Entriamo nel “merito”

Se sono povero di parole anche il mio pensiero sarà povero, se le parole sono sempre le stesse anche il mio pensiero sarà sempre lo stesso.

Ci mancano le parole per immaginare un mondo nuovo e rischiamo di usare solo quelle vecchie che appartengono a un mondo che non c’è più.

Per chi guarda al passato e sogna una sua restaurazione questo non costituisce un problema perché il  vocabolario che gli serve è sempre lo stesso.

Contrapporre alla riproposizione di quel passato le parole che possediamo da sempre è come cadere nella trappola, oltre a rilevare la debolezza del nostro pensiero ormai usurato dal tempo.

È quello che ci accade nella comunicazione pubblica per cui ci facciamo catturare dalle parole che ci sono famigliari e diffidiamo dei linguaggi che ci sembrano stranieri. 

E soprattutto sono lingue straniere quelle che provengono da mondi che ancora non ci sono e che non ci saranno mai se nessuno si assumerà l’ardire di iniziare a gettare le fondamenta per costruirli.

Un mondo che attende di essere costruito di nuovo è quello della scuola che non c’è. Mentre tutti bombardano l’edificio vetusto d’oltre un secolo, c’è chi pensa di ricostruirlo a immagine di come era e di come è sempre stato.

Allora se c’è chi pensa che la scuola deve selezionare, deve bocciare e in questo fa consistere il merito, semmai trovando d’accordo ampia parte di un pensiero pubblico immiserito dalle parole, che crede che chi non si impegna non merita di essere aiutato e quindi va sanzionato, caschiamo nell’inganno del moralismo per cui un furto è sempre un furto anche se rubi per fame.

Allora non è che i vessilliferi del merito li sconfiggi contrapponendogli l’articolo 3 della nostra Costituzione, perché il problema non sta nella selezione, nel merito e nelle bocciature, ma nel mantenere nel secolo nuovo un sistema formativo forse buono per il passato ma non per il futuro dei nostri giovani.

È la morte del futuro che continuamente ci viene proposta e da questa logica non possiamo farci irretire.

Non è più accettabile fornire ossigeno a un sistema formativo che è nato per selezionare anziché per promuovere, anziché stare accanto alla persona che cresce per sostenerla, accompagnarla, sorreggerla, sollevarla quando cade, assisterla quando si ferma, accelerare il passo quando riprende a correre. Ma occorre avercele queste parole nel cervello e averle strettamente connesse con l’idea di scuola e di istruzione, in modo che si accendano automaticamente quando la mente entra in questo campo semantico.

Lo scandalo non è che il Ministero ora si chiami dell’Istruzione e del Merito, ma perché non sia stato intitolato invece “Ministero della Conoscenza e dell’Istruzione Permanente” come avrebbe dovuto essere  stato fatto da tempo, al momento del nostro ingresso nel secolo della Conoscenza.

C’erano queste parole nel pensiero delle forze progressiste e di sinistra? No, non c’erano. Allora non urliamo allo scandalo, perché lo scandalo è l’assenza di una cultura dell’istruzione nel nostro paese che non sia la brutta copia del ‘900 e che guardi al futuro.

L’Unesco ha lanciato l’allarme: è urgente un nuovo patto formativo, ma nessuno ne parla e ne ha parlato. 

Un ribaltamento della nostra piramide scolastica, un protagonismo sociale, politico e culturale degli insegnanti come lavoratori della cultura. E dove sono da noi gli insegnanti lavoratori della cultura, della cultura del paese, quella che sta dentro e fuori dalle scuole?

Nessuna delle forze politiche in campo nella contesa elettorale si è ricordata che viviamo nel secolo della Conoscenza e che la Conoscenza è la grande sfida del nostro secolo, a partire dalla realizzazione dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. La centralità dell’istruzione permanente e del ruolo delle amministrazioni pubbliche, a partire dal governo e dagli enti locali, per la sua realizzazione, mai citata nel discorso di insediamento alle Camere dalla Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma nessuna delle forze politiche sedute alle Camere l’ha notato.

Listruzione è anche unespressione damore per i bambini e i giovani, che dobbiamo sapere accogliere nella società offrendo loro, senza alcuna riserva, il posto che appartiene loro di diritto: un posto nel sistema educativo, ovviamente, ma anche nella famiglia, nella comunità locale, e nella nazione.”  

Queste sono le parole da contrapporre ad una sistema scolastico che, a prescindere dal fatto che si enfatizzi sulla parola “merito”, è nato per produrre una selezione sociale e che nella sue strutture portanti ancora seleziona, nel XXI° secolo, tra liceo classico  e istituti professionali, senza scandalo per alcuno,  neppure i buon pensanti di sinistra che di fronte al “merito” pronunciato a destra gridano al lupo. 

Quelle parole sono scritte da più di 25 anni nel rapporto Delors, Rapporto all’UNESCO della Commissione Internazionale sull’Educazione per il XXI secolo, caduto nel dimenticatoio insieme ad ogni parola nuova, ad ogni pensiero  innovatore delle nostre categorie mentali sulla scuola e l’istruzione.

C’erano pure i quattro pilastri dell’istruzione: Imparare a vivere insieme, Imparare a conoscere, Imparare a fare, Imparare ad essere.

Il Ministero dell’Imparare. Sarebbe stata una sintesi bellissima tra istruzione e educazione, parole spesso usate in modo inappropriato.

Listruzione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente i propri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la responsabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali.”

Sono sempre parole del Rapporto Delors o il cervello le possiede e da qui muove per ragionare di scuola, di istruzione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, del loro futuro o tornano solo le vecchie parole trite e ritrite che segnano la povertà di pensiero della politica, a Destra come a Sinistra, nel nostro Paese.

Scuola e programmi elettorali

Se il problema di cosa studiano e di come studiano a scuola le nostre ragazze e i nostri ragazzi non viene affrontato le possibilità sono solo due: o non è un problema o non si possiede una soluzione al problema.

