Giovani e scuola che aria che tira

La fine della pandemia prometteva che l’aria sarebbe cambiata, meno viziata dai miasmi del passato. Invece tira aria di restaurazione. Sembra che i giovani siano minori, non perché più piccoli, ma perché “minus”, cioè meno dotati, meno dotati di noi adulti. Dove inizi e dove finisca la minore dotazione è tutto da stabilire. Intanto Frida Bollani Magoni a soli sedici anni suona la sua interpretazione dell’inno d’Italia alla presenza del Presidente della Repubblica e il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, rivendica il voto ai sedicenni.

Eppure c’è sempre qualche adulto che sente il bisogno di dare una qualche lezione ai giovani, perché i loro modi di essere non combaciano con la sua cultura, con i modelli comportamentali introiettati. Così Chiara Saraceno concorda con la dirigente dell’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano che con circolare interna ha dettato il dress code a cui si devono attenere le sue studentesse e i suoi studenti.

Perché l’abito fa il monaco, ogni luogo ha il suo abbigliamento, in particolare le istituzioni come la scuola. Secondo la sociologa i giovani devono essere educati al rispetto che si deve ai professori e all’ambiente scolastico, e questo rispetto passa prima di tutto attraverso a come ti vesti. Pretendere di insegnare questo rispetto puzza sempre di accusa, di punitivismo nei confronti dei minori, preoccupa perché denuncia le frustrazioni che nascono da un senso di impotenza comunicativa con i giovani, vuoto che si pensa di colmare dettando le regole, le norme, i principi di normalità a cui attenersi, gli unici accettati per essere ammessi nei santuari del sapere. Come ti devi regolare se vuoi vivere in un mondo in cui ci sono anche gli adulti con le loro pretese. Puzzano di rivincita sui patimenti subiti negli anni della propria adolescenza per via dei soprusi del mondo adulto. Semmai si condannano quei soprusi, ma non il rispetto di quelle, che nonostante la rivoluzione dei costumi, si continua a considerare buone regole, abitudini da inculcare, la buona educazione del tempo che fu. Le ragazze acqua e sapone e grembiule nero, i ragazzi giacca, cravatta, scarpe lucide e capelli corti. Pensavamo di essere riusciti ad andare oltre, ma pare che ora si esageri ed è dunque necessario tirare il freno. Spuntano le mutande dai jeans, alcune magliette e braghe pare lascino trasparire troppo del giovane corpo che le indossa, poi ora ci sono i piercing, che sono ammessi solo se all’orecchio, per non parlare dei tatuaggi, delle  scritte insidiose su magliette e felpe. Poi la scuola non è una spiaggia, niente infradito e occhiali da sole, a meno che lo ordini il medico. 

Se si consultano i siti delle scuole nostrane, come quelle del mondo, i dress code sembrano copiati gli uni dagli altri. Dunque milioni di studenti dagli Usa all’Arabia, dall’Europa all’Australia hanno bisogno di essere educati all’abbigliamento, cosa è consono e cosa non lo è a seconda dei luoghi, a partire dalla scuola. Qualcuno l’ha risolto da tempo con le divise del college, che pure inculcano un senso di appartenenza e di identità, altri restano affezionati al grembiule delle elementari con nastro rosa per le bimbe e azzurro per i bimbi, addirittura l’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano indica ai genitori dove andarli a comprare, in modo da essere sicuri di rispettare il dress code della scuola.

Siamo sempre alla solita questione, quando l’istituzione non sa accogliere e dialogare, creare un clima di parità e di intesa nel rispetto delle differenze si ricorre a proibire, a scrivere regole e catechismi, anziché contaminarsi, capirsi reciprocamente, assegnare valore ai luoghi e a quello che in quei luoghi si fa e si vive insieme. Non accade in famiglia, non accade a scuola e la scorciatoia che solleva gli adulti da ogni responsabilità è scaricare sulle spalle dei giovani un bel dress code in nome dell’autorità degli adulti e dell’inviolabilità sacra dell’istituzione.

