Le scuole parallele

Non c’è niente di più costituzionale dell’istruzione per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, eccetera, eccetera. È l’istruzione, dunque, che può fare la differenza. Eppure, nonostante il ministero dell’istruzione, di istruzione si parla poco nel nostro paese, come se l’istruzione fosse un accidente e su tutto dovesse prevalere l’educazione, che resta termine ambiguo e non identificato.

Lo Stato, invece, una sua idea di istruzione ce l’ha, avendo per dettato costituzionale (art. 117, com.1, lett. n) legislazione esclusiva relativamente alle norme generali dell’istruzione. Questa idea è addirittura prescrittiva ed organicamente sancita dalle Indicazioni Nazionali relative al Primo Ciclo e al Secondo Ciclo dell’Istruzione. 

Per fare solo un esempio il nostro Stato ritiene prescrittivo che al termine del primo ciclo di istruzione le nostre ragazze e i nostri ragazzi, in uscita dalla terza media, siano in grado di leggere testi letterari di vario tipo (narrativi, poetici, teatrali), di scrivere correttamente testi di tipo diverso (narrativo, descrittivo, espositivo, regolativo, argomentativo) adeguati a situazione, argomento, scopo, destinatario. Di produrre testi multimediali, utilizzando in modo efficace laccostamento dei linguaggi verbali con quelli iconici e sonori.
Di padroneggiare e applicare in situazioni diverse le conoscenze fondamentali relative al lessico, alla morfologia, allorganizzazione logico-sintattica della frase semplice e complessa, ai connettivi testuali; di utilizzare le conoscenze metalinguistiche per comprendere con maggior precisione i significati dei testi e per correggere i propri scritti. 

È tutto scritto nei Traguardi per lo sviluppo delle competenze al termine della scuola secondaria di primo grado.

Se non basta, sempre a mo’ di esempio, prendiamo le Indicazioni Nazionali  per i Licei, dopo tredici anni di scuola. Ci sta scritto, caso mai qualcuno non le avesse mai lette, che “Al termine del percorso liceale lo studente padroneggia la lingua italiana: è in grado di esprimersi, in forma scritta e orale, con chiarezza e proprietà, variando – a seconda dei diversi contesti e scopi – luso personale della lingua; di compiere operazioni fondamentali, quali riassumere e parafrasare un testo dato, organizzare e motivare un ragionamento; di illustrare e interpretare in termini essenziali un fenomeno storico, culturale, scientifico. 

Losservazione sistematica delle strutture linguistiche consente allo studente di affrontare testi anche complessi, presenti in situazioni di studio o di lavoro. A questo scopo si serve anche di strumenti forniti da una riflessione metalinguistica basata sul ragionamento circa le funzioni dei diversi livelli (ortografico, interpuntivo, morfosintattico, lessicale-semantico, testuale) nella costruzione ordinata del discorso.” 

Se qualcuno ha un’idea di qualità dell’istruzione migliore si faccia avanti. Per il momento questa è la qualità che lo Stato legislatore esige dalle sue scuole, e a me sembra di tutto rispetto. Tralascio le competenze matematiche per non appesantire il lettore.

Allora viene da chiedersi come mai sia possibile che al termine di un ciclo scolastico durato 13 anni, non raggiungono un livello accettabile di competenze, definito in ambito internazionale come livello 3, il 51% dei diciannovenni italiani in matematica e il 44% in lettura, con percentuali che sfiorano il 70% in alcune regioni del Sud per quanto riguarda la matematica.

Lo Stato è prescrittivo in materia di competenze e di livelli di apprendimento da raggiungere, ma poi come ci si arriva è affare dell’autonomia scolastica (quella del DPR n.275 dell’8marzo 1999) e della libertà di insegnamento riconosciuta ai docenti dall’articolo 33 della Costituzione.

Lo Stato avvisa che le sue sono “Indicazioni”, dunque non “Programmi”, perché lo Stato fissa i traguardi ma non i percorsi, lo Stato non ha alcun modello didattico-pedagogico da dettare. La strada che porta all’istruzione di qualità, ai livelli di apprendimento è lastricata di sperimentazione, di scambio di esperienze metodologiche, del ruolo dei docenti e delle autonomie scolastiche nella scelta delle strategie e delle metodologie più appropriate a raggiungere il successo formativo. 

Nel 2013 l’indagine Talis (Teaching and Learning International Survey), incentrata sull’analisi degli ambienti di apprendimento, metteva in luce come, a giudizio degli stessi docenti intervistati, l’Italia sia il paese dove è maggiormente diffusa la strategia didattica trasmissiva, nella quale lo studente ha quasi sempre un atteggiamento passivo, il “vaso da riempire” di pedagogica memoria.

Ancora più negativi i risultati relativi alla capacità degli insegnanti di personalizzare le pratiche di insegnamento, prestando attenzione alle differenze fra gli studenti e sostenendo i loro bisogni emotivi: quasi l’80% dei docenti osservati non compie alcuno sforzo di adattare le attività in classe alle diverse esigenze degli studenti.

Emerge un’organizzazione dell’insegnamento “blindata”, in cui la maggior parte dei docenti è più preoccupata di garantire una trasmissione di contenuti che di sviluppare l’autonomia nell’apprendimento dei ragazzi.

Da un lato l’Istruzione normata sancita dalle Indicazioni dello Stato, dall’altro l’istruzione reale praticata quotidianamente nel rumore d’aula.

Due scuole parallele che non si incontrato. L’una disegnata dal legislatore, l’altra che si trascina pigramente, perché si è fatto sempre così, si faceva prima quando si sedeva dietro i banchi, si fa ora che si siede dietro la cattedra. Un modo di insegnare che ha avuto i suoi rinforzi negli anni di frequenza dell’Università. Semmai non si sono neppure mai lette le Indicazioni Nazionali relative al grado di scuola in cui si insegna, preferendo seguire i libri di testo e le guide didattiche.

Non è la scuola progressista che ha aumentato le disparità, ma la convinzione dura a morire che insegnare corrisponda alla propria idea di istruzione, costruita sulla base della propria esperienza scolastica. Se è andata bene per me perché non dovrebbe andare bene anche per gli altri. Così nel nostro paese si fa scuola a prescindere dalle scelte del legislatore destinate a cadere nel vuoto delle nostre aule.

Indicazioni nazionali e Autonomia scolastica sono le strutture portanti del nostro sistema formativo, entrambe sono il prodotto della migliore riflessione  e ricerca nell’ambito delle scienze dell’educazione e in campo amministrativo che questo paese abbia saputo produrre. Costituiscono la fortezza Bastiani da difendere e da realizzare. Questi sono i bastioni su cui fondare la lotta contro la povertà educativa e gli impegni presi con il PNRR, dalla formazione dei docenti all’edilizia scolastica.

Una scuola fuori di testa*

Che un buco nel muro potesse diventare un luogo di apprendimento come minimo deve aver fatto rivoltare nella tomba il gota del pensiero pedagogico da Comenio a Froebel e oltre. Ora le “scuole cloud” di Sugata Mitra hanno conquistato l’India, il Messico, l’Inghilterra e il loro ideatore oggi è un’icona.

Non è che l’idea di Mitra sia poi così nuova. È antica per lo meno quanto la ricerca pedagogica da Socrate a Pestalozzi, da Maria Montessori a Jean Piaget, da quando avrebbe dovuto divenire patrimonio culturale comune di ogni scuola del globo terracqueo che l’apprendimento è una continua invenzione, che si apprende giocando e inseguendo le proprie curiosità.

A Nuova Delhi i computer nei buchi dei muri degli slum perché i bambini apprendano, da noi minacciose circolari ministeriali sull’uso dello smartphone a scuola, chi vorrebbe sostituire i tablet con le predelle, i dies irae socio-psico-pedagogici intonati per scongiurare come la peste la didattica a distanza.

A undici anni, nel 1890, Albert Einstein frequentava una scuola ispirata al metodo Pestalozzi e lì gli fu data la possibilità di iniziare i suoi primi esperimenti che l’avrebbero portato alla teoria della relatività. I fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, hanno affermato di dovere spirito di indipendenza e creatività alla loro istruzione montessoriana. 

Secondo i neuroscienziati della Northwestern University se non siamo noi quelli che controllano il proprio apprendimento, difficilmente impareremo. 

