Agenda 2030: come giocarsi la credibilità dell’Educazione civica nelle nostre scuole.

C’è una sostanziale inscindibilità tra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, e l’istruzione permanente, vale a dire un apprendimento che accompagna l’intero arco della vita delle persone.

Non so se di questo fossero consapevoli gli estensori della legge con la quale si è reintrodotto l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole di ogni ordine e grado del nostro paese.

Tra i temi che durante l’anno scolastico le nostre ragazze e i nostri ragazzi dovranno studiare c’è appunto questo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Nutro il sospetto che il legislatore avesse un’approfondita consapevolezza dei contenuti di questa Agenda, forse più affascinato dagli obiettivi della sostenibilità che interessato a conoscere effettivamente le pratiche richieste per la loro realizzazione dai diversi soggetti promotori dell’Agenda, dall’Onu all’ Unesco.

Questo potrebbe diventare un terreno molto sdrucciolevole per la credibilità e l’efficacia formativa dell’ Educazione civica come materia, dico subito perché e vedrò di spiegarlo meglio di seguito. 

L’Agenda 2030 avendo un obiettivo proiettato nel tempo costituisce un lavoro in progress, per questo studio e riflessione dei suoi contenuti richiederebbero di ritrovare poi una corrispondenza in quanto si va costruendo nell’ambiente sociale in cui le nostre ragazze e i nostri ragazzi sono immersi e la scuola opera.

L’Agenda 2030, come sappiamo, si propone di assicurare ambienti di vita sostenibili per le generazioni presenti e per quelle future, ha come obiettivi, tra gli altri, di assicurare un’istruzione di qualità, promuovendo opportunità di apprendimento permanente a partire dal governo delle città.

Nel nostro paese di Città che Apprendono, di Città della Conoscenza non se ne parla, fatta eccezione per rari casi che si contano sulle dita di una mano. E già qui si pone il problema della coerenza tra ciò che pretendiamo che i nostri ragazzi studino e i luoghi che abitano.

Del ruolo delle città, in particolare delle città che apprendono, le “learning cities”, nel perseguire gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile se ne è parlato in conferenze internazionali con la partecipazione di sindaci, amministratori di città di tutto il mondo, dirigenti scolastici, esperti di apprendimento, rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite, di settori privati, di organizzazioni regionali, internazionali e della società civile, a cui dubito che l’Italia abbia mai partecipato: Pechino nel 2013, Città del Messico nel 2015, Cork, in Irlanda, nel 2017, Medellín, in Colombia, nel 2019. 

Conferenze che si sono sempre concluse con Dichiarazioni nelle quali viene ribadito il ruolo centrale dell’apprendimento permanente come motore della sostenibilità ambientale, sociale, culturale ed economica.

Le città che apprendono sono per l’Onu e l’Unesco lo strumento principe per la realizzazione concreta degli obiettivi posti da qui al 2030 dall’Agenda, ora anche oggetto di studio nelle nostre scuole. 

Ma la prima incongruenza nasce dal constatare che nessuno dei nostri governi nazionali, fino ad oggi, ha fornito le condizioni fondamentali e le risorse sufficienti per costruire città che apprendono capaci di promuovere inclusione e crescita. 

L’idea di educazione permanente praticata nel nostro paese è a dir poco obsoleta, modellata com’è su una concezione dell’istruzione ancorata a categorie del secolo scorso.

Non solo oggi è necessario che l’istruzione permanente pervada tutta la vita delle persone, ma anche l’intero impianto del sistema formativo del paese.

Ora è il governo della città a costituire il fattore chiave per sbloccare tutto il potenziale della comunità urbana, attraverso l’importanza dell’apprendimento permanente, per assicurare ambienti di vita sostenibili alle generazioni presenti e future. 

Ma anche qui parliamo il linguaggio della luna. Se le nostre città non provvedono a divenire città che apprendono sarà proprio lo studio dell’Agenda 2030, nell’ambito dell’educazione civica, a far scoppiare le contraddizioni, che già le giovani generazioni con Greta denunciano.

Eppure si potrebbe fare se solo attori pubblici e privati, settori delle città e delle comunità, compresi istituti di istruzione superiore e di formazione, nonché i rappresentanti dei giovani si riunissero in partenariato per promuovere l’apprendimento permanente a livello locale al fine di garantire che tutte le generazioni siano coinvolte nel processo di crescita della città che apprende.