Il problema è che abbigliarsi è un’esigenza e un’arte, è l’arte dell’identificazione, del ritrovare se stessi, dell’interpretare la vita, del comunicare il proprio tempo, il proprio mondo e se la scuola è luogo di socializzazione, e come tale viene vissuto, la socializzazione ha le sue regole e i suoi codici. E se una generazione ha un suo linguaggio perché dovrebbe lasciarlo fuori dalla porta della classe, lasciare una parte di sé fuori dalla scuola, essere a scuola sempre dimezzati. Così la scuola non è la vita, è una para-esistenza, quello che puoi indossare per strada, in famiglia, quando incontri i tuoi amici non va bene, può dare scandalo, distrarre l’attenzione dalle lezioni e dai compiti scolastici, può indurre pensieri carnali, attrazioni sessuali. Ma dove sta tutto questo se non nella mente patologicamente sospettosa di qualche adulto?

L’ossessione del dress code ha accompagnato anche la didattica a distanza, nel sospetto che qualche studente sotto il mezzobusto della webcam indossasse i pantaloni del pigiama, bermuda e le detestate infradito, una imperdonabile mancanza di rispetto nei confronti dell’istituzione seppure virtuale, perpetrata per di più clandestinamente. Il sospetto è che gli insegnanti non siano stati da meno.

A leggere Week Education, rivista statunitense online, si scopre che durante la pandemia la maggior parte degli insegnanti impegnati nella Dad ha vissuto come un vantaggio, in un periodo particolarmente stressante, potersi disinteressare dell’abbigliamento dalla cintola in giù. Ora per ridurre lo stress dovuto alla ripresa della didattica in presenza agli insegnanti di un distretto scolastico del Missouri è stato consentito di continuare a vestirsi in modo casual.

Negli Usa i codici di abbigliamento degli insegnanti non sono una novità. Un contratto dei dipendenti della Ohio Education Association, datato 1923 e rivolto esclusivamente alle insegnanti vietava i colori vivaci o di tingersi i capelli, richiedeva di indossare “almeno due sottovesti” e abiti non più di due pollici sopra la caviglia. I tempi sono cambiati ma non mancano i ritorni di fiamma.

Nel 2018, We Are Teachers ha compilato un codice di abbigliamento per insegnanti con quattordici regole, tra le quali il divieto di indossare jeans e scarpe da ginnastica.

Fortunatamente a calare il sipario sulla assurdità di tutto questo ci hanno pensato gli insegnanti spagnoli del movimento “La Ropa non Tiene Genero”.

Dal 2020 sempre più alto si è fatto il numero dei docenti che hanno scelto di accantonare l’uso dei pantaloni in classe durante le lezioni per combattere gli stereotipi di genere e per sostenere Mikel Gómez, lo studente cacciato da scuola per essersi recato in aula con una gonna.

Invece noi siamo il paese in cui, mentre in parlamento si discute il disegno di legge Zan contro pregiudizi e stereotipi di genere, ci si preoccupa di come le nostre studentesse e i nostri studenti si vestono per andare a scuola, senza rendersi conto di quanto rasentiamo il ridicolo e che le circolari sull’abbigliamento a scuola meriterebbero  di essere sepolte da una solenne risata.

Considerate le statistiche relative all’abbandono scolastico, sarei tentato di suggerire ai  presidi di usare lo slogan: “A scuola come ti pare purché tu ci venga per imparare”. 

L’impressione però è che a scuola tiri una brutta aria, un’aria di reazione e di ostilità nei confronti dei giovani, allarma il post di un docente su Facebook che esalta il suo consiglio di  classe perché allo scrutinio di fine anno su 25 alunni ne ha promossi solo quattro, tutti gli altri respinti o con il giudizio sospeso. Inquietante perché quel docente anziché inorgoglirsi dovrebbe preoccuparsi seriamente del fallimento professionale suo e di un’intero consiglio di classe.

Dovremmo essere vicini ai nostri giovani, invece crescono gli atteggiamenti pedagogicamente punitivi, che celano sempre frustrazioni e un patologico bisogno di rivincita. 

“Cambiamo strada” è il titolo dell’ultimo libro del filosofo francese Edgar Morin, nello stesso tempo un invito. Ci avverte del pericolo di un grande processo regressivo che viene da lontano, ancora prima della crisi del virus e che si accentuerà nel post-epidemia. Il timore più grande è che questo processo regressivo, già in corso nel primo ventennio di questo secolo, possa avere varcato anche le porte delle nostre scuole.

Le linee guida che portano fuori strada*

Stop

Tanto tuonò che piovve, pare abbia detto imperturbato Socrate dopo che sua moglie Santippe gli rovesciò sul capo una brocca d’acqua.

Con altrettanta imperturbabilità accogliamo le linee guida che la ministra Azzolina ha licenziato per l’avvio del prossimo anno scolastico con tavoli e Conferenze a livello regionale e locale.