Lo psicologo Peter Gray, professore al Boston College, che studia i modi naturali di apprendimento dei bambini, sostiene che i meccanismi cognitivi umani sono fondamentalmente incompatibili con la scuola convenzionale. Gray sottolinea che i bambini piccoli, motivati dalla curiosità e dalla giocosità, apprendono moltissimo sul mondo. Eppure quando raggiungono l’età scolare, quella spinta innata a imparare viene sostituita da un curricolo imposto. Stiamo insegnando agli studenti che i loro pensieri e le loro domande non contano, che ciò che conta sono le domande e le risposte dei programmi scolastici. Questo non è il modo in cui la selezione naturale ci ha progettati per imparare. Ci ha progettato per risolvere i problemi e capire le cose che fanno parte della nostra vita reale. 

Una scuola fuori di testa per dirla con Ken Robinson, divenuto famoso per i suoi TED, sul ruolo della creatività in materia di istruzione, le visualizzazioni attraverso il sito web di TED nel 2021 sono state oltre 70 milioni.

Abbiamo bisogno di creatività, di intuizione, inventiva, della curiosità che spinge a formulare domande e ipotesi che sono il motore di ogni sapere.

Una scuola libera dove si apprende a liberare se stessi, le proprie energie e potenzialità, a dare slancio al proprio sviluppo sociale e intellettivo.

Le free-school non mancano per il mondo, quella di Brooklyn la potete trovare sul web, si presenta come il luogo dove i bambini, ragazze e ragazzi sono liberi. Due registi indipendenti, Kenneth Chu e Diana Ecker, hanno realizzato un film documentario incentrato sulla vita quotidiana e sulle realtà emotive di una comunità estremamente diversificata di studenti dall’asilo nido alle superiori.

C’è anche la “Scuola dell’uno”, “School of one”, un programma sperimentale condotto nelle scuole pubbliche di New York il cui obiettivo è quello di creare una “playlist di apprendimento” personalizzata per ogni studente.

La didattica della trasmissione non ha bisogno di intelligenze, ha bisogno di megafoni e i megafoni sono gli studenti, il megafono può parlare o scrivere, ma sempre megafono resta. Quando il megafono non funziona o viene eliminato o si elimina da solo.

Che lo si voglia o no questo è ancora il modello dominante dell’istruzione pubblica, quello generato dalla rivoluzione industriale, quando il mercato del lavoro apprezzava puntualità, regolarità, attenzione e silenzio sopra ogni altra cosa. Oggigiorno è rimasto solo il nostro sistema educativo ad apprezzare questi “valori” con le sue routine che mettono alla prova  gli studenti di ogni età sulla loro capacità di trattenere informazioni e replicarle. L’editoria dei testi scolastici fa da guida indicando agli insegnanti cosa insegnare ogni giorno. 

I risultati parlano da soli, centinaia di migliaia di abbandoni scolastici ogni anno, e oltre un terzo dei diplomati alla scuola superiore che non è preparato per affrontare i corsi universitari. 

Chi difende la scuola tradizionale difende un’epoca che non c’è più, incapace di interpretare il presente. C’è rimasto un paese arretrato, indietro di decenni, che ha scritto pagine di riforma della scuola senza mai riformarla, perché a fare la scuola sono gli insegnanti i quali hanno continuato a fare come hanno sempre fatto, vale a dire a insegnare come è stato insegnato a loro con la complicità di una università identica a se stessa impreparata per preparare chi avrebbe dovuto “formare ad apprendere”.

Una scuola che non riesce a produrre le “teste ben fatte”, perché è una questione di generazioni culturali che devono esaurirsi, perché ben fatte non sono le teste di chi si deve occupare delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi che ha davanti.

O si produce una nuova generazione di educatori capace di formare se stessa nel vivo della relazione con i bisogni formativi di ciascuno studente, lontana da tutti gli armamentari educativi di un secolo per sempre concluso o neppure la replicante strada delle riforme e dei provvedimenti più o meno estemporanei potrà salvare il nostro sistema formativo.

Una scuola che non può pretendere di restare ancorata a certezze che non esistono più in un mondo in continua metamorfosi che mette in questione ogni strumento del sapere, mentre le nostre enciclopedie di riferimento diventano obsolete e di conseguenza necessitano di essere continuamente reinventate.

Scopo dell’istruzione è prendersi cura del sapere, alimentare l’esplorazione, la curiosità degli studenti, interrogarsi su come si apprende in questo tempo di continue trasformazioni.  Un lavoro di cura che comporta tempo e fatica, difficoltà di comprensione perché le coordinate non sono più quelle di prima. Un lavoro che chiama in causa la responsabilità e la formazione degli insegnanti, di chi ha scelto di percorrere la strada  che porta ad appropriarsi della cultura e del patrimonio di saperi dell’umanità a fianco delle giovani generazioni.

*Pubblicato anche da EDSCUOLA.EU

Il condono scolastico

Se c’è un abito rappezzato i cui rammendi non tengono più, quello è l’esame di stato.

Eppure con ostinazione, degna di miglior causa, continuiamo a pretendere che nuove leve di maturandi lo indossino, dimostrando le condizioni di povertà in cui versa il nostro sistema formativo.

Ora quarantamila studenti hanno indirizzato al ministro dell’istruzione la richiesta di abolire le prove scritte per la sessione 2022 dell’esame di stato in considerazione di una scuola ridotta a singhiozzo da ben due anni di pandemia. 

Non hanno chiesto, visto che ci sono ancora parecchi mesi prima del prossimo giugno, di aumentare le ore settimanali di scuola per recuperare gli apprendimenti perduti, di saltare le vacanze di Natale e di Pasqua, ma di abolire le prove scritte in modo da occultare eventuali buchi nella loro preparazione. In definitiva, visto che di questi tempi un bonus non si nega a nessuno, anche loro chiedono un bonus, il bonus esame di stato.

Ciò che dovrebbe far riflettere e preoccupare per primi gli studenti, poi gli adulti, i docenti, lo stesso ministro è che dietro la richiesta di abolire gli scritti c’è la consapevolezza di uscire dal ciclo scolastico non sufficientemente preparati, di aver speso male il proprio tempo e, dunque, l’esame deve essere più facile.

Non si sta rivendicando la tutela del diritto allo studio violato da anni di pandemia, da un sistema scolastico atrofizzato, no, si avanza una petizione per ottenere un condono.

Non siamo di fronte ad una farsa, ma a una tragedia.

Tragedia perché la preparazione persa difficilmente potrà essere recuperata e a pagare saranno quegli stessi studenti che ora chiedono il condono delle prove scritte anziché pretendere che venga loro restituito quanto gli è stato sottratto in termini di apprendimenti e competenze, in tempo scuola, in ore di lezione a cui avevano diritto.

Il fallimento di una formazione scolastica che in tredici anni di istruzione non è riuscita a inculcare in ragazze e ragazzi l’importanza di possedere saperi e competenze e che questi non si possono barattare con giochini volti a eludere l’importanza di apprendere, non per i voti a scuola, ma per la propria vita da gestire dopo. 

Un sistema di istruzione da cui si può uscire con meno anziché con più è come un ospedale che dimetta i suoi pazienti dopo una degenza senza cure. Cosi funziona la nostra scuola, incapace di fornire le cure di cui ciascuno ha bisogno. Non c’entrano l’abolizione del latino, la media unica e il repertorio di accuse alla pedagogia progressista, abbiamo semplicemente perduto la scommessa dell’I Care di Barbiana, sempre che la scuola pubblica l’abbia mai fatto suo. 

Una scuola incapace di cura, di dare a chi non ha, di recuperare gli svantaggi. E siccome la scuola è consapevole di questo dimette senza cure.

È quello che pretendono i quarantamila studenti che chiedono l’abolizione delle prove scritte, anziché rendersi conto di cosa è stato tolto loro in questi anni di pandemia ed esigerne la restituzione, perché usciranno dalla scuola più poveri di saperi e competenze.

Dovrebbe essere il ministro a garantire il diritto allo studio alle generazioni della pandemia, mettendole nelle condizioni di sostenere le prove scritte dell’esame di stato, fornendo loro più ore di insegnamento/apprendimento. Dovrebbe essere il ministro a prendersi cura di ragazze e di ragazzi, non somministrandogli palliativi ma attrezzando il sistema formativo in modo che l’emergenza sanitaria non produca discriminazioni tra il prima e il dopo e che la qualità dell’istruzione sia sempre preservata per tutti.

Allora non deve stupire l’appello degli studenti né produrre elucubrazioni circa la fuga dei giovani di fronte alle difficoltà e neppure il ritorno alla nauseante importanza formativa dei riti di passaggio.

