Uno spettro si aggira per la scuola: le Non Cognitive Skills

La Camera ha approvato, l’11 gennaio scorso, pressoché all’unanimità, la proposta di legge relativa all’introduzione dello sviluppo delle competenze non cognitive nei percorsi scolastici. 

L’organizzazione degli studi nel nostro paese resta grossomodo la stessa dai tempi di Croce e Gentile, per non dire di Casati, ma la priorità che ora scopre coralmente il nostro Parlamento, con sfoggi culturali da Dewey al Costruttivismo, sono le competenze non cognitive (NCS), vendute come scoperta anglosassone e come panacea per migliorare il successo formativo, prevenire l’analfabetismo funzionale, la povertà educativa e la dispersione scolastica.

La sindrome da bonus edilizia deve avere contagiato i membri dell’intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà fautori della proposta, i quali evidentemente pensano che siano sufficienti alcuni ritocchi alla facciata e i problemi della nostra scuola sono risolti. Si sperimenta per qualche anno e poi si vede, allo stesso modo di come si sta procedendo con la sperimentazione dei licei quadriennali. È la scuola a due velocità, da una parte si sta fermi un giro lasciando tutto inalterato, dall’altra si prova l’ebrezza del nuovo, salvo che non si tratti invece dell’usato riciclato, com’è costume storico nella nostra scuola.

La cosa strabiliante è che la proposta di legge in questione vorrebbe sperimentare l’insegnamento delle life skills, così sono definite dagli economisti le competenze non cognitive, senza indicare in alcun modo cosa siano e quali siano. 

La confusione regna sovrana. Per capirci qualcosa bisogna leggere gli ordini del giorno che accompagnano l’approvazione della proposta in Parlamento. In essi si dice che le competenze non cognitive sono le Soft Skills, quelle cioè che rappresentano una risorsa fondamentale per l’accesso al mercato del lavoro come coscienziosità, apertura mentale, autodeterminazione, mentalità dinamica e resilienza. Si evoca il premio Nobel per l’economia nell’anno 2000, James Heckman, per il quale le competenze non cognitive sono l’affidabilità, capacità di lavorare in gruppo, la perseveranza e l’impegno nel processo di apprendimento e nel lavoro.

A nessuno è dato sapere come si raggiungerà e come sarà misurata la “competenza” nelle competenze non cognitive. È comunque importante iniziare fin dalla fase prescolare e dalla prima scolarizzazione, lo suggeriscono il professor Heckman, noto per la sua ricerca empirica in economia del lavoro e, in particolare, per quanto riguarda l’efficacia dei programmi di educazione della prima infanzia. E poi c’è Martin Seligman, psicologo statunitense, fondatore della psicologia positiva, autore di molti best seller come Imparare l’Ottimismo, Come Crescere Un Bambino Ottimista e La Costruzione Della Felicità.

Quando si evocano le competenze non cognitive come un corpo a se stante, specie nella scuola, è difficile non pensare alla teoria del doppio legame della pragmatica della comunicazione e all’ingiunzione divenuta famosa: “Sii spontaneo!”. Sarà interessante verificare gli esiti dell’apprendimento: “essere spontanei”.

In definitiva non sono sufficienti le linee guida dettate dal MIUR per i PCTO, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, occorre una legge in modo che fin da subito i piccoli siano esercitati alle competenze non cognitive. Non è più una questione di competenze chiave per l’apprendimento permanente come richiesto dall’Europa, ma ne va della capacità di resilienza ed autodeterminazione dei nostri figli.

Ora, cognitivo e non cognitivo rischiano di tradursi in una sorta di dubbio amletico, di rompicapo cinese, come scindere il cognitivo dal non cognitivo, quando in realtà si vuole, almeno nelle intenzioni degli estensori della proposta, che a scuola il cognitivo si accompagni al non cognitivo, che conoscenze ed emozioni, ammesso che siano non cognitive, si intreccino durante le ore di lezione.

Noi non le chiamiamo character skills, perché non siamo anglosassoni, ma il nostro sistema scolastico, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, ha come obiettivo la formazione  della persona e del cittadino. Nelle indicazioni curricolari per le nostre scuole sta scritto che le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni  persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione. Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato.

C’è un’idea di interezza della persona dello studente difficilmente scindibile in mano destra e mano sinistra, in corpo e mente, in cognitivo e non cognitivo.