I tempi non sono stati rapidi, ma dopo comitati tecnico scientifici e task force il ministero dell’istruzione il 26 giugno ha deliberato che  tavoli e conferenze andavano convocati.

Di più, la Ministra con la sua lettera a tutta la comunità scolastica assicura che: “La scuola di settembre sarà responsabile, flessibile, aperta, rinnovata, rafforzata.”

Sì, avete letto bene, cinque aggettivi qualificativi, uno dietro all’altro di fila: responsabile, flessibile, aperta, rinnovata, rafforzata.

Incredibile, dopo mesi di lockdown, di didattica a distanza, nel giro dell’estate, a settembre il paese su tutto il suo territorio avrà una scuola che non ha mai conosciuto prima. O questi hanno lavorato duro per tutti i mesi di chiusura forzata delle scuole o al ministero di viale Trastevere sono dei veri Mandrake a partire dalla loro ministra.

Di colpo scomparsi i ritardi cronici del nostro sistema formativo, anni di tagli e assenze di risorse, differenze tra nord e sud. 

Poi a leggere di seguito capite subito che non poteva essere. Perché la ministra per “responsabile” intende misure di sicurezza, locali puliti e igienizzati, “flessibile” per via degli orari, delle classi, degli ingressi e delle uscite, “aperta” significa alla ricerca di nuovi spazi, per “rinnovata” si riferisce ai locali e agli arredi scolastici, “rafforzata” attraverso il potenziamento dell’organico scolastico.

Allora perché sprecare aggettivi così impegnativi che si prestano ad essere usati più per il contenuto dell’apprendimento e le sue modalità che per il suo contenitore. È come un abito che ha bisogno di essere rovesciato, di aggiustamenti e abbellimenti per poter continuare ad essere portato, ma per chi lo indossa nulla cambia, il tessuto è sempre quello di prima.

È la solita strategia a cui ci stanno assuefacendo, mancano i soldi, le idee e le competenze, ma non le parole roboanti con cui coprire il vuoto. Ha ragione Antonio Scurati che, sulle pagine del Corriere della Sera del 30 giugno, osserva come la pubblicazione delle linee guida, per il rientro in aula il 14 settembre , “ha raggiunto il colmo di una sequenza di incompetenze e incapacità”.

Non solo, c’è di peggio. Ad un occhio attento che non si lasci offuscare dal fumo delle parole non può sfuggire che con quelle linee guida si compie un cambio di prospettiva. Nel loro esordio, infatti, non si rivolgono al paese ma a “…un’intera comunità educante, intesa come insieme di portatori di interesse della scuola e del territorio…”

Alla “comunità educante” e ai “portatori di interesse”, gli stakeholder, come si usa dire con linguaggio anglofono. Viene da chiedersi cosa sono e dove sono le comunità educanti e i portatori d’interesse. O è il cedimento ad un lessico ormai abusato, con faciloneria e senza pesare il senso delle parole o la “comunità educante e i suoi portatori di interesse”, che per forza di cose variano da realtà a realtà, rappresenta una curvatura pensata e studiata verso l’autonomia differenziata, verso lo spezzatino della scuola della Repubblica e della Costituzione.

Un paese che rinuncia ad avere un suo sistema formativo valido per tutto il territorio per delegare l’istruzione a tante comunità educanti, e, mentre si cita a difesa delle proprie argomentazioni l’art. 3 della Costituzione, non ci si rende conto di compiere passi destinati a vanificarlo.

Quella comunità educante nasconde una preoccupante angustia di prospettiva, un’autarchia da fai da te dell’educazione, vanifica il respiro europeo che da decenni  istruzione e formazione dovrebbero avere assunto nel nostro paese.

Ci si è dimenticati, se mai è stato letto, del Libro Bianco che la Commissione europea pubblicò 25 anni fa, giusto nel 1995, in cui si affermava un concetto  nuovo di formazione, in particolare alla funzione di “educazione” si sostituiva quella di “apprendimento continuo”, non comunità educanti ma “società della conoscenza”, fondate sull’apprendimento permanente come impianto dei loro sistemi formativi a partire dalle scuole, dai loro curricoli e dalla loro organizzazione.

Scrive Scurati che per la scuola dei nostri figli pretendiamo il meglio. Certo, è il paese che innanzitutto dovrebbe pretenderlo, ma la questione del sistema formativo pare del tutto scomparsa dal nostro orizzonte concettuale e politico. 

