Non sparate a zero sul Docente Esperto

Si conosce poco circa il docente esperto spuntato durante la calura estiva tra le norme del decreto Aiuti bis. Si sa che saranno in tutto ottomila per quattro anni, per un totale di trentaduemila, che per diventare esperti occorre studiare per dieci anni e che al termine del percorso si riceverà un aumento stipendiale pensionabile. Pare che non sarà una nuova figura di sistema perché continuerà a esercitare la sua funzione docente.

La reazione del mondo della scuola a leggere petizioni, stampa e social è senza alcun dubbio di generale rigetto rispetto al trapianto che sembrerebbe nelle intenzioni del ministero, per cui non si comprende come sia possibile produrre un rinnovamento, se tale era nelle intenzioni governative, senza il coinvolgimento dei diretti interessati, vale a dire gli insegnanti.

Compulsando internet ho scoperto che l’idea del docente esperto non è nuova, qualcuno ci ha già pensato da tempo e siccome ormai nulla è novità, se non assume un brand anglosassone, si tratta dei corsi di formazione e-learning con esame in presenza per  acquisire la qualifica di Expert Teacher organizzati dall’Erickson in collaborazione con la UIL, Università Telematica  degli Studi, e con lANPA, associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola.

In cuor mio confidavo che ci fosse un nesso tra l’iniziativa del ministro e l’offerta dell’Erickson, un nesso che avrebbe aiutato a fornire un senso all’evanescente figura scaturita dal decreto Aiuti bis. Non pensavo a nulla che non fosse più che legittimo e trasparente, ma evidentemente, indubbiamente per causa mia, ho suscitato con un mio articolo la sensibilità degli ideatori e promotori dell’Expert Teacher, della qualcosa mi dolgo pubblicamente.

Tuttavia di fronte all’alzo zero con il quale pare sarà impallinata la proposta del docente esperto mi rimangono aperti tutti i miei interrogativi.

Siamo tutti convinti che il nostro sistema scolastico necessita di una rifondazione radicale? Che il differenziale fra noi e gli altri Paesi è cresciuto anche perché non abbiamo saputo pensare al nostro sistema scolastico in termini moderni, un sistema scolastico che accusa una crisi profonda nei suoi moduli organizzativi, nelle sue strutture organizzative, nella formazione dei suoi docenti.

Che la scuola è una grande questione nazionale che deve essere affrontata con grandissima lungimiranza e fortissimo impegno, perché un paese e una comunità vivono del futuro che sanno preparare ai loro giovani, ragazze e ragazzi.

L’ultimo rapporto dell’Unesco sollecita un nuovo contratto sociale per l’istruzione al cui centro siano gli insegnanti e la loro professione rivalutata e reimmaginata come uno sforzo collaborativo che stimola nuove conoscenze per realizzare una trasformazione educativa e sociale. Gli insegnanti hanno un ruolo unico da svolgere nella costruzione di un nuovo contratto sociale per l’istruzione. Per svolgere questo lavoro complesso, gli insegnanti hanno senza dubbio bisogno di comunità di insegnamento collaborative ricche, caratterizzate da ampi spazi di autonomia e da un generale sostegno. Sostenere l’autonomia, lo sviluppo e la collaborazione degli insegnanti è un’importante espressione di solidarietà pubblica per il futuro dell’istruzione.

Quando gli insegnanti sono riconosciuti come professionisti riflessivi e produttori di conoscenza, contribuiscono alla crescita dei corpi di conoscenza necessari per trasformare gli ambienti di apprendimento, le politiche, la ricerca e la pratica, all’interno e al di fuori della loro stessa professione.

Ma come incamminarsi verso tutto questo, che richiede tempo, pazienza, lungimiranza, investimenti nelle risorse umane?

Non sono certo sufficienti le petizioni di principio, le dichiarazioni di intenti, né le elocubrazioni sulla scuola che ognuno  vorrebbe.

Occorre scegliere, occorre scommettere, come sempre nella scuola.

Occorre decidere contro le resistenze al cambiamento dall’interno, e pure dall’esterno,  contro chi invoca il passato e accusa di tutti i mali il progressismo educativo. 

Bisogna decidere sapendo che la chiave del cambiamento sono gli insegnanti, coloro che ogni giorno lavorano nel rumore d’aula, che su di loro bisogna puntare e investire. Sapendo che non possiamo convincerli tutti e coinvolgerli tutti contemporaneamente, i mezzi al momento non ci sono e vanno rispettate le opinioni di ciascuno. Ma l’interesse della Scuola e del Paese, in particolare delle giovani generazioni, deve prevalere su ogni corporativismo e immobilismo.

Se la strategia è quella di intervenire sul versante della formazione e del reclutamento da un lato e dall’altro sulla riqualificazione di quote di personale in servizio, non mi sembra una strategia sbagliata e ritengo che valga la pena impegnarsi in questa direzione. 

Si avvierà  così un processo di innovazione dall’interno della scuola attraverso il ricambio di personale per via dell’avvicendamento tra i docenti che vanno in pensione e i neo assunti che avranno ricevuto una nuova formazione e quelli in servizio che nel frattempo avranno compiuto il percorso per essere riconosciuti come docenti esperti.

Da tutto questo si evincono due piani di intervento per riqualificare il nostro sistema formativo facendo leva sull’unica leva credibile: il coinvolgimento degli insegnanti, perché solo da loro dipende il destino del nostro sistema formativo. 

Intervenendo sui due fronti è credibile pensare che nel giro di dieci anni si possa realizzare già un profondo rinnovamento e una autentica riqualificazione della nostra scuola con un’efficacia e una capacità di centrare l’obiettivo che nessuna riforma del sistema potrebbe assicurare, starà poi alla politica accompagnare tempestivamente con lo strumento delle leggi le innovazioni che si produrranno nella nostra scuola per effetto del processo di riqualificazione del personale docente.

È indispensabile che questo processo veda il coinvolgimento e il protagonismo di altri soggetti irrinunciabili per la formazione dei docenti e il rinnovamento del nostro sistema formativo, dalle Università all’Indire, alle Avanguardie educative, all’associazionismo professionale degli insegnanti, ai centri studi e alle case editrici qualificate sul piano della didattica e della formazione professionale dei docenti. Un lavoro corale capace di far suonare le corde migliori del nostro sistema scolastico e dei nostri insegnanti.

Si scrive Docente Esperto si legge Expert Teacher*

L’articolo 38 del Decreto Aiuti bis, quello che introduce la figura del “docente esperto”, mica potevano scriverlo in inglese. Ma poiché nella quasi generalità dei paesi europei è d’obbligo la formazione professionale continua per chi insegna e circa la metà dei sistemi educativi prevede carriere strutturate per complessità di lavoro e responsabilità, viene spontaneo supporre che il profilo del docente esperto non sia un’invenzione ministeriale estemporanea prodotta dall’eccessiva calura estiva.

Occorre un po’ di pazienza, riflettere, essere creativi e siccome siamo globalizzati dall’italenglish ti viene di tradurre “docente esperto” e cercare in rete con l’ausilio di Google “Expert Teacher”. E il gioco è fatto perché cade immediatamente il velo di Maya, e comprendi quanto sei sciocco e sprovveduto, perché le cose sono come sempre figlie del rasoio di Occam e maledettamente italiane.

Scopri che Expert Teacher è il Master on line, con sessione finale in presenza, organizzato  dal Centro studi e casa editrice Erickson in collaborazione con la UIL, Università Telematica  degli Studi e con l’ANPA, associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola: 990 euro, scontati,  per 1500 ore e 60 CFU.

Di fronte alla figura del docente esperto la domanda che immediatamente mi è venuta spontanea è stata relativa al ruolo dell’INDIRE e delle Avanguardie educative da questi sostenute, istituzioni immagino costituite da docenti esperti, saranno riconosciuti come tali o dovranno anche loro compiere il percorso previsto dal decreto legge?

Ma non c’è fine alle scoperte perché al progetto di Master dell’Erickson partecipano anche l’INDIRE e l’Università di Firenze.

Le sorprese non terminano qui. Navigando nel sito dell’Erickson vieni a scoprire che il progetto Expert Teacher è curato e sviluppato da Laura Biancato, dirigente scolastica che ha lavorato presso il Ministero dell’Istruzione partecipando a diverse commissioni, in particolare alla stesura del piano nazionale Scuola Digitale.

A questo punto è difficile non immaginare che il Docente Esperto del ministro Patrizio Bianchi e l’Expert Teacher dell’Erickson-Biancato  siano parenti stretti.

Del resto l’obiettivo è comune. Non è certo quello di aprire la carriera docente a figure di sistema, perché se così fosse stato la strada era già in parte tracciata, non era necessario rovinarsi la vita con il rischio di vedersi rivoltare contro il corpo insegnante come già accadde più di vent’anni fa al ministro Luigi Berlinguer che partorì l’idea del “concorsone”.

