera rompe fragorosamente il silenzio sulla scuola di cui accusa i partiti in campagna elettorale.

Non si tratta di controriforme, avverte, ma bisogna rifare tutto a partire dallintera organizzazione dei cicli scolastici. 

C’è un eccesso di intellettuali che danneggia il mercato del lavoro, occorre porre fine  a mezzo secolo di accesso all’università con il diploma di qualsiasi scuola secondaria, tutto ciò condiziona e distorce profondamente il carattere della scuola che deve essere meritocratica e professionalizzante. La qualità dei contenuti di insegnamento di un liceo classico non può essere sostanzialmente equivalente a quella di un istituto professionale, pertanto non è possibile “leguaglianza delle vocazioni e delle attitudini di tutti i giovani licenziati, tutti ottimi potenziali candidati ai medesimi studi universitari.”

Qualcuno per favore informi il professor Galli che la riforma Gentile non l’ha pensata lui, ma  già un secolo fa il suo titolare, appunto, il professore Giovanni Gentile.

E chi si propone di dare un taglio maggiormente meritocratico, attraverso le bocciature, come vorrebbe il professor Galli e la destra nostrana, e professionalizzante alla scuola, in realtà auspica un ritorno allo spirito primitivo della riforma Gentile.

La riforma gentiliana si è caratterizzata per il suo pesante conservatorismo,  per la sua accentuata canalizzazione professionale, privando l’istruzione scolastica di ogni significato di mobilità sociale che aveva iniziato, sia pure modestamente, ad assumere, grazie ai molti miglioramenti apportati dalla legge Casati e dai lavori della “Commissione per un’indagine sulle condizioni della scuola secondaria e per lo studio di una riforma” istituita con decreto del 19 novembre 1905 dall’allora ministro dell’istruzione Leonardo Bianchi (quando si dice i corsi e ricorsi della storia!).

La riforma Gentile rappresentò una vera e propria restaurazione, come da sempre restaurare è nelle intenzioni del conservatorismo dal quale certo il nostro professore non si sottrae a partire dal ripristino delle predelle come arredo scolastico.

Il professore Galli propone due tipi di università una di serie A, la sola abilitata a rilasciare il diploma di dottorato per intellettuali puri e una di serie B per le professioni profane con una scelta di vita che uno studente dovrebbe compiere a tredici anni, sostanzialmente il modello tedesco.

La storia non si ripete, se si ripete assume un volto nuovo, però gli ingredienti sono sempre gli stessi. 

Quando nel 1969 Tristano Codignola, che pure insieme a Giuseppe Lombardo Radice aveva contribuito alla riforma Gentile, propose al parlamento la liberalizzazione degli accessi ai corsi universitari, l’obiettivo era quello di porre fine al perdurare dell’aspetto più odioso di quella riforma: la rigida selezione classista, in modo da favorire la mobilità sociale in un paese che aveva bisogno di istruzione per il suo sviluppo economico.

Ora la storia si ripete, si vorrebbe tornare indietro rispetto a tutte le faticose conquiste ottenute dalle forze democratiche nel settore educativo e giuridico della scuola, ritornare a quello spirito classista e borghese che, in definitiva, fu ciò che più di ogni altra cosa accomunò i destini della riforma del 1923 a quelli del fascismo.

Filippo Turati ebbe a dire della riforma Gentile “altro non è che il manganello applicato alla scuola”. 

Pure Galli della Loggia ha il suo manganello, incurante che possa essere definito classista: le bocciature.

Le bocciature come vaglio delle competenze. Perché spendere tempo e risorse nelle attività di orientamento, nella burocrazia di quell’acronimo insopportabile PCTO, che tutte le volte occorre andare a cercare cosa significa perché uno se lo è dimenticato: “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”

Scrive testuale: “cominciare ad esercitare già nelle sue aule un vaglio delle competenze effettive degli alunni, delle loro vocazioni e attitudini, con il solo strumento a disposizione che è quello della bocciatura”.

Bocciature entro i tredici anni, perché questa è l’età che nella sua visione del sistema scolastico, bontà sua non i dieci delle grundschule, si deve scegliere quale orientamento dare ai propri studi, se il liceo classico che ti condurrà alle vette dell’intellettuale puro o tutto il resto che ti avvierà verso le sorti meravigliose e progressive del mercato del lavoro.