La scuola delle linee guida non vede oltre il prossimo anno scolastico come se la questione riguardasse la sola contingenza del Corona virus. 

Il paese pare ancora sotto l’anestesia del lungo lockdown, con un letargo del pensiero e della politica, quando ci scuoteremo comprenderemo che se vogliamo recuperare venticinque anni di ritardi anche il nostro sistema formativo, vecchio di secoli nel suo impianto, ha necessità del suo Mes o comunque di una cifra almeno equivalente del Recovery fund. 

Ma perché questo possa accadere bisognerebbe realizzare il sogno che Scurati, sulle pagine del Corriere della Sera, dice di aver fatto: “Il sogno che a governare la disastrata scuola italiana ci sia una persona seria, competente, capace, una guida sicura, brillante, eccellente, una persona cui tutti noi affideremmo volentieri il futuro dei nostri figli con piena fiducia, giusta ammirazione, motivata speranza”.

Già questo potrebbe costituire il segnale di una inversione di tendenza, un promettente inizio e ci eviterebbe di finire fuori strada.

*Pubblicato anche su Educazione e Scuola

Lev S. Vygotskij: Le vie dell’uomo verso la libertà e l’individualità*

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Introduzione

Ho incontrato Vygotskij agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, la collana “Paideia” degli Editori Riuniti ne pubblicava due opere: Lo sviluppo psichico del bambino, con l’introduzione di Leontjev e cenni bio-bibliografici a cura, già allora, di Luciano Mecacci, Immaginazione e creatività nell’età infantile, con la prefazione di Alberto Alberti, in fine il libro di Lurija Linguaggio e comportamento.

Poi nel 1976 Vygotskij approda alle edizioni Giunti con la pubblicazione di Pensiero e Linguaggio” nella collana di psicologia scientifica diretta, tra gli altri, da Guido Petter. L’iniziativa è di Angela Massucco Costa, ordinario di psicologia sperimentale all’università di Torino, che ne cura anche l’edizione, con l’introduzione di Bruner. 

Gli anni ’70-’80 segnano l’esplosione d’interesse in Italia per il pedologo russo. La pedologia, censurata dal regime sovietico, comprende biologia, pediatria, psicologia, pedagogia, qualcosa come le scienze dell’educazione. Per Vygotskij è la riorganizzazione delle funzioni psichiche sotto l’influenza dei fattori sociali e culturali.

All’indomani del crollo del muro di Berlino, dopo la caduta del regime sovietico, viene meno la censura nei confronti delle opere di Vygotskij, si scoprono i suoi taccuini, opere inedite, la figlia Gita ne pubblica la biografia. Un po’ in tutto il mondo si riaccende l’interesse per lo psicologo russo.

Così non accade in Italia, nonostante sia italiano il maggior studioso di Vygotskij, Luciano Mecacci, che ha lavorato con Lurija nell’Istituto di Psicologia di Mosca dove lo stesso Vygotskij condusse le sue ricerche.

Sarebbe interessante indagare le ragioni di questa diserzione tutta italiana, certamente crisi della cultura e crisi dell’insegnamento vanno di pari passo. Da tempo manca nel nostro paese una riflessione seria sulla cultura necessaria alla scuola, in una scuola che si è andata sempre più avvitando su se stessa in questioni di cattedre e di precariato.

Può essere che abbia inciso, come ha osservato Alain Goussot, la profonda crisi della cultura marxista italiana, anche nella sua versione gramsciana. Ma non ne sono convinto, perché l’opera di Vygotskij va ben oltre ogni confine riduttivamente culturale.

È più credibile il perdurare di una opzione cognitivista ancora prevalente nell’ambito dell’insegnamento/apprendimento.

Il cognitivismo c’entra senz’altro. Perché l’edizione della Giunti di Pensiero e linguaggio, altro non era che la traduzione dall’edizione americana del 1962, ossia la vulgata vygotskijana che ne aveva fatto la scuola cognitivista, a cui aveva contribuito anche la censura del regime sovietico.

Ciò nonostante Pensiero e linguaggio è, in quegli anni, l’incontro con due idee fondanti  del pensiero di Vygotskij.

La polemica con la psicologia accademica, la psicologia clinica dell’epoca, sovietica e non. Polemica che passa attraverso il confronto con il grande ginevrino, con Piaget e la sua epistemologia genetica che tagliava fuori dallo sviluppo individuale il contesto sociale e culturale. 