A leggere i voti, che le forze politiche formulano per la scuola nei loro programmi elettorali  al fine di ottenere voti, non si può che concludere che nel nostro paese cosa si studia e come si studia nelle aule del sistema formativo non costituisce un problema. Nonostante gli esiti decisamente non brillanti delle indagini Ocse Pisa e dell’Invalsi sui risultati scolastici, il grado di istruzione del paese non sembra meritare attenzione. Anzi c’è chi, come Italexit, vuole “Eliminare le prove Invalsi e i sistemi valutativi basati sui quesiti a risposta multipla.” Insomma, il tuo parlare sia sì sì, no no.

Anni di letteratura scolastica che hanno sfornato titoli poco rassicuranti: Requiem per la scuola, La scuola bloccata, Senza educazione, L’aula vuota, La scuola imperfetta, La scuola impossibile, Liberiamo la scuola, La scuola è sfinita fino al recente Il danno scolastico della coppia Mastrocola-Ricolfi, vengono volutamente o meno ignorati dalle formazioni politiche scese in campo per l’agone elettorale, possibile che neppure uno dei libri citati l’abbiano mai letto.

Qualcuno ci prova. Ad esempio il “Programma per l’Italia” della Destra al primo punto si impegna a “Rivedere in senso meritocratico e professionalizzante il percorso scolastico”. Cosa significhi non è spiegato. È il ritorno all’avviamento scolastico? Agli esami di ammissione? Si prospetta un sistema scolastico stile tedesco?

Anche il programma di Italexit a proposito di cosa studiare promette un recupero della nostra “cultura umanistica e civica”. E anche qui non è dato sapere che cosa effettivamente si intenda.

Il Movimento Cinque Stelle vorrebbe una “Scuola dei Mestieri” per valorizzare e recuperare le tradizioni dell’artigianato italiano, forse una riedizione degli “Artigianelli”di don Orione,  in linea comunque con la vocazione professionalizzante delle destre.

Dai voti elettorali emerge poi un profilo di “scuola clinica” che i nostri giovani dovrebbero frequentare come luogo di cura dove, dopo la moltiplicazione delle certificazioni, ora si  mettono a disposizione medici scolastici, psicologi e pedagogisti come se essere studenti e giovani fosse una malattia, come se disagio sociale e modalità di apprendimento non per forza standard fossero dei disturbi che necessitano di cure anziché di una scuola diversa. 

Non avevamo bisogno dell’appuntamento elettorale per scoprire che questo nostro paese non ha mai curato un’idea di istruzione, di sistema formativo, non ha una cultura dell’istruzione e dell’apprendimento, perché non ha mai avuto considerazione per i suoi insegnanti, della loro professione e soprattutto della scuola.

Vanno di moda i “patti educativi” come se l’istruzione fosse un campo di conflitti e avesse bisogno di siglare armistizi tra contendenti, le “comunità educanti” come comunità di salute pubblica. Una gioventù malata che qualcuno vuole raddrizzare con lo sport e il ritorno al servizio di leva. Anche i seminari sono comunità educanti e le comunità che si propongono come educanti sono pericolose perché mettono a rischio la libertà delle persone, mentre la scuola deve essere palestra di libertà e non di manipolazione.

L’Unesco invita a un nuovo contratto sociale per l’istruzione all’altezza delle sfide dei tempi e del futuro delle nuove generazioni, ma noi non possiamo permetterci tutto questo, non avendo curato la casa dobbiamo ricorrere ai ripari, occuparci delle sovrastrutture del nostro sistema formativo: gli edifici scolastici, lo stipendio degli insegnanti, il tempo pieno, l’obbligo scolastico, medici e psicologi scolastici.

Così i programmi di tutte le forze politiche si caratterizzano per tre filoni: scuola come servizio sociale, scuola e mercato del lavoro, scuola e cultura nazionale e tutti brillano per le grandi assenze. Oltre all’istruzione e all’apprendimento, non rispondono all’appello il tema dell’autonomia delle scuole, gli Organi Collegiali, l’apertura delle scuole al territorio e il ruolo del territorio per un sistema formativo integrato e soprattutto l’apprendimento permanente. Distrazione, ignoranza, superficialità, impotenza, mancanza di idee, incompetenza? Forse tutti questi insieme.

Il programma di Azione e Italia Viva cita l’autonomia per affermare la necessità di passare: “dal concetto di autonomia scolastica a quello di scuole realmente autonome”. 

Pare di comprendere che dietro a quel “realmente autonome” si nasconda un concetto di concorrenza di mercato, di competizione tra scuole che consenta alle famiglie di scegliere la migliore, un scimmiottamento delle Champions School d’oltre oceano. Ma cosa fare per portare a compimento il processo di autonomia scolastica, spesso osteggiato dalla stessa politica e amministrazione pubblica, cosa fare a partire dalle risorse necessarie a garantire una reale autonomia questo non è detto. Che l’autonomia scolastica sia in pericolo è nella consapevolezza di quanti sono più attenti ai bisogni della nostra scuola e ad essere in pericolo è l’unica vera riforma, sebbene ancora incompiuta, che il nostro sistema formativo, tradizionalmente piramidale, abbia conosciuto.

Difendere l’autonomia scolastica significa coltivare un’idea di scuola come risorsa centrale del territorio, come perno di un sistema formativo integrato che poco ha a che vedere con surrogati e ripieghi tipo patti educativi e comunità educanti. Un obiettivo che per essere perseguito richiede lucide e solide politiche territoriali da parte degli enti locali insieme a risorse finanziarie che consentano di portare a sistema la scuola come ambiente di apprendimento che si integra con il territorio, che al territorio si allarga e si apre per usarne strutture e risorse, prima condizione affinché le scuole siano “luoghi sicuri, belli, aperti tutto il giorno. Vere e proprie palestre di cittadinanza” come promette il programma del PD.

Scuola e territorio è un binomio che conduce agli Organi Collegiali che si trascinano da  troppo tempo pigramente, sviliti e snervati, che hanno bisogno di manutenzione, di una cura ricostituente soprattutto alla luce della scuola dell’autonomia, di una scuola sempre più hub formativo del territorio.