Perché l’Italia, scrive il professore “ha un bisogno assoluto di ridare dignità culturale e sociale e quindi economica al mondo del lavoro, di tutto il lavoro, e il modo di farlo parte dalla scuola”.

Il maestro di conservatorismo in definitiva propone un restyling della riforma Gentile, in sostanza fornirle un nuovo look con le stesse motivazioni espresse circa un secolo fa dallo stesso Gentile nella seduta del 5 febbraio 1925 al Senato per difendere la sua riforma: “una risposta  allo squilibrio esistente fra scuola e mercato del lavoro, che si manifesta soprattutto in una crescente sovrapproduzione di forza lavoro intellettuale, e alle tensioni sociali e politiche che questo squilibrio produce.”

Gli ingredienti ci sono tutti perché da dietro l’angolo ritorni a spuntare Giovanni Gentile a realizzare compiutamente gli interessi della conservazione.

Scuola e programmi elettorali

Se il problema di cosa studiano e di come studiano a scuola le nostre ragazze e i nostri ragazzi non viene affrontato le possibilità sono solo due: o non è un problema o non si possiede una soluzione al problema.

A leggere i voti, che le forze politiche formulano per la scuola nei loro programmi elettorali  al fine di ottenere voti, non si può che concludere che nel nostro paese cosa si studia e come si studia nelle aule del sistema formativo non costituisce un problema. Nonostante gli esiti decisamente non brillanti delle indagini Ocse Pisa e dell’Invalsi sui risultati scolastici, il grado di istruzione del paese non sembra meritare attenzione. Anzi c’è chi, come Italexit, vuole “Eliminare le prove Invalsi e i sistemi valutativi basati sui quesiti a risposta multipla.” Insomma, il tuo parlare sia sì sì, no no.

Anni di letteratura scolastica che hanno sfornato titoli poco rassicuranti: Requiem per la scuola, La scuola bloccata, Senza educazione, L’aula vuota, La scuola imperfetta, La scuola impossibile, Liberiamo la scuola, La scuola è sfinita fino al recente Il danno scolastico della coppia Mastrocola-Ricolfi, vengono volutamente o meno ignorati dalle formazioni politiche scese in campo per l’agone elettorale, possibile che neppure uno dei libri citati l’abbiano mai letto.

Qualcuno ci prova. Ad esempio il “Programma per l’Italia” della Destra al primo punto si impegna a “Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico”. Cosa significhi non è spiegato. È il ritorno all’avviamento scolastico? Agli esami di ammissione? Si prospetta un sistema scolastico stile tedesco?

Anche il programma di Italexit a proposito di cosa studiare promette un recupero della nostra “cultura umanistica e civica”. E anche qui non è dato sapere che cosa effettivamente si intenda.

Il Movimento Cinque Stelle vorrebbe una “Scuola dei Mestieri” per valorizzare e recuperare le tradizioni dell’artigianato italiano, forse una riedizione degli “Artigianelli”di don Orione,  in linea comunque con la vocazione professionalizzante delle destre.

Dai voti elettorali emerge poi un profilo di “scuola clinica” che i nostri giovani dovrebbero frequentare come luogo di cura dove, dopo la moltiplicazione delle certificazioni, ora si  mettono a disposizione medici scolastici, psicologi e pedagogisti come se essere studenti e giovani fosse una malattia, come se disagio sociale e modalità di apprendimento non per forza standard fossero dei disturbi che necessitano di cure anziché di una scuola diversa. 

Non avevamo bisogno dell’appuntamento elettorale per scoprire che questo nostro paese non ha mai curato un’idea di istruzione, di sistema formativo, non ha una cultura dell’istruzione e dell’apprendimento, perché non ha mai avuto considerazione per i suoi insegnanti, della loro professione e soprattutto della scuola.

Vanno di moda i “patti educativi” come se l’istruzione fosse un campo di conflitti e avesse bisogno di siglare armistizi tra contendenti, le “comunità educanti” come comunità di salute pubblica. Una gioventù malata che qualcuno vuole raddrizzare con lo sport e il ritorno al servizio di leva. Anche i seminari sono comunità educanti e le comunità che si propongono come educanti sono pericolose perché mettono a rischio la libertà delle persone, mentre la scuola deve essere palestra di libertà e non di manipolazione.