Gli strumenti non mancano, dalla rete Unesco delle città che apprendono alla Dichiarazione di Città del Messico del 2015 che fornisce una lista di controllo completa dei punti di azione per migliorare e misurare il progresso delle città che apprendono. 

La cosa stravagante del nostro paese è che tante sono le nostre città riconosciute come patrimonio dell’Unesco, ma nessuna di loro aderisce alle Rete delle “Learning cities” dell’Unesco, né, tanto meno, è  impegnata a perseguirne gli obiettivi, a partire dalla città in cui vivo secondo l’adagio latino: nemo propheta in patria.

È probabile che dovremo attendere la generazione degli amministratori istruiti alla scuola della nuova Educazione civica, sempre che decolli, ma temo che entro il 2030 non ce la faremo.

Dove tramonta “no child left behind”

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La raccolta dei dati

Circa ogni due anni dal 1968, l’US Department of Education raccoglie dati sulle scuole della nazione attraverso il Civil Rights Data Collectio. Le informazioni servono al dipartimento per verificare quanto vengono rispettate le leggi sui diritti civili che prevedono pari opportunità educative per gli studenti di diversa razza, genere, con disabilità, con scarsa padronanza dell’inglese.

I dati, riferiti all’anno scolastico 2011-2012, raccolgono le informazioni provenienti da tutte le scuole e da tutti i distretti, incluse tutte le charter school e le juvenile justice facilities, cioè le strutture educative proprie del sistema giudiziario minorile.

I dati che sono stati richiesti alle scuole sono relativi a quattro aree: disciplina, equità nella distribuzione degli insegnanti, educazione prescolare, preparazione per il college e per il lavoro. Le scuole dovevano segnalare quanti studenti sono stati sospesi, espulsi e quanti hanno compiuto atti di bullismo. Quanto hanno speso per gli insegnanti e quanto per le spese in generale. Quanti gli studenti che hanno completato Algebra 1, i corsi Advanced Placement, e quanti hanno sostenuto i test del SAT.

Per la prima volta le scuole dovevano riportare anche il numero delle espulsioni in età prescolare.

La maggior parte dei dati è suddivisa per razza/etnia, sesso, disabilità, conoscenza della lingua inglese per discente, consentendo così al governo e all’ opinione pubblica di prendere in esame la disparità degli indicatori chiave in tutto lo spettro scolastico pre – K – 12 , vale a dire dai 4-5 anni ai 17-18 anni.

Cosa dicono i dati

I dati che sono stati resi pubblici nei giorni scorsi dal Dipartimento dell’Istruzione circa l’uguaglianza delle opportunità educative dalla scuola dell’infanzia alla scuola superiore sono davvero inquietanti, ne emerge un quadro che dovrebbe far riflettere seriamente su un modello di scuola che, salvo varianti nazionali, è pressoché lo stesso in buona parte del mondo.

Ciò che emerge è una realtà scolastica che ancora viola il diritto universale delle persone all’istruzione, nonostante la dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei diritti del fanciullo. Non si riesce a determinare una condizione capace di rimuovere le cause degli svantaggi sociali, culturali, economici che a loro volta stanno all’origine di discriminazioni e disadattamenti nell’ambito scolastico.

I risultati dicono che le minoranze e gli studenti con una limitata conoscenza della lingua inglese hanno, rispetto agli altri, maggiore probabilità di avere insegnanti inesperti, con una preparazione insufficiente, di frequentare high school dove l’offerta curricolare è povera, specie per la matematica e le discipline scientifiche e incorrono in provvedimenti disciplinari con una frequenza maggiore rispetto ai loro coetanei bianchi.

Sui provvedimenti disciplinari il rapporto del Dipartimento non spiega molto, se non che gli studenti neri, i quali costituiscono il 16 percento del complesso delle iscrizioni, costituiscono il 33 percento degli studenti sospesi dalla scuola e il 34 percento di quelli espulsi. In questo confermando un dato, che è universale, ossia che l’utenza più disagiata è quella che maggiormente subisce gli svantaggi e la selezione. Dato che negli USA emerge già chiaramente a partire dall’educazione prescolastica nella quale i bambini di famiglie nere sono il 18 per cento e vanno a formare quasi la metà, il 48 per cento, dei bambini che in età prescolare sono stati “out of”, vale a dire sospesi più di una volta.