In fine, last but not least, l’apprendimento permanente. Decenni di life long learning ignorati, insieme all’Europa della “Conoscenza”, al Memorandum di Lisbona 2000 e alla stessa Agenda 2030 dell’Onu.

Apprendimento permanente che non è l’educazione degli adulti in chiave scolastica del programma di Possibile, l’unico che meritoriamente la richiama, insieme alla necessità di rivedere i cicli scolastici, ma la mobilitazione delle conoscenze, dei saperi, l’apprendimento diffuso, le città che apprendono, il rapporto tra apprendimento formale, non formale e informale che già la Riforma Fornero del 2012 aveva riconosciuto su pressione dell’Europa. Quanto basta per rivedere integralmente l’intero impianto del nostro sistema formativo in un mondo dove si apprende dalla culla alla tomba. 

La complementarietà e l’osmosi tra forme di apprendimento, unitamente agli altri grandi assenti, al momento dovranno attendere il prossimo giro.

La scuola al crocevia tra conservatori e progressisti

Il professor Ernesto Galli della Loggia dalle righe del Corriere della Sera del primo agosto sale in cattedra per fornire, forse neppure richiesto, una lezione di conservatorismo all’onorevole Giorgia Meloni presidente dei conservatori europei.

Il senso della lezione può essere riassunto in breve: essere conservatori consiste nel fare l’opposto dei progressisti. Conservatore, dunque, non è chi è contrario ad ogni cambiamento a prescindere, ma chi si oppone ai cambiamenti proposti dalle forze progressiste. Per cui il conservatore doc si deve semplicemente limitare a cercare di fare il contrario del campo avverso.

Se l’editoriale si concludesse qui non varrebbe neppure la pena di prenderlo in considerazione.

Invece qui casca l’asino. Perché l’esimio professore insiste nei suoi ragionamenti tanto da sostenere che la cartina di tornasole del conservatorismo per eccellenza, guarda caso, si gioca sul terreno dell’istruzione primaria e secondaria. Ti pareva che la scuola non c’entrasse pure con il conservatorismo di casa nostra? Che c’è stato a fare lo spirito universale del nostro filosofo Giovanni Gentile, tacendo di altre compagnie, per i decenni del secolo scorso e pure per gli appena due del terzo millennio tra le aule delle nostre scuole?

Ovviamente se conservatorismo è uguale a ciò che non è progressista, il nostro professore non può che sposare le tesi della coppia Mastrocola-Ricolfi per cui l’istruzione nel nostro paese altro non è che “un ambito devastato da scelte di politica scolastica quasi tutte ispirate da un vuoto progressismo educativo”. Tutto questo viene temporalmente collocato negli ultimi “tre decenni di cambiamenti rovinosi”, portando a ritenere che almeno fino al 1992 la scuola “tirava” bene da un punto di vista conservatore. Il millenovecentonovantadue è la data di Mani pulite, una data fatidica per la fine della prima repubblica, nel caso specifico della scuola ha segnato l’esaurirsi del monopolio democristiano della pubblica istruzione.

Il tristo esito è sotto gli occhi di tutti tanto che “oggi  la metà dei quindicenni italiani non sono in grado neppure di comprendere il significato di un testo”, fermo restando che prima del 2000 non fregava a nessuno sapere cosa effettivamente imparassero a scuola i quindicenni italiani, perché ancora non esistevano le indagini dell’OCSE-PISA e l’INVALSI è stato istituito nel 1999 su proposta dell’allora ministro Luigi Berlinguer, pertanto non sono possibili confronti tra il prima e il dopo, e già qui cedono di fondamento le accuse ad un fantomatico progressismo educativo.

Per non parlare dei dati relativi alla alfabetizzazione degli adulti che si presume abbiano frequentato le scuole negli anni d’oro precedenti la catastrofe progressista, se sommiamo i dati di chi si colloca tra l’analfabetismo totale e il livello 2 europeo otteniamo che circa il 70% della popolazione adulta italiana non raggiunge il livello 3, il minimo per essere considerati cittadini consapevoli.

Se ci si sforzasse di scrive di scuola cercando di documentarsi, evitando di lasciare un eccessivo spazio al proprio egotismo intellettuale, si sarebbe scoperto che il problema di quote di quindicenni che non sono in grado di capire ciò che leggono oltre i livelli più elementari non è solo italiano, ma mondiale e su questo l’OCSE ha lanciato l’allarme, perché è un’emergenza che deve riguardare tutti in un mondo in cui le richieste di partecipazione civica ed economica sono sempre più complesse. 

Un’emergenza che non si può affrontare con la categoria conservatori verso progressisti. La questione è un’altra e per affrontarla bisogno studiare, uscire da i propri costrutti mentali, affrontare la realtà, cercando di aprire le menti alle nuove sfide anziché crogiolarsi nelle proprie convinzioni. 

Il tema è semplice da definire, estremamente complesso da svolgere. Il sistema di istruzione pubblica del XX secolo, conservatore o progressista che fosse, non funziona più nel secolo XXI, non regge alle sfide che abbiamo di fronte. Lo scrive a chiare lettere l’UNESCO nel suo ultimo rapporto, occorre rinegoziare il contratto formativo, occorre un nuovo contratto sociale per l’istruzione che veda unire gli sforzi di tutti per fornire alle nuove generazioni le conoscenze e le innovazioni necessarie a plasmare un futuro sostenibile per tutti ancorato alla giustizia sociale, economica e ambientale.

Ci sono tre domande essenziali da porsi circa l’istruzione: Cosa dovremmo continuare a fare? Cosa dovremmo abbandonare? Cosa deve essere inventato di nuovo in modo creativo?

Non mi sembra che qui da noi nessuna forza conservatrice o progressista che sia stia dimostrando di porsele.