L’Unesco invita a un nuovo contratto sociale per l’istruzione all’altezza delle sfide dei tempi e del futuro delle nuove generazioni, ma noi non possiamo permetterci tutto questo, non avendo curato la casa dobbiamo ricorrere ai ripari, occuparci delle sovrastrutture del nostro sistema formativo: gli edifici scolastici, lo stipendio degli insegnanti, il tempo pieno, l’obbligo scolastico, medici e psicologi scolastici.

Così i programmi di tutte le forze politiche si caratterizzano per tre filoni: scuola come servizio sociale, scuola e mercato del lavoro, scuola e cultura nazionale e tutti brillano per le grandi assenze. Oltre all’istruzione e all’apprendimento, non rispondono all’appello il tema dell’autonomia delle scuole, gli Organi Collegiali, l’apertura delle scuole al territorio e il ruolo del territorio per un sistema formativo integrato e soprattutto l’apprendimento permanente. Distrazione, ignoranza, superficialità, impotenza, mancanza di idee, incompetenza? Forse tutti questi insieme.

Il programma di Azione e Italia Viva cita l’autonomia per affermare la necessità di passare: “dal concetto di autonomia scolastica a quello di scuole realmente autonome”. 

Pare di comprendere che dietro a quel “realmente autonome” si nasconda un concetto di concorrenza di mercato, di competizione tra scuole che consenta alle famiglie di scegliere la migliore, un scimmiottamento delle Champions School d’oltre oceano. Ma cosa fare per portare a compimento il processo di autonomia scolastica, spesso osteggiato dalla stessa politica e amministrazione pubblica, cosa fare a partire dalle risorse necessarie a garantire una reale autonomia questo non è detto. Che l’autonomia scolastica sia in pericolo è nella consapevolezza di quanti sono più attenti ai bisogni della nostra scuola e ad essere in pericolo è l’unica vera riforma, sebbene ancora incompiuta, che il nostro sistema formativo, tradizionalmente piramidale, abbia conosciuto.

Difendere l’autonomia scolastica significa coltivare un’idea di scuola come risorsa centrale del territorio, come perno di un sistema formativo integrato che poco ha a che vedere con surrogati e ripieghi tipo patti educativi e comunità educanti. Un obiettivo che per essere perseguito richiede lucide e solide politiche territoriali da parte degli enti locali insieme a risorse finanziarie che consentano di portare a sistema la scuola come ambiente di apprendimento che si integra con il territorio, che al territorio si allarga e si apre per usarne strutture e risorse, prima condizione affinché le scuole siano “luoghi sicuri, belli, aperti tutto il giorno. Vere e proprie palestre di cittadinanza” come promette il programma del PD.

Scuola e territorio è un binomio che conduce agli Organi Collegiali che si trascinano da  troppo tempo pigramente, sviliti e snervati, che hanno bisogno di manutenzione, di una cura ricostituente soprattutto alla luce della scuola dell’autonomia, di una scuola sempre più hub formativo del territorio.

In fine, last but not least, l’apprendimento permanente. Decenni di life long learning ignorati, insieme all’Europa della “Conoscenza”, al Memorandum di Lisbona 2000 e alla stessa Agenda 2030 dell’Onu.

Apprendimento permanente che non è l’educazione degli adulti in chiave scolastica del programma di Possibile, l’unico che meritoriamente la richiama, insieme alla necessità di rivedere i cicli scolastici, ma la mobilitazione delle conoscenze, dei saperi, l’apprendimento diffuso, le città che apprendono, il rapporto tra apprendimento formale, non formale e informale che già la Riforma Fornero del 2012 aveva riconosciuto su pressione dell’Europa. Quanto basta per rivedere integralmente l’intero impianto del nostro sistema formativo in un mondo dove si apprende dalla culla alla tomba. 

La complementarietà e l’osmosi tra forme di apprendimento, unitamente agli altri grandi assenti, al momento dovranno attendere il prossimo giro.

Prima gli studenti


Il rettore dell’Università IULM di Milano con un articolo sul Corsera del 26 agosto ha gettato il sasso nello stagno. Cosa si studia nelle nostre scuole? Quale formazione viene fornita ai nostri studenti? Centra la questione: se a un secolo dalla riforma Gentile i nostri giovani devono continuare a studiare quello che hanno studiato i loro genitori e i loro nonni, come se il tempo scolastico fosse da sempre fermo. Il tema è come prepariamo i nostri giovani a continuare negli studi o a inserirsi nel mondo del lavoro. 