E la grande intuizione della “zona dello sviluppo prossimo”, che prelude all’acquisizione delle funzioni superiori. Il passaggio da una funzione superiore all’altra reso possibile dalla mediazione dell’adulto. L’idea che l’attenzione al bambino durante il processo di apprendimento e l’intelligenza dell’adulto possono portare a superare ogni difficoltà, che a scuola nessuno deve rimanere indietro. Quell’idea che Bruner tradurrà nell’affermazione che è possibile insegnare qualunque cosa a qualunque età, purché lo si sappia fare, ma è questione come diremmo oggi di ambiente di apprendimento.

Questa  la vulgata cognitivista del contributo vygotskijano, importante, ma troppo poco. Perché non coglie quale materiale può offrire alla nostra riflessione leggere più in profondità gli spartiti di questo giovane Mozart della psicologia. Di questa “voce che emerge dal futuro”. Ora quel futuro siamo noi, e nostro è il compito di provare a interpretarla.

La Tragedia di Amleto

Vygotskij è il fondatore della scuola storico-culturale nell’ambito delle correnti psicologiche. Sostiene che la nostra psiche non è prodotto solo dell’evoluzione animale, ma è divenuta sempre più complessa sotto l’influenza dei fattori storici, sociali, culturali, e questo è un processo in continuo sviluppo.

La molla di questo sviluppo è il linguaggio. In particolare la “parola” che costituisce l’elemento mediatore tra il sé e il fuori di sé, tra il me e l’altro da me, proprio perché Mythos, vale a dire racconto, narrazione della storia e della cultura del nostro ambiente di vita che finisce per modellare la nostra mente.

È la parola l’attore principale delle relazioni interpsichiche, (madre-bambino,  insegnante-alunno, ma non solo) che producono l’intrapsichico, fino alla formazione delle  funzioni superiori della mente.

L’Amleto di Shakespear, può essere connotato come la tragedia della “parola”. La parola che segna l’essere, la parola che si fa dramma, cioè azione.

Vygotskij assorbe la passione per la letteratura e per il teatro dal cugino David, critico letterario e traduttore. Nel 1916, a neppure vent’anni, scrive il saggio “La tragedia di Amleto” e più tardi, nel 1925, presenterà come dissertazione di dottorato “Psicologia dell’arte”.

Forse non era nelle intenzioni di Vygotskij, ma è difficile per noi che siamo venuti dopo non cogliere un nesso con lo sviluppo che prenderanno le sue ricerche. Pensiero e linguaggio segnano il destino del principe di Danimarca.

Il destino che si impossessa della sua mente attraverso le parole del fantasma del padre. Quell’interpsichico tra figlio e genitore sui bastioni del castello di Elsinore che decide l’intrapsichico del personaggio, la sua mente, il suo modo di pensare.

Ricordati? Sì, sventurata anima, finché la memoria durerà in questo abominevole mondo. Ricordati? Sì, dalle tavole del mio pensiero sbandirò tutte le frivole memorie dell’amore, tutti i precetti dei libri, tutti i vestigi, tutte le impressioni del passato, incise in esse dalla gioventù e dall’osservazione…” (W. Shakespeare, Amleto, Atto I, Scena V)

La parola per Vygotskij non è la parola profetica dell’incipit del Vangelo di Giovanni “All’inizio era il verbo”, ma la parola che si fa cultura, la parola che agisce su di noi, che entra dentro di noi e che agendo determina la coscienza e le funzioni superiori della mente.

La parola da cui prendo, apprendo, ritengo nella mente, che produce  le tavole del mio pensiero”. La cognizione che per Vygotskij è coscienza: ossia conoscenza che agisce e fa agire.

La parola che è azione, riprendendo dal Faust di Goethe: “All’inizio era azione”. La parola è, dunque, il nostro daimon, l’intermediario tra noi e la realtà, tra noi e la cultura.

“Le parole che ci salvano” per dirla con Eugenio Borgna, che ci consentono di rientrare in noi stessi. 

La grandezza di Vygotskij sta qui, nell’aver ricondotto alla parola la costruzione del sé. 

A conclusione di Pensiero e linguaggio Vygotskij annota che il rapporto tra il pensiero e le parole è un rapporto né originario né dato una volta per tutte, è legame che compare nel corso dello sviluppo e si sviluppa esso stesso.