Tutto questo è un sintomo che nasconde la vera causa: lo stato fallimentare di un sistema formativo vissuto come qualcosa che si può contrattare e contrarre a seconda delle situazioni. A nessuno, a partire dal ministro, passa per la testa che la vera questione diseducativa è avere cresciuto generazioni che chiedono meno studio anziché più studio, che considerano la scuola più una necessità che un’utilità, più un dovere che un’occasione.

O c’è un’idea di riforma dell’esame di stato, cosa che non può essere lasciata continuamente all’estemporaneità di ogni singolo ministro dell’istruzione, o diversamente non è certo educativo il messaggio ti chiedo di meno perché ti ho dato di meno. 

Nel caso della scuola ti ho dato di meno significa che ti ho privato di occasioni fondamentali per la tua formazione. Nel sapere e nelle competenze non c’è un più o un meno, o ci sono o non ci sono.

Occorre risalire a ritroso nel percorso formativo per individuare dove è iniziato quel dare meno che produce le differenze all’interno di una classe, di un istituto fino a investire le regioni del paese, il Nord e il Sud. 

È questa ricerca il compito dell’Invalsi, l’attrezzo prezioso a disposizione delle scuole che vogliano e lo sappiano usare, perché la scuola sia un luogo di cura e non di degenza e che non sia necessario l’esame di stato per accorgersi della malattia, quando ormai è troppo tardi. 

L’Invalsi ha messo a disposizione i dati relativi agli apprendimenti durante la pandemia, è legittimo domandarsi che uso ne è stato fatto. Per togliere o per dare di più? Per aggirare le difficoltà o per attrezzarsi a superarle?

Che nel chiedere lo sconto-scritti gli studenti non abbiano messo in conto la qualità del loro futuro è comprensibile perché loro vivono al presente, non è ammissibile da parte di chi ha la responsabilità di far funzionare la macchina formativa più importante del paese, per il paese e per il futuro delle generazioni-pandemia.

“T’aggia ‘mpara’ e t’aggia perdere”

H. Bosch «Trittico dell’Epifania» particolare, Madrid, Museo del Prado

Mi piacerebbe poter scrivere in fondo  a destra, tra parentesi, la parola continua come nei giornaletti della mia infanzia.

“Continua” sì, perché la Scuola da sempre è  una grande narrazione e la narrazione è  lo strumento principe della costruzione e della trasmissione del sapere.

Anche se tutto questo, oggi, rischia di porre la Scuola, assieme alle grandi culture  fondate sulla narrazione, fuori dal tempo, se, come già molti anni addietro ci avvertiva Walter Benjamin, la condizione postmoderna è caratterizzata dalla crisi del narrare. Jean Francois Lyotard parla di crisi dei grandi racconti e il Calvino di  Se una notte d’inverno un viaggiatore denuncia il nostro oggi come luogo di un mondo in cui sembrano esistere solo storie destinate a restare in sospeso, a perdersi per la strada.

Lo scopo originale del narrare è lo stesso dei grandi miti come osserva Eco: dare ordine al disordine delle esperienze. Le storie, sia quelle costruite dallo scienziato che dalla persona comune, sono i modi “universali” per attribuire e trasmettere significati agli eventi umani.

Raccontare una storia anziché descrivere un fenomeno rappresenta un’opzione gnoseologica, la scelta di un modello di conoscenza e non la rinuncia ad esso.

Sono convinto che proporre oggi una pedagogia narrativa che si faccia carico di un interrogativo sul “perché raccontare” non sia da ritenersi un fatto innocente,  né neutro, né banale.

Il processo formativo è sempre e comunque peculiarmente narrativo: si racconta e ci

si racconta, il narrare formativo è la costruzione di significati, la costruzione di realtà possibili, non soltanto confinate nel mondo del virtuale.

Ognuno è il prodotto delle storie che ha ascoltato, vissuto e anche di quelle che non ha vissuto, allora risulta inevitabile nei contesti formativi trovare spazio alla narrazione, come oggetto, strumento e soggetto del processo.

La formazione, la formazione delle giovani generazioni, non può e non deve  rinunciare alla propria dimensione intrinsecamente narrativa, in almeno tre direzioni:

1 – una formazione che sappia valorizzare la dimensione narrativa dei “contenuti”: raccontare l’impresa, raccontare la motivazione, raccontare la comunicazione, ma persino raccontare l’informatica…

2 – una formazione pedagogica, esperta nell’analisi delle narrazioni, preoccupata di tenere deste le capacità narrative della comunità civile, che miri ad insegnare, ad ascoltare narrazioni ed a produrre narrazioni. Ecco: l’educazione alla memoria, ad una memoria collettiva socialmente legittimata come chiave di lettura anche di periodi di crisi.

3 – una formazione  all’autobiografia  che non è solo un modo di raccontarsi, un disvelamento a sfondo narcisistico, o una spiegazione/giustificazione post hoc delle scelte compiute nel corso dell’esistenza. Scrivere la propria storia è un modo per apprendere qualcosa su di sé. Scriverla perché sia letta è un modo per formare altri alla comprensione di sé.

Tre direzioni, che sono anche motivazioni, e che devono essere assunte come proprie

da chi lavora nella e per la  formazione.

Ogni anno scolastico altro non è che una narrazione in cui comporre le pagine biografiche di bambine e bambini, di ragazze e di ragazzi, con la consapevolezza che il progetto di vita è uno solo e non è mai  quello che spesso altri hanno stabilito  in un altrove sempre lontano da noi stessi. 

Il bilancio del lavoro di ogni insegnate è nella biografia personale dei ragazzi e delle ragazze che hanno occupato le loro aule, ascoltato, partecipato alle loro lezioni, alle loro proposte e prospettive formative.

Erri de Luca fa dire a un personaggio di un suo romanzo: “t’aggia ‘mpara’ e t’aggia perdere”. Devo insegnarti tutto e poi devo perderti. È nella natura del mestiere di chi lavora a scuola.

L’insegnate non è certo un emigrante e neppure qualcuno che ha dovuto espatriare in cerca di un lavoro. Ma certamente la professione che si esercita nella scuola rende migranti, migranti nei territori della cultura e della ricerca, migranti da una sede all’altra verso nuove esperienze, migranti verso nuove sfide pedagogiche e professionali, con le classi e le generazioni di alunni che cambiano. 

Migranti perché la formazione è per sua costituzione senza meta ed è ben rappresentata dalla storia dell’Imperatore della Terra Gialla, il quale vagando a Nord dell’Acquarossa, salì sul monte Cuenlùn e guardò verso il Sud.

Al ritorno perdette la sua perla magica.

Mandò Conoscenza a cercarla, ma non la trovò.

Mandò Chiarosguardo a cercarla, ma non la trovò.

Allora mandò Senzameta e la trovò.

“Strano davvero” disse l’Imperatore, “che proprio Senzameta sia riuscito a trovarla”.

Quella del viaggio è la metafora che più calza e più mi piace a proposito del lavoro scolastico.

Ma soprattutto il viaggio è uno spazio in cui si definisce l’identità del viaggiatore: “Gli esseri umani non sono realtà fisse con una propria identità precostituita che a un certo punto si mettono a fare delle scelte. Siamo invece esseri in divenire la cui identità viene continuamente trasformata dalla riflessione e dall’azione.”

Il romanzo di Erri de Luca, che ho citato poco sopra, narra la storia di uno scugnizzo napoletano che ama la scuola e l’istruzione, che legge gratis i libri delle bancarelle, incontrando figure adulte che in questo lo aiutano e lo incoraggiano, che ascolta le grandi narrazioni dalla geniale figura di un saggio portinaio che l’ha adottato, un ragazzino che si appresta a un viaggio in nave verso l’Argentina che vive come il luogo della sua felicità e il titolo del romanzo è “Il giorno prima della felicità”.

Ogni giorno di scuola delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi vorrei che fosse “il giorno prima della felicità”. Qualcuno dirà ma allora la felicità non viene mai, ma io credo nella sindrome del Sabato del villaggio, che il bello della vita sta nell’impegno, nell’intelligenza, nell’entusiasmo, nelle aspettative che si vivono sempre  il giorno prima dell’evento, della festa, della felicità, è per questo che la storia continua.

Dal diritto all’Istruzione al diritto alla Conoscenza

Qualcuno ha scritto che nell’economia della conoscenza lo sviluppo umano non dipende dall’avere di più, ma dall’essere di più, diventando un co-creatore del futuro dell’umanità.