Per il rettore della IULM non è questione di soldi, ma di quello che si studia. Non è così, perché nel nostro paese soldi e studi sono strettamente dipendenti, senza soldi da noi non si studia. Tanto che è proprio per via del denaro che si evidenzia il ritardo dell’Italia rispetto al resto dell’Europa. Secondo i dati di Education at a Glance” 2020, lItalia investe il 3,9%  del PIL in istruzione primaria, secondaria e terziaria contro la media del 4,9 dei paesi Ocse e 4,5 dellUE. Il Regno Unito investe il 6,3, gli Stati Uniti il 6,1, la Francia il 5,2.

Da noi le famiglie spendono  4,8 volte in più in alcool e fumo rispetto a quanto spendono in  istruzione e questo rapporto sale al 5,3 al Centro e al 6,6 nel Mezzogiorno.(1)

L’inadeguato livello di investimenti pubblici e privati fa sì che l’Italia faccia registrare il numero di laureati più basso in Europa dopo la Romania, un primato non invidiabile. Benjamin Franklin alla sua epoca scriveva: «Un investimento in conoscenza paga il miglior interesse.» Se valeva allora, cosa dovremmo dire noi cittadini di un secolo che si è aperto in nome della centralità della conoscenza per la crescita e lo sviluppo?

Da noi di istruzione, competenze, saperi, cultura non si ragiona. Non c’è mai spazio, su tutto prevalgono i problemi delle cattedre, del precariato, dell’insegnare troppo distanti da casa, degli alunni e dei genitori che non sono più quelli di una volta e potremmo continuare nell’elenco. Ma degli studenti non si parla mai, non si ragiona mai di quello che gli si chiede di imparare secondo una scansione dei saperi che parte dal passato che non arriva mai al futuro e che si ferma sempre distante dal presente. Come se la scuola fosse una prassi, un processo di standardizzazione sociale, secondo regole che prescindono lo studio, cosa e come studiare, chi deve studiare e perché si deve studiare, tanto l’istituzione è antica e ha sempre funzionato così.

Eppure l’istruzione continua a non essere all’altezza delle necessità formative, i dati sulle performance, unitamente alla dispersione e all’abbandono scolastico, indicano l’inadeguatezza dell’attuale modello scolastico.

Nel corso del XX secolo, l’istruzione pubblica è stata essenzialmente finalizzata a sostenere la cittadinanza nazionale e gli sforzi per lo sviluppo del paese. Ha assunto principalmente la forma della scuola dell’obbligo e di massa, oggi non è più sufficiente, le sfide poste dai bisogni formativi per il presente e per il futuro ci devono indurre a reinventare urgentemente l’istruzione.

Innanzitutto il diritto all’istruzione deve essere ampliato per includere il diritto a un’istruzione di qualità per tutta la vita. Non può più continuare ad essere interpretato, come abbiamo fatto troppo a lungo e con colpevole miopia, essenzialmente come diritto all’istruzione dei bambini e dei giovani. Il diritto all’istruzione deve garantire l’istruzione a tutte le età e in tutti gli ambiti della vita. In questa prospettiva più ampia, il diritto all’istruzione è strettamente connesso al diritto all’informazione, alla cultura e alla scienza. Richiede un profondo impegno per la costruzione delle capacità umane. È anche strettamente legato al diritto di accedere e contribuire ai knowledge commons, le risorse condivise e in espansione di informazioni e conoscenze.

È evidente che di fronte a tutto questo il nostro sistema scolastico gentiliano e la cultura che lo sottende sono  vecchi arnesi che necessitano di essere archiviati. Ma non lo si può fare da un giorno all’altro.

Nel 1959 di fronte al pericolo di essere superati in ambito scientifico e delle ricerche aereo spaziali dai sovietici, che due anni prima avevano lanciato nello spazio lo Sputnik, gli USA per prima cosa imputarono il loro sistema scolastico. L’Accademia delle Scienze convocò a Woods Hole, nel Massachusetts, un think tank composto da 35 fra i maggiori esperti di psicologia, biologia, fisica matematica, pedagogia, linguistica per dare vita a un progetto di ricerca interdisciplinare sui processi di apprendimento e per elaborare nuovi programmi per l’insegnamento scientifico, chiamando a dirigere questo consesso Jerome Bruner, allora direttore del Centro Studi Cognitivi dell’università di Harvard.