Vygotskij ci pone di fronte al nesso tra cultura e mente, dove la parola è il mediatore simbolico tra il biologico e il sociale, è ciò che ci trasforma da biotipo a sociotipo.

Ammetto che se lo studio delle lingue fosse solo lo studio delle parole, cioè delle figure o dei suoni che le esprimono, potrebbe essere adatto ai bambini. Ma le lingue, cambiando i segni, modificano anche le idee che i segni rappresentano. Le teste si formano col linguaggio, i pensieri prendono la tinta degli idiomi. Solo la ragione è comune, la mente ha in ogni lingua la sua forma particolare.” (J.J. Rousseau, Émile o Dell’Educazione)

Non è Vygotskij, ma Rousseau due secoli prima. Le parole sono la materia prima di cui sono fatti i nostri pensieri, la materia prima che combina la nostra mente.

La vita è parola, racconto e azione: Mythos e dramma.

Nel pensiero di Vygotskij c’è Spinoza. Lo cita in epigrafe a “Psicologia dell’arte”. Con il filosofo olandese si confronterà per tutta la sua breve vita. Pensiero e realtà coincidono essendo l’essenza dell’esistenza.

Montaigne annota: “La parola è metà di chi la dice, metà di chi l’ascolta”.

Per Ludwig Wittgenstein: “I confini del mio linguaggio determinano i confini del mio mondo. Il che significa che tanto più si arricchisce il mio linguaggio, tanto più aumenta la mia possibilità di fare esperienza del mondo.”

“Noi pensiamo per lo più in parole. Ma tutte le parole appartengono a lingue specifiche che sono i prodotti di culture specifiche”, scrive Isaiah Berlin nel suo “Il legno storto dell’umanità”.

Per Antonio Damasio, autore di “Lo strano ordine delle cose”, “La traccia verbale è una delle fonti della componente narrativa della mente umana, e nella maggior parte di noi potrebbe essere addirittura l’elemento base della sua organizzazione.”

Benjamin definì Vygotskij come uno studioso dell’origine del linguaggio, collocando il suo pensiero in una prospettiva assai diversa rispetto a molti degli stereotipi che poi gli furono attribuiti.

Il linguaggio è il più importante mediatore socio-culturale nella costruzione dell’identità. Vygotskij rivendica alla sua psicologia di essere la psicologia delle vette in contrasto con la freudiana psicologia del profondo.

La formazione della coscienza

Il punto di partenza della teoria di Vygotskij è il problema della coscienza, come fenomeno distintivo della vita psichica umana rispetto alle altre specie animali. Il saggio La conoscenza come problema della psicologia del comportamento, del 1925, è considerato  il manifesto della teoria storico-culturale.

L’origine sociale della coscienza, attraverso la parola. La fonte del comportamento sociale e della coscienza sta nel linguaggio.

In questo consiste il “dramma vivente del pensiero” o il “dramma dello sviluppo” che raccoglie in unica sintesi  le espressioni più diverse dell’attività mentale.

Vygotskij ritiene che la psicologia debba liberarsi da una sorta di “cattività biologica”, per scoprire il ruolo dell’adattamento all’ambiente, e, più in generale, dei processi educativi nell’ambito dello sviluppo.

Nel saggio citato Vygotskij distingue tre tipi di esperienza che sono propri della specie umana:

“L’esperienza storica”, costituisce il patrimonio di partenza, il contesto storico, sociale e culturale entro il quale matura lo sviluppo psichico del bambino, il futuro adulto (è una macrodimensione come l’essere nati nel Medioevo o nell’Ottocento).

 “L’esperienza sociale”, riguarda il patrimonio di conoscenze che è posseduto dalle persone in un dato contesto ed è trasmesso ad altri, il bambino si appropria dell’esperienza sociale degli adulti, in particolare dei genitori e degli insegnanti.

“L’esperienza raddoppiata” è relativa al patrimonio di conoscenze individuali che la singola persona mette in atto nella sua vita quotidiana, trasferendole dal piano mentale a quello pratico. È il livello di attività mentale e comportamentale esemplificato dalla differenza tra il ragno e l’ape, da una parte, e l’architetto e il tessitore dall’altra, secondo l’esempio ripreso da Marx.

Il sociale irrompe nello psichico e lo psichico interagisce col corporeo. Maturazione del cervello, interazione con l’ambiente, evoluzione delle funzioni cerebrali e sviluppo delle funzioni psichiche sono strettamente connesse.