Qualcuno potrebbe chiedersi che fine ha fatto la conoscenza, quella che l’Europa unita prometteva agli esordi del nuovo secolo come motore della sua crescita e del suo sviluppo. Se c’è qualcosa che la pandemia ha messo in crisi è proprio la conoscenza come coscienza e consapevolezza, come capacità di apprendere ad apprendere, per nostra fortuna la conoscenza ha comunque preso rapidamente la strada della ricerca che ora ci consente di combattere il virus con i vaccini.

Ma che la conoscenza non avesse buona cittadinanza l’avevamo compreso da subito dal diffondersi di pubblicazioni del tipo Ignorantocrazia, La conoscenza e i suoi nemici e altre ancora. Per non parlare dell’allarme generale suscitato dalle competenze quasi fossero malattie contagiose, fino alla complessità temuta come disegno di potenze occulte con l’intento di sconvolgere l’ordine mondiale.

Eppure tutti questi lugubri cascami mentali continuano a riprodursi, ad alimentarsi come effetti di  una malattia sociale che continua a persistere: l’ignoranza, perché la società della conoscenza promessa a Lisbona nel 2000 è rimasta a Lisbona senza fare alcuna strada.

Ci aveva avvisato Bauman nelle sue 44 lettere dal mondo liquido, la cosa più ardua sarebbe stata preparare gli esseri umani ad apprendere l’arte di vivere in un mondo più che saturo di informazioni. Informazioni, non saperi e neppure conoscenze.

Occorreva la pandemia per sorprenderci d’essere sopraffatti dalle informazioni, dalla loro confusione, dalla loro babele. 

Prepararci a vivere una tale vita sarebbe stato compito degli educatori, anche loro impreparati a questa sfida. I primi ad arrendersi sono state proprio le scuole e le università, le quali, anziché affiancarci fornendoci strumenti e conoscenze, i saperi necessari, cercando di orientare, di aiutare a districarsi di fronte all’attacco alle nostre esistenze, si sono dileguate, rinchiudendosi su se stesse, del tutto impreparate all’inatteso, ad affrontare un futuro divenuto presente per il quale mai nessuna di loro aveva pensato prima di attrezzarsi per poterne affrontare le incognite.

Abbiamo ascoltato i maghi della pioggia, ognuno solo con la sua voce senza avere alle spalle gli apparati accademici, quelli stessi che dovrebbero garantire l’attendibilità di saperi e competenze. Personaggi televisivi da talk show, un’offesa all’ansia delle persone, alle tragedie scatenate, alla gravità della situazione. Una superficialità umana che fa dubitare della credibilità di un’idea come la società della conoscenza nell’epoca della conoscenza. La supremazia dell’incultura come trastullo di cittadini incolti presuntuosamente convinti della bontà di una rete incolta.

L’ignoranza, la presunzione, l’incultura erano e sono destinate a tradursi in stupidità. Nel senso che se ne esce storditi come un pugile battuto, ma senza aver compreso alcunché.

La conoscenza intesa come coscienza, come consapevolezza, come capacità di apprendere è un diritto, un diritto di cittadinanza, perché non sei cittadino se non sai da che parte guardare. 

Ma noi il salto dal diritto all’istruzione al diritto alla conoscenza non l’abbiamo ancora compiuto. Il diritto all’istruzione, grande conquista del secolo scorso per combattere analfabetismo e svantaggi sociali, da tempo si è tradotto in diritto alla conoscenza, continua e permanente. La conoscenza e la sua mobilitazione come diritto da conquistare nel XXI° secolo, l’espandersi dell’analfabetismo funzionale, il dilagare delle incolture social ne fanno oggi una lotta fondamentale. Potevamo farlo prima, l’idea della società della conoscenza, dell’economia della conoscenza erano l’occasione da cogliere. Ma non abbiamo capito che non era più sufficiente andare a scuola e frequentare l’università, sebbene anche da questo punto di vista come paese siamo in colpevole ritardo. Doveva essere una ragione in più, invece è stata una ragione in meno, coltivata dalla diffidenza verso il sapere.

Qui ci sta la grande questione di diritto universale, di democrazia, tanto più se pretendi la democrazia diretta, che del resto di fronte alla pandemia si è sgonfiata come un ballon d’essai.

Non riesci ad abitare questo mondo con la schiena dritta se non sei in grado di procurarti gli strumenti e le conoscenze che ti permettano di comprenderlo e di orientarti. Non è che le conoscenze si comprano al mercato, è il sistema in cui sei immerso che te le deve garantire e fornire, questa è la nuova questione sociale e politica del diritto a sapere, della forza universale del diritto a conoscere che non può essere offuscato dietro il nebbione dell’informazione. L’informazione ha bisogno di cultura senza la quale diviene manipolazione. È la questione dell’istruzione permanente, della mobilitazione delle conoscenze, della diffusione dei saperi, della transdisciplinarità d’ogni apprendimento, di un approccio scientifico ed intellettuale che miri alla piena comprensione della complessità del mondo presente. 

Ora paghiamo l’avere sottovalutato per ignoranza e arroganza in tutti questi anni il tema dell’apprendimento permanente lanciato già nel 1972 dal Rapporto Faure della Commissione UNESCO sull’educazione dal titolo significativo “Learning to be”. E proprio con la pandemia abbiamo toccato con mano che per essere, per esistere è necessario l’apprendimento, non l’apprendimento in generale, ma l’apprendimento continuo e che il destino dell’umanità è strettamente legato alla conquista dell’istruzione permanente.

L’Unesco non ha mancato di ricordarcelo fino al rapporto Delors del 1995. Dei quattro pilastri dell’educazione contenuti in quel rapporto pare che nessuno abbia retto all’impatto con la pandemia, la quale ha presto dimostrato che non abbiamo affatto imparato a vivere insieme, né a conoscere, né a fare, né ad essere. Perché nessuno l’ha insegnato. In venticinque anni si formano generazioni, ma noi abbiamo rinunciato a farlo, cullandoci nella nostra sicumera di cultori del passato, di cattedre e predelle. Apprendimenti formali sterili, apprendimenti informali e non formali negati, così neppure i cittadini hanno potuto formarsi, per accorgerci all’ultimo momento che ci eravamo distratti e che avevamo dimenticato proprio l’educazione civica. Abbiamo lasciato che il vento dell’antipolitica soffiasse sulle nostre città e sulle nostre istituzioni, spazzando via conquiste e agitando polveroni.

C’erano strade da percorrere, la strada delle città che apprendono, le città della conoscenza attribuendo valore ai cittadini, alla cura dei loro saperi,  delle loro intelligenze, alla loro creatività, più che ai mercati della cultura e dei grandi eventi.

L’Unesco fornisce una guida e una rete di sostegno alle città che vogliono fare dell’apprendimento permanente un asse portante del loro sviluppo, della loro crescita, del loro modo d’essere. Come non mancano nel mondo in tutti i continenti città che hanno fondato la loro rinascita sull’economia della conoscenza.

Ma è necessario un salto culturale, pretendere di studiare e guardarsi intorno. Non possiamo affidare i nostri destini e quelli delle future generazioni all’incultura e all’ignoranza, agli agitatori politici, ai rigurgiti di stomaco, alle cenestesie corporee. 

A noi servono studio, cultura, competenze e saperi sempre più diffusi, sempre più disponibili, sempre più accessibili, sempre più posseduti da ciascuno, perché non è la democrazia che è diventata ingombrante, ma ad essere ingombrante è l’ignoranza, è l’analfabetismo funzionale, è chi pensa di semplificare le nostre vite mettendo in discussione scienza e conoscenza.

Allora la cura delle nostre città, perché siano urbane in tutti i sensi, portatrici di un nuovo urbanesimo è una delle questioni centrali di questo secolo che ancora si trascina la zavorra del secolo passato. Non vogliamo la repubblica di Platone, ma la città è l’habitat che ci contiene, l’ambiente che ci deve essere congeniale, non possiamo consegnarla all’ignoranza, alla rete delle incolture, la città deve apprendere con noi, dobbiamo affidarla a mani sicure che dell’apprendere insieme facciano il cuore vitale e creativo del suo abitare.

Agenda 2030: come giocarsi la credibilità dell’Educazione civica nelle nostre scuole.

C’è una sostanziale inscindibilità tra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, e l’istruzione permanente, vale a dire un apprendimento che accompagna l’intero arco della vita delle persone.

Non so se di questo fossero consapevoli gli estensori della legge con la quale si è reintrodotto l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole di ogni ordine e grado del nostro paese.

