IL VOLTO GESUITICO DEI VOTI

 

Era facilmente prevedibile che l’attenzione dal merito scivolasse sui voti. È stato sufficiente  il lancio di stampa che al liceo Morgagni di Roma si sperimenta la scuola senza voti  che l’italico qualunquismo pedagogico si scatenasse, come se una scuola senza voti fosse destinata all’estinzione. Del resto, se questo governo ritiene che l’istruzione deve essere sorretta dalla stampella del merito, è evidente che una scuola senza voti è una pugnalata alla schiena. Il merito per essere tale necessita di una graduatoria, appunto la graduatoria di merito, e a scuola le graduatorie (come tante altre cose) dai tempi della gesuitica ratio studiorum si fanno con la scala ordinale dei voti in numeri o in lettere come nei paesi anglosassoni.

Quando l’idraulico viene a casa ad aggiustarmi la doccia che non funziona, al termine del suo lavoro non gli do un voto, lo pago sulla base della fattura che mi rilascia. O ha riparato la doccia o non l’ha riparata, è abile o non è abile, è competente o non è competente. In definitiva funziona una logica binaria.

Tutta la nostra vita poggia sull’aperto/chiuso, dentro/fuori, sopra/sotto, negativo o positivo.

A scuola no. La logica è quantitativa, il sapere va a peso. Domina la domanda che la figlia fa al padre in un famoso metalogo di Gregory Batison: “Papà, quante cose sai?”

E siccome il sapere non si può pesare e neppure misurare è compito degli insegnanti impilarlo nella scala decimale, ne va del loro ruolo, della loro autorità, del loro prestigio sociale.

Il voto è un potente ricatto, una punizione morale double face che fa dello studente un somaro come un secchione. È comunque l’anima del profitto scolastico, l’incentivo a studiare.

Sui voti a scuola si potrebbero scrivere pagine di luoghi comuni e a leggere certe giudizi che definiscono la sperimentazione del Morgagni “un’idea scellerata” si ha l’impressione  che se a qualcuno gli togli dalla scuola il registro e le pagelle gli crolli un intero mondo di certezze addosso. La sociologia ci insegna che la resistenza alle scuole senza voti è dovuta tanto al peso dell’abitudine quanto al conforto che la loro comunicazione fornisce.

Il fatto è che le ragioni dei sostenitori del sistema dei voti non hanno nulla a che vedere con le pratiche di valutazione fondamentali per dar forma all’insegnamento e all’apprendimento.

I voti da 1 a 6 delle scuole gestite dai gesuiti nel secolo XVI° facevano parte di una didattica fondata sulla ripetizione come metodo per assimilare le materie di studio. Pratica ancora in auge nei nostri istituti secondari in cui prevale la didattica della ripetizione: lezioni ex cathedra, interrogazioni e quindi voti sul registro. Ma si tratta di scuole che sono fuori dal tempo, dove ancora si misurano le nozioni anziché i processi per acquisire quelle competenze che pure sono dettagliate dalle Indicazioni nazionali. Le competenze non si misurano né con la scala decimale né con quella pentenaria. Le competenze o sono possedute o non sono possedute. Ciò che è necessario valutare è lo stato del processo per acquisirle pienamente, che richiede due forme di autovalutazione quella del sistema per individuare come sostenere lo studente nel suo processo di apprendimento e quella dello studente stesso, per essere consapevole di sé, per conoscere come procedere, cosa ha acquisito e cosa ancora gli manca.

L’assurdo dei voti numerici è che per essere comunicabili e compresi hanno bisogno di descrittori, vale a dire di narrazioni, grande conquista democratica rispetto ai tempi andati quando il voto dell’insegnante era una cifra e niente più, se non un “non si impegna”, “si deve impegnare di più”. Ma se i voti si devono narrare che senso hanno i numeri, se non per fare delle graduatorie di merito o di demerito?

È che poi le narrazioni dei voti sollevano il velo su una scuola che non è poi tanto diversa dalle istituzioni gesuitiche nonostante i secoli che ci separano. Sulle competenze che neppure sono prese in considerazione prevale la ripetizione.