Anzi nel silenzio assordante delle ferie agostane, nella distrazione della politica concentrata sulla ripartizione dei seggi per il prossimo parlamento a scranni ridotti, nessuno trova il tempo di ribattere alla sicumera di un intellettuale che non trova di meglio che indicare l’istruzione del paese come terreno cruciale del conservatorismo. La scuola come il luogo deputato a rilanciare i valori del passato e l’identità del Paese, unitamente al merito e al senso dello Stato, ignorando completamente che quando si scrive di istruzione i destinatari sono i giovani, le ragazze e i ragazzi in carne ed ossa che domani saranno adulti e non certo la patente di conservatorismo della signora Giorgia Meloni.

E IO TI BOCCIO

 

Se c’è qualcosa di anacronistico e di incongruente con l’individualizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento sono le bocciature. 

Aveva tentato nel 2007 il governo Prodi, ministro dell’istruzione Fioroni, di abolirle, almeno nel biennio delle superiori, con un notevole risparmio per le casse dello Stato, ma l’idea incontrò l’opposizione dei sindacati che in quel provvedimento di riforma vedevano una minacciosa caduta del numero delle classi e di conseguenza di cattedre e posti di lavoro.

Poi viene da chiedersi tutti quei miliardi del PNRR per edifici scolastici e edificatori di sapere (quest’ultimi sarebbero i docenti) per fare quale scuola? Un’altra come questa che boccia in seconda elementare, come riportato in questi giorni dalle cronache di Bari?

Sappiamo che l’esito delle bocciature esplicite o implicite che siano è la dispersione scolastica, da noi oltre la soglia del 13%, una dispersione scolastica che ci costa circa 70 miliardi all’anno, pari al 4% del PIL, una dispersione segnata dai primi fallimenti già accumulati alla primaria, micidiali, poiché funzionano come  profezie che poi si avverano.

È che la cultura della formazione vista dalla parte di chi deve essere formato è quella che manca a chi si dovrebbe occupare delle policy scolastiche.

Era già l’errore di fondo contenuto nella Buona scuola del governo Renzi, con l’incongruenza di pretendere di chiamare “buona” una scuola lasciata inalterata nella sua struttura di sempre, per di più perdendo di vista proprio gli studenti punto di partenza e di arrivo di ogni processo formativo.

Ora poi assistiamo alle self-candidacy a fare il ministro dell’istruzione come quella ufficializzata su Il Foglio, dal professore Marco Lodoli che se ne va in pensione e intende mettere a disposizione del paese la sua esperienza di uomo di scuola.

Il suo programma in dieci punti esordisce con l’affermazione: “La scuola ha bisogno di ritrovare a pieno la sua missione che è educare, preparare, formare…”

Come non essere d’accordo! Salvo che sarebbe il caso di dire come. Non è dato di saperlo, a meno che non ci sia qualcuno, sebbene uomo di scuola e intellettuale, così sprovveduto da ritenere che l’impegnativa affermazione d’esordio si realizzi attraverso l’elenco delle cose da fare che il professor Lodoli propone, dall’aumento delle ore di educazione fisica, a quelle di musica, alle lezioni di cinquanta minuti fino, ovviamente, all’aumento dello stipendio degli insegnanti. Il tutto mantenendo la scatola e i suoi contenuti così come sono ora. 

Insomma come questa scuola andava bene ieri andrà bene anche domani, tanto il futuro dei giovani non lo possiamo conoscere, e una generazione vale l’altra, ragazze e ragazzi poi sono tutti uguali, che siano del secolo scorso e dei decenni a venire cosa cambia.

È questa ignoranza che pesa come una cappa sul paese, professori, intellettuali, politici, non ci si salva. La scuola è nata così con Casati e Gentile e così deve continuare a vivere.

Siamo sempre lì, alla Mastrocola e coniuge. Per cui anziché essere considerata una madornalità da licenziamento in tronco di chi ha deliberato la bocciatura di una bimbetta di sette anni in seconda elementare, in questo paese si dibatte circa il de jure della sentenza con la quale il Tar della Puglia invita il collegio dei docenti della scuola a ritornare sui suoi passi.

Non è che uno debba essere costretto a sorbirsi la legislazione scolastica che oltretutto è di una qualità letteraria pessima, ma lo scollamento tra immaginario scolastico collettivo, pratica scolastica e normative scolastiche in questo paese è enorme. Sono come tre strade parallele ognuna delle quali procede verso la propria meta senza alcuna possibilità di comunicare tra loro. Questa assenza di comunicazione fa sì che l’opinione pubblica non si modifichi mai, gli insegnanti continuino a lavorare come hanno sempre fatto incuranti di ogni innovazione e che leggi, norme e circolari restino lettera morta. 

Agisce una sorta di refrattarietà ai cambiamenti per cui l’opinione pubblica non si sposta dai luoghi comuni e la scuola dal suo modus operandi, così che il gattopardesco tutto cambi perché tutto rimanga com’è può giungere comodamente alla sua apoteosi.

Dalle Indicazioni nazionali alle Linee guida ministeriali si sono spesi fiumi di parole sul senso della valutazione in particolare nella scuola primaria, ma rimane una ambiguità irrisolta quella della eccezionalità, dei casi eccezionali.

Noi siamo il paese del tutto è normale salvo eccezioni, guarda caso, abbiamo pure la faccia tosta di affermare che le eccezioni confermano la norma essendo noi tutti discepoli dell’avvocato manzoniano.

Per cui nonostante ci si sia sforzati di spostare la valutazione sui processi si torna sempre, con una sorta di riflesso condizionato ai giudizi, ai giudizi sulla persona, anche se questa ha solo sette anni non può sottrarsi ad una simile mannaia e la mannaia si cela in quel “salvo eccezioni”.

In realtà c’è molto di più e il molto di più sta nel continuare a perpetuare un sistema scolastico fondato sulle classi di età, sulla massificazione delle differenze.