Tra i temi che durante l’anno scolastico le nostre ragazze e i nostri ragazzi dovranno studiare c’è appunto questo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Nutro il sospetto che il legislatore avesse un’approfondita consapevolezza dei contenuti di questa Agenda, forse più affascinato dagli obiettivi della sostenibilità che interessato a conoscere effettivamente le pratiche richieste per la loro realizzazione dai diversi soggetti promotori dell’Agenda, dall’Onu all’ Unesco.

Questo potrebbe diventare un terreno molto sdrucciolevole per la credibilità e l’efficacia formativa dell’ Educazione civica come materia, dico subito perché e vedrò di spiegarlo meglio di seguito. 

L’Agenda 2030 avendo un obiettivo proiettato nel tempo costituisce un lavoro in progress, per questo studio e riflessione dei suoi contenuti richiederebbero di ritrovare poi una corrispondenza in quanto si va costruendo nell’ambiente sociale in cui le nostre ragazze e i nostri ragazzi sono immersi e la scuola opera.

L’Agenda 2030, come sappiamo, si propone di assicurare ambienti di vita sostenibili per le generazioni presenti e per quelle future, ha come obiettivi, tra gli altri, di assicurare un’istruzione di qualità, promuovendo opportunità di apprendimento permanente a partire dal governo delle città.

Nel nostro paese di Città che Apprendono, di Città della Conoscenza non se ne parla, fatta eccezione per rari casi che si contano sulle dita di una mano. E già qui si pone il problema della coerenza tra ciò che pretendiamo che i nostri ragazzi studino e i luoghi che abitano.

Del ruolo delle città, in particolare delle città che apprendono, le “learning cities”, nel perseguire gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile se ne è parlato in conferenze internazionali con la partecipazione di sindaci, amministratori di città di tutto il mondo, dirigenti scolastici, esperti di apprendimento, rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite, di settori privati, di organizzazioni regionali, internazionali e della società civile, a cui dubito che l’Italia abbia mai partecipato: Pechino nel 2013, Città del Messico nel 2015, Cork, in Irlanda, nel 2017, Medellín, in Colombia, nel 2019. 

Conferenze che si sono sempre concluse con Dichiarazioni nelle quali viene ribadito il ruolo centrale dell’apprendimento permanente come motore della sostenibilità ambientale, sociale, culturale ed economica.

Le città che apprendono sono per l’Onu e l’Unesco lo strumento principe per la realizzazione concreta degli obiettivi posti da qui al 2030 dall’Agenda, ora anche oggetto di studio nelle nostre scuole. 

Ma la prima incongruenza nasce dal constatare che nessuno dei nostri governi nazionali, fino ad oggi, ha fornito le condizioni fondamentali e le risorse sufficienti per costruire città che apprendono capaci di promuovere inclusione e crescita. 

L’idea di educazione permanente praticata nel nostro paese è a dir poco obsoleta, modellata com’è su una concezione dell’istruzione ancorata a categorie del secolo scorso.

Non solo oggi è necessario che l’istruzione permanente pervada tutta la vita delle persone, ma anche l’intero impianto del sistema formativo del paese.

Ora è il governo della città a costituire il fattore chiave per sbloccare tutto il potenziale della comunità urbana, attraverso l’importanza dell’apprendimento permanente, per assicurare ambienti di vita sostenibili alle generazioni presenti e future. 

Ma anche qui parliamo il linguaggio della luna. Se le nostre città non provvedono a divenire città che apprendono sarà proprio lo studio dell’Agenda 2030, nell’ambito dell’educazione civica, a far scoppiare le contraddizioni, che già le giovani generazioni con Greta denunciano.

Eppure si potrebbe fare se solo attori pubblici e privati, settori delle città e delle comunità, compresi istituti di istruzione superiore e di formazione, nonché i rappresentanti dei giovani si riunissero in partenariato per promuovere l’apprendimento permanente a livello locale al fine di garantire che tutte le generazioni siano coinvolte nel processo di crescita della città che apprende.

Gli strumenti non mancano, dalla rete Unesco delle città che apprendono alla Dichiarazione di Città del Messico del 2015 che fornisce una lista di controllo completa dei punti di azione per migliorare e misurare il progresso delle città che apprendono. 

La cosa stravagante del nostro paese è che tante sono le nostre città riconosciute come patrimonio dell’Unesco, ma nessuna di loro aderisce alle Rete delle “Learning cities” dell’Unesco, né, tanto meno, è  impegnata a perseguirne gli obiettivi, a partire dalla città in cui vivo secondo l’adagio latino: nemo propheta in patria.

È probabile che dovremo attendere la generazione degli amministratori istruiti alla scuola della nuova Educazione civica, sempre che decolli, ma temo che entro il 2030 non ce la faremo.

Giovani e scuola che aria che tira

La fine della pandemia prometteva che l’aria sarebbe cambiata, meno viziata dai miasmi del passato. Invece tira aria di restaurazione. Sembra che i giovani siano minori, non perché più piccoli, ma perché “minus”, cioè meno dotati, meno dotati di noi adulti. Dove inizi e dove finisca la minore dotazione è tutto da stabilire. Intanto Frida Bollani Magoni a soli sedici anni suona la sua interpretazione dell’inno d’Italia alla presenza del Presidente della Repubblica e il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, rivendica il voto ai sedicenni.

Eppure c’è sempre qualche adulto che sente il bisogno di dare una qualche lezione ai giovani, perché i loro modi di essere non combaciano con la sua cultura, con i modelli comportamentali introiettati. Così Chiara Saraceno concorda con la dirigente dell’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano che con circolare interna ha dettato il dress code a cui si devono attenere le sue studentesse e i suoi studenti.

Perché l’abito fa il monaco, ogni luogo ha il suo abbigliamento, in particolare le istituzioni come la scuola. Secondo la sociologa i giovani devono essere educati al rispetto che si deve ai professori e all’ambiente scolastico, e questo rispetto passa prima di tutto attraverso a come ti vesti. Pretendere di insegnare questo rispetto puzza sempre di accusa, di punitivismo nei confronti dei minori, preoccupa perché denuncia le frustrazioni che nascono da un senso di impotenza comunicativa con i giovani, vuoto che si pensa di colmare dettando le regole, le norme, i principi di normalità a cui attenersi, gli unici accettati per essere ammessi nei santuari del sapere. Come ti devi regolare se vuoi vivere in un mondo in cui ci sono anche gli adulti con le loro pretese. Puzzano di rivincita sui patimenti subiti negli anni della propria adolescenza per via dei soprusi del mondo adulto. Semmai si condannano quei soprusi, ma non il rispetto di quelle, che nonostante la rivoluzione dei costumi, si continua a considerare buone regole, abitudini da inculcare, la buona educazione del tempo che fu. Le ragazze acqua e sapone e grembiule nero, i ragazzi giacca, cravatta, scarpe lucide e capelli corti. Pensavamo di essere riusciti ad andare oltre, ma pare che ora si esageri ed è dunque necessario tirare il freno. Spuntano le mutande dai jeans, alcune magliette e braghe pare lascino trasparire troppo del giovane corpo che le indossa, poi ora ci sono i piercing, che sono ammessi solo se all’orecchio, per non parlare dei tatuaggi, delle  scritte insidiose su magliette e felpe. Poi la scuola non è una spiaggia, niente infradito e occhiali da sole, a meno che lo ordini il medico. 

Se si consultano i siti delle scuole nostrane, come quelle del mondo, i dress code sembrano copiati gli uni dagli altri. Dunque milioni di studenti dagli Usa all’Arabia, dall’Europa all’Australia hanno bisogno di essere educati all’abbigliamento, cosa è consono e cosa non lo è a seconda dei luoghi, a partire dalla scuola. Qualcuno l’ha risolto da tempo con le divise del college, che pure inculcano un senso di appartenenza e di identità, altri restano affezionati al grembiule delle elementari con nastro rosa per le bimbe e azzurro per i bimbi, addirittura l’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano indica ai genitori dove andarli a comprare, in modo da essere sicuri di rispettare il dress code della scuola.

Siamo sempre alla solita questione, quando l’istituzione non sa accogliere e dialogare, creare un clima di parità e di intesa nel rispetto delle differenze si ricorre a proibire, a scrivere regole e catechismi, anziché contaminarsi, capirsi reciprocamente, assegnare valore ai luoghi e a quello che in quei luoghi si fa e si vive insieme. Non accade in famiglia, non accade a scuola e la scorciatoia che solleva gli adulti da ogni responsabilità è scaricare sulle spalle dei giovani un bel dress code in nome dell’autorità degli adulti e dell’inviolabilità sacra dell’istituzione.