Non cito la fonte, prendo “una griglia di descrizione del valore numerico dei voti” da un liceo a caso:

10. Eccellente: conoscenze complete e approfondite, elaborate in modo personale e critico anche operando collegamenti interdisciplinari. Uso competente della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche. Esposizione brillante.

9. Ottimo: conoscenze complete e approfondite, sostenute da capacità argomentativa e di collegamento tra discipline. Fluidità ed organicità espositiva, uso appropriato della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

5. Insufficiente: conoscenze incomplete e superficiali dei contenuti. Difficoltà nel coordinamento logico. Uso improprio della lingua italiana/ straniera e delle terminologie specifiche.

Già la descrizione del valore numerico dei voti è inquietante per una mente normale, ma passiamo oltre. Il valore quantitativo del numero è trasposto in un aggettivo qualificativo, tanto vale usare direttamente gli aggettivi, ma questo lasciamolo ai tanti misteri gloriosi del nostro sistema scolastico.

La cosa che colpisce è la narrazione che si fa del sapere, delle conoscenze la cui padronanza è evidentemente misurata sulla ripetizione e sulla retorica, sull’oratoria: “esposizione brillante”, ne più ne meno di quanto accadeva nei collegi della ratio studiorum. Le conoscenze non sono competenze, nulla di applicativo che emerga da queste narrazioni, fatto salvo per quella linguistica, che ci sta con la scuola della retorica. Prevale la nozione, la quale in quantità incompleta produce l’insufficienza.

Senza voti come si fa a motivare gli studenti, ottenere il loro impegno nello studio? Se manca la pratica del bastone e della carota nessuno più si impegnerà a scuola e il risultato sarà una società di ignoranti e di incompetenti.

No. Abbiamo la necessità che a scuola si affermi una cultura differente.

Una scuola capace di trasmettere la passione per lo studio, per la sua forza attrattiva, dove l’apprendimento è un follow up individualizzato. Una scuola senza voti rende più facile apprezzare lo studio per se stesso e il pensiero critico, rompendo con la pratica della strumentalizzazione del sapere in funzione del voto, costringendo alla massima attenzione  verso i  fattori motivazionali degli studenti e la psicologia dell’apprendimento.

La scuola senza voto richiede  insegnanti preparati nelle pratiche di valutazione verso approcci sempre più formativi nell’ottica di una progressiva ottimizzazione degli apprendimenti e delle competenze.

La sperimentazione del liceo Morgagni di Roma è sulla lunghezza d’onda di tutto questo e  delle tante scuole che dalla Francia agli Stati Uniti stanno sperimentando come passare dal sistema di valutazione della scuola delle nozioni al sistema di valutazione della scuola dell’apprendimento basato sulla padronanza e sulla competenza.

Moheeb Kaied frequenta la seconda alla Scuola Media 442 di Brooklyn, una mattina ha detto: “Vediamo. Posso trovare l’area e il perimetro di un poligono. Riesco a risolvere problemi matematici e del mondo reale utilizzando un piano di coordinate. Devo ancora migliorare nella divisione di numeri a più cifre, il che significa che probabilmente dovrei esercitarmi di più”. Moheeb fa parte di un nuovo programma che sta sfidando il modo in cui insegnanti e studenti pensano ai risultati dell’apprendimento,  la sua scuola è una delle centinaia che hanno eliminato i tradizionali voti in lettere all’interno delle loro classi. 

Alla Scuola Media 442, gli studenti sono incoraggiati a concentrarsi invece sulla padronanza delle competenze. Non c’è fallimento. L’unico obiettivo è apprendere il materiale da padroneggiare, prima o poi.