Non si può da un lato licenziare normative che richiedono di adattare l’insegnamento “ai bisogni educativi concreti degli alunni, ai loro processi cognitivi, meta-cognitivi, emotivi e sociali” per poi mortificare tutto nell’uniformità della classe, dove di regola tutti devono giungere allo stesso modo alla classe successiva, salvo ritornare al punto di partenza per ripetere di nuovo l’intero percorso.

Dovrebbe essere ormai evidente che la struttura “casati-gentiliana” del nostro sistema scolastico fondata sulle classi di età costituisce un grave ostacolo ad ogni forma di flessibilità e di individualizzazione dei percorsi di apprendimento. Che se non si aggredisce il nodo strutturale la dispersione scolastica sarà sempre alta e la tentazione delle bocciature sempre latente.

Si tratta di capovolgere la logica e passare da una scuola pensata come progressione verticale, dal basso verso l’alto secondo l’età anagrafica, a una progressione orizzontale lungo un curricolo percorso da ciascuno secondo i propri tempi e i propri bisogni formativi che nessuna classe e bocciatura possono imbrigliare.

Il rischio è che le risorse del PNRR spese per la scuola e per la formazione degli insegnanti siano ancora una volta investite per la scuola di ieri o di oggi, ma non certo per quella di domani.

La scuola è sfinita

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Il problema della scuola è la scuola. Ma se la soluzione non è la descolarizzazione della società certamente è quella della descolarizzazione della scuola, salvare la scuola da se stessa. La Scuola è sfinita è l’ultimo lavoro di Maurizio Parodi pubblicato da La Meridiana di Bari.

Una scuola estenuata, esausta, una scuola che non sopporta o meglio non supporta più i suoi studenti per l’incompatibilità crescente tra loro  e il nostro sistema formativo.

Questa nostra scuola sarebbe perfetta se solo fosse senza gli studenti o per lo meno frequentata solo da quelli con essa compatibili, probabilmente tutti quelli che della scuola non avrebbero bisogno e che comunque la scuola non  riuscirebbe a rovinare.

È saltata la compatibilità con il suo sistema, la sua organizzazione, il suo funzionamento, se mai c’è stata. Ognuno al suo posto: le classi, gli insegnanti in cattedra, gli alunni dietro  ai banchi, gli orari che scandiscono gli ingressi e le uscite, il succedersi dei saperi impacchettati nelle singole materie, ora per ora, anno per anno, i compiti, i voti, le interrogazioni, tutto perfetto. Salvo che tutto giri senza intoppi, che tutto sia compatibile con il sistema, diversamente bisogna prevedere le integrazioni, i bisogni educativi speciali, le certificazioni e incominciano le entropie.

Non è una novità lo sappiamo da tempo, lo sanno da tempo tutti quegli insegnanti che ogni giorno lavorano con passione controcorrente, nonostante la scuoia, lavorano perché sentono il peso della responsabilità della loro relazione di adulti formati con ragazze e ragazzi che in quanto adolescenti ancora non sono adulti.

Se la scuola non funziona non è colpa delle nuove generazioni, la responsabilità è di una scuola vecchia di due secoli rimasta pressoché identica a se stessa, mai riformata perché mai deformata come la regola dei monaci Certosini. Un’istituzione totalizzante alla Foucault, come le caserme, le carceri, gli ospedali. Dove codici, norme, regole, prassi annullano le persone, le individualità, le differenze, per appiattirle, per omologarle, cosa grave quando si tratta di ragazze e ragazzi che devono crescere, per dirla con Gordon Childe devono creare se stessi.

Ma nessuno si gira a guardare indietro, a guardarci dentro a questa scuola, a farne l’ecografia  con spirito di osservazione ed esperienza sul campo come fa Maurizio Parodi che nella scuola ci ha messo la vita, vi è entrato a sei anni e come tanti di noi, dalla scuola non è più uscito. Con pensiero riflessivo scrive della quotidianità delle nostre scuole, delle liturgie che in esse si celebrano, dei loro riti come fossero chiese, in cui ogni giorno l’insegnante sale in cattedra come il sacerdote all’altare e gli alunni come i fedeli nei banchi ad assistere alla celebrazione con gesti e condotte stereotipate.

Alla diagnosi Parodi accompagna la terapia a base di ricostituenti pedagogici. 

Innanzitutto praticare lo sguardo ecologico per una “conversione ecologica” quella che ci ha insegnato Gregory Bateson con il suo Verso un’ecologia della mente. Una conversione ecologica mentale di chi pratica per mestiere la cultura e l’insegnamento. Un’ecologia scolastica nel senso di praticare l’ecologia degli ambienti di apprendimento. La capacità di rimettere in discussione i nostri costrutti mentali intorno alla scuola e ai processi di insegnamento/apprendimento. Come funziona il pensiero umano e come funziona la didattica scolastica non vanno d’accordo, non sono mai andati d’accordo. 

La conversione ecologica richiede una rieducazione del pensiero, nel nostro caso del pensiero intorno ai saperi, alla scienza, agli insegnamenti per come sono da sempre accreditati dalle nostre scuole nella loro parcellizzazione e frantumazione a partire dalla formazione dei docenti per finire  ai contenuti confezionati nei libri di testo dall’editoria scolastica.

In questo senso si deve parlare di una conversione ecologica delle nostre scuole per liberare i nostri sitemi formativi dai pregiudizi cognitivi su cui si reggono. 

Parodi li elenca con precisione a partire dalla convinzione che l’unico sapere autentico è  quello formale che si apprende a scuola. Per apprendere bisogna disporre di ambienti “asettici” come le aule dove il silenzio della classe e l’assenza di stimoli esterni enfatizzano il valore della lezione e della parola dell’insegnante. Varcata la soglia della scuola gli alunni sono tutti ugualmente ignoranti, tutti non diversamente competenti. L’insegnamento si caratterizza per segmenti di trasmissione delle conoscenze alla classe, prevalentemente attraverso la parola. Durante la lezione  le informazioni “transitano” dal docente-soggetto al discente-oggetto. La persistenza degli apprendimenti è proporzionale alla quantità di insegnamento, più si insegna più qualcosa resta. Così tanto più l’alunno ascolta, tanto più impara. Solo correggendo e facendo ripetere si possono ottenere risultati positivi. La conoscenza è frutto di studio, e lo studio può essere solo fatica, rinuncia, sacrificio. Quello che si fa a scuola non può essere piacevole, perché un’attività piacevole non può essere cognitivamente significativa e didatticamente apprezzabile. La memoria è fondamentale, infatti l’apprendimento consiste nella memorizzazione di nozioni e la conoscenza è il risultato di un processo lineare e cumulativo.  Ogni studente è responsabile dei suoi risultati perché la padronanza del sapere scolastico dipende, in massima parte, dalla volontà dello studente. 