No, la strategia del ministro, forse con la complicità dell’Erickson, è quella del cavallo di Troia, trentaduemila cavalli di Troia tra il 2033 e il 2036, nella consapevolezza che riformare la scuola richiede tempo, tanto tempo e che soprattutto ogni riforma dall’esterno è destinata a fallire, mentre la scuola si può solo rinnovare dall’interno, attraverso gli insegnanti, i trentaduemila cavalli di Troia, appunto, su cui investire. Del resto il secolo scorso ci ha insegnato che le uniche innovazioni che hanno consentito di migliorare il sistema formativo sono quelle nate sul campo dalle esperienze di grandi maestri come Montessori, Freinet, Lodi, Ciari, Lorenzo Milani.

Il Centro Studi Erickson presenta il proprio Master come una proposta formativa altamente professionalizzante per preparare docenti in grado di affrontare il cambiamento della scuola.

La scuola è un “bene comune” come ci ricorda anche l’ultimo rapporto dell’Unesco e in una società in costante evoluzione anche il profilo docente non può che essere dinamico, già lo sapevamo ma le resistenze al cambiamento dall’interno, e pure dall’esterno, quando si tratta di scuola sono prepotenti, è sempre il passato che viene invocato contro il progressismo che avrebbe alterato gli equilibri Casati-gentiliani del nostro sistema formativo.

La professione docente si è fatta sempre più complessa e anche questa è una banalità,  ma solo ora, perché l’Europa ce lo impone, con il Pnrr si affronta nell’arco di una prospettiva di dieci anni il problema della formazione docente. Non si specifica come, se non introducendo il profilo del docente esperto. 

Se è parente dell’Expert Teacher, l’Erickson specifica che la sua offerta formativa nasce da un progetto di ricerca che ha coinvolto oltre 200 insegnanti della scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado. Sono state così individuate quattro figure di “insegnanti esperti”. Progettano, organizzano, monitorano, valutano progetti estesi all’intero istituto, per contribuire a qualificare e innovare la scuola.

Ne è derivato addirittura un Syllabus, “Il Syllabus Expert Teacher per le competenze del docente innovativo” suddivise in tre aree fondamentali: Professione, Didattica, Organizzazione.

I corsi dell’Erickson sono chiaramente finalizzati al conseguimento del Master di I livello e al rilascio di 60 CFU necessari per essere assunti a scuola secondo la nuova normativa del reclutamento.

Ai Master è affiancata l’offerta di singoli Corsi di perfezionamento pensati come “palestre” con un project work finale per un totale di 500 ore e 20 CUF. Le palestre sono dedicate all’Innovazione della professione docente e alla Progettazione e valutazione nella scuola delle competenze.

Il prestigio del Centro Studi e della casa editrice Erickson non sono certo messi in discussione, indiscutibile il contributo dato in tutti questi anni ai temi dell’inclusione scolastica e al rinnovamento della didattica, in particolare del suo animatore il professor Dario Ianes.

Da tutto questo si evincono due piani di intervento per riqualificare il nostro sistema formativo facendo leva sull’unica leva credibile: il coinvolgimento degli insegnanti, perché solo da loro dipende il destino del nostro sistema formativo. 

Non so quale sia la strategia del ministro Bianchi, forse sarebbe il caso che ce la spiegasse, ma non sono portato a credere che ognuno viaggi per conto suo, anzi, credo che i piani convergano, uno finalizzato a formare i nuovi docenti, l’altro, quello ministeriale, che interviene sui docenti già in servizio, certamente quelli che potranno garantire una maggiore permanenza e non ovviamente quelli destinati ad andare in pensione negli ultimi dieci anni. Intervenendo sui due fronti è credibile pensare che nel giro di dieci anni si possa realizzare un profondo rinnovamento e una autentica riqualificazione della nostra scuola con un’efficacia e una capacità di centrare l’obiettivo che nessuna riforma del sistema potrebbe assicurare, starà poi alla politica accompagnare tempestivamente con lo strumento delle leggi le innovazioni che si produrranno nella nostra scuola per effetto del processo di riqualificazione del personale docente.

*N.B.

Erickson. Buonasera dott. Fioravanti, sono Francesco Zambotti, responsabile dell’Area Educazione di Erickson. L’articolo che mi trovo a commentare parte semplicemente da un assunto falso e anche irrealistico. Non c’è nessuna vicinanza nè tantomeno dialogo o accordo tra Erickson e il MIUR (la cosa mi fa anche sorridere sapendo la diffidenza che il Ministero ha nei confronti delle ditte private). È vero che il nome del docente esperto può richiamare Expert Teacher che è però un progetto del tutto diverso nei fondamenti e negli obiettivi, dalla proposta recente ministeriale e con molto anni alle spalle. Esiste da più di cinque anni e prevede sia il master che lei cita ma anche altre forme di formazione professionale. Se vuole conoscere meglio il progetto Expert Teacher la invito personalmente al nostro convegno Didattiche2022 a Rimini in novembre, ci saranno diversi momenti dedicati anche a Expert Teacher e più in generale spero di capisca che l’idea di innovazione inclusiva che Erickson propone , promuove e sostiene è un idea molto diversa dalla lotteria dell’incentivo economico individuale prevista nel recente DL. Venga a conoscere la profondità del syllabo di Expert Teacher e il lavoro di ricerca triennale che c’è stato alle spalle facendo dialogare mondo della ricerca, dirigenti, insegnanti e centro di formazione. Le assicuro che è un panorama molto diverso da quello previsto dal docente esperto. Se vorrà essere nostro ospite ci farà molto piacere.

Laura Biancato. Per quello che mi riguarda direttamente, visto che mi ha citata, si tratta di fantasie prive di qualsiasi fondamento, anzi del tutto opposte alla realtà. Sta di fatto che trovo diffamatorie alcune frasi come quelle che ipotizzano una combutta tra Erickson (vengo citata direttamente) e ministero, peraltro per impedire una vera carriera dei docenti che da decenni porto avanti come battaglia personale. Ho scritto diversi articoli e partecipato ad eventi anche di rilievo sempre con l’obiettivo di promuovere un cambiamento verso il middle management. Infatti, il profilo 3 di Expert Teacher era stato pensato nel 2017 proprio come prototipo del collaboratore del DS. In ogni caso, è veramente un paradosso che lei mi nomini co-fautrice di una disposizione (quella del docente esperto) che per me è intollerabile, che ho criticato in lungo in largo e che è l’opposto di ciò che (forse non l’ha approfondito bene…) promuove il progetto Expert Teacher.

Le mie fonti:

Expert Teacher https://www.erickson.it/it/expert-teacher/?gclid=Cj0KCQjwuuKXBhCRARIsAC-gM0hGxVIfMO3_z7wYSSRkL-PtoV11Jdl6o4-9zbbp4XQH_LVC7m4YH5gaAj3dEALw_wcB

https://www.linkedin.com/in/laura-biancato-a93a99139/?originalSubdomain=it

La scuola è sfinita

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Il problema della scuola è la scuola. Ma se la soluzione non è la descolarizzazione della società certamente è quella della descolarizzazione della scuola, salvare la scuola da se stessa. La Scuola è sfinita è l’ultimo lavoro di Maurizio Parodi pubblicato da La Meridiana di Bari.

Una scuola estenuata, esausta, una scuola che non sopporta o meglio non supporta più i suoi studenti per l’incompatibilità crescente tra loro  e il nostro sistema formativo.

Questa nostra scuola sarebbe perfetta se solo fosse senza gli studenti o per lo meno frequentata solo da quelli con essa compatibili, probabilmente tutti quelli che della scuola non avrebbero bisogno e che comunque la scuola non  riuscirebbe a rovinare.

È saltata la compatibilità con il suo sistema, la sua organizzazione, il suo funzionamento, se mai c’è stata. Ognuno al suo posto: le classi, gli insegnanti in cattedra, gli alunni dietro  ai banchi, gli orari che scandiscono gli ingressi e le uscite, il succedersi dei saperi impacchettati nelle singole materie, ora per ora, anno per anno, i compiti, i voti, le interrogazioni, tutto perfetto. Salvo che tutto giri senza intoppi, che tutto sia compatibile con il sistema, diversamente bisogna prevedere le integrazioni, i bisogni educativi speciali, le certificazioni e incominciano le entropie.

Non è una novità lo sappiamo da tempo, lo sanno da tempo tutti quegli insegnanti che ogni giorno lavorano con passione controcorrente, nonostante la scuoia, lavorano perché sentono il peso della responsabilità della loro relazione di adulti formati con ragazze e ragazzi che in quanto adolescenti ancora non sono adulti.

Se la scuola non funziona non è colpa delle nuove generazioni, la responsabilità è di una scuola vecchia di due secoli rimasta pressoché identica a se stessa, mai riformata perché mai deformata come la regola dei monaci Certosini. Un’istituzione totalizzante alla Foucault, come le caserme, le carceri, gli ospedali. Dove codici, norme, regole, prassi annullano le persone, le individualità, le differenze, per appiattirle, per omologarle, cosa grave quando si tratta di ragazze e ragazzi che devono crescere, per dirla con Gordon Childe devono creare se stessi.