Il problema è che abbigliarsi è un’esigenza e un’arte, è l’arte dell’identificazione, del ritrovare se stessi, dell’interpretare la vita, del comunicare il proprio tempo, il proprio mondo e se la scuola è luogo di socializzazione, e come tale viene vissuto, la socializzazione ha le sue regole e i suoi codici. E se una generazione ha un suo linguaggio perché dovrebbe lasciarlo fuori dalla porta della classe, lasciare una parte di sé fuori dalla scuola, essere a scuola sempre dimezzati. Così la scuola non è la vita, è una para-esistenza, quello che puoi indossare per strada, in famiglia, quando incontri i tuoi amici non va bene, può dare scandalo, distrarre l’attenzione dalle lezioni e dai compiti scolastici, può indurre pensieri carnali, attrazioni sessuali. Ma dove sta tutto questo se non nella mente patologicamente sospettosa di qualche adulto?

L’ossessione del dress code ha accompagnato anche la didattica a distanza, nel sospetto che qualche studente sotto il mezzobusto della webcam indossasse i pantaloni del pigiama, bermuda e le detestate infradito, una imperdonabile mancanza di rispetto nei confronti dell’istituzione seppure virtuale, perpetrata per di più clandestinamente. Il sospetto è che gli insegnanti non siano stati da meno.

A leggere Week Education, rivista statunitense online, si scopre che durante la pandemia la maggior parte degli insegnanti impegnati nella Dad ha vissuto come un vantaggio, in un periodo particolarmente stressante, potersi disinteressare dell’abbigliamento dalla cintola in giù. Ora per ridurre lo stress dovuto alla ripresa della didattica in presenza agli insegnanti di un distretto scolastico del Missouri è stato consentito di continuare a vestirsi in modo casual.

Negli Usa i codici di abbigliamento degli insegnanti non sono una novità. Un contratto dei dipendenti della Ohio Education Association, datato 1923 e rivolto esclusivamente alle insegnanti vietava i colori vivaci o di tingersi i capelli, richiedeva di indossare “almeno due sottovesti” e abiti non più di due pollici sopra la caviglia. I tempi sono cambiati ma non mancano i ritorni di fiamma.

Nel 2018, We Are Teachers ha compilato un codice di abbigliamento per insegnanti con quattordici regole, tra le quali il divieto di indossare jeans e scarpe da ginnastica.

Fortunatamente a calare il sipario sulla assurdità di tutto questo ci hanno pensato gli insegnanti spagnoli del movimento “La Ropa non Tiene Genero”.

Dal 2020 sempre più alto si è fatto il numero dei docenti che hanno scelto di accantonare l’uso dei pantaloni in classe durante le lezioni per combattere gli stereotipi di genere e per sostenere Mikel Gómez, lo studente cacciato da scuola per essersi recato in aula con una gonna.

Invece noi siamo il paese in cui, mentre in parlamento si discute il disegno di legge Zan contro pregiudizi e stereotipi di genere, ci si preoccupa di come le nostre studentesse e i nostri studenti si vestono per andare a scuola, senza rendersi conto di quanto rasentiamo il ridicolo e che le circolari sull’abbigliamento a scuola meriterebbero  di essere sepolte da una solenne risata.

Considerate le statistiche relative all’abbandono scolastico, sarei tentato di suggerire ai  presidi di usare lo slogan: “A scuola come ti pare purché tu ci venga per imparare”. 

L’impressione però è che a scuola tiri una brutta aria, un’aria di reazione e di ostilità nei confronti dei giovani, allarma il post di un docente su Facebook che esalta il suo consiglio di  classe perché allo scrutinio di fine anno su 25 alunni ne ha promossi solo quattro, tutti gli altri respinti o con il giudizio sospeso. Inquietante perché quel docente anziché inorgoglirsi dovrebbe preoccuparsi seriamente del fallimento professionale suo e di un’intero consiglio di classe.

Dovremmo essere vicini ai nostri giovani, invece crescono gli atteggiamenti pedagogicamente punitivi, che celano sempre frustrazioni e un patologico bisogno di rivincita. 

“Cambiamo strada” è il titolo dell’ultimo libro del filosofo francese Edgar Morin, nello stesso tempo un invito. Ci avverte del pericolo di un grande processo regressivo che viene da lontano, ancora prima della crisi del virus e che si accentuerà nel post-epidemia. Il timore più grande è che questo processo regressivo, già in corso nel primo ventennio di questo secolo, possa avere varcato anche le porte delle nostre scuole.

La città che apprende

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Il giardino delle idee

 Intendiamo la città che apprende come un ambiente che innesca e consente un flusso intenso, continuo, ricco, vario e complesso di occasioni di apprendimento.

Nella letteratura sull’argomento “apprendimento” è un’esperienza umana spontanea o programmata in cui la conoscenza viene scoperta, creata, nutrita, scambiata e trasformata in una nuova forma. Esiste un ciclo della conversione del sapere in apprendimento, costituito sostanzialmente di quattro momenti: socializzazione, esternalizzazione, combinazione e internalizzazione.

Nella città della conoscenza l’apprendere avviene all’incrocio di persone, luoghi, processi e finalità.

In sostanza il momento dell’apprendimento è un dialogo tra persone in un luogo particolare, tramite processi strutturati o non strutturati indirizzati ad uno scopo esplicito o implicito.

 

Città della conoscenza

Francisco Carrillo, Knowledge Cities, 2006 (adattamento)

 

Ci sono diversi modi per esplorare e comprendere una città che apprende, usando come lente la scoperta delle occasioni di apprendimento che possono cadere sotto i nostri occhi. Visitare una città, vagando per le sue strade, anziché alla ricerca di monumenti o di testimonianze storiche, per osservare ciò che accade intorno a noi, per individuare momenti tipici o eccezionali di apprendimento e di conoscenza.

Ancora, se si avesse l’opportunità, seguire diverse persone per un giorno, scoprire come trascorrono la loro giornata e come la vivono. È un tempo pieno di occasioni di apprendimento? La città fornisce loro l’opportunità di questi momenti? Seguire per un intero giorno o per una settimana uno specifico luogo di conoscenza. Il posto è pieno di occasioni di apprendimento? Crea nuovi saperi, condivisione, scambi, scoperte, trasformazione in valore? Seguire uno specifico processo di conoscenza. Chi è coinvolto? Chi non è coinvolto? In quali luoghi si svolge? Che scopi si propone?

Sostanzialmente, una città che apprende è un collage complesso di momenti di conoscenza, tra loro interconnessi che riflettono la realtà dei cittadini. Peter Cook in The City, Seen as a Garden of Ideas(2004), propone la metafora della città come giardino delle idee.

 

La città di Zarpom

   Per molte generazioni la città di Zarpom ha goduto di una certa prosperità economica, accompagnata da stabilità sociale. Negli ultimi due decenni del 20° secolo la sua tradizionale base industriale è stata rapidamente erosa e il processo di ristrutturazione prodotto dalla globalizzazione dell’economia ha generato problemi occupazionali con la perdita di posti di lavoro, salari più bassi e taglio delle spese. Di conseguenza, mentre è calato il tenore di vita delle persone, sono aumentati gli oneri sociali. Le giovani generazioni hanno iniziato a lasciare la città.

Con i primi anni del terzo millennio, il nuovo sindaco, supportato da un consiglio comunale ambizioso, si è impegnato ad invertire questo trend di impoverimento urbano. Hanno creato una nuova strategia, che hanno chiamato “trasformare Zarpom in una città della conoscenza”. La città ha sempre avuto strutture e infrastrutture ben sviluppate e una vasta gamma di istituzioni pubbliche. Come parte della strategia di cambiamento molte di queste istituzioni ora operano come “luoghi di apprendimento”: la biblioteca comunale, il museo d’arte, la borsa, le scuole, il municipio, la piazza, il caffè, le famiglie. La mappa qui sotto fornisce una visione schematica della città.

 

Knowledge city

Francisco Carrillo, Knowledge Cities, 2006

 

Ma la città di Zarpom non esiste. È una invenzione di Ron Dvir, del Future Centers di Tel Aviv, fondatore di Innovation Ecology. L’ha inventata per illustrare l’idea di città della conoscenza.[1] Tuttavia molte delle occasioni di apprendimento di cui parla non sono frutto della sola fantasia, sono accaduti realmente o potrebbero essere accaduti nelle molte città che l’autore ha visitato nella sua ricerca sul significato di città che apprende. Esistono musei, biblioteche, municipi, scuole nella maggior parte delle città, e alcuni di questi sono già sulla strada per trasformarsi in luoghi che consentono e innescano occasioni di apprendimento.

Ma l’idea fondamentale che sta alla base del modello offerto da Zarpom poggia sul principio della crescita insieme, attraverso un denso flusso di momenti che producono conoscenza, tutti gli attori che operano in città concorrono alla sua evoluzione di città che apprende.

Zarpom è stata, dunque, inventata per illustrare una nuova prospettiva, quella della città della conoscenza, come tentativo di descrivere questa idea a partire dalle esperienze quotidiane di ciascuno di noi.

 

È solo l’inizio

   All’alba del secolo delle città che apprendono, stiamo venendo a patti con la consapevolezza che sempre più il destino umano si snoderà nelle città. Stiamo imparando anche che la nostra capacità di plasmare tale destino sarà determinata dalla conoscenza di noi stessi come specie urbana.

Se le città possono essere concepite come sistemi di valori, ci si può chiedere che possibilità hanno di esprimersi come potenziale e come destino umano.

Nella globalizzazione economica le città hanno sostituito gli stati-nazione. La città diviene il milieu del globalismo. Infatti, “l’inevitabilità” ha pervaso la globalizzazione urbana in quanto “l’inevitabilità” è la tradizionale giustificazione finale in mancanza di ideologie.[2]

Dal punto di vista della città della conoscenza come sistema di valori, lo spazio delle possibilità è aperto alle alternative rese possibili non solo sul piano economico o tecnologico, ma sempre più dalla conoscenza e dall’esperienza.

La città è come una pasta sfoglia, un ambiente a molti strati, di molte dimensioni culturali, economiche, sociologiche, scientifiche e tecnologiche. Ma al di là delle potenzialmente infinite combinazioni di esperienze urbane, la sfida vera è saper vivere l’enorme ricchezza degli ambienti urbani.

Questo è il cuore della città che apprende, questa è la logica della società della conoscenza. Da questo punto di vista la storia delle nostre città è solo all’inizio.

[1] Ron Dvir, Knowledge City, Seen as a Collage of Human Knowledge Moments in F.J. Carrillo, Knowledge Cities, Routledge, New York, 2011, pp. 262-290

[2] F.J. Carillo, Reconstructing Urban Experience, in F.J. Carrillo, Knowledge Cities, Routledge, New York, 2011, p. 291
 
 

I Nuovi Docenti*

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Apprendere per tutta la vita

    La percentuale degli anziani presenti sulla faccia della Terra è in aumento e quella dei giovani diminuisce, e questa tendenza continuerà se l’indice di natalità dovesse scendere e la medicina continuare ad allungare la durata media della vita. Per mantenere nelle persone più anziane l’immaginazione e la creatività e impedire che diventino un peso crescente per il vivaio sempre più ridotto della gioventù creativa, ho raccomandato molto spesso che il nostro sistema educativo venisse riformato e che lo studio venisse considerato un’attività da svolgere per tutta la vita.

Ma come si può realizzare? Dove verrebbero reperiti gli insegnanti? Comunque, chi ha mai detto che tutti gli insegnanti debbano appartenere al genere umano o anche soltanto essere animati?

Nel passato ci sono stati fondamentali punti di svolta nelle comunicazioni umane, che hanno alterato ogni aspetto del nostro mondo in maniera enorme e permanente. Il primo progresso è stata la parola, il secondo la scrittura, il terzo la stampa. Adesso ci troviamo davanti al quarto progresso nel campo delle comunicazioni, importante in tutto e per tutto quanto i primi tre, il computer. […] [1]

Supponete che durante il prossimo secolo i satelliti diventino più numerosi e più sofisticati di quelli che abbiamo messo finora in orbita nello spazio. Supponete che al posto delle onde radio il principale sistema di comunicazione diventi l’assai più capace raggio laser a luce visibile. Se le circostanze fossero queste, ci sarebbe spazio per molte migliaia di canali separati per la voce e per le immagini, ed è facile immaginare che a ogni essere umano sulla Terra potrebbe essere assegnata una particolare lunghezza d’onda televisiva.

Ciascuna persona (bambino, adulto, o anziano) potrebbe avere la propria presa personale alla quale inserire, a intervalli assegnati, la sua personale macchina istruttrice. Sarebbe una macchina assai più versatile e interattiva di quelle che potremmo mettere insieme adesso, poiché nel frattempo anche la tecnologia dei computer avrà fatto grandi progressi.

Oltre la scuola di massa

   I bambini della prossima generazione, e la società che creeranno, saranno partecipi del travolgente impatto dei computer nell’area dell’insegnamento. Attualmente la nostra società si sforza di istruire il più gran numero di bambini possibile. Il limite nel numero degli insegnanti significa che i bambini imparano in massa.

A ogni bambino, in un distretto scolastico, in una regione o in una nazione, viene insegnata la stessa cosa, nello stesso tempo, e più o meno alla stessa maniera. Ma poiché ogni bambino ha degli interessi e dei metodi di apprendimento individuali, l’esperienza dell’istruzione di massa risulta sgradevole. Il risultato è che molti adulti si oppongono all’idea di studiare nella vita postscolastica: ne hanno avuto abbastanza.

L’apprendimento potrebbe essere piacevole, persino affascinante e avvincente, se i bambini potessero studiare in maniera specifica qualcosa che li interessa individualmente, nel momento di loro scelta e alla loro maniera. Questo tipo di studio è oggigiorno possibile tramite le biblioteche pubbliche. Ma la biblioteca è uno strumento maldestro. Ci si deve andare, è possibile prendere a prestito soltanto un numero limitato di volumi, e i libri devono essere restituiti dopo un breve periodo di tempo.

È chiaro che la soluzione sarebbe quella di portare le biblioteche nelle case. Proprio come i giradischi hanno portato in casa le sale dei concerti, e la televisione ha portato il cinema, così i computer possono portare a casa la biblioteca pubblica.

I tecnobambini di domani avranno a disposizione un mezzo bell’e pronto per saziare la loro curiosità. Sapranno già in tenere età come ordinare al computer di fornir loro elenchi di materiali di ricerca. A mano a mano che il loro interesse verrà destato (e, si spera, guidato dai loro insegnanti a scuola), impareranno di più in meno tempo, e troveranno nuove strade da battere.

L’insegnamento avrà in aggiunta una forte componente di autoincentivo. La capacità di seguire una propria via personale incoraggerà il tecnobambino ad associare l’apprendimento al piacere e a crescere fino a diventare un tecnoadulto attivo: attivo, curioso e pronto ad ampliare il proprio ambiente mentale. [2]

Andare incontro all’interesse dello studente

   Possiamo ragionevolmente sperare che la macchina istruttrice sia abbastanza complessa e flessibile da essere in grado di modificare il proprio programma (vale a dire, di “imparare”) sulla base degli input dello studente.In altre parole, lo studente farà domande, risponderà a domande, farà asserzioni, offrirà opinioni, e da tutto questo la macchina sarà in grado di valutare lo studente in modo tale da poter regolare la velocità e l’intensità del proprio corso d’insegnamento e, cosa ancora più importante, di andare incontro agli interessi mostrati dallo studente.

Tuttavia non si può immaginare una macchina istruttrice personale di grandi dimensioni. Dovrebbe assomigliare a un apparecchio televisivo, per forma e dimensioni. Può un oggetto così piccolo contenere abbastanza informazioni da riuscire a insegnare agli studenti tutto quello che vogliono sapere, in qualsivoglia direzione possa condurli la loro curiosità? No, non può, se la macchina istruttrice è autonoma, cioè isolata e indipendente da ogni altra. Ma c’è bisogno che lo sia?

In qualsiasi civiltà dove l’informatica sia così progredita da rendere possibile le macchine istruttrici, ci saranno di sicuro biblioteche centrali completamente computerizzate. Queste biblioteche potrebbero essere tutte interconnesse a formare una singola biblioteca planetaria.

Tutte le macchine istruttrici verrebbero collegate a questa biblioteca planetaria e ciascuna potrebbe avere a disposizione qualsiasi libro, periodico, documento registrazione, o video che vi si trovasse archiviato. Se la macchina ne potesse disporre, lo stesso avverrebbe per lo studente, visibile direttamente sullo schermo, oppure riprodotto su carta per poterlo studiare con maggiore comodità.

 

 Insegnanti umani

   Naturalmente gli insegnanti umani non verrebbero completamente eliminati. In alcune materie l’interazione umana è essenziale: la ginnastica, la recitazione, le lezioni pubbliche, e così via. Inoltre manterrebbero il proprio valore, e interesse, quei gruppi di studenti operanti in un campo specifico, abituati a riunirsi per discutere e fare ipotesi fra loro e con esperti umani, accendendo gli uni negli altri nuove intuizioni.