Per gli studenti in difficoltà c’è molto tempo per esercitarsi finché non sono acquisite le capacità. Per coloro che afferrano rapidamente i concetti c’è l’opportunità di andare avanti rapidamente. La strategia sembra diversa da classe a classe, così come il materiale che gli studenti devono padroneggiare. Ma in generale, gli studenti lavorano secondo i propri ritmi attraverso fogli di lavoro, lezioni online e discussioni in piccoli gruppi con gli insegnanti. Ricevono frequenti aggiornamenti sulle competenze apprese e su quelle che devono ancora acquisire. (1)

Anche qui niente di nuovo, nulla da inventare che non sia già stato sperimentato. Chi ha familiarità con la storia della pedagogia ricorderà certo il Piano Dalton dal nome della cittadina del Massachussets dove agli inizi del secolo scorso Helen Parkhurst sperimentò il suo metodo.

Nella scuola senza voti, senza registri e pagelle cessano di esistere le continue bugie che i numeri e le lettere raccontano sull’apprendimento. Gli albi d’onore e di merito scompaiono. Scompare di conseguenza anche il ministero dell’istruzione e del merito, per tornare Ministero della Pubblica Istruzione come impegno della Scuola dello Stato ancora prima che degli studenti.

Gli insegnanti imparano a valutare efficacemente i risultati scolastici e gli studenti diventano studenti indipendenti, spinti dalla curiosità e dall’ispirazione piuttosto che dalla vuota promessa di un voto “buono” o dalla minaccia di uno “cattivo”.

Ora, questa può sembrare solo un’idea grande, forse persino irrealistica. Ma la scuola senza voti esiste già nelle scuole di tutto il mondo, basta guardarsi attorno e, naturalmente, studiare. 

 

(1) “A New Kind of Classroom: No Grades, No Falling, No Hurry, in The New York Times, 11 agosto 2017

E IO TI BOCCIO

 

Se c’è qualcosa di anacronistico e di incongruente con l’individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento sono le bocciature. 

Aveva tentato nel 2007 il governo Prodi, ministro dell’istruzione Fioroni, di abolirle, almeno nel biennio delle superiori, con un notevole risparmio per le casse dello Stato, ma l’idea incontrò l’opposizione dei sindacati che in quel provvedimento di riforma vedevano una minacciosa caduta del numero delle classi e di conseguenza di cattedre e posti di lavoro.

Poi viene da chiedersi tutti quei miliardi del PNRR per edifici scolastici e edificatori di sapere (quest’ultimi sarebbero i docenti) per fare quale scuola? Un’altra come questa che boccia in seconda elementare, come riportato in questi giorni dalle cronache di Bari?

Sappiamo che l’esito delle bocciature esplicite o implicite che siano è la dispersione scolastica, da noi oltre la soglia del 13%, una dispersione scolastica che ci costa circa 70 miliardi all’anno, pari al 4% del PIL, una dispersione segnata dai primi fallimenti già accumulati alla primaria, micidiali, poiché funzionano come  profezie che poi si avverano.

È che la cultura della formazione vista dalla parte di chi deve essere formato è quella che manca a chi si dovrebbe occupare delle policy scolastiche.

Era già l’errore di fondo contenuto nella Buona scuola del governo Renzi, con l’incongruenza di pretendere di chiamare “buona” una scuola lasciata inalterata nella sua struttura di sempre, per di più perdendo di vista proprio gli studenti punto di partenza e di arrivo di ogni processo formativo.

Ora poi assistiamo alle self-candidacy a fare il ministro dell’istruzione come quella ufficializzata su Il Foglio, dal professore Marco Lodoli che se ne va in pensione e intende mettere a disposizione del paese la sua esperienza di uomo di scuola.

Il suo programma in dieci punti esordisce con l’affermazione: “La scuola ha bisogno di ritrovare a pieno la sua missione che è educare, preparare, formare…”

Come non essere d’accordo! Salvo che sarebbe il caso di dire come. Non è dato di saperlo, a meno che non ci sia qualcuno, sebbene uomo di scuola e intellettuale, così sprovveduto da ritenere che l’impegnativa affermazione d’esordio si realizzi attraverso l’elenco delle cose da fare che il professor Lodoli propone, dall’aumento delle ore di educazione fisica, a quelle di musica, alle lezioni di cinquanta minuti fino, ovviamente, all’aumento dello stipendio degli insegnanti. Il tutto mantenendo la scatola e i suoi contenuti così come sono ora. 