Nonostante il nuovo millennio, l’evoluzione e la diffusione dei saperi e la conseguente  perdita di centralità da parte della scuola come unica detentrice del sapere, su simili convincimenti, occulti, inconsapevoli o meno continuano a basarsi i processi formativi dei nostri giovani nelle nostre scuole.

È possibile difendersi? È possibile guarirne? Parodi  indica con chiarezza la strada, la strada del professionista riflessivo, che dovrebbe essere chiunque lavora nella scuola, chiunque ha a che fare con le persone a prescindere dalla loro età, ragione di più se l’età è quella della crescita e della formazione.

È necessario avviare processi di autoanalisi, scrive Parodi, possibili solo laddove docenti e dirigenti dichiarino la propria disponibilità a mettersi in gioco, ad acquisire distacco critico verso la propria professionalità con lo scopo di innescare processi di cambiamento che coinvolgano tutti gli operatori scolastici.

Le aree su cui lavorare sono essenzialmente tre: l’area epistemologica-scientifica, l’area pedagogico-didattica, l’area etico-sociale, per ciascuna di queste aree Parodi fornisce gli indicatori di qualità ecologica per favorire la riflessione sul senso del fare scuola oggi.

Per questa scuola sfinita l’unica terapia possibile per vincere i propri morbi è la conversione ecologica del sistema e delle menti che vi lavorano, non servono psicoterapeuti ma una cultura nuova, una cultura metacognitiva, capace di ripensare radicalmente se stessa.

Non è la strada che pare sia stata intrapresa dai decisori politici, neppure da suoi operatori che sembrano sempre più innalzare baluardi in difesa della propria fortezza.

Ma la scuola ci dice in definitiva Parodi è la questione democratica per eccellenza, è una questione di trasparenza, di accountability, di bilancio sociale a cui non ci si può sottrarre a partire da chi opera al suo interno.

Scuola e democrazia camminano di pari passi ce l’ha insegnato Dewey più di un secolo fa, se viene meno la scuola per tutti viene meno la democrazia e in giro non mancano i teorici della scuola per pochi e della democrazia come una roba vecchia e costosa.

Istruzione: un nuovo contratto sociale

La vulnerabilità era un sentimento privato frutto delle nostre fragilità biografiche, ora, dopo la pandemia e con la guerra alle porte di casa, è divenuto un sentimento collettivo che insieme all’incertezza per il futuro ha investito sempre più il nostro presente.

L’UNESCO ne ha fatto il tema dominante del suo ultimo rapporto: “Reimagining our futures together: A new social contract for education”.

Reimmaginare il futuro e per questo è necessario un nuovo contratto sociale per l’istruzione, un’istruzione che è ancora troppo fragile come ha dimostrato la pandemia, durante la quale 1,6 miliardi di studenti in tutto il mondo è stato privato della scuola.

Sono 75 anni, da quando è stata fondata, che l’UNESCO produce i suoi rapporti per ripensare il ruolo dell’istruzione nei momenti chiave della trasformazione della società. Dal rapporto della Commissione Faure del 1972 Learning to Be: The World of Education Today and Tomorrow, al rapporto della Commissione Delors nel 1996, Learning: The Treasure Within. 

Di fronte a gruppi di insegnanti e associazioni che ancora sfornano manifesti per rivendicare il passato anziché il futuro, per difendere cattedre e discipline, viene da chiedersi quanto i professionisti dell’istruzione nel nostro paese possano essere culturalmente sensibili agli stimoli che il nuovo rapporto dell’Unesco fornisce, siano disponibili a ridiscutere le presunte certezze fin qui accumulate. 

Il sistema va rivisto, ed è urgente, perché l’istruzione è questione che non riguarda più solo la nostra classe, il nostro paese, è questione mondiale e quando saliamo in cattedra non è che la porta dell’aula si chiude al mondo, al contrario si apre al mondo e di questo come insegnanti portiamo la responsabilità. Ma non sembra esserci sintonia tra tanta parte degli insegnanti delle nostre scuole e la necessità per il futuro che le nostre aule e le nostre scuole non solo siano costruite, ma soprattuto vissute in modo diverso. 

Si parla di istruzione come se i paradigmi non fossero cambiati, come se l’istruzione permanente praticata come richiesto dai documenti dell’Unesco non avesse dovuto rimettere  in discussione tutto l’assetto dei nostri sistemi formativi e il ruolo professionale dei docenti.

Ora l’Unesco suggerisce di fondare l’istruzione su un nuovo contratto sociale il cui punto di partenza sia una visione condivisa degli scopi pubblici dell’educazione a partire dai principi fondamentali e organizzativi che strutturano i sistemi formativi, il lavoro per costruirli, mantenerli e perfezionarli.

Nel corso del XX secolo, l’istruzione pubblica è stata essenzialmente finalizzata a sostenere la cittadinanza nazionale e lo sviluppo della scolarizzazione di massa attraverso l’istituzione della scuola dell’obbligo. Oggi, tuttavia, mentre affrontiamo gravi rischi per il futuro dell’umanità e per lo stesso pianeta, dobbiamo reinventare urgentemente l’istruzione per poter affrontare le sfide comuni. Il diritto all’istruzione, come sancito dall’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo non è più sufficiente. Deve continuare ad essere il fondamento del nuovo contratto sociale per l’istruzione ma occorre arricchirlo, ampliarlo al diritto all’informazione, alla cultura e alla scienza, nonché al diritto di accedere  alla conoscenza, alle risorse del patrimonio di conoscenza collettiva dell’umanità accumulato nel corso delle generazioni che si sta trasformando continuamente.