Dopo questo interscambio di idee umane, gli studenti potrebbero tornare, con un certo sollievo, alle loro macchine interminabilmente informate, interminabilmente flessibili e, soprattutto, interminabilmente pazienti.

Ma chi istruirà le macchine istruttrici? Gli studenti, senza dubbio, sarebbero anche insegnanti. Uno studente che si applica a settori o attività che lo interessano, finisce inevitabilmente per pensare, fare congetture, osservare, sperimentare e, di tanto in tanto, escogitare qualcosa di proprio che potrebbe non essere noto.

Ritrasmetterebbe questa conoscenza alle macchine, che a loro volta la registrerebbero (con il riconoscimento dovuto al vero autore, c’è da presumere) alla biblioteca planetaria, rendendola così disponibile ad altre macchine istruttrici.

L’informazione verrebbe reimmessa nel serbatoio centrale per fungere da nuovo e più elevato punto di partenza per gli altri.

Così le macchine istruttrici renderebbero possibile per la specie umana la corsa in avanti verso vette e in direzioni che adesso è impossibile prevedere.

[1] Isaac Asimov, Future Fantastic, 1989 by Whittle Communications, in I. Asimov, Visioni di Robot, Tea Due Edizioni, Milano, 1995, pp. 333

[2]  Idem, pp. 334 – 335

*by Isaac Asimov, The New Teachers, 1976 by American Airlines, in I. Asimov,Visioni di Robot, Edizioni Tea Due, Milano, 1995, pp.318-320

**I titoli dei paragrafi sono miei. Le note segnalano l’inserimento di brani presi da Futuro Fantastico.

Come pensa il mondo

Come pensa il mondo

Dall’uni-versità alla multi-versità

Per menti rigorosamente illuministe come le nostre è difficile concepire altre forme di pensiero. Già Kant scriveva che la ragione è un’isola nel mare dell’irrazionale. Nell’epoca della globalizzazione dei mercati e delle conoscenze non si può ignorare come pensa il mondo.

Sapere come pensa il mondo, scoprire se è proprio vero il detto che tutto il mondo è paese, mi pare il minimo che si possa pretendere nell’era della globalizzazione economica del villaggio globale.

Se abitiamo cioè il villaggio della conoscenza al singolare o delle conoscenze al plurale. Non è questione di poco conto, specie quando si è quotidianamente immersi nella convinzione che esista un’unica prospettiva da cui guardare il mondo e che in virtù di quella prospettiva i nostri sistemi scolastici debbano educare le nuove generazioni.

In tanto, noi che siamo terra e culla di uni-versità, proviamo i primi scricchiolii alle nostre certezze di fronte a coloro che al di là di un braccio di Mediterraneo, oltre l’equatore, coltivano il sogno di un mondo diverso, come Paul Wangoola, fondatore e presidente di Mpambo, multi-versità africana, in Uganda. Lui spiega: «Una multiversità differisce da una università nella misura in cui essa riconosce che l’esistenza di forme di sapere alternative è importante per l’insieme della conoscenza umana». Wangoola sostiene che per risolvere i problemi dell’umanità oggi è necessario trovare una sintesi tra i saperi propri delle singole tradizioni indigene e le moderne conoscenze scientifiche.

D’altra parte i risultati delle ricerche nell’ambito della psicologia interculturale forniscono una certa quantità di prove sull’esistenza di approcci differenti con cui conoscere e guardare al mondo.

Se il cervello è fisiologicamente per tutti lo stesso, altrettanto non si può dire della mente, tanto da scoprire l’esistenza di una geografia del pensiero. Ce la racconta Richard Nisbett, docente di psicologia sociale e direttore del programma Culture and Cognition dell’università del Michigan, nel suo libro, in realtà da alcuni contestato, The Geography of Thought: How Asians and Westernes Think Differently…and Why.

 La geografia del pensiero

Per Nisbett il processo di adattamento all’ambiente ha prodotto formae mentis differenti e conseguentemente condotte e metodi di conoscenza che tra loro divergono. È il caso dell’Occidente verso i paesi del Confucianesimo, Cina, Giappone e Repubblica Democratica Coreana. Basti considerare l’olismo culturale proprio di quest’ultimi, per cui ogni essere è parte di un tutto, ampio e interdipendente, e, all’opposto, il nostro individualismo che ci induce a considerare noi stessi come unici e liberi di agire.

Il lavoro di Nisbett è interessante perché sfata la presunzione che esista una sola strada che conduce alla conoscenza. È un’insidia alla premessa fondamentale dell’Illuminismo occidentale, l’idea che la ragione umana sia identica ad est come a ovest, a nord come a sud del mondo. Per Howard Gardner, il guru delle intelligenze multiple, il lavoro di Nisbett è una provocazione per gli scienziati cognitivisti che ritengono ovunque unico il modo di pensare.

Ma già altri studi hanno indirettamente anticipato le conclusioni a cui giunge Nisbett nel suo libro.

È il caso delle ricerche condotte da Marlene Brant Castellano tra gli Indiani del Canada, molte sono le differenze nei processi che conducono alla conoscenza tra le popolazioni aborigene e i colonizzatori. Innanzitutto le fonti del sapere che sono la tradizione, l’esperienza diretta, le rivelazioni dei sogni, le visioni e le intuizioni la cui origine è spirituale.

Per la Castellano la conoscenza degli aborigeni si fonda sull’esperienza personale e non ha alcuna pretesa di universalità. Mentre il pensiero occidentale assume l’esistenza di verità individuate attraverso la ragione o il metodo scientifico, per gli Indiani del Canada due persone possono tranquillamente avere visioni diametralmente contrapposte di uno stesso evento che sono accettate entrambe come valide. Non c’è competizione per far prevalere l’una sull’altra. Se proprio necessario, un gruppo di discussione e di costruzione del consenso determinerà la validità di questa o quella interpretazione di uno stesso evento. Anche gli aborigeni canadesi hanno una concezione olistica del mondo, in contrasto con quella occidentale che lo scinde in parti distinte e separate.

Ancora esistono differenze nei modi di pensare e quindi di fare cultura, tra società a impronta collettivista e società decisamente individualiste. Lo spazio di un articolo non mi consente di entrare nel merito, per chi fosse interessato rimando alla lettura del libro di Harry C. Triandis, Individualism and Collectivism: Past, Present and Future. Certo è che modalità altre nel processare le conoscenze, implicano differenti valori a monte dell’azione umana.

Incontro o scontro?

Influenze religiose e culturali concorrono a determinare i diversi caratteri del pensiero e della conoscenza. Nel modello del capitale umano il sapere è prodotto dalla scienza e il fine fondamentale d’ogni esistenza risiede nell’accumulazione di ricchezza, la conoscenza è il mezzo per conseguire la crescita economica, mentre per la maggior parte dei credi religiosi essa si piega al servizio dei disegni di una o più divinità.

L’educazione nuova, l’educazione progressiva, alla cui tradizione si rifanno oggi i modelli scolastici dell’Occidente, promette di formare le persone a farsi carico della società e della giustizia sociale. La maggioranza delle culture indigene e delle religioni considererebbero questi obiettivi come ingenui e impossibili da realizzare. Come possono le persone ricostruire un mondo che è, secondo il punto di vista di molte dottrine religiose e di tante minoranze culturali ed etniche, inconoscibile e spirituale? Come si può definire la giustizia sociale al di fuori del contesto di una teologia religiosa? Giustizia sociale vuol dire fornire a tutti le stesse possibilità di accumulare beni o significa la possibilità di godere di una vita fortemente comunitaria, diretta da un’etica spirituale?

Di certo ogni paradigma educativo deve considerare le proprie finalità in funzione dei caratteri culturali di cui è espressione. I modelli educativi del capitale umano supportano i principi dell’individualismo sociale, mentre i modelli progressivi tendono a supportare le società di tipo collettivistico.

La ricognizione delle varie differenze nel pensare del mondo suggerisce un interrogativo sul significato della globalizzazione, in particolare per quanto attiene alla globalizzazione delle pratiche formative. Queste differenze sopravviveranno nel futuro o finiranno per convergere in un senso comune del conoscere e del pensare il mondo? O porteranno a un scontro costante sulle finalità e sui contenuti dell’educazione? Il rischio vero è che la globalizzazione unisca i mercati ma non gli uomini, che nessuno di noi riesca mai a riscattarsi dalla tirannide di essere un mezzo anziché un fine.