Insomma come questa scuola andava bene ieri andrà bene anche domani, tanto il futuro dei giovani non lo possiamo conoscere, e una generazione vale l’altra, ragazze e ragazzi poi sono tutti uguali, che siano del secolo scorso e dei decenni a venire cosa cambia.

È questa ignoranza che pesa come una cappa sul paese, professori, intellettuali, politici, non ci si salva. La scuola è nata così con Casati e Gentile e così deve continuare a vivere.

Siamo sempre lì, alla Mastrocola e coniuge. Per cui anziché essere considerata una madornalità da licenziamento in tronco di chi ha deliberato la bocciatura di una bimbetta di sette anni in seconda elementare, in questo paese si dibatte circa il de jure della sentenza con la quale il Tar della Puglia invita il collegio dei docenti della scuola a ritornare sui suoi passi.

Non è che uno debba essere costretto a sorbirsi la legislazione scolastica che oltretutto è di una qualità letteraria pessima, ma lo scollamento tra immaginario scolastico collettivo, pratica scolastica e normative scolastiche in questo paese è enorme. Sono come tre strade parallele ognuna delle quali procede verso la propria meta senza alcuna possibilità di comunicare tra loro. Questa assenza di comunicazione fa sì che l’opinione pubblica non si modifichi mai, gli insegnanti continuino a lavorare come hanno sempre fatto incuranti di ogni innovazione e che leggi, norme e circolari restino lettera morta. 

Agisce una sorta di refrattarietà ai cambiamenti per cui l’opinione pubblica non si sposta dai luoghi comuni e la scuola dal suo modus operandi, così che il gattopardesco tutto cambi perché tutto rimanga com’è può giungere comodamente alla sua apoteosi.

Dalle Indicazioni nazionali alle Linee guida ministeriali si sono spesi fiumi di parole sul senso della valutazione in particolare nella scuola primaria, ma rimane una ambiguità irrisolta quella della eccezionalità, dei casi eccezionali.

Noi siamo il paese del tutto è normale salvo eccezioni, guarda caso, abbiamo pure la faccia tosta di affermare che le eccezioni confermano la norma essendo noi tutti discepoli dell’avvocato manzoniano.

Per cui nonostante ci si sia sforzati di spostare la valutazione sui processi si torna sempre, con una sorta di riflesso condizionato ai giudizi, ai giudizi sulla persona, anche se questa ha solo sette anni non può sottrarsi ad una simile mannaia e la mannaia si cela in quel “salvo eccezioni”.

In realtà c’è molto di più e il molto di più sta nel continuare a perpetuare un sistema scolastico fondato sulle classi di età, sulla massificazione delle differenze.

Non si può da un lato licenziare normative che richiedono di adattare l’insegnamento “ai bisogni educativi concreti degli alunni, ai loro processi cognitivi, meta-cognitivi, emotivi e sociali” per poi mortificare tutto nell’uniformità della classe, dove di regola tutti devono giungere allo stesso modo alla classe successiva, salvo ritornare al punto di partenza per ripetere di nuovo l’intero percorso.

Dovrebbe essere ormai evidente che la struttura “casati-gentiliana” del nostro sistema scolastico fondata sulle classi di età costituisce un grave ostacolo ad ogni forma di flessibilità e di individualizzazione dei percorsi di apprendimento. Che se non si aggredisce il nodo strutturale la dispersione scolastica sarà sempre alta e la tentazione delle bocciature sempre latente.

Si tratta di capovolgere la logica e passare da una scuola pensata come progressione verticale, dal basso verso l’alto secondo l’età anagrafica, a una progressione orizzontale lungo un curricolo percorso da ciascuno secondo i propri tempi e i propri bisogni formativi che nessuna classe e bocciatura possono imbrigliare.

Il rischio è che le risorse del PNRR spese per la scuola e per la formazione degli insegnanti siano ancora una volta investite per la scuola di ieri o di oggi, ma non certo per quella di domani.