Sostenibilità, conoscenza, apprendimento, insegnanti e insegnamento, lavoro, abilità e competenze, cittadinanza, democrazia e inclusione sociale, istruzione pubblica, istruzione superiore, ricerca e innovazione costituiscono le voci vertiginose della lista, i temi critici che richiedono di essere profondamente ripensati per il futuro.

Il rapporto dell’Unesco guarda al 2050 ponendo tre domande essenziali relative all’istruzione: Cosa continuare a fare? Cosa abbandonare? Cosa inventare di nuovo in modo creativo?

Non dà risposte, ma fornisce le coordinate per pensare in modo diverso all’apprendimento, alle relazioni tra studenti e insegnanti, alla conoscenza e al mondo.

Didattica, curricoli, valutazione, insegnanti e insegnamento, scuole, opportunità educative, ricerca e innovazione.

Nulla di nuovo, ma dovremmo metterli nero su bianco, dare loro la consistenza di un nuovo contratto sociale, un riconoscimento normativo da cui non è possibile prescindere per chi mette piede nelle nostre scuole, nelle scuole di un nuovo contratto per l’istruzione.

Deve essere prescritto che a scuola istruzione e apprendimento si praticano attraverso la cooperazione, la collaborazione e la solidarietà, attraverso la compassione e l’empatia, la capacità di lavorare insieme, di immaginare e di trasformare il mondo, la cultura e il sapere per promuovere le capacità intellettuali, morali e sociali di ragazze e ragazzi. Deve essere prescritto che a scuola si va anche per disimparare, disimparare pregiudizi e divisioni, disimparare le lezioni ex cattedra, i compiti e i voti, per apprendere invece a valutare come promuovere la crescita  e l’apprendimento significativo per ogni studente.

Curricoli per contrastare la diffusione della disinformazione attraverso alfabetizzazioni scientifiche, digitali e umanistiche che sviluppino la capacità di distinguere la falsità dalla verità. Enfatizzare l’apprendimento ecologico, interculturale e interdisciplinare in modo da supportare gli studenti nell’accedere e nel produrre conoscenza, sviluppando allo stesso tempo la loro capacità di critica e di applicazione. I programmi di studio devono abbracciare una comprensione ecologica dell’umanità (già Edgar Morin ci invitava a questo) che riequilibri il modo in cui ci relazioniamo con la Terra come pianeta vivente e nostra casa. Cittadinanza attiva e partecipazione democratica devono essere promossi e praticati nei contenuti, nei metodi e nelle politiche educative.

Reimagining our futures dell’Unesco propone un profilo professionale dell’insegnante come produttore di conoscenza e figura chiave della trasformazione educativa e sociale.

Ma l’insegnante reimmaginato per il futuro non è quello che siede in cattedra e chiude la porta dell’aula. Al contrario la collaborazione e il lavoro di squadra devono caratterizzare la professione docente, la riflessione, la ricerca e la creazione di conoscenze e nuove pratiche pedagogiche debbono diventare parte integrante dell’insegnamento.

Occorre valorizzare pienamente l’autonomia e la libertà dei professionisti dell’istruzione,  che non possono continuare ad essere muti spettatori, ma farsi attori pienamente protagonisti partecipando al dibattito pubblico e al dialogo per il futuro dell’istruzione.

Le architetture scolastiche, gli spazi, gli orari, i gruppi di studenti devono essere riprogettati per incoraggiare e consentire alle persone di lavorare insieme, per affrontare sfide ed esperienze non possibili altrove, le tecnologie digitali devono mirare a supportare e non sostituire le scuole. 

Scuole come siti educativi protetti, grazie all’inclusione, all’equità e al benessere individuale e collettivo che ne costituiscono la ragione d’essere. Scuole reinventate per promuovere al meglio la trasformazione del mondo verso un futuro più giusto, equo e sostenibile.

Il diritto all’istruzione deve essere ampliato per durare tutta la vita e comprendere il diritto all’informazione, alla cultura, alla scienza e alla connettività.

Un invito alla ricerca e all’innovazione. Le università e gli istituti di istruzione superiore devono essere attivi in ​​ogni aspetto della costruzione del nuovo contratto sociale per l’istruzione nelle loro comunità e in tutto il mondo. Università creative, innovative, impegnate a rafforzare l’istruzione come bene comune hanno un ruolo chiave da svolgere nel futuro dell’istruzione, dal sostegno alla ricerca, al progresso della scienza, all’essere  partner che contribuiscono all’arricchimento e all’aggiornamento dei programmi educativi nelle loro comunità. 

È essenziale che tutti possano partecipare alla costruzione del futuro dell’istruzione: bambini, giovani, genitori, insegnanti, ricercatori, attivisti, datori di lavoro, leader culturali e religiosi. Abbiamo tradizioni culturali profonde, ricche e diversificate su cui costruire. Gli esseri umani hanno una grande capacità di azione collettiva, intelligenza e creatività da spendere. Ora ci troviamo di fronte a una scelta seria: continuare su una strada insostenibile o cambiare radicalmente rotta.

Tornando alla scuola di casa nostra, ce n’è quanto basta per reimmaginare il nostro futuro e scrivere un nuovo contratto sociale per l’istruzione, ma a guardarci attorno mancano le parti che sembrano guardare altrove o comunque incapaci di trovare la rotta da seguire. L’Unesco ce ne offre una. La speranza è che da qualche parte non ci si limiti a procacciarsi l’etichetta di patrimonio dell’umanità, ma si leggano anche i rapporti dell’Unesco che suggeriscono come far crescere per il futuro il patrimonio umano di cui portiamo la responsabilità.