Dunque non siamo una scuola prussiana che addestra alla disciplina generazioni di alunni. Quindi attenzione ad imporre per legge l’addestramento delle emozioni, delle competenze non cognitive in nome della comunità educante il cui progetto non è detto che concordi con gli “orizzonti di significato” delle nostre bambine e dei nostri bambini, delle nostre ragazze e dei  nostri ragazzi, dei nostri adolescenti.

Mentre Mastrocola e coniuge denunciano il danno scolastico prodotto da una scuola pubblica progressista, i nostri parlamentari invece pensano che è giunto il momento di porre fine alla scuola tutta hard skills e poco soft skills, tutta abilità di calcolo, verbali, logiche, capacità di memorizzazione senza lasciare spazio a motivazione, coscienziosità, positività, estroversione, proattività, stabilità emotiva, eccetera.

Il fatto è che i dati dell’Ocse Pisa e quelli Invalsi ci dicono che le nostre scuole, da nord a sud, neppure per le hard skills brillano.

L’impressione è che intorno al capezzale del malato si agitino maghi della pioggia, improvvisatori, spesso a zero come preparazione rispetto alla cultura che sarebbe necessaria per tentare di guarire il paziente.

Sembra che intorno alla scuola si coagulino tutti i fallimenti a partire da quelli degli adulti nei confronti dei giovani. I comportamenti dei giovani sono sfuggiti di mano, ora bisogna recuperarli e siccome l’educazione famigliare e sociale hanno fallito non rimane che rifugiarsi nella scuola e commissionarle tempo fa l’educazione civica, ora l’educazione della personalità, plasmarne le character skills per correre ai ripari prima che sia troppo tardi, per evitare di crescere adolescenti dalle condotte socialmente destabilizzanti.

E poi il fallimento del mercato, che non sa cosa farsene delle competenze cognitive dei nostri giovani che quando possiedono le hard skills devono andarsene all’estero perché il sistema delle imprese nel nostro paese è arretrato di almeno vent’anni. Infine il fallimento della politica che non conosce la scuola che pretende di governare, che non possiede cultura della scuola e non sa progettare l’istruzione per il futuro.

Viviamo in un mondo controverso, il XXI secolo si è aperto come il secolo della conoscenza, con il tema del cognitivo ingigantito dalla crescita delle conoscenze e dallo sviluppo delle tecnologie, di fronte a questa montagna la nostra scuola ha continuato a fare la parte del topolino. Chi sta attrezzando i nostri giovani a vivere in questo mondo, ad abitare questo secolo senza sentirsi troppo piccoli, senza doversi tirare indietro? 

Nel giro di pochi anni siamo passati dal secolo della conoscenza al secolo della resilienza. La preoccupazione di addestrare i nostri giovani alle competenze non cognitive fa sorgere l’inquietante  sospetto che li si voglia preparare a saper reggere l’urto di una annunciata pesante sconfitta nell’incontro con il futuro.

Se fossimo il paese delle “Città Educative” …

Sono tornato a leggere in questi giorni la Carta delle Città Educative. Compirà trent’anni quest’anno, perché è nata dal primo congresso celebrato a Barcellona nel novembre del 1990. In quel documento sono raccolti i principi basilari per la spinta educativa delle città. La Carta è stata poi revisionata in occasione del III° Congresso Internazionale tenuto a Bologna nel 1994 e in quello di Genova del 2004 per adattare la sua impostazione alle nuove sfide e necessità sociali.

L’ho ripresa in mano perché continuava a stonarmi nell’orecchie il fatto che la ministra dell’istruzione Azzolina, nelle linee guida per la ripresa scolastica autunnale, avesse scelto di utilizzare l’espressione “comunità educante” per invocare la collaborazione dei territori e dei portatori di interesse.

Per uno come me, che da anni continua ostinatamente a occuparsi di Città della Conoscenza, Learning Cities e Ciudades Educadoras, tutte individuate dall’Unione Europea come soggetti formativi per eccellenza del nuovo millennio, quella ‘comunità educante’ tanto novecentesca continuava a stridere.

Ora non posso dire se l’espressione scelta dalla ministra sia dovuta ad una precisa intenzionalità o, invece, sia solo il frutto di una scarsa competenza.

Un dato è però certo che, se la Carta delle Città Educative fosse stata fatta propria da tutte le città del paese e dai governi che si sono succeduti fin qui, con ogni probabilità sia la chiusura forzata delle scuole, sia la ripresa scolastica avrebbero permesso alle famiglie, a bambini e adolescenti di pagare un prezzo meno caro. 