I risultati di questa indagine globale disegnano un quadro fosco della situazione circa le opportunità educative negli Stati Uniti d’America, anche se il governo federale spende circa 14,4 miliardi dollari all’anno per aiutare gli studenti svantaggiati.

Quasi il 7 per cento degli studenti neri frequenta scuole dove oltre il 20 per cento degli insegnanti non possiede ancora tutti i requisiti necessari per insegnare. Una cifra che è di 4 volte superiore a quella relativa alle scuole frequentate dagli studenti bianchi.

Tra le scuole frequentate dalla maggior parte degli studenti neri e latini, solo il 66 per cento per i primi e il 74 per i secondi, offre curriculi con l’insegnamento della chimica e di Algebra II.

Questi dati d’oltre oceano gettano un’ombra lunga sulla promessa di un’istruzione uguale per ogni bambino, dovrebbero farci comprendere come i dati dei test internazionali che la Banca Mondiale commissiona all’ OCSE PISA odorino tanto di mercato e profumino molto poco di diritti umani. È evidente che il riflettore va nuovamente puntato sui luoghi scolastici e sulle ragioni delle grandi lacune che perdurano in questo nuovo secolo al suo inizio. Al di là dei proclamati “I care”, No Child Left Behind”, ancora è grande la distanza che separa dal raggiungere l’obiettivo di offrire pari opportunità di successo ad ogni studente.

Il catalogo è questo

È la prima volta dal 2000 che i dati relativi ai diritti civili sono stati raccolti da tutte le 97.000 scuole pubbliche statunitensi e dai 16.500 distretti scolastici, che rappresenta 49 milioni di studenti.

Quest’anno le scuole dovevano fornire anche i dati relativi al numero di sospensioni ed espulsioni in età prescolare (sic!). Da questi si ricava che il 6 per cento di bambini in età prescolare ha avuto una sospensione. Ad essere sospesi sono soprattutto i bambini neri, mentre i bambini latino-americani registrano risultati migliori. Il 29 per cento dei bambini che frequentano la fascia prescolare è latino e latino è il 25 per cento degli studenti sospesi dalla scuola.

Sotto accusa è un trend disciplinare che ha allarmato i sostenitori degli studenti e dei diritti civili. Molte pratiche disciplinari sono troppo dure e colpiscono soprattutto alcuni gruppi come gli studenti neri e gli studenti con disabilità. Non va dimenticato che solo 19 Stati considerano illegali le punizioni corporali, mentre in tutti gli altri si continuano a praticare, a volte con una frequenza inaudita come nel Texas, che nell’anno scolastico 2009-2010 ha punito fisicamente 25015 studenti, di cui 7080 ispanici, 4786 neri e 12973 bianchi.

Mentre gli studenti neri sono il 16 per cento di tutti gli studenti, rappresentano il 27 per cento di quelli a cui viene applicata la legge da parte delle scuole e il 31 per cento di coloro che sono stati oggetto di arresti legati alla scuola.

Cronaca nera e disciplina si accompagnano nella storia anche più recente della scuola americana. Molti degli inasprimenti disciplinari approvati dai Distretti scolastici costituiscono l’unica risposta che adulti esperti hanno saputo fornire. Certo che, se l’origine di tali fatti è da ricercarsi nel disagio sociale o psichico dei loro protagonisti, il rimedio pare più atto ad alimentare la malattia che a curarla.

Per molti studenti di questi distretti l’applicazione della disciplina è vaga e incoerente, tanto che per uno stesso tipo di reato uno studente può essere punito più di un altro. Ci sono avvocati che puntano a modificare le pratiche disciplinari delle scuole, specie dopo la pubblicazione a Baltimora delle linee guida sulla disciplina scolastica, uniche nel loro genere, dettate dai servizi dell’Istruzione statunitensi e dal Dipartimento di Giustizia nel gennaio scorso.

Il nuovo orientamento esorta i distretti a ripensare le politiche di “tolleranza zero” che fino ad ora hanno comportato l’espulsione dalle scuole anche per reati non violenti. Inoltre si richiamano i distretti, ai sensi delle leggi federali sui diritti civili, a rivedere e monitorare l’impatto dei provvedimenti disciplinari, al fine di garantire che non colpiscano ingiustamente alcune parti della popolazione scolastica. Lo stesso Segretario all’Istruzione degli Stati Uniti, Arne Duncan, ha dichiarato che tassi più elevati di provvedimenti disciplinari nei confronti degli studenti di diversi gruppi etnici e razziali non possono essere interamente spiegati da una maggiore frequenza di comportamenti scorretti. Gli stessi studenti spingono per il ritorno a pratiche di mediazione tra pari, anziché ricorrere a sospensioni e a provvedimenti disciplinari che non affrontano le reali cause che inducono gli studenti a comportarsi male. Gli studenti non possono essere trattati come un problema che deve essere isolato e risolto.

I dati forniti dalle scuole dimostrano che anche gli studenti con disabilità sono stati oggetto di provvedimenti sproporzionati di contenzione fisica. Questi studenti rappresentano il 12 percento dell’intera popolazione delle scuole pubbliche e circa il 75 percento di coloro che sono stati fisicamente trattenuti.

Alzare il livello dell’attenzione

Il tema dell’equità ha prodotto una rinnovata attenzione da parte del Dipartimento dell’Istruzione USA che sta lavorando per migliorare in 50 Stati la preparazione degli insegnanti e l’amministrazione Obama ha impresso una spinta significativa all’espansione dell’educazione prescolastica per accrescere le possibilità di frequenza della scuola dell’infanzia da parte dei bambini più svantaggiati. Tra i distretti scolastici statunitensi la frequenza del kindergarten per l’intera giornata è relativamente rara. Solo il 60 per cento dei distretti offre l’opportunità di servizi per l’età prescolare e, di questi, più della metà ha un programma di sola mezza giornata.

I dati mostrano che le disparità razziali e di genere hanno inizio molto presto. Nel 2011- 2012 più di 140.000 bambini, a livello nazionale, sono stati trattenuti alla scuola dell’infanzia, pari a circa il 4 per cento dell’intera popolazione scolastica dei kindergarten pubblici. I nativi hawaiani e di altre isole dell’oceano Pacifico, gli Indiani d’America, i bambini nativi dell’Alaska sono stati trattenuti in percentuale quasi doppia rispetto ai bambini bianchi. Per il 5 per cento i piccoli neri e per il 4 percento quelli ispanici.

Ad essere discriminati sono soprattutto gli studenti di colore che non ricevono la quota loro spettante di accesso alle opportunità scolastiche che contano per la propria realizzazione.

I dati federali, confermati da una miriade di altri studi, mostrano un sistema scolastico, K – 12, che perpetua le discriminazioni sociali nei confronti degli studenti di colore, i quali frequentano le scuole con insegnanti scarsamente qualificati, alle prime armi e con stipendi più bassi di quelli dei loro coetanei.

I ricercatori hanno dimostrato che gli insegnanti alle prime armi, in particolare quelli al loro primo anno di insegnamento, sono in media meno efficaci dei loro colleghi più esperti. Eppure i neri, i latino-americani, gli indiani d’America e i nativi dell’Alaska hanno maggiore probabilità di frequentare scuole con una concentrazione più alta di insegnanti novizi rispetto ai loro coetanei bianchi.

A livello di high school, quasi un quarto dei distretti con almeno due scuole superiori ha uno scarto di 5.000 dollari nelle retribuzioni degli insegnanti tra scuole con la concentrazione più alta e più bassa di studenti neri e latini.

Scuole e responsabili politici cercano di incoraggiare più studenti a impegnarsi nello Stem, nello studio cioè delle discipline relative alla scienza, tecnologia, ingegneria e matematica. Soprattutto le minoranze sono però quelle che sembrano maggiormente tagliate fuori dal poter usufruire di queste opportunità curricolari.

Un quarto delle scuole superiori con le più alte percentuali di studenti neri e latini non offrono Algebra II. Un terzo di queste scuole non offre curricoli di chimica. Tutte discipline queste che consentirebbero di avere successo nell’accedere ai college.

Le carenze di opportunità sono evidenti anche nel campo di chi è maggiormente dotato di talenti. Qui gli studenti neri e latini rappresentano solo il 26 per cento degli studenti iscritti a tali programmi, sul 40 per cento di scuole che li offrono. Inoltre, mentre gli studenti neri e latini costituiscono il 37 per cento degli studenti delle scuole superiori, rappresentano il 27 per cento degli studenti iscritti ad almeno un corso AP.

Un settore in cui gli studenti di colore risultano sovra rappresentati è quello del numero delle ripetenze. Gli studenti neri e English-learners sono bocciati nell’ high school con un tasso due volte superiore a quello della popolazione studentesca complessiva.

 

* http://ocrdata.ed.gov/

 

Cittadini del sapere: cittadini di un nuovo Umanesimo

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Un cantiere per il futuro

Dalla Legge Casati sulla scuola in poi si è legiferato certo non concependo l’idea  di una cittadinanza del sapere e nel sapere, bensì nella considerazione che gli alunni hanno ad essere dei sudditi del sapere. E così noi siamo sempre stati  e tali continuiamo a trattare le nostre ragazze e i nostri ragazzi nelle nostre scuole: sudditi del sapere, coltivando più la soggezione delle loro menti e dei loro comportamenti nei confronti del sapere che non la familiarità, la naturalezza che deriva dall’abitudine  a percorrere le strade della conoscenza.

Suddito è esattamente l’opposto del termine cittadino, è colui che dipende dalla sovranità di uno Stato di cui non è membro, le nostre alunne e i nostri alunni dipendono da una comunità di saperi di cui non sono, non si sentono e non li facciamo sentire membri, per questo sono e continuano ad essere sudditi.

Ma quella società che rendeva sudditi gli studenti e le famiglie promettendo loro mobilità sociale, riuscita nella vita, un posto di lavoro non c’è più e non tornerà mai più, è morta, definitivamente defunta.

In questo pianeta, che Morin ha definito come una nave spaziale che viaggia grazie alla propulsione di quattro motori scatenati: scienza, tecnica, industria, profitto e dove nello stesso tempo la minaccia nucleare e la minaccia ecologica impongono alla umanità una comunità di destino[1], non c’è possibile futuro che valga la pena costruire se non riscoprendo la centralità dell’individuo, la centralità dell’intelligenza, la centralità del pensare oggi  per il futuro.

Dobbiamo chiamare all’appello tutte le nostre forze e la nostra creatività, e come già avvenne per il Rinascimento tornare a collocare al centro della nostra civiltà la donna e l’uomo, ogni singola donna e ogni singolo uomo, è inevitabile perché solo questa è l’unica risorsa che ci resta per poter tentare di scommettere sul futuro.

Replicare una rivoluzione scientifica che ci porti a superare il dogmatismo del sapere scolastico così come fino ad oggi l’abbiamo concepito e praticato, restituendo centralità alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi in quanto risorse e non più sudditi nelle nostre classi, in quanto innanzitutto  intelligenze da attivare, modi di pensare da coltivare,  da condurre fuori dal  torpore delle nostre aule e della nostra cultura di massa. È tempo che anche  la cosiddetta “cultura di massa”  tramonti per consentire di compiere un passo  oltre, è giunto il momento di praticare la “cittadinanza del sapere” che è ben altra cosa, assai diversa dall’evento, dal grande evento che richiama file di utenti, utenti perché non cittadini del sapere, ai botteghini delle grandi mostre.

In questo senso il cantiere scuola deve essere cantiere per un nuovo umanesimo, in grado di rimettere con forza al centro: il pensiero, la mente, la psicologia della conoscenza, il come pensiamo e conosciamo del buon vecchio e mai tramontato John Dewey.

Diversamente rischiamo che solo per la scuola e per i nostri giovani lo Stato continui ad essere uno Stato Mistagogo e Leviatano che non è in grado di offrire loro speranze, la speranza del domani, che mortifica ogni possibilità di coltivare i sogni sul futuro, perché pervicace nel pretendere da loro che apprendano il passato senza mai condurli ad imparare il futuro, il futuro di cui hanno bisogno come l’aria che respirano, perché quello, perché il futuro sarà la loro sicura dimensione di vita.

Da suddito a cittadino del sapere

Ma quando parliamo di “sapere” cosa intendiamo? Il “sapere” in quanto sostantivo  o  “sapere” in quanto verbo. Il patrimonio di conoscenze accumulato o il sapere agito che  mai ha termine?

Da suddito del sapere a cittadino del sapere, al sapere agito per dare sapore alla nostra esistenza di cittadini, considerato che i due termini hanno una comune radice latina. La distanza tra suddito e cittadino del sapere è enorme. Il suddito è  formato, il suddito è educato, il suddito deve conformarsi e convergere.

Il cittadino, al contrario, deve partecipare attivamente del sapere e dunque apprendere, non può e non deve conformarsi, è obbligato a divergere perché diversamente non si formulerebbero le ipotesi di cui la scienza necessita per nutrirsi e finirebbe per perire,  negherebbe il fine stesso della sua cittadinanza che è l’ apprendimento continuo e rinnovato.

E allora in questo gioco di parole e di rovesciamenti, viene a ribaltarsi un altro luogo comune, quello che dice: la scuola deve aprirsi all’ambiente.

Ma se  si è cittadini del sapere è evidente che non è più così, perché è innanzi tutto l’ambiente a doversi aprire alla scuola, a coniugarsi con la scuola, anzi è l’ambiente stesso che sempre più si costruisce come scuola, come aula di apprendimento, come abbiamo detto tante volte. Ma qui voglio dire qualcosa di più.

Non è sufficiente che sia la scuola ad essere ambiente di apprendimento, perché se non è ambiente di apprendimento prima di tutto la società in cui viviamo quotidianamente, anche la scuola stessa fatica a qualificarsi come ambiente di apprendimento.

Dentro  e fuori del sistema scolastico non più i tradizionali processi del sapere top down, dalle accademie e dalle cattedre ma sempre più processi aperti, processi bottom up che collochino ogni singolo individuo mai più come suddito, mai più come  destinatario di piani di studio personalizzati, ma come  protagonista primo nel vivere  la sua cittadinanza piena e consapevole nella comunità del sapere.

Dobbiamo decisamente passare dalla società dell’ informazione indifferenziata, dalla società della cultura di massa, alla società del sapere diffuso, del sapere distribuito della in-formazione continua.

E come allora la scuola oggi può concorrere a tutto ciò?

Una scuola che, di fronte ai cambiamenti epocali, di fronte ai processi di globalizzazione che ci rendono tutti cittadini del pianeta, non è più luogo e non può più oggettivamente essere il luogo che mantiene le promesse del passato dove le nuove generazioni si preparano al mondo del lavoro o ad affrontare  i problemi pratici di tutti i giorni.

Allora credo che la scuola si debba e si possa qualificare come  quel luogo dove viene svolto un particolare tipo di lavoro, un lavoro intellettuale (intellegere = comprendere): l’addestramento e l’esercizio della riflessione e del ragionamento con l’ausilio degli attrezzi del mestiere che sono le discipline in quanto grandi narrazioni del sapere e dei saperi.

Un lavoro che non coinvolge la massa indistinta della classe, ma che deve avere come obiettivo prioritario e qualificante la capacità di  coinvolgere la mente di ogni singola alunna e ogni singolo alunno in quanto individuo, in quanto unico e irripetibile, renderlo protagonista di un percorso formativo il cui esito è il prodotto certamente dell’apporto di  ognuno, ma alla fine è molto di più della semplice somma delle singole parti che ognuno ha composto nel momento del proprio personale coinvolgimento.

La scuola deve divenire quel luogo in cui si apprende a praticare l’arte, la virtù e la competenza della “distanza” , del “distacco”, dello sguardo “altro”, dello sguardo “critico”, dello sguardo cioè che sa distinguere, che vede da lontano per andare lontano.

Il mondo quotidiano in cui siamo coinvolti, il mondo di fuori, nei luoghi della scuola  si fa contenuto, oggetto privilegiato di riflessione e di ragionamento,  perché è solo così, solo attraverso queste condotte cognitive  è ammesso procedere nei territori della conoscenza e del sapere.

Usare le discipline non in quanto materie di studio fini a se stesse, ma come gli strumenti indispensabili a costruire le competenze, perché le discipline nella storia dell’uomo sono progredite e cresciute nutrendosi di competenze,  cioè della capacità di porre domande, di interrogare in modo nuovo il loro territorio per poter accrescere il loro patrimonio di saperi, di interrogare la città del sapere, per muoversi e addentrasi nei suoi quartieri.

E quindi temo che se ci  limitassimo ai soli obiettivi dell’apprendimento, continueremmo inevitabilmente a restare sudditi del sapere. Solo la competenza, sono convinto, può vincere questa sudditanza, sudditanza che si sconfigge  nel momento in cui esercito e pratico il sapere, manipolandolo, reinventandolo, applicandolo nei laboratori intesi come saperi operosi, come operosità del sapere. Laboratori intesi nel significato etimologico di labor – laboris, cioè di “fatica”. L’apprendimento in quanto tale non è più sufficiente, perché si ferma sulla soglia delle competenze senza mai attraversarla, perché ancora oggi la scuola non conduce  all’ impiego delle conoscenze via via acquisite, così che difficilmente si traducono in saperi la cui padronanza è necessaria per poter esercitare pienamente il proprio diritto di cittadinanza.

La scuola che pratica lo spezzatino del sapere, che disgiunge le conoscenze che dovrebbero essere invece interconnesse, è una scuola che forma menti unidimensionali, è una scuola riduzionista, è una scuola che privilegia una sola dimensione dei problemi umani e che occulta tutte le altre, è la scuola del pensiero pigro, è la scuola del pensiero lento, è la scuola del pensiero asfittico.

Ecco oggi, nell’era planetaria, si può essere cittadini del sapere, si può essere cittadini di un nuovo umanesimo solo se la scuola diventa la sede privilegiata di un nuovo modo di conoscere, di un nuovo modo di pensare, di un nuovo modo di insegnare.

Oltre la Scuola di massa

Si possono scrivere pagine di curricolo, si può combattere il frazionamento del sapere accorpando le discipline per aree, ma se non cambia la mappa mentale della docenza, se l’insegnamento di ieri e dell’altro ieri vale ancora per l’oggi, se non si riforma alla radice l’insegnamento si scriveranno sempre inutilmente pagine e pagine di Indicazioni che agli occhi degli insegnanti sembreranno sempre già viste, sempre già state, sempre indifferentemente tutte uguali. Non perché sia oggettivamente così, ma perché gli occhiali che indossano gli insegnanti sono da troppo tempo sempre gli stessi, per cui il mondo può cambiare, ma la loro percezione resta sempre quella di tutti i giorni, è quella di ieri e continuerà ad essere sempre quella anche domani.

E del resto come può essere diversamente, come può oggi un insegnante che mai lontanamente a scuola, all’università, ecc.  è stato educato ad essere o per lo meno a sentirsi, o aspirare a divenire cittadino del sapere, istruire, educare e formare le sue allieve e i suoi allievi a praticare la cittadinanza del e nel sapere?

Voglio riprendere quanto Edgar Morin scriveva ormai diversi anni fa nel prologo  al suo La testa ben fatta, che del resto porta come sottotitolo, non a caso, Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero. Come dire che non c’è crescita delle intelligenze se non c’è un radicale cambiamento della didattica.

Scrive Morin nel suo prologo: “ […] Sempre più convinto della necessità della riforma del pensiero, quindi di una riforma dell’insegnamento, approfittavo di diverse occasioni per riflettervi. Avevo pronunciato, su suggerimento dell’allora ministro dell’Educazione Jack Lang, “qualche nota per un Emilio contemporaneo”. Avevo pensato a un “manuale per insegnanti e cittadini”, progetto che non ho abbandonato”

Non abbandoniamolo neppure noi questo progetto, facciamolo nostro, investiamo in esso le nostre intelligenze, la nostra passione.

Per imparare, dunque, ad apprendere in forme adeguate alla nostra dimensione planetaria a cui tutto e tutti ogni giorno ci richiamano, dobbiamo convincerci che sono ormai inevitabili e ineludibili  tre riforme: quella del conoscere, quella del pensiero, quella dell’insegnamento.

Noi però, che portiamo la responsabilità sociale di lavorare nella scuola, dobbiamo  sapere molto bene che il luogo per eccellenza deputato a praticare e sperimentare quotidianamente questi intrecci tra pensiero, conoscenza e insegnamento è la scuola e, se chiamati, di questo abbiamo il dovere di rispondere.

Perché è nella scuola che insegnanti e alunni insieme devono imparare a praticare, a esercitare quotidianamente la ragione, la riflessione, l’interconnessione dei saperi, anche di quelli apparentemente più distanti tra loro, la capacità di risolvere problemi, perché è a tutto ciò  che i processi  della società della conoscenza, della società dell’incertezza attribuiscono oggi valore e priorità.

La scuola, dunque,  nella sua migliore espressione, è e deve essere questo luogo.

La richiesta di nuovi saperi, l’affermarsi di un nuovo pensiero sull’essere cittadini di questa contemporaneità sono, dunque, impellenti.

La scuola degli apprendimenti, la scuola delle competenze, del cum-petere, del saper porre  domande, del saper interrogare e interrogarsi circa la realtà, è evidente che non può più essere sempre la vecchia scuola fatta e rifatta dal primo politico di turno che si ritrova al governo del Paese.