Senza andare così lontano nel tempo, neppure dieci anni fa, nel 2013, nell’Ontario, in Canada, il Waterloo Global Science Initiative promosse l’Equinox Summit: Learning 2030. Non c’era tempo da perdere occorreva attrezzarsi circa cosa e come avrebbero appreso le bambine e i bambini che, nati in quell’anno, nel 2030 avrebbero frequentato le scuole superiori. Per attrezzarsi a quella sfida riunirono i maggiori leader in materia di istruzione, i migliori professionisti dell’insegnamento, ricercatori e politici, insieme ai giovani studenti di quelle scuole che nel mondo hanno innovato l’insegnamento. Trentatré rappresentanti provenienti da tutti i continenti, espressioni di diverse realtà socioeconomiche: Sierra Leone, Singapore, Finlandia, United Kingdom, USA, Australia e ancora altri.

Da noi, in tutti questi anni di dibattiti su cattedre, predelle, latino, classico sì classico no, fallimenti della scuola progressista a nessuno che fosse ministro, docente, intellettuale è mai venuta in mente un’idea simile, neppure al rettore dell’università IULM di Milano che ora lamenta la scarsa qualità dell’istruzione dei nostri giovani.

È il caso di dire che non è mai troppo tardi, sempre che ci si dia una mossa prima che la nostra scuola sia definitivamente schiacciata da un lato dall’incalzare di saperi, competenze e apprendimenti, dall’altro dal persistere di un modello scolastico creato dagli stati-nazione a partire dal diciannovesimo secolo, che costringe infanzie e adolescenze ad essere quotidianamente irreggimentate in classi aggregate per età dall’istruzione primaria a quella secondaria, ad apprendere il passato nell’indifferenza degli adulti per il loro futuro.

(1) Si veda ISTAT, 2020d; Osservatorio Talents Venture, 2018.

Si scrive Docente Esperto si legge Expert Teacher*

L’articolo 38 del Decreto Aiuti bis, quello che introduce la figura del “docente esperto”, mica potevano scriverlo in inglese. Ma poiché nella quasi generalità dei paesi europei è d’obbligo la formazione professionale continua per chi insegna e circa la metà dei sistemi educativi prevede carriere strutturate per complessità di lavoro e responsabilità, viene spontaneo supporre che il profilo del docente esperto non sia un’invenzione ministeriale estemporanea prodotta dall’eccessiva calura estiva.

Occorre un po’ di pazienza, riflettere, essere creativi e siccome siamo globalizzati dall’italenglish ti viene di tradurre “docente esperto” e cercare in rete con l’ausilio di Google “Expert Teacher”. E il gioco è fatto perché cade immediatamente il velo di Maya, e comprendi quanto sei sciocco e sprovveduto, perché le cose sono come sempre figlie del rasoio di Occam e maledettamente italiane.

Scopri che Expert Teacher è il Master on line, con sessione finale in presenza, organizzato  dal Centro studi e casa editrice Erickson in collaborazione con la UIL, Università Telematica  degli Studi e con l’ANPA, associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola: 990 euro, scontati,  per 1500 ore e 60 CFU.

Di fronte alla figura del docente esperto la domanda che immediatamente mi è venuta spontanea è stata relativa al ruolo dell’INDIRE e delle Avanguardie educative da questi sostenute, istituzioni immagino costituite da docenti esperti, saranno riconosciuti come tali o dovranno anche loro compiere il percorso previsto dal decreto legge?

Ma non c’è fine alle scoperte perché al progetto di Master dell’Erickson partecipano anche l’INDIRE e l’Università di Firenze.

Le sorprese non terminano qui. Navigando nel sito dell’Erickson vieni a scoprire che il progetto Expert Teacher è curato e sviluppato da Laura Biancato, dirigente scolastica che ha lavorato presso il Ministero dell’Istruzione partecipando a diverse commissioni, in particolare alla stesura del piano nazionale Scuola Digitale.

A questo punto è difficile non immaginare che il Docente Esperto del ministro Patrizio Bianchi e l’Expert Teacher dell’Erickson-Biancato  siano parenti stretti.