“T’aggia ‘mpara’ e t’aggia perdere”

H. Bosch «Trittico dell’Epifania» particolare, Madrid, Museo del Prado

Mi piacerebbe poter scrivere in fondo  a destra, tra parentesi, la parola continua come nei giornaletti della mia infanzia.

“Continua” sì, perché la Scuola da sempre è  una grande narrazione e la narrazione è  lo strumento principe della costruzione e della trasmissione del sapere.

Anche se tutto questo, oggi, rischia di porre la Scuola, assieme alle grandi culture  fondate sulla narrazione, fuori dal tempo, se, come già molti anni addietro ci avvertiva Walter Benjamin, la condizione postmoderna è caratterizzata dalla crisi del narrare. Jean Francois Lyotard parla di crisi dei grandi racconti e il Calvino di  Se una notte d’inverno un viaggiatore denuncia il nostro oggi come luogo di un mondo in cui sembrano esistere solo storie destinate a restare in sospeso, a perdersi per la strada.

Lo scopo originale del narrare è lo stesso dei grandi miti come osserva Eco: dare ordine al disordine delle esperienze. Le storie, sia quelle costruite dallo scienziato che dalla persona comune, sono i modi “universali” per attribuire e trasmettere significati agli eventi umani.

Raccontare una storia anziché descrivere un fenomeno rappresenta un’opzione gnoseologica, la scelta di un modello di conoscenza e non la rinuncia ad esso.

Sono convinto che proporre oggi una pedagogia narrativa che si faccia carico di un interrogativo sul “perché raccontare” non sia da ritenersi un fatto innocente,  né neutro, né banale.

Il processo formativo è sempre e comunque peculiarmente narrativo: si racconta e ci

si racconta, il narrare formativo è la costruzione di significati, la costruzione di realtà possibili, non soltanto confinate nel mondo del virtuale.

Ognuno è il prodotto delle storie che ha ascoltato, vissuto e anche di quelle che non ha vissuto, allora risulta inevitabile nei contesti formativi trovare spazio alla narrazione, come oggetto, strumento e soggetto del processo.

La formazione, la formazione delle giovani generazioni, non può e non deve  rinunciare alla propria dimensione intrinsecamente narrativa, in almeno tre direzioni:

1 – una formazione che sappia valorizzare la dimensione narrativa dei “contenuti”: raccontare l’impresa, raccontare la motivazione, raccontare la comunicazione, ma persino raccontare l’informatica…

2 – una formazione pedagogica, esperta nell’analisi delle narrazioni, preoccupata di tenere deste le capacità narrative della comunità civile, che miri ad insegnare, ad ascoltare narrazioni ed a produrre narrazioni. Ecco: l’educazione alla memoria, ad una memoria collettiva socialmente legittimata come chiave di lettura anche di periodi di crisi.

3 – una formazione  all’autobiografia  che non è solo un modo di raccontarsi, un disvelamento a sfondo narcisistico, o una spiegazione/giustificazione post hoc delle scelte compiute nel corso dell’esistenza. Scrivere la propria storia è un modo per apprendere qualcosa su di sé. Scriverla perché sia letta è un modo per formare altri alla comprensione di sé.

Tre direzioni, che sono anche motivazioni, e che devono essere assunte come proprie

da chi lavora nella e per la  formazione.

Ogni anno scolastico altro non è che una narrazione in cui comporre le pagine biografiche di bambine e bambini, di ragazze e di ragazzi, con la consapevolezza che il progetto di vita è uno solo e non è mai  quello che spesso altri hanno stabilito  in un altrove sempre lontano da noi stessi. 

Il bilancio del lavoro di ogni insegnate è nella biografia personale dei ragazzi e delle ragazze che hanno occupato le loro aule, ascoltato, partecipato alle loro lezioni, alle loro proposte e prospettive formative.

Erri de Luca fa dire a un personaggio di un suo romanzo: “t’aggia ‘mpara’ e t’aggia perdere”. Devo insegnarti tutto e poi devo perderti. È nella natura del mestiere di chi lavora a scuola.

L’insegnate non è certo un emigrante e neppure qualcuno che ha dovuto espatriare in cerca di un lavoro. Ma certamente la professione che si esercita nella scuola rende migranti, migranti nei territori della cultura e della ricerca, migranti da una sede all’altra verso nuove esperienze, migranti verso nuove sfide pedagogiche e professionali, con le classi e le generazioni di alunni che cambiano. 

Migranti perché la formazione è per sua costituzione senza meta ed è ben rappresentata dalla storia dell’Imperatore della Terra Gialla, il quale vagando a Nord dell’Acquarossa, salì sul monte Cuenlùn e guardò verso il Sud.

Al ritorno perdette la sua perla magica.

Mandò Conoscenza a cercarla, ma non la trovò.

Mandò Chiarosguardo a cercarla, ma non la trovò.

Allora mandò Senzameta e la trovò.

“Strano davvero” disse l’Imperatore, “che proprio Senzameta sia riuscito a trovarla”.

Quella del viaggio è la metafora che più calza e più mi piace a proposito del lavoro scolastico.

Ma soprattutto il viaggio è uno spazio in cui si definisce l’identità del viaggiatore: “Gli esseri umani non sono realtà fisse con una propria identità precostituita che a un certo punto si mettono a fare delle scelte. Siamo invece esseri in divenire la cui identità viene continuamente trasformata dalla riflessione e dall’azione.”

Il romanzo di Erri de Luca, che ho citato poco sopra, narra la storia di uno scugnizzo napoletano che ama la scuola e l’istruzione, che legge gratis i libri delle bancarelle, incontrando figure adulte che in questo lo aiutano e lo incoraggiano, che ascolta le grandi narrazioni dalla geniale figura di un saggio portinaio che l’ha adottato, un ragazzino che si appresta a un viaggio in nave verso l’Argentina che vive come il luogo della sua felicità e il titolo del romanzo è “Il giorno prima della felicità”.

Ogni giorno di scuola delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi vorrei che fosse “il giorno prima della felicità”. Qualcