Spazio vitale, spazio genitoriale

Culle vuote cervelli fini

E perché dovremmo fare figli? Per pagare le pensioni agli anziani? E che logica è questa?

O forse perché la vita è sacra, è un dono di dio? A leggere il libro della Genesi più che un dono pare un castigo. E già questo ha inficiato per secoli il rapporto dell’uomo con la vita, con la sofferenza che comporta, con il corpo carcere dell’anima, ma poi c’è il lieto fine, la soluzione finale della vita eterna, di quale genere non è dato di sapere.

È auspicabile credere che, a prescindere dalle narrazioni delle fedi religiose, la vita sia sacra per tutti in quanto vita, punto e basta. Senza fughe dalle nostre responsabilità e proiezioni in dimensioni ultraterrene.

Perché fa orrore pensare alle morti violente in guerra, alle morti per follia, per abbandono, per fame e miseria, per sfruttamento, per malattie dolorose e incurabili.

E, se abbiamo appreso ad aver cura e rispetto di questa sacralità della vita prima di decidere di mettere al mondo dei figli, significa che  abbiamo compiuto un ulteriore passo avanti nella conquista della civiltà. Perché, mentre si fanno i calcoli della decrescita demografica, si archiviano in quell’immenso contenitore che è la rimozione i morti per le nostre responsabilità di esseri umani che stanno alla  vita come a un tavolo della roulette.

Perché mai dovremmo moltiplicarci, per replicare l’homo demens, le nostre retoriche narrazioni e liturgie?

E se fosse che le culle sono vuote perché dopo secoli di ignoranza siamo finalmente divenuti homines sapientes?

La vita non è più un mistero per noi, possiamo ricostruirla come un gioco con i pezzi del Lego, possiamo generare figli in provetta, siamo esperti di ingegneria genetica e di intelligenze artificiali, tanto che dovremmo guardare al triangolo famigliare freudiano, alle famiglie monogamiche e poligamiche come qualcosa di distante, appartenente ad ere di costumi ancora tribali. Quando si doveva provvedere a produrre braccia per la terra e per le guerre, la prole per rimpiazzare l’operaio in fabbrica, quando si passava dalle famiglie patriarcali delle case rurali alle famiglie mononucleari dei condomìni nelle periferie delle città.

Secoli culturali di distanza. Madre, padre, famiglia forse restano iscritti nel passato, il tempo culturale ne ha dissolto il senso. Ben più consistente c’è rimasta nelle nostre mani la vita, il suo peso, l’uso che ne facciamo. 

L’ingegneria della vita ciascuno se la monta come meglio ritiene. Un’ingegneria tanto complessa quanto responsabile, perché nessuna vita si getta, nonostante se ne continui ancora l’abuso in ogni parte del globo. 

Scegliere di generare vite richiede preparazione e risorse, sfidare la crudele condanna del dio della Genesi “crescete e moltiplicatevi”, perché nessuna vita può essere usa e getta, perché soprattutto, umanamente, non possiamo più ammettere vite di scarto, non possiamo più accettare di sacrificare vite alla vita.

L’uomo non è più la marionetta del cervello rettile, può guardare alla vita con distacco, guardarla da fuori, per non esserne gestito ma essere lui a gestire la sua  vita, a deciderne l’inizio e la fine.

La vita non c’è data per concessione divina, la nostra vita la vogliamo poter prendere in mano e tenerla nelle mani della nostra responsabilità, la nostra come quella degli altri.

Crescere altre vite è complicato, non puoi lasciarle al loro corso, a una provvidenza che non c’è,  con prezzi troppo alti da pagare, che non hanno un ritorno, se non costruendosi un altro mondo lungo i sentieri metafisici.

La vita comporta una esistenza e ancora non abbiamo trovato il problem solving dell’esistenza. Chi se la sente di accompagnare vite, come occasionali viaggiatori di un tempo, a crescere contro il loro tempo per un altro tempo che ancora non c’è?

Perché dovremmo scegliere di donare la vita contro l’esistenza?

E se fosse che il tempo delle culle vuote fosse il silente sempre più corale grido dell’uomo schopenhaueriano che, senza averne le parole, proclama la verità sugli orrori dell’esistere? Non più disposto a puntare come posta la vita sul tavolo della scommessa metafisica.

Non siamo più disposti a reclutare figli alla nostra battaglia. Vogliamo che il desiderio del nostro amore sia chiamato a condividere la pace e la serenità che ne può derivare.  Se questo non è possibile, è inevitabile che dopo di noi non ci saranno altri coscritti arruolati a lottare contro l’esistenza a costo della loro vita.

Forse gli animali non possono provare indignazione per il dolore immotivato che la natura ci riserva, che ci infliggiamo per le nostre azioni. 

È questa indignazione che ancora ci salva. Essere capaci di indignazione ci rende umani, ci tiene lontani dai territori dei tormenti più lancinanti, dai prodotti delle nostre miserie. 

È questa la nostra redenzione, ritrovare la lucidità di giudicare le nostre esistenze, affinare il cervello e avere il coraggio di lasciare le nostre culle vuote.

Bruno Bettelheim ha scritto che per essere genitori bisogna essere bravi giocatori di scacchi, saper prevedere in anticipo le possibili mosse e le probabili contromosse.

Forse è quello che ci sta accadendo, seduti al tavolo della scacchiera della vita non ci sentiamo di intraprendere un’altra partita, proprio perché abbiamo appreso a prevedere come sarà giocata.