Ma nessuno si gira a guardare indietro, a guardarci dentro a questa scuola, a farne l’ecografia  con spirito di osservazione ed esperienza sul campo come fa Maurizio Parodi che nella scuola ci ha messo la vita, vi è entrato a sei anni e come tanti di noi, dalla scuola non è più uscito. Con pensiero riflessivo scrive della quotidianità delle nostre scuole, delle liturgie che in esse si celebrano, dei loro riti come fossero chiese, in cui ogni giorno l’insegnante sale in cattedra come il sacerdote all’altare e gli alunni come i fedeli nei banchi ad assistere alla celebrazione con gesti e condotte stereotipate.

Alla diagnosi Parodi accompagna la terapia a base di ricostituenti pedagogici. 

Innanzitutto praticare lo sguardo ecologico per una “conversione ecologica” quella che ci ha insegnato Gregory Bateson con il suo Verso un’ecologia della mente. Una conversione ecologica mentale di chi pratica per mestiere la cultura e l’insegnamento. Un’ecologia scolastica nel senso di praticare l’ecologia degli ambienti di apprendimento. La capacità di rimettere in discussione i nostri costrutti mentali intorno alla scuola e ai processi di insegnamento/apprendimento. Come funziona il pensiero umano e come funziona la didattica scolastica non vanno d’accordo, non sono mai andati d’accordo. 

La conversione ecologica richiede una rieducazione del pensiero, nel nostro caso del pensiero intorno ai saperi, alla scienza, agli insegnamenti per come sono da sempre accreditati dalle nostre scuole nella loro parcellizzazione e frantumazione a partire dalla formazione dei docenti per finire  ai contenuti confezionati nei libri di testo dall’editoria scolastica.

In questo senso si deve parlare di una conversione ecologica delle nostre scuole per liberare i nostri sitemi formativi dai pregiudizi cognitivi su cui si reggono. 

Parodi li elenca con precisione a partire dalla convinzione che l’unico sapere autentico è  quello formale che si apprende a scuola. Per apprendere bisogna disporre di ambienti “asettici” come le aule dove il silenzio della classe e l’assenza di stimoli esterni enfatizzano il valore della lezione e della parola dell’insegnante. Varcata la soglia della scuola gli alunni sono tutti ugualmente ignoranti, tutti non diversamente competenti. L’insegnamento si caratterizza per segmenti di trasmissione delle conoscenze alla classe, prevalentemente attraverso la parola. Durante la lezione  le informazioni “transitano” dal docente-soggetto al discente-oggetto. La persistenza degli apprendimenti è proporzionale alla quantità di insegnamento, più si insegna più qualcosa resta. Così tanto più l’alunno ascolta, tanto più impara. Solo correggendo e facendo ripetere si possono ottenere risultati positivi. La conoscenza è frutto di studio, e lo studio può essere solo fatica, rinuncia, sacrificio. Quello che si fa a scuola non può essere piacevole, perché un’attività piacevole non può essere cognitivamente significativa e didatticamente apprezzabile. La memoria è fondamentale, infatti l’apprendimento consiste nella memorizzazione di nozioni e la conoscenza è il risultato di un processo lineare e cumulativo.  Ogni studente è responsabile dei suoi risultati perché la padronanza del sapere scolastico dipende, in massima parte, dalla volontà dello studente. 

Nonostante il nuovo millennio, l’evoluzione e la diffusione dei saperi e la conseguente  perdita di centralità da parte della scuola come unica detentrice del sapere, su simili convincimenti, occulti, inconsapevoli o meno continuano a basarsi i processi formativi dei nostri giovani nelle nostre scuole.

È possibile difendersi? È possibile guarirne? Parodi  indica con chiarezza la strada, la strada del professionista riflessivo, che dovrebbe essere chiunque lavora nella scuola, chiunque ha a che fare con le persone a prescindere dalla loro età, ragione di più se l’età è quella della crescita e della formazione.

È necessario avviare processi di autoanalisi, scrive Parodi, possibili solo laddove docenti e dirigenti dichiarino la propria disponibilità a mettersi in gioco, ad acquisire distacco critico verso la propria professionalità con lo scopo di innescare processi di cambiamento che coinvolgano tutti gli operatori scolastici.

Le aree su cui lavorare sono essenzialmente tre: l’area epistemologica-scientifica, l’area pedagogico-didattica, l’area etico-sociale, per ciascuna di queste aree Parodi fornisce gli indicatori di qualità ecologica per favorire la riflessione sul senso del fare scuola oggi.

Per questa scuola sfinita l’unica terapia possibile per vincere i propri morbi è la conversione ecologica del sistema e delle menti che vi lavorano, non servono psicoterapeuti ma una cultura nuova, una cultura metacognitiva, capace di ripensare radicalmente se stessa.

Non è la strada che pare sia stata intrapresa dai decisori politici, neppure da suoi operatori che sembrano sempre più innalzare baluardi in difesa della propria fortezza.

Ma la scuola ci dice in definitiva Parodi è la questione democratica per eccellenza, è una questione di trasparenza, di accountability, di bilancio sociale a cui non ci si può sottrarre a partire da chi opera al suo interno.

Scuola e democrazia camminano di pari passi ce l’ha insegnato Dewey più di un secolo fa, se viene meno la scuola per tutti viene meno la democrazia e in giro non mancano i teorici della scuola per pochi e della democrazia come una roba vecchia e costosa.

Le scuole parallele

Non c’è niente di più costituzionale dell’istruzione per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, eccetera, eccetera. È l’istruzione, dunque, che può fare la differenza. Eppure, nonostante il ministero dell’istruzione, di istruzione si parla poco nel nostro paese, come se l’istruzione fosse un accidente e su tutto dovesse prevalere l’educazione, che resta termine ambiguo e non identificato.

Lo Stato, invece, una sua idea di istruzione ce l’ha, avendo per dettato costituzionale (art. 117, com.1, lett. n) legislazione esclusiva relativamente alle norme generali dell’istruzione. Questa idea è addirittura prescrittiva ed organicamente sancita dalle Indicazioni Nazionali relative al Primo Ciclo e al Secondo Ciclo dell’Istruzione. 

Per fare solo un esempio il nostro Stato ritiene prescrittivo che al termine del primo ciclo di istruzione le nostre ragazze e i nostri ragazzi, in uscita dalla terza media, siano in grado di leggere testi letterari di vario tipo (narrativi, poetici, teatrali), di scrivere correttamente testi di tipo diverso (narrativo, descrittivo, espositivo, regolativo, argomentativo) adeguati a situazione, argomento, scopo, destinatario. Di produrre testi multimediali, utilizzando in modo efficace laccostamento dei linguaggi verbali con quelli iconici e sonori.
Di padroneggiare e applicare in situazioni diverse le conoscenze fondamentali relative al lessico, alla morfologia, allorganizzazione logico-sintattica della frase semplice e complessa, ai connettivi testuali; di utilizzare le conoscenze metalinguistiche per comprendere con maggior precisione i significati dei testi e per correggere i propri scritti. 

È tutto scritto nei Traguardi per lo sviluppo delle competenze al termine della scuola secondaria di primo grado.

Se non basta, sempre a mo’ di esempio, prendiamo le Indicazioni Nazionali  per i Licei, dopo tredici anni di scuola. Ci sta scritto, caso mai qualcuno non le avesse mai lette, che “Al termine del percorso liceale lo studente padroneggia la lingua italiana: è in grado di esprimersi, in forma scritta e orale, con chiarezza e proprietà, variando – a seconda dei diversi contesti e scopi – luso personale della lingua; di compiere operazioni fondamentali, quali riassumere e parafrasare un testo dato, organizzare e motivare un ragionamento; di illustrare e interpretare in termini essenziali un fenomeno storico, culturale, scientifico. 

Losservazione sistematica delle strutture linguistiche consente allo studente di affrontare testi anche complessi, presenti in situazioni di studio o di lavoro. A questo scopo si serve anche di strumenti forniti da una riflessione metalinguistica basata sul ragionamento circa le funzioni dei diversi livelli (ortografico, interpuntivo, morfosintattico, lessicale-semantico, testuale) nella costruzione ordinata del discorso.” 

Se qualcuno ha un’idea di qualità dell’istruzione migliore si faccia avanti. Per il momento questa è la qualità che lo Stato legislatore esige dalle sue scuole, e a me sembra di tutto rispetto. Tralascio le competenze matematiche per non appesantire il lettore.

Allora viene da chiedersi come mai sia possibile che al termine di un ciclo scolastico durato 13 anni, non raggiungono un livello accettabile di competenze, definito in ambito internazionale come livello 3, il 51% dei diciannovenni italiani in matematica e il 44% in lettura, con percentuali che sfiorano il 70% in alcune regioni del Sud per quanto riguarda la matematica.

Lo Stato è prescrittivo in materia di competenze e di livelli di apprendimento da raggiungere, ma poi come ci si arriva è affare dell’autonomia scolastica (quella del DPR n.275 dell’8marzo 1999) e della libertà di insegnamento riconosciuta ai docenti dall’articolo 33 della Costituzione.

Lo Stato avvisa che le sue sono “Indicazioni”, dunque non “Programmi”, perché lo Stato fissa i traguardi ma non i percorsi, lo Stato non ha alcun modello didattico-pedagogico da dettare. La strada che porta all’istruzione di qualità, ai livelli di apprendimento è lastricata di sperimentazione, di scambio di esperienze metodologiche, del ruolo dei docenti e delle autonomie scolastiche nella scelta delle strategie e delle metodologie più appropriate a raggiungere il successo formativo. 

Nel 2013 l’indagine Talis (Teaching and Learning International Survey), incentrata sull’analisi degli ambienti di apprendimento, metteva in luce come, a giudizio degli stessi docenti intervistati, l’Italia sia il paese dove è maggiormente diffusa la strategia didattica trasmissiva, nella quale lo studente ha quasi sempre un atteggiamento passivo, il “vaso da riempire” di pedagogica memoria.

Ancora più negativi i risultati relativi alla capacità degli insegnanti di personalizzare le pratiche di insegnamento, prestando attenzione alle differenze fra gli studenti e sostenendo i loro bisogni emotivi: quasi l’80% dei docenti osservati non compie alcuno sforzo di adattare le attività in classe alle diverse esigenze degli studenti.

Emerge un’organizzazione dell’insegnamento “blindata”, in cui la maggior parte dei docenti è più preoccupata di garantire una trasmissione di contenuti che di sviluppare l’autonomia nell’apprendimento dei ragazzi.

Da un lato l’Istruzione normata sancita dalle Indicazioni dello Stato, dall’altro l’istruzione reale praticata quotidianamente nel rumore d’aula.

Due scuole parallele che non si incontrato. L’una disegnata dal legislatore, l’altra che si trascina pigramente, perché si è fatto sempre così, si faceva prima quando si sedeva dietro i banchi, si fa ora che si siede dietro la cattedra. Un modo di insegnare che ha avuto i suoi rinforzi negli anni di frequenza dell’Università. Semmai non si sono neppure mai lette le Indicazioni Nazionali relative al grado di scuola in cui si insegna, preferendo seguire i libri di testo e le guide didattiche.

Non è la scuola progressista che ha aumentato le disparità, ma la convinzione dura a morire che insegnare corrisponda alla propria idea di istruzione, costruita sulla base della propria esperienza scolastica. Se è andata bene per me perché non dovrebbe andare bene anche per gli altri. Così nel nostro paese si fa scuola a prescindere dalle scelte del legislatore destinate a cadere nel vuoto delle nostre aule.

Indicazioni nazionali e Autonomia scolastica sono le strutture portanti del nostro sistema formativo, entrambe sono il prodotto della migliore riflessione  e ricerca nell’ambito delle scienze dell’educazione e in campo amministrativo che questo paese abbia saputo produrre. Costituiscono la fortezza Bastiani da difendere e da realizzare. Questi sono i bastioni su cui fondare la lotta contro la povertà educativa e gli impegni presi con il PNRR, dalla formazione dei docenti all’edilizia scolastica.

Il corpo va a scuola

Si fa fatica a frequentare la scuola con il corpo, pare che non si sappia dove metterlo. Prima c’erano i banchi e i compagni di banco, corpo a corpo silenziosi. Poi vennero i tavolini mono posto, ognuno per sé. Comunque in classe il corpo deve stare seduto. Poi c’è l’ora di educazione fisica, oggi motoria, in cui appunto educare il fisico che in sostanza è il  proprio corpo.

Il corpo tradizionalmente ignorato nelle nostre classi, improvvisamente ha rivendicato la sua presenza, la sua considerazione quando con la didattica a distanza ci si è accorti della sua assenza, come vicinanza necessaria, vale a dire come relazione.

Del resto il nostro corpo è quella fisicità che ci consente di socializzare, quelli che noi con estensione anglosassone chiamiamo “social” non hanno nulla di sociale, appunto perché mancano della corporeità, della fisicità delle persone. I nostri social sono popolati da ectoplasmi, da entità senza corpi, da spiriti liberi che assumono nickname e le sembianze di un avatar.

I corpi non girano più, non si muovono, seduti a scuola come nelle stanze di casa a compulsare la rete digitale.

Del resto i dati Istat non mentono, in Italia circa 2 milioni 130 mila bambini e adolescenti di età tra 3 e i 17 anni sono in eccesso di peso e quasi 2 milioni non praticano sport né attività fisica.

Allora dovremmo accogliere con favore la decisione, entrata nella legge di bilancio, di introdurre l’insegnante di educazione motoria nella scuola primaria a partire dalle classi quinte il prossimo anno e dalle quarte con l’anno dopo.

La storia dell’educazione fisica nella scuola primaria, un tempo elementare, ha a che fare con la considerazione sociale del corpo. Nei programmi del 1955, quelli del ministro Ermini, l’educazione morale, civile e fisica costituiva un unico paragrafo: “L’educazione fisica si consideri connessa all’educazione morale e civile come mezzo che induce l’alunno a rispettare e a padroneggiare il proprio corpo, a ordinare la tumultuaria esplosione delle energie, tipica della fanciullezza, e come tirocinio all’autocontrollo, all’autodisciplina e alla socievolezza”. Il corpo è una bomba pericolosa soprattutto nella “tumultuaria fanciullezza” e quindi sia “disciplinato”, “ordinato” dall’educazione morale, civile e fisica.

Così è stato per trent’anni nelle nostre scuole elementari, fino all’avvento dei programmi del 1985, sinossi di tutte le novità psico-pedagogiche che fino ad allora erano state lasciate fuori dalla porta della scuola ufficiale.

Il capovolgimento è totale, scompare l’educazione morale, civile e fisica, per restituire cittadinanza alla “tumultuaria esplosione delle energie” affidata ad un’accogliente educazione motoria “integrata nel processo di maturazione dell’autonomia personale”, rivendicando “l’affermazione nella cultura contemporanea dei nuovi significati di corporeità, di movimento e di sport.”

Nel 2012 con le Indicazioni Nazionali per il Primo Ciclo di Istruzione ritorna l’Educazione Fisica, ma questa volta con la fisicità del corpo che a scuola, sta scritto, deve stare bene. L’educazione fisica come educazione a star bene con se stessi “contribuisce alla formazione della personalità dell’alunno attraverso la conoscenza e la consapevolezza della propria identità corporea, nonché del continuo bisogno di movimento come cura costante della propria persona e del proprio benessere.” Non solo corpo, attenzione, ma anche “identità corporea”.

Dieci anni dopo, la legge di bilancio 2022 introduce nella scuola primaria la figura dell’insegnante di educazione motoria per “promuovere nei giovani, fin dalla scuola primaria, l’assunzione di comportamenti e stili di vita funzionali alla crescita armoniosa, alla salute, al benessere psico-fisico e al pieno sviluppo della persona, riconoscendo l’educazione motoria quale espressione di un diritto personale e strumento di apprendimento cognitivo“.

La prima domanda che viene spontaneo porsi è chiedersi fino ad oggi chi ha insegnato alle bambine e ai bambini dai sei ai dieci anni l’educazione fisica o motoria che sia? Non erano le maestre e i maestri che avrebbero dovuto farlo? E se l’hanno fatto finora perché improvvisamente non sono più in grado di farlo? E se non sono più in grado di farlo perché non formarli a farlo, allora? Che figura professionale è quella dell’insegnante di scuola primaria?

Domande elementari come la scuola elementare.

Sono domande destinate a rimanere senza risposta perché chi dovrebbe fornirle non le sa formulare. Perché questo paese manca di una visione sull’istruzione, di come deve essere la scuola del futuro. Avere una visione di insieme, in prospettiva è troppo faticoso, la storia ormai ci insegna che è politicamente ingestibile. Ognuno ha la sua idea di scuola, la Destra e la Sinistra, la Confindustria, la Fondazione Agnelli, i Sindacati, la Chiesa.

Così tutto resta sempre come prima e i ministri di turno provvedono per aggiunte o sottrazioni a seconda dei problemi che di volta in volta emergono. 

I giovani mancano di senso civico? E allora aggiungiamo a Cittadinanza e Costituzione l’Educazione civica. I bambini sono obesi e non si muovono? Ecco pronto l’insegnante di educazione motoria da aggiungere ai maestri. C’è il disagio adolescenziale allora introduciamo nelle scuole il pedagogista, l’educatore professionale, lo psicologo, costruiamo le scuole polo del disagio psico-sociale, come una volta c’erano le scuole speciali. Tutto senza aumenti di spesa e con un eccesso di ignoranza scolastica gratuita. Con il rischio che, considerato il crescente calo demografico, un giorno nelle aule ci saranno più adulti che alunni.

Che intorno alla scuola oggi sia necessario costruire la rete di un sistema formativo integrato è vecchia questione, che oggi riemerge sottesa al susseguirsi di frequenti richiami alle comunità educanti e ai patti educativi territoriali. 

L’autosufficienza della scuola non è mai esistita e la necessità della sua continua interazione con “il più ampio ambiente sociale” è qualcosa che non può essere delegata agli organi collegiali. Chiama in causa la vivacità del territorio nell’offrire opportunità formative in grado di arricchire il curricolo e l’offerta formativa delle singole scuole attraverso le sue strutture e la messa in gioco di differenti attori, dalle istituzioni culturali all’associazionismo.

La scuola chiusa in se stessa, autoreferenziale che moltiplica le figure professionali rischia di implodere, mentre la natura della scuola è curricolare. La scuola che scorre nel territorio, che nel territorio si vivifica e che vivifica di sé il territorio, perché ogni territorio  è significativo per i destini formativi delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi.

Una scuola fuori di testa*

Che un buco nel muro potesse diventare un luogo di apprendimento come minimo deve aver fatto rivoltare nella tomba il gota del pensiero pedagogico da Comenio a Froebel e oltre. Ora le “scuole cloud” di Sugata Mitra hanno conquistato l’India, il Messico, l’Inghilterra e il loro ideatore oggi è un’icona.

Non è che l’idea di Mitra sia poi così nuova. È antica per lo meno quanto la ricerca pedagogica da Socrate a Pestalozzi, da Maria Montessori a Jean Piaget, da quando avrebbe dovuto divenire patrimonio culturale comune di ogni scuola del globo terracqueo che l’apprendimento è una continua invenzione, che si apprende giocando e inseguendo le proprie curiosità.

A Nuova Delhi i computer nei buchi dei muri degli slum perché i bambini apprendano, da noi minacciose circolari ministeriali sull’uso dello smartphone a scuola, chi vorrebbe sostituire i tablet con le predelle, i dies irae socio-psico-pedagogici intonati per scongiurare come la peste la didattica a distanza.

A undici anni, nel 1890, Albert Einstein frequentava una scuola ispirata al metodo Pestalozzi e lì gli fu data la possibilità di iniziare i suoi primi esperimenti che l’avrebbero portato alla teoria della relatività. I fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, hanno affermato di dovere spirito di indipendenza e creatività alla loro istruzione montessoriana. 

Secondo i neuroscienziati della Northwestern University se non siamo noi quelli che controllano il proprio apprendimento, difficilmente impareremo. 

Lo psicologo Peter Gray, professore al Boston College, che studia i modi naturali di apprendimento dei bambini, sostiene che i meccanismi cognitivi umani sono fondamentalmente incompatibili con la scuola convenzionale. Gray sottolinea che i bambini piccoli, motivati dalla curiosità e dalla giocosità, apprendono moltissimo sul mondo. Eppure quando raggiungono l’età scolare, quella spinta innata a imparare viene sostituita da un curricolo imposto. Stiamo insegnando agli studenti che i loro pensieri e le loro domande non contano, che ciò che conta sono le domande e le risposte dei programmi scolastici. Questo non è il modo in cui la selezione naturale ci ha progettati per imparare. Ci ha progettato per risolvere i problemi e capire le cose che fanno parte della nostra vita reale. 

Una scuola fuori di testa per dirla con Ken Robinson, divenuto famoso per i suoi TED, sul ruolo della creatività in materia di istruzione, le visualizzazioni attraverso il sito web di TED nel 2021 sono state oltre 70 milioni.

Abbiamo bisogno di creatività, di intuizione, inventiva, della curiosità che spinge a formulare domande e ipotesi che sono il motore di ogni sapere.

Una scuola libera dove si apprende a liberare se stessi, le proprie energie e potenzialità, a dare slancio al proprio sviluppo sociale e intellettivo.

Le free-school non mancano per il mondo, quella di Brooklyn la potete trovare sul web, si presenta come il luogo dove i bambini, ragazze e ragazzi sono liberi. Due registi indipendenti, Kenneth Chu e Diana Ecker, hanno realizzato un film documentario incentrato sulla vita quotidiana e sulle realtà emotive di una comunità estremamente diversificata di studenti dall’asilo nido alle superiori.

C’è anche la “Scuola dell’uno”, “School of one”, un programma sperimentale condotto nelle scuole pubbliche di New York il cui obiettivo è quello di creare una “playlist di apprendimento” personalizzata per ogni studente.

La didattica della trasmissione non ha bisogno di intelligenze, ha bisogno di megafoni e i megafoni sono gli studenti, il megafono può parlare o scrivere, ma sempre megafono resta. Quando il megafono non funziona o viene eliminato o si elimina da solo.

Che lo si voglia o no questo è ancora il modello dominante dell’istruzione pubblica, quello generato dalla rivoluzione industriale, quando il mercato del lavoro apprezzava puntualità, regolarità, attenzione e silenzio sopra ogni altra cosa. Oggigiorno è rimasto solo il nostro sistema educativo ad apprezzare questi “valori” con le sue routine che mettono alla prova  gli studenti di ogni età sulla loro capacità di trattenere informazioni e replicarle. L’editoria dei testi scolastici fa da guida indicando agli insegnanti cosa insegnare ogni giorno. 

I risultati parlano da soli, centinaia di migliaia di abbandoni scolastici ogni anno, e oltre un terzo dei diplomati alla scuola superiore che non è preparato per affrontare i corsi universitari. 

Chi difende la scuola tradizionale difende un’epoca che non c’è più, incapace di interpretare il presente. C’è rimasto un paese arretrato, indietro di decenni, che ha scritto pagine di riforma della scuola senza mai riformarla, perché a fare la scuola sono gli insegnanti i quali hanno continuato a fare come hanno sempre fatto, vale a dire a insegnare come è stato insegnato a loro con la complicità di una università identica a se stessa impreparata per preparare chi avrebbe dovuto “formare ad apprendere”.

Una scuola che non riesce a produrre le “teste ben fatte”, perché è una questione di generazioni culturali che devono esaurirsi, perché ben fatte non sono le teste di chi si deve occupare delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi che ha davanti.

O si produce una nuova generazione di educatori capace di formare se stessa nel vivo della relazione con i bisogni formativi di ciascuno studente, lontana da tutti gli armamentari educativi di un secolo per sempre concluso o neppure la replicante strada delle riforme e dei provvedimenti più o meno estemporanei potrà salvare il nostro sistema formativo.

Una scuola che non può pretendere di restare ancorata a certezze che non esistono più in un mondo in continua metamorfosi che mette in questione ogni strumento del sapere, mentre le nostre enciclopedie di riferimento diventano obsolete e di conseguenza necessitano di essere continuamente reinventate.

Scopo dell’istruzione è prendersi cura del sapere, alimentare l’esplorazione, la curiosità degli studenti, interrogarsi su come si apprende in questo tempo di continue trasformazioni.  Un lavoro di cura che comporta tempo e fatica, difficoltà di comprensione perché le coordinate non sono più quelle di prima. Un lavoro che chiama in causa la responsabilità e la formazione degli insegnanti, di chi ha scelto di percorrere la strada  che porta ad appropriarsi della cultura e del patrimonio di saperi dell’umanità a fianco delle giovani generazioni.

*Pubblicato anche da EDSCUOLA.EU

Uno spettro si aggira per la scuola: le Non Cognitive Skills

La Camera ha approvato, l’11 gennaio scorso, pressoché all’unanimità, la proposta di legge relativa all’introduzione dello sviluppo delle competenze non cognitive nei percorsi scolastici. 

L’organizzazione degli studi nel nostro paese resta grossomodo la stessa dai tempi di Croce e Gentile, per non dire di Casati, ma la priorità che ora scopre coralmente il nostro Parlamento, con sfoggi culturali da Dewey al Costruttivismo, sono le competenze non cognitive (NCS), vendute come scoperta anglosassone e come panacea per migliorare il successo formativo, prevenire l’analfabetismo funzionale, la povertà educativa e la dispersione scolastica.

La sindrome da bonus edilizia deve avere contagiato i membri dell’intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà fautori della proposta, i quali evidentemente pensano che siano sufficienti alcuni ritocchi alla facciata e i problemi della nostra scuola sono risolti. Si sperimenta per qualche anno e poi si vede, allo stesso modo di come si sta procedendo con la sperimentazione dei licei quadriennali. È la scuola a due velocità, da una parte si sta fermi un giro lasciando tutto inalterato, dall’altra si prova l’ebrezza del nuovo, salvo che non si tratti invece dell’usato riciclato, com’è costume storico nella nostra scuola.

La cosa strabiliante è che la proposta di legge in questione vorrebbe sperimentare l’insegnamento delle life skills, così sono definite dagli economisti le competenze non cognitive, senza indicare in alcun modo cosa siano e quali siano. 

La confusione regna sovrana. Per capirci qualcosa bisogna leggere gli ordini del giorno che accompagnano l’approvazione della proposta in Parlamento. In essi si dice che le competenze non cognitive sono le Soft Skills, quelle cioè che rappresentano una risorsa fondamentale per l’accesso al mercato del lavoro come coscienziosità, apertura mentale, autodeterminazione, mentalità dinamica e resilienza. Si evoca il premio Nobel per l’economia nell’anno 2000, James Heckman, per il quale le competenze non cognitive sono l’affidabilità, capacità di lavorare in gruppo, la perseveranza e l’impegno nel processo di apprendimento e nel lavoro.

A nessuno è dato sapere come si raggiungerà e come sarà misurata la “competenza” nelle competenze non cognitive. È comunque importante iniziare fin dalla fase prescolare e dalla prima scolarizzazione, lo suggeriscono il professor Heckman, noto per la sua ricerca empirica in economia del lavoro e, in particolare, per quanto riguarda l’efficacia dei programmi di educazione della prima infanzia. E poi c’è Martin Seligman, psicologo statunitense, fondatore della psicologia positiva, autore di molti best seller come Imparare l’Ottimismo, Come Crescere Un Bambino Ottimista e La Costruzione Della Felicità.

Quando si evocano le competenze non cognitive come un corpo a se stante, specie nella scuola, è difficile non pensare alla teoria del doppio legame della pragmatica della comunicazione e all’ingiunzione divenuta famosa: “Sii spontaneo!”. Sarà interessante verificare gli esiti dell’apprendimento: “essere spontanei”.

In definitiva non sono sufficienti le linee guida dettate dal MIUR per i PCTO, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, occorre una legge in modo che fin da subito i piccoli siano esercitati alle competenze non cognitive. Non è più una questione di competenze chiave per l’apprendimento permanente come richiesto dall’Europa, ma ne va della capacità di resilienza ed autodeterminazione dei nostri figli.

Ora, cognitivo e non cognitivo rischiano di tradursi in una sorta di dubbio amletico, di rompicapo cinese, come scindere il cognitivo dal non cognitivo, quando in realtà si vuole, almeno nelle intenzioni degli estensori della proposta, che a scuola il cognitivo si accompagni al non cognitivo, che conoscenze ed emozioni, ammesso che siano non cognitive, si intreccino durante le ore di lezione.

Noi non le chiamiamo character skills, perché non siamo anglosassoni, ma il nostro sistema scolastico, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, ha come obiettivo la formazione  della persona e del cittadino. Nelle indicazioni curricolari per le nostre scuole sta scritto che le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni  persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione. Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato.

C’è un’idea di interezza della persona dello studente difficilmente scindibile in mano destra e mano sinistra, in corpo e mente, in cognitivo e non cognitivo.

Dunque non siamo una scuola prussiana che addestra alla disciplina generazioni di alunni. Quindi attenzione ad imporre per legge l’addestramento delle emozioni, delle competenze non cognitive in nome della comunità educante il cui progetto non è detto che concordi con gli “orizzonti di significato” delle nostre bambine e dei nostri bambini, delle nostre ragazze e dei  nostri ragazzi, dei nostri adolescenti.

Mentre Mastrocola e coniuge denunciano il danno scolastico prodotto da una scuola pubblica progressista, i nostri parlamentari invece pensano che è giunto il momento di porre fine alla scuola tutta hard skills e poco soft skills, tutta abilità di calcolo, verbali, logiche, capacità di memorizzazione senza lasciare spazio a motivazione, coscienziosità, positività, estroversione, proattività, stabilità emotiva, eccetera.

Il fatto è che i dati dell’Ocse Pisa e quelli Invalsi ci dicono che le nostre scuole, da nord a sud, neppure per le hard skills brillano.

L’impressione è che intorno al capezzale del malato si agitino maghi della pioggia, improvvisatori, spesso a zero come preparazione rispetto alla cultura che sarebbe necessaria per tentare di guarire il paziente.

Sembra che intorno alla scuola si coagulino tutti i fallimenti a partire da quelli degli adulti nei confronti dei giovani. I comportamenti dei giovani sono sfuggiti di mano, ora bisogna recuperarli e siccome l’educazione famigliare e sociale hanno fallito non rimane che rifugiarsi nella scuola e commissionarle tempo fa l’educazione civica, ora l’educazione della personalità, plasmarne le character skills per correre ai ripari prima che sia troppo tardi, per evitare di crescere adolescenti dalle condotte socialmente destabilizzanti.

E poi il fallimento del mercato, che non sa cosa farsene delle competenze cognitive dei nostri giovani che quando possiedono le hard skills devono andarsene all’estero perché il sistema delle imprese nel nostro paese è arretrato di almeno vent’anni. Infine il fallimento della politica che non conosce la scuola che pretende di governare, che non possiede cultura della scuola e non sa progettare l’istruzione per il futuro.

Viviamo in un mondo controverso, il XXI secolo si è aperto come il secolo della conoscenza, con il tema del cognitivo ingigantito dalla crescita delle conoscenze e dallo sviluppo delle tecnologie, di fronte a questa montagna la nostra scuola ha continuato a fare la parte del topolino. Chi sta attrezzando i nostri giovani a vivere in questo mondo, ad abitare questo secolo senza sentirsi troppo piccoli, senza doversi tirare indietro? 

Nel giro di pochi anni siamo passati dal secolo della conoscenza al secolo della resilienza. La preoccupazione di addestrare i nostri giovani alle competenze non cognitive fa sorgere l’inquietante  sospetto che li si voglia preparare a saper reggere l’urto di una annunciata pesante sconfitta nell’incontro con il futuro.

Saperi, futuro e destino umano

L’otto luglio Edgar Morin, uno dei più grandi intellettuali contemporanei, raggiungerà il traguardo del secolo. Troppo complesso per essere preso sul serio, lui iniziatore del pensiero complesso, della necessità di una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi a cui siamo ancora abbarbicati, semmai rivendicata come merito del passato da una scuola incapace di preparare al pensiero della complessità. La conoscenza è avventura e la scuola è parte del territorio in cui vivere questa avventura, in cui apprendere a conoscere e a ri-conoscere la conoscenza. La palestra in cui esercitarsi fin da piccoli alla metacognizione, a interrogarsi, a nutrire la curiosità, a inseguire lo stupore.

Il compito dell’istruzione non può ridursi all’angustia di formare cittadini da integrare nella società presente, né in ipotetiche società future, le categorie pedagogiche degli Stati-Nazione come le pedagogie progressive del Novecento hanno fatto il loro tempo. 

Morin ci rappresenta il nostro pianeta come una nave spaziale che viaggia grazie alla propulsione di quattro motori scatenati: scienza, tecnica, industria, profitto e dove nello stesso tempo la minaccia nucleare e la minaccia ecologica impongono alla umanità una comunità di destino, non c’è possibile futuro che valga la pena costruire se non riscoprendo la centralità di ogni donna e di ogni uomo, la centralità dell’intelligenza, la centralità del pensare oggi  per il futuro. In gioco non è l’integrazione culturale nella propria comunità, in gioco per tutti, da ogni lato della Terra, è la vivibilità del futuro. L’asfittico obiettivo dei sistemi scolastici nazionali è soppiantato dal ben più impegnativo e difficile compito di attrezzare le giovani generazioni a vivere un futuro vivibile. L’Agenda 2030 dell’Onu è lì a ricordarcelo in ogni istante.

In questo orizzonte sa di anacronistico brandire la difesa dell’ora di lezione, della cattedra e delle discipline, come un Don Chisciotte che insegue i suoi fantasmi, come il soldato giapponese che non si arrende perché non crede che la guerra sia finita. Il tempo è scaduto da tempo e la conseguenza è non aver provveduto a farsi la cultura necessaria al ritorno alla realtà.

Da “Introduzione al pensiero complesso  a “La testa ben fatta”, dal “Manifesto per cambiare l’educazione”, ai “Sette saperi necessari all’educazione del futuro”, ormai sono più di trent’anni  che Morin ci invita a riflettere sullo stato attuale dei saperi e sulle sfide che caratterizzano la nostra epoca. A richiamare soprattutto quanti hanno in mano le sorti delle future generazioni, come gli insegnanti, a prendere consapevolezza che la posta in gioco sono i nuovi problemi prodotti dalla convivenza umana, da una interdipendenza planetaria irreversibile fra le economie, le politiche, le religioni, le malattie di tutte le società umane.

Una riforma dell’insegnamento è indispensabile per poter affrontare queste sfide, a partire dalla riflessione sullo stato dei saperi frantumati in singole discipline, quando la complessità per essere indagata richiede la capacità di collegare e praticare ambiti di sapere tra loro apparentemente distanti, ma il cui dialogo, mai intuito prima, ora si manifesta prezioso per la risoluzione dei problemi, per rendere prevedibile ciò che i paradigmi precedenti ritenevano imprevedibile. Umanesimo e scienza che ancora non siamo in grado di far comunicare,  di contaminare nei curricula dei nostri percorsi scolastici, come se i tempi di Vico non fossero mai tramontati, come se il crocianesimo continuasse ad essere radicato nel DNA dei nostri studi. Occorrevano le vicende di questa pandemia inattesa a svelare l’impreparazione della scienza a comunicare e la nostra incapacità a misurarci con le certezze “incerte” proprie della scienza.

La riforma dell’insegnamento è il nodo che ancora non abbiamo sciolto. Un nodo che richiede di non cessare di interrogarsi, perché la complessità non ha risposte semplici e meno che mai risolutive, l’avvento della pandemia ha certo aiutato a sgombrare le menti da ogni dubbio.

Eppure quando si innalzano peana a celebrare l’afflato erotico che abbatte le distanze tra cattedra e banco, tra docente e discente, l’impressione è di vivere in un paese in cui intellettuali e sistema formativo sono fermi al passato, non siano in grado di comprendere il presente e, tanto meno, di leggere il dopo.

Morin ci propone di porre alla base della riforma della scuola, del mestiere della scuola che è l’istruzione, il pensiero complesso, une tête bien faite. Qualcosa di più difficile, di complesso, appunto.

Insegnare a vivere. Dovevamo attrezzarci per far apprendere ai nostri studenti come si vive, ma non qui ed ora, bensì nel luogo che ancora non c’è. Una sfida da capogiro, di fronte alla quale ci siamo ritirati, trastullandoci con i banchi a rotelle e con la Dad che non è scuola. Ripiegati sui noi stessi, rispecchiati nelle certezze del passato, ci è scomparsa la cognizione del futuro, che chi ha creature da crescere non dovrebbe permettersi di perdere, ma questo è quello che è accaduto. Il dopo delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, la loro vita futura come uscirà attrezzata dalle nostre scuole? Piena dell’ira d’Achille, degli atri muscosi e dei fori cadenti, ma vuota dell’imprevedibile, del novus che è sempre stato il modo del “moderno”.

Da sempre la missione dell’educazione è insegnare a vivere, ma è un conto farlo per vite già confezionate, altro per vite ancora da confezionare.

Morin ci suggerisce di porci una domanda che non ha spazio nei nostri programmi d’insegnamento e che riguarda ciascuno di noi: che cosa significa essere umano?

Si tratta di permettere a ciascuno di sviluppare al meglio la propria individualità, il legame con gli altri ma anche di prepararsi ad affrontare le molteplici incertezze e difficoltà del destino umano. 

E qui entra in gioco il sistema di conoscenze e dei saperi di cui le nostre scuole sono depositarie. Altro che centralità della lezione, quella lezione rischia di divenire tossica, perché a fronte della realtà che le nostre ragazze e i nostri ragazzi si troveranno a vivere il sistema delle conoscenze che le nostre scuole trasmettono è ancora troppo debole. E se debole non aiuterà certo i nostri giovani a cogliere le carenze dei loro pensieri, i buchi neri della loro mente che rischiano di rendere invisibile la complessità del reale. 

Il pericolo è che dalle nostre scuole escano giovani costretti ad affrontare il futuro a mani nude. 

Da questa pandemia abbiamo appreso che non è solo la nostra ignoranza ad aver ostacolato la comprensione di quanto è accaduto, ma soprattutto l’inadeguatezza delle conoscenze di cui disponiamo. I buchi neri nella nostra mente confermano che il nostro sistema di saperi e di pensiero non è in grado di rispondere alle sfide della complessità. 

Allora non abbiamo bisogno di docenti e di intellettuali che sottoscrivono manifesti, ma di intellettuali e professionisti della cultura in grado di promuovere una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi presente nella nostra epoca e che sia capace di formare insegnanti e studenti a pensare la complessità. 

Siamo in ritardo e il tempo non attende, il futuro imprevedibile è in gestazione oggi.

Giovani e scuola che aria che tira

La fine della pandemia prometteva che l’aria sarebbe cambiata, meno viziata dai miasmi del passato. Invece tira aria di restaurazione. Sembra che i giovani siano minori, non perché più piccoli, ma perché “minus”, cioè meno dotati, meno dotati di noi adulti. Dove inizi e dove finisca la minore dotazione è tutto da stabilire. Intanto Frida Bollani Magoni a soli sedici anni suona la sua interpretazione dell’inno d’Italia alla presenza del Presidente della Repubblica e il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, rivendica il voto ai sedicenni.

Eppure c’è sempre qualche adulto che sente il bisogno di dare una qualche lezione ai giovani, perché i loro modi di essere non combaciano con la sua cultura, con i modelli comportamentali introiettati. Così Chiara Saraceno concorda con la dirigente dell’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano che con circolare interna ha dettato il dress code a cui si devono attenere le sue studentesse e i suoi studenti.

Perché l’abito fa il monaco, ogni luogo ha il suo abbigliamento, in particolare le istituzioni come la scuola. Secondo la sociologa i giovani devono essere educati al rispetto che si deve ai professori e all’ambiente scolastico, e questo rispetto passa prima di tutto attraverso a come ti vesti. Pretendere di insegnare questo rispetto puzza sempre di accusa, di punitivismo nei confronti dei minori, preoccupa perché denuncia le frustrazioni che nascono da un senso di impotenza comunicativa con i giovani, vuoto che si pensa di colmare dettando le regole, le norme, i principi di normalità a cui attenersi, gli unici accettati per essere ammessi nei santuari del sapere. Come ti devi regolare se vuoi vivere in un mondo in cui ci sono anche gli adulti con le loro pretese. Puzzano di rivincita sui patimenti subiti negli anni della propria adolescenza per via dei soprusi del mondo adulto. Semmai si condannano quei soprusi, ma non il rispetto di quelle, che nonostante la rivoluzione dei costumi, si continua a considerare buone regole, abitudini da inculcare, la buona educazione del tempo che fu. Le ragazze acqua e sapone e grembiule nero, i ragazzi giacca, cravatta, scarpe lucide e capelli corti. Pensavamo di essere riusciti ad andare oltre, ma pare che ora si esageri ed è dunque necessario tirare il freno. Spuntano le mutande dai jeans, alcune magliette e braghe pare lascino trasparire troppo del giovane corpo che le indossa, poi ora ci sono i piercing, che sono ammessi solo se all’orecchio, per non parlare dei tatuaggi, delle  scritte insidiose su magliette e felpe. Poi la scuola non è una spiaggia, niente infradito e occhiali da sole, a meno che lo ordini il medico. 

Se si consultano i siti delle scuole nostrane, come quelle del mondo, i dress code sembrano copiati gli uni dagli altri. Dunque milioni di studenti dagli Usa all’Arabia, dall’Europa all’Australia hanno bisogno di essere educati all’abbigliamento, cosa è consono e cosa non lo è a seconda dei luoghi, a partire dalla scuola. Qualcuno l’ha risolto da tempo con le divise del college, che pure inculcano un senso di appartenenza e di identità, altri restano affezionati al grembiule delle elementari con nastro rosa per le bimbe e azzurro per i bimbi, addirittura l’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano indica ai genitori dove andarli a comprare, in modo da essere sicuri di rispettare il dress code della scuola.

Siamo sempre alla solita questione, quando l’istituzione non sa accogliere e dialogare, creare un clima di parità e di intesa nel rispetto delle differenze si ricorre a proibire, a scrivere regole e catechismi, anziché contaminarsi, capirsi reciprocamente, assegnare valore ai luoghi e a quello che in quei luoghi si fa e si vive insieme. Non accade in famiglia, non accade a scuola e la scorciatoia che solleva gli adulti da ogni responsabilità è scaricare sulle spalle dei giovani un bel dress code in nome dell’autorità degli adulti e dell’inviolabilità sacra dell’istituzione.

Il problema è che abbigliarsi è un’esigenza e un’arte, è l’arte dell’identificazione, del ritrovare se stessi, dell’interpretare la vita, del comunicare il proprio tempo, il proprio mondo e se la scuola è luogo di socializzazione, e come tale viene vissuto, la socializzazione ha le sue regole e i suoi codici. E se una generazione ha un suo linguaggio perché dovrebbe lasciarlo fuori dalla porta della classe, lasciare una parte di sé fuori dalla scuola, essere a scuola sempre dimezzati. Così la scuola non è la vita, è una para-esistenza, quello che puoi indossare per strada, in famiglia, quando incontri i tuoi amici non va bene, può dare scandalo, distrarre l’attenzione dalle lezioni e dai compiti scolastici, può indurre pensieri carnali, attrazioni sessuali. Ma dove sta tutto questo se non nella mente patologicamente sospettosa di qualche adulto?

L’ossessione del dress code ha accompagnato anche la didattica a distanza, nel sospetto che qualche studente sotto il mezzobusto della webcam indossasse i pantaloni del pigiama, bermuda e le detestate infradito, una imperdonabile mancanza di rispetto nei confronti dell’istituzione seppure virtuale, perpetrata per di più clandestinamente. Il sospetto è che gli insegnanti non siano stati da meno.

A leggere Week Education, rivista statunitense online, si scopre che durante la pandemia la maggior parte degli insegnanti impegnati nella Dad ha vissuto come un vantaggio, in un periodo particolarmente stressante, potersi disinteressare dell’abbigliamento dalla cintola in giù. Ora per ridurre lo stress dovuto alla ripresa della didattica in presenza agli insegnanti di un distretto scolastico del Missouri è stato consentito di continuare a vestirsi in modo casual.

Negli Usa i codici di abbigliamento degli insegnanti non sono una novità. Un contratto dei dipendenti della Ohio Education Association, datato 1923 e rivolto esclusivamente alle insegnanti vietava i colori vivaci o di tingersi i capelli, richiedeva di indossare “almeno due sottovesti” e abiti non più di due pollici sopra la caviglia. I tempi sono cambiati ma non mancano i ritorni di fiamma.

Nel 2018, We Are Teachers ha compilato un codice di abbigliamento per insegnanti con quattordici regole, tra le quali il divieto di indossare jeans e scarpe da ginnastica.

Fortunatamente a calare il sipario sulla assurdità di tutto questo ci hanno pensato gli insegnanti spagnoli del movimento “La Ropa non Tiene Genero”.

Dal 2020 sempre più alto si è fatto il numero dei docenti che hanno scelto di accantonare l’uso dei pantaloni in classe durante le lezioni per combattere gli stereotipi di genere e per sostenere Mikel Gómez, lo studente cacciato da scuola per essersi recato in aula con una gonna.

Invece noi siamo il paese in cui, mentre in parlamento si discute il disegno di legge Zan contro pregiudizi e stereotipi di genere, ci si preoccupa di come le nostre studentesse e i nostri studenti si vestono per andare a scuola, senza rendersi conto di quanto rasentiamo il ridicolo e che le circolari sull’abbigliamento a scuola meriterebbero  di essere sepolte da una solenne risata.

Considerate le statistiche relative all’abbandono scolastico, sarei tentato di suggerire ai  presidi di usare lo slogan: “A scuola come ti pare purché tu ci venga per imparare”. 

L’impressione però è che a scuola tiri una brutta aria, un’aria di reazione e di ostilità nei confronti dei giovani, allarma il post di un docente su Facebook che esalta il suo consiglio di  classe perché allo scrutinio di fine anno su 25 alunni ne ha promossi solo quattro, tutti gli altri respinti o con il giudizio sospeso. Inquietante perché quel docente anziché inorgoglirsi dovrebbe preoccuparsi seriamente del fallimento professionale suo e di un’intero consiglio di classe.

Dovremmo essere vicini ai nostri giovani, invece crescono gli atteggiamenti pedagogicamente punitivi, che celano sempre frustrazioni e un patologico bisogno di rivincita. 

“Cambiamo strada” è il titolo dell’ultimo libro del filosofo francese Edgar Morin, nello stesso tempo un invito. Ci avverte del pericolo di un grande processo regressivo che viene da lontano, ancora prima della crisi del virus e che si accentuerà nel post-epidemia. Il timore più grande è che questo processo regressivo, già in corso nel primo ventennio di questo secolo, possa avere varcato anche le porte delle nostre scuole.

Le linee guida che portano fuori strada*

Stop

Tanto tuonò che piovve, pare abbia detto imperturbato Socrate dopo che sua moglie Santippe gli rovesciò sul capo una brocca d’acqua.

Con altrettanta imperturbabilità accogliamo le linee guida che la ministra Azzolina ha licenziato per l’avvio del prossimo anno scolastico con tavoli e Conferenze a livello regionale e locale.

I tempi non sono stati rapidi, ma dopo comitati tecnico scientifici e task force il ministero dell’istruzione il 26 giugno ha deliberato che  tavoli e conferenze andavano convocati.

Di più, la Ministra con la sua lettera a tutta la comunità scolastica assicura che: “La scuola di settembre sarà responsabile, flessibile, aperta, rinnovata, rafforzata.”

Sì, avete letto bene, cinque aggettivi qualificativi, uno dietro all’altro di fila: responsabile, flessibile, aperta, rinnovata, rafforzata.

Incredibile, dopo mesi di lockdown, di didattica a distanza, nel giro dell’estate, a settembre il paese su tutto il suo territorio avrà una scuola che non ha mai conosciuto prima. O questi hanno lavorato duro per tutti i mesi di chiusura forzata delle scuole o al ministero di viale Trastevere sono dei veri Mandrake a partire dalla loro ministra.

Di colpo scomparsi i ritardi cronici del nostro sistema formativo, anni di tagli e assenze di risorse, differenze tra nord e sud. 

Poi a leggere di seguito capite subito che non poteva essere. Perché la ministra per “responsabile” intende misure di sicurezza, locali puliti e igienizzati, “flessibile” per via degli orari, delle classi, degli ingressi e delle uscite, “aperta” significa alla ricerca di nuovi spazi, per “rinnovata” si riferisce ai locali e agli arredi scolastici, “rafforzata” attraverso il potenziamento dell’organico scolastico.

Allora perché sprecare aggettivi così impegnativi che si prestano ad essere usati più per il contenuto dell’apprendimento e le sue modalità che per il suo contenitore. È come un abito che ha bisogno di essere rovesciato, di aggiustamenti e abbellimenti per poter continuare ad essere portato, ma per chi lo indossa nulla cambia, il tessuto è sempre quello di prima.

È la solita strategia a cui ci stanno assuefacendo, mancano i soldi, le idee e le competenze, ma non le parole roboanti con cui coprire il vuoto. Ha ragione Antonio Scurati che, sulle pagine del Corriere della Sera del 30 giugno, osserva come la pubblicazione delle linee guida, per il rientro in aula il 14 settembre , “ha raggiunto il colmo di una sequenza di incompetenze e incapacità”.

Non solo, c’è di peggio. Ad un occhio attento che non si lasci offuscare dal fumo delle parole non può sfuggire che con quelle linee guida si compie un cambio di prospettiva. Nel loro esordio, infatti, non si rivolgono al paese ma a “…un’intera comunità educante, intesa come insieme di portatori di interesse della scuola e del territorio…”

Alla “comunità educante” e ai “portatori di interesse”, gli stakeholder, come si usa dire con linguaggio anglofono. Viene da chiedersi cosa sono e dove sono le comunità educanti e i portatori d’interesse. O è il cedimento ad un lessico ormai abusato, con faciloneria e senza pesare il senso delle parole o la “comunità educante e i suoi portatori di interesse”, che per forza di cose variano da realtà a realtà, rappresenta una curvatura pensata e studiata verso l’autonomia differenziata, verso lo spezzatino della scuola della Repubblica e della Costituzione.

Un paese che rinuncia ad avere un suo sistema formativo valido per tutto il territorio per delegare l’istruzione a tante comunità educanti, e, mentre si cita a difesa delle proprie argomentazioni l’art. 3 della Costituzione, non ci si rende conto di compiere passi destinati a vanificarlo.

Quella comunità educante nasconde una preoccupante angustia di prospettiva, un’autarchia da fai da te dell’educazione, vanifica il respiro europeo che da decenni  istruzione e formazione dovrebbero avere assunto nel nostro paese.

Ci si è dimenticati, se mai è stato letto, del Libro Bianco che la Commissione europea pubblicò 25 anni fa, giusto nel 1995, in cui si affermava un concetto  nuovo di formazione, in particolare alla funzione di “educazione” si sostituiva quella di “apprendimento continuo”, non comunità educanti ma “società della conoscenza”, fondate sull’apprendimento permanente come impianto dei loro sistemi formativi a partire dalle scuole, dai loro curricoli e dalla loro organizzazione.

Scrive Scurati che per la scuola dei nostri figli pretendiamo il meglio. Certo, è il paese che innanzitutto dovrebbe pretenderlo, ma la questione del sistema formativo pare del tutto scomparsa dal nostro orizzonte concettuale e politico. 

La scuola delle linee guida non vede oltre il prossimo anno scolastico come se la questione riguardasse la sola contingenza del Corona virus. 

Il paese pare ancora sotto l’anestesia del lungo lockdown, con un letargo del pensiero e della politica, quando ci scuoteremo comprenderemo che se vogliamo recuperare venticinque anni di ritardi anche il nostro sistema formativo, vecchio di secoli nel suo impianto, ha necessità del suo Mes o comunque di una cifra almeno equivalente del Recovery fund. 

Ma perché questo possa accadere bisognerebbe realizzare il sogno che Scurati, sulle pagine del Corriere della Sera, dice di aver fatto: “Il sogno che a governare la disastrata scuola italiana ci sia una persona seria, competente, capace, una guida sicura, brillante, eccellente, una persona cui tutti noi affideremmo volentieri il futuro dei nostri figli con piena fiducia, giusta ammirazione, motivata speranza”.

Già questo potrebbe costituire il segnale di una inversione di tendenza, un promettente inizio e ci eviterebbe di finire fuori strada.

*Pubblicato anche su Educazione e Scuola