Del resto l’obiettivo è comune. Non è certo quello di aprire la carriera docente a figure di sistema, perché se così fosse stato la strada era già in parte tracciata, non era necessario rovinarsi la vita con il rischio di vedersi rivoltare contro il corpo insegnante come già accadde più di vent’anni fa al ministro Luigi Berlinguer che partorì l’idea del “concorsone”.

No, la strategia del ministro, forse con la complicità dell’Erickson, è quella del cavallo di Troia, trentaduemila cavalli di Troia tra il 2033 e il 2036, nella consapevolezza che riformare la scuola richiede tempo, tanto tempo e che soprattutto ogni riforma dall’esterno è destinata a fallire, mentre la scuola si può solo rinnovare dall’interno, attraverso gli insegnanti, i trentaduemila cavalli di Troia, appunto, su cui investire. Del resto il secolo scorso ci ha insegnato che le uniche innovazioni che hanno consentito di migliorare il sistema formativo sono quelle nate sul campo dalle esperienze di grandi maestri come Montessori, Freinet, Lodi, Ciari, Lorenzo Milani.

Il Centro Studi Erickson presenta il proprio Master come una proposta formativa altamente professionalizzante per preparare docenti in grado di affrontare il cambiamento della scuola.

La scuola è un “bene comune” come ci ricorda anche l’ultimo rapporto dell’Unesco e in una società in costante evoluzione anche il profilo docente non può che essere dinamico, già lo sapevamo ma le resistenze al cambiamento dall’interno, e pure dall’esterno, quando si tratta di scuola sono prepotenti, è sempre il passato che viene invocato contro il progressismo che avrebbe alterato gli equilibri Casati-gentiliani del nostro sistema formativo.

La professione docente si è fatta sempre più complessa e anche questa è una banalità,  ma solo ora, perché l’Europa ce lo impone, con il Pnrr si affronta nell’arco di una prospettiva di dieci anni il problema della formazione docente. Non si specifica come, se non introducendo il profilo del docente esperto. 

Se è parente dell’Expert Teacher, l’Erickson specifica che la sua offerta formativa nasce da un progetto di ricerca che ha coinvolto oltre 200 insegnanti della scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado. Sono state così individuate quattro figure di “insegnanti esperti”. Progettano, organizzano, monitorano, valutano progetti estesi all’intero istituto, per contribuire a qualificare e innovare la scuola.

Ne è derivato addirittura un Syllabus, “Il Syllabus Expert Teacher per le competenze del docente innovativo” suddivise in tre aree fondamentali: Professione, Didattica, Organizzazione.

I corsi dell’Erickson sono chiaramente finalizzati al conseguimento del Master di I livello e al rilascio di 60 CFU necessari per essere assunti a scuola secondo la nuova normativa del reclutamento.

Ai Master è affiancata l’offerta di singoli Corsi di perfezionamento pensati come “palestre” con un project work finale per un totale di 500 ore e 20 CUF. Le palestre sono dedicate all’Innovazione della professione docente e alla Progettazione e valutazione nella scuola delle competenze.

Il prestigio del Centro Studi e della casa editrice Erickson non sono certo messi in discussione, indiscutibile il contributo dato in tutti questi anni ai temi dell’inclusione scolastica e al rinnovamento della didattica, in particolare del suo animatore il professor Dario Ianes.

Da tutto questo si evincono due piani di intervento per riqualificare il nostro sistema formativo facendo leva sull’unica leva credibile: il coinvolgimento degli insegnanti, perché solo da loro dipende il destino del nostro sistema formativo. 

Non so quale sia la strategia del ministro Bianchi, forse sarebbe il caso che ce la spiegasse, ma non sono portato a credere che ognuno viaggi per conto suo, anzi, credo che i piani convergano, uno finalizzato a formare i nuovi docenti, l’altro, quello ministeriale, che interviene sui docenti già in servizio, certamente quelli che potranno garantire una maggiore permanenza e non ovviamente quelli destinati ad andare in pensione negli ultimi dieci anni. Intervenendo sui due fronti è credibile pensare che nel giro di dieci anni si possa realizzare un profondo rinnovamento e una autentica riqualificazione della nostra scuola con un’efficacia e una capacità di centrare l’obiettivo che nessuna riforma del sistema potrebbe assicurare, starà poi alla politica accompagnare tempestivamente con lo strumento delle leggi le innovazioni che si produrranno nella nostra scuola per effetto del processo di riqualificazione del personale docente.

*N.B.

Erickson. Buonasera dott. Fioravanti, sono Francesco Zambotti, responsabile dell’Area Educazione di Erickson. L’articolo che mi trovo a commentare parte semplicemente da un assunto falso e anche irrealistico. Non c’è nessuna vicinanza nè tantomeno dialogo o accordo tra Erickson e il MIUR (la cosa mi fa anche sorridere sapendo la diffidenza che il Ministero ha nei confronti delle ditte private). È vero che il nome del docente esperto può richiamare Expert Teacher che è però un progetto del tutto diverso nei fondamenti e negli obiettivi, dalla proposta recente ministeriale e con molto anni alle spalle. Esiste da più di cinque anni e prevede sia il master che lei cita ma anche altre forme di formazione professionale. Se vuole conoscere meglio il progetto Expert Teacher la invito personalmente al nostro convegno Didattiche2022 a Rimini in novembre, ci saranno diversi momenti dedicati anche a Expert Teacher e più in generale spero di capisca che l’idea di innovazione inclusiva che Erickson propone , promuove e sostiene è un idea molto diversa dalla lotteria dell’incentivo economico individuale prevista nel recente DL. Venga a conoscere la profondità del syllabo di Expert Teacher e il lavoro di ricerca triennale che c’è stato alle spalle facendo dialogare mondo della ricerca, dirigenti, insegnanti e centro di formazione. Le assicuro che è un panorama molto diverso da quello previsto dal docente esperto. Se vorrà essere nostro ospite ci farà molto piacere.

Laura Biancato. Per quello che mi riguarda direttamente, visto che mi ha citata, si tratta di fantasie prive di qualsiasi fondamento, anzi del tutto opposte alla realtà. Sta di fatto che trovo diffamatorie alcune frasi come quelle che ipotizzano una combutta tra Erickson (vengo citata direttamente) e ministero, peraltro per impedire una vera carriera dei docenti che da decenni porto avanti come battaglia personale. Ho scritto diversi articoli e partecipato ad eventi anche di rilievo sempre con l’obiettivo di promuovere un cambiamento verso il middle management. Infatti, il profilo 3 di Expert Teacher era stato pensato nel 2017 proprio come prototipo del collaboratore del DS. In ogni caso, è veramente un paradosso che lei mi nomini co-fautrice di una disposizione (quella del docente esperto) che per me è intollerabile, che ho criticato in lungo in largo e che è l’opposto di ciò che (forse non l’ha approfondito bene…) promuove il progetto Expert Teacher.

Le mie fonti:

Expert Teacher https://www.erickson.it/it/expert-teacher/?gclid=Cj0KCQjwuuKXBhCRARIsAC-gM0hGxVIfMO3_z7wYSSRkL-PtoV11Jdl6o4-9zbbp4XQH_LVC7m4YH5gaAj3dEALw_wcB

https://www.linkedin.com/in/laura-biancato-a93a99139/?originalSubdomain=it

La scuola al crocevia tra conservatori e progressisti

Il professor Ernesto Galli della Loggia dalle righe del Corriere della Sera del primo agosto sale in cattedra per fornire, forse neppure richiesto, una lezione di conservatorismo all’onorevole Giorgia Meloni presidente dei conservatori europei.

Il senso della lezione può essere riassunto in breve: essere conservatori consiste nel fare l’opposto dei progressisti. Conservatore, dunque, non è chi è contrario ad ogni cambiamento a prescindere, ma chi si oppone ai cambiamenti proposti dalle forze progressiste. Per cui il conservatore doc si deve semplicemente limitare a cercare di fare il contrario del campo avverso.

Se l’editoriale si concludesse qui non varrebbe neppure la pena di prenderlo in considerazione.

Invece qui casca l’asino. Perché l’esimio professore insiste nei suoi ragionamenti tanto da sostenere che la cartina di tornasole del conservatorismo per eccellenza, guarda caso, si gioca sul terreno dell’istruzione primaria e secondaria. Ti pareva che la scuola non c’entrasse pure con il conservatorismo di casa nostra? Che c’è stato a fare lo spirito universale del nostro filosofo Giovanni Gentile, tacendo di altre compagnie, per i decenni del secolo scorso e pure per gli appena due del terzo millennio tra le aule delle nostre scuole?

Ovviamente se conservatorismo è uguale a ciò che non è progressista, il nostro professore non può che sposare le tesi della coppia Mastrocola-Ricolfi per cui l’istruzione nel nostro paese altro non è che “un ambito devastato da scelte di politica scolastica quasi tutte ispirate da un vuoto progressismo educativo”. Tutto questo viene temporalmente collocato negli ultimi “tre decenni di cambiamenti rovinosi”, portando a ritenere che almeno fino al 1992 la scuola “tirava” bene da un punto di vista conservatore. Il millenovecentonovantadue è la data di Mani pulite, una data fatidica per la fine della prima repubblica, nel caso specifico della scuola ha segnato l’esaurirsi del monopolio democristiano della pubblica istruzione.

Il tristo esito è sotto gli occhi di tutti tanto che “oggi  la metà dei quindicenni italiani non sono in grado neppure di comprendere il significato di un testo”, fermo restando che prima del 2000 non fregava a nessuno sapere cosa effettivamente imparassero a scuola i quindicenni italiani, perché ancora non esistevano le indagini dell’OCSE-PISA e l’INVALSI è stato istituito nel 1999 su proposta dell’allora ministro Luigi Berlinguer, pertanto non sono possibili confronti tra il prima e il dopo, e già qui cedono di fondamento le accuse ad un fantomatico progressismo educativo.

Per non parlare dei dati relativi alla alfabetizzazione degli adulti che si presume abbiano frequentato le scuole negli anni d’oro precedenti la catastrofe progressista, se sommiamo i dati di chi si colloca tra l’analfabetismo totale e il livello 2 europeo otteniamo che circa il 70% della popolazione adulta italiana non raggiunge il livello 3, il minimo per essere considerati cittadini consapevoli.

Se ci si sforzasse di scrive di scuola cercando di documentarsi, evitando di lasciare un eccessivo spazio al proprio egotismo intellettuale, si sarebbe scoperto che il problema di quote di quindicenni che non sono in grado di capire ciò che leggono oltre i livelli più elementari non è solo italiano, ma mondiale e su questo l’OCSE ha lanciato l’allarme, perché è un’emergenza che deve riguardare tutti in un mondo in cui le richieste di partecipazione civica ed economica sono sempre più complesse. 

Un’emergenza che non si può affrontare con la categoria conservatori verso progressisti. La questione è un’altra e per affrontarla bisogno studiare, uscire da i propri costrutti mentali, affrontare la realtà, cercando di aprire le menti alle nuove sfide anziché crogiolarsi nelle proprie convinzioni. 

Il tema è semplice da definire, estremamente complesso da svolgere. Il sistema di istruzione pubblica del XX secolo, conservatore o progressista che fosse, non funziona più nel secolo XXI, non regge alle sfide che abbiamo di fronte. Lo scrive a chiare lettere l’UNESCO nel suo ultimo rapporto, occorre rinegoziare il contratto formativo, occorre un nuovo contratto sociale per l’istruzione che veda unire gli sforzi di tutti per fornire alle nuove generazioni le conoscenze e le innovazioni necessarie a plasmare un futuro sostenibile per tutti ancorato alla giustizia sociale, economica e ambientale.

Ci sono tre domande essenziali da porsi circa l’istruzione: Cosa dovremmo continuare a fare? Cosa dovremmo abbandonare? Cosa deve essere inventato di nuovo in modo creativo?

Non mi sembra che qui da noi nessuna forza conservatrice o progressista che sia stia dimostrando di porsele.

Anzi nel silenzio assordante delle ferie agostane, nella distrazione della politica concentrata sulla ripartizione dei seggi per il prossimo parlamento a scranni ridotti, nessuno trova il tempo di ribattere alla sicumera di un intellettuale che non trova di meglio che indicare l’istruzione del paese come terreno cruciale del conservatorismo. La scuola come il luogo deputato a rilanciare i valori del passato e l’identità del Paese, unitamente al merito e al senso dello Stato, ignorando completamente che quando si scrive di istruzione i destinatari sono i giovani, le ragazze e i ragazzi in carne ed ossa che domani saranno adulti e non certo la patente di conservatorismo della signora Giorgia Meloni.