Diventiamo noi stessi attraverso gli altri. La cultura è il prodotto della vita sociale e dell’attività collettiva dell’uomo.

Vygotskij ne trova l’esemplificazione nel dipinto di Leonardo da Vinci Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino, espressione della sua teoria storico-culturale, della narrazione che trascorre da una generazione a un’altra e costruisce la nostra coscienza. Lo stesso che Freud nel 1910 analizza nel saggio Un ricordo di infanzia di Leonardo Da Vinci per spiegare le radici dell’omosessualità del suo autore.

La madonna e sant'anna

“La funzione psicologica originaria della parola è una funzione sociale, e, se desideriamo indagare come funziona la parola nel comportamento della persona, dobbiamo studiare dapprima come essa ha operato nell’ambito del comportamento sociale degli uomini. […] Potremmo dire che diventiamo noi stessi attraverso gli altri, e che tale regola si riferisce non solo alla personalità nel suo complesso, ma anche alla storia di ogni singola funzione. In questo sta la sostanza del processo dello sviluppo culturale.” (Lev S. Vygotskij, Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori)

Qui sta il rifiuto di considerare i processi mentali superiori come l’esito di processi naturali, di innate proprietà del cervello, ognuno legato ad una singola zona della corteccia cerebrale.

È la “concezione storica” che Vygotskij contrappone alla psicologia accademica, clinica, da laboratorio.

L’origine dei processi mentali più elevati doveva essere cercata al di fuori dell’organismo umano, nella “storia sociale”, nello sviluppo e nell’uso degli strumenti, ma soprattutto nella formazione del linguaggio.

Vygotskij ci pone di fronte alle nostre responsabilità, di società, di cultura, di epoca additando il primato del sociale e del culturale sul biologico e sullo psicologico. Segnalando lo sviluppo culturale del comportamento.

La cultura crea forme particolari di comportamenti; essa muta il tipo stesso dell’attività delle funzioni psichiche, innalza nuovi piani nel sistema in sviluppo del comportamento umano.

Vygotskij  pone al centro il problema fondamentale: quello della persona e del suo sviluppo, della sua biografia. 

L’apprendimento

Per Vygotskij a scuola non si apprendono soltanto nuovi concetti e nozioni, ma si riorganizzano continuamente le proprie funzioni psichiche attraverso i due processi fondamentali della presa di coscienza  e della padronanza.

In particolare, introduce il concetto di “germinazione”, la scuola come luogo di semine e di fioriture.

“Se il bambino nel processo di apprendimento forma una qualche struttura…gli abbiamo dato possibilità ancora più grandi nel campo di altre strutture […] Un solo passo nell’apprendimento può significare cento passi nello sviluppo.” (Vygotskij, Pensiero e linguaggio)

La scuola è il luogo dove attraverso il processo di insegnamento/apprendimento si sviluppano le funzioni psichiche superiori, perché ogni funzione psichica superiore prima si sviluppa nelle relazioni sociali e solo in seguito viene interiorizzata dall’individuo.

La preoccupazione del pedagogo non deve consistere soltanto nel fatto che gli allievi riflettano e apprendano la geografia, ma anche che la “sentano”. Spesso però ciò non avviene e l’insegnamento con una sfumatura emotiva è raro […]. Si può imprimere solo quel sapere che è passato attraverso il sentimento dell’alunno. Tutto il resto è sapere morto.” (L. S. Vygotskij, Psicologia pedagogica, 1926)

“Il concetto di fondo è molto semplice: ai sentimenti non viene attribuita l’importanza che effettivamente hanno quali ispiratori, supervisori e mediatori dell’impresa culturale umana. […] In sostanza, la mia idea è che l’attività culturale abbia avuto inizio dal sentimento e che rimanga profondamente immersa in esso.” (Antonio Damasio, Lo strano ordine delle cose).

Ogni volta che un apprendimento specifico risulta  significativo esso si riflette sullo sviluppo delle funzioni superiori della mente.

Per Vygotskij lo sviluppo è processo trasversale, non riferibile alle singole materie; egli infatti ci parla di “una rete interna sotterranea di processi” che risuonano a vicenda l’uno nell’altro. Ogni nuova forma appresa nel processo di conoscenza risuona nelle altre forme, modificandole, nelle funzioni mentali superiori. Non una interdisciplinarità tutta interna alle discipline, ma tale da produrre i processi relazionali e interattivi della mente.