Il tema del lifelong learning, dell’apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita, come ugualmente il tema della società della conoscenza, della comunità dell’apprendimento diffuso, il tema della learning city, delle “città che imparano” costituiscono insieme, non solo un nuovo fronte di intervento per la formazione, ma un momento decisivo per ripensare i modi, i tempi e i luoghi dell’ apprendimento.[2]

La sinergia curricolare tra scuola, extrascuola e postscuola richiede scelte politiche in grado di indurre e di  impegnare gli amministratori locali a non curare solo la cultura dei grandi eventi ma di farsi carico con sistematicità di dare qualità formativa ai propri contesti urbani, di restituire alla cittadinanza del sapere i territori rinnovati dei musei, delle pinacoteche, delle biblioteche, delle  emeroteche, delle discoteche, delle ludoteche, dei teatri, dei cinema, delle piazze, dei monumenti e potrei continuare ancora e ancora…perché è solo così che concretamente si diventa cittadini del sapere, non come dovere, ma come diritto da esercitare naturalmente e quotidianamente nella propria crescita, sia quella di oggi che quella di domani, un diritto di portata universale e inalienabile.

Nei fatti, noi sappiamo bene che  la centralità dell’individuo e la cittadinanza del sapere si praticano nel momento in cui il sistema formale dei saperi (la scuola) e il sistema non-formale (il territorio) si coniugano, concorrono cioè a disegnare il curricolo condiviso dalla scuola e dalle agenzie extrascolastiche intenzionalmente educative.

Una scuola dell’autonomia che gestisse la prerogativa dell’autonomia per finire con il coltivare il suo isolamento e i suoi distinguo, nella realtà sarebbe la scuola dei tradimenti, una scuola che tradisce lo spirito del legislatore, perché da soli non ci sono autonomie da esercitare. L’autonomia si esercita se accanto ci sono gli altri, se accanto a noi camminano anche gli altri,  nella misura in cui si opera per un obiettivo comune con altri soggetti diversi da noi sia per istituzione che  per compiti.

Del resto la complessità e la varietà della domanda formativa che oggi esprime il territorio richiede inevitabilmente che si realizzi una sinergia delle istituzioni e tra le istituzioni, nell’ottica del life wide learning.

Vorrei concludere che non si può essere cittadini  del sapere, cittadini di un nuovo umanesimo se la scuola nella società della conoscenza non si fa carico del compito che le compete al di sopra di ogni altro. Quello cioè di essere in prima fila nel condurre la battaglia per la democrazia del sapere e  per  saperi democratici.

Scuola di massa, abbiamo detto, è ormai un concetto obsoleto e ampiamente tramontato.

Oggi la vera sfida rispetto alla quale la stessa scuola rischia di essere tagliata fuori, di decretare la propria irrilevanza e inutilità, è proprio quella che si gioca sul campo della democratizzazione dei saperi, sia nella loro formazione che nella loro fruizione.

E chi deve garantire ciò ai cittadini se non le nostre scuole e le nostre università? Occorre cioè garantire proprio attraverso la scuola e  proprio attraverso il disegno di una società che  sia, non educante, ma diffusamente educativa,  che i linguaggi della società della conoscenza,  quelli orali e scritti,  quelli gestuali e  mediatici, elettronici, etici e bioetici, ecc siano alla portata di tutti e di ognuno.

Ecco perché la scuola di oggi deve tornare a compiere una rivoluzione copernicana, ricollocando al centro della sua scena non più l’alunno attivo del puerocentrismo, ma l’alunno intelligente, che torna a pensare, conoscere, e comprendere.

Di fronte all’incertezza delle nuove sfide a cui impegna la cittadinanza planetaria, mi sembrano queste le armi della certezza con cui attrezzare le nostre ragazze ei nostri ragazzi di oggi, perché domani possano praticare non la cittadinanza di tanti stati nazione tra loro divisi, ma la cittadinanza di un unico intero stato pianeta.

*Intervento alla giornata di studio “Cantiere scuola” organizzata a Ferrara dal CIDI il 7 marzo 2008,

allora presentato con il titolo Cittadini del sapere: cittadini di un nuovo Umanesimo.


[1] G. Bocchi, M. Ceruti, Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004, pp.VII-VIII

[2] N. Longworth, Città che imparano, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, VII-VIII