L’impreparazione ad affrontare gli effetti della pandemia sul piano educativo non è stata solo della scuola, ma anche dei territori e delle nostre città.  Sento già chi osserva che negli altri paesi non è andata meglio. Certo, ma questo non può esimere da aprire una riflessione su che cosa avrebbe potuto accadere, se nelle nostre città da tempo fosse diffusa, organizzata e funzionante un’ampia rete di istruzione permanente, tanto da dare per scontato che formazione formale e formazione non formale collaborino e dialoghino costantemente, fino a intersecarsi. Questo avrebbe prodotto una maggiore differenziazione e distribuzione dei compiti formativi tra scuole e istituzioni del territorio. Molto probabilmente avremmo avuto a disposizione una pluralità di luoghi oltre alle aule degli istituti scolastici, sarebbe stato possibile frazionare le classi in gruppi più ristretti come è avvenuto in Germania e in Inghilterra, avremmo potuto fare affidamento su più risorse umane per far fronte al  moltiplicarsi delle necessità di insegnamento e per non lasciare i più piccoli tanto a lungo confinati in casa, coinvolgendo oltre al personale scolastico e agli educatori comunali, insegnanti messi a disposizione dall’associazionismo e dal volontariato, figure di esperti disposte a farsi carico di sostenere lo studio delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Le nostre città sarebbero state più smart, così da poter contare su pratiche di didattica a distanza e sull’utilizzo di reti digitali da tempo già collaudate. 

Le linee guida per la ripresa autunnale avrebbero avuto come destinatari le reti educative territoriali anziché auspicare il coinvolgimento di fantomatiche comunità educanti.

Insomma l’emergenza non sarebbe stata affrontata con un occhio tutto ed esclusivamente ripiegato sulla scuola, dai banchi alle distanze.

L’Aice è l’Associazione Internazionale delle Città Educative che si è costituita a Bologna nel 1994, si tratta di una struttura collaborativa permanente tra diversi comuni europei sul tema dell’Istruzione e della Formazione Continua, di cui fanno parte quasi 500 città da 37 Paesi del mondo.

In Italia vi aderiscono altre 17 città (Siracusa, Foggia, Roma, Castelfiorentino, Ravenna, Genova, Collegno, Torino, Settimo Torinese, Brandizzo, Busto Garolfo, Orzinuovi, Brescia, Vicenza, Venezia, Sacile e Portogruaro), ciascuna con una propria rete interna di associazioni, scuole, accademie. Il Comune di Bologna fa parte di altre 8 reti internazionali.

Diciotto in tutto su 7915 comuni italiani a cui spetta il titolo di città, esattamente lo 0,22%.

Rimane senza risposta, dunque, la domanda relativa a come si sarebbe potuta affrontare l’emergenza scolastica se negli anni, a partire dai vari governi e dai ministri che si sono succeduti alla guida dell’istruzione, si fosse provveduto a incentivare in tutto il paese la diffusione delle ‘città educative’, anziché perdersi dietro la vuota retorica della comunità educante.

Se questa non è colpevole inerzia diseducativa, non saprei come definirla, inerzia diseducativa che coinvolge non solo chi amministra le nostre città, ma anche il governo e il ministro che avrebbe il compito di occuparsi di istruzione, con un occhio che guardi oltre viale Trastevere e non solo alla punta dei propri piedi. 

La grande sfida del XXI secolo è  “investire” sull’istruzione,  su ogni persona giovane o adulta, di modo che ognuno sia sempre capace di esprimere, affermare e sviluppare il proprio potenziale umano, con le proprie singolarità, creatività e responsabilità. Amministrazioni cittadine che progettano  sviluppo urbano, architetture, spazi e politiche senza mai perdere di vista che devono essere funzionali anche alla formazione continua dei loro abitanti, formazione che costituisce la vocazione, il compito prioritario di ogni città educativa, moltiplicando i luoghi e le reti dell’ apprendimento.

Ciò che preoccupa è che a livello locale come a livello nazionale in materia di formazione il pensiero si sia da troppo tempo arrestato e si continui a ragionare con le logiche del secolo scorso, quelle del novecento, da lungo inadeguate, alimentando l’impressione che per le nuove generazioni il futuro non sorgerà mai.