«Ogni forma dell’esperienza culturale non è semplicemente esterna […] è possibile dimostrare che l’apprendimento delle quattro operazioni si verifica come «un processo di sviluppo», in quanto l’esperienza interagisce in continuazione con le «forme a priori» del soggetto e le modifica: si tratta, anche in questo caso, del «dramma dello sviluppo». (L.S. Vygotskij, op. cit.)

Qui, in particolare si afferma il «dramma vivente del pensiero», come normale funzione della vita quotidiana, intesa come sintesi dinamica di una stratificazione di codici. 

Vygotskij intende il sociale e l’apprendimento come punto di partenza per mettere in atto la complessa dialettica della stratificazione della mente, ma il punto di arrivo di questo processo di formazione non sta completamente all’interno del gruppo, ma sta in quelle vie dell’uomo verso la libertà e l’individualità colte da Bruner. 

Il problema consiste infatti nel formare dei «privati pensanti», che hanno ben attuato lo sviluppo delle funzioni psichiche, affettive e intellettuali, ma hanno anche maturato un laico distacco dal contesto culturale in cui peraltro vivono, condividendone i valori. Il «cammino verso l’alto», verso le vette comporta questa dimensione individuale, attiva e critica. 

È assai ingenuo dare al termine “sociale” il senso di “collettivo”, quello cioè della presenza di una moltitudine di persone. La socialità è anche là dove c’è un uomo solo, con le sue personali vicissitudini interiori. […] Le cose non vanno davvero secondo il modello immaginato dalla teoria del contagio, per cui il sentimento sorto in un individuo contagerebbe gli altri e diventerebbe sociale”. (L. S. Vygotskij, op. cit.) 

Il processo di sviluppo individuale o ontogenetico è fondato sul processo di interiorizzazione di mezzi forniti dall’ambiente socio-culturale e quell’ambiente socio-culturale è la scuola. Per Vygotskij, dunque, l’educazione è l’ingresso della cultura nella mente. La cultura forma la mente. 

Il rapporto tra pensiero e linguaggio, liberato dal determinismo filogenetico piagetiano, per riportarlo all’essenza, all’ontologia delle biografie personali e ai contesti culturali di crescita.

Compito della scuola non è educare. Vygotskij ha letto Ellen Key, scrittrice svedese, precorritrice della Montessori. Agli albori del secolo scorso, nel 1906 pubblica Il secolo del fanciullo, che ebbe enorme successo anche in Italia, in cui scriveva “Il vero segreto dell’educazione consiste nel non educare”.

“Abbiamo già rinunciato al pregiudizio per cui il maestro deve educare. Siamo lontani da questo punto di vista come da quello per cui l’uomo deve portare su di sé il suo fardello. In questo senso ha profondamente ragione Key, quando dice che il vero segreto dell’educazione sta nel non educare.” (L. S. Vygotskij, op. cit.)

Anzi la scuola deve essere il luogo in cui uscire dalle gabbie dell’educazione per “forzare le gabbie mentali” per dirla con Nietzsche.

La scuola deve tornare ad essere il luogo dei “temerari della ricerca” dove si compie il lungo cammino per diventare se stessi. Perché è questa l’essenza della cultura. Ognuno è “un unicum” irripetibile nella storia. 

La responsabilità della scuola è formare le menti, di più delle teste ben fatte di Edgard Morin, con la responsabilità più alta e più complessa di fornire  il materiale necessario allo sviluppo della psiche, alla strutturazione delle funzioni superiori della mente, il luogo dove biologico e sociale interagiscono, concretamente, dove pensiero, corpo ed emozioni si incontrano nell’esperienza della cultura e dei saperi, non per essere depositati nei magazzini della memoria ma per costituire l’impulso dinamico necessario alla costruzione delle strutture funzionali della mente, dell’intelligenza, del genio di ciascuno.

Il luogo dove, per dirla semplicemente, “cervello e corpo sono nella stessa barca e insieme rendono possibile la mente.” (Antonio Damasio, op. cit.)

Un quadro completamente ribaltato rispetto a quelli che sono ancora oggi gli orizzonti delle pratiche e dell’organizzazione del nostro sistema formativo.

Sono orizzonti che sempre più ci avvicinano ai territori che vanno esplorando le neuroscienze, in questo senso Vygotskij ancora oggi continua ad essere una voce che viene dal futuro.

*Conferenza tenuta il 31 gennaio 2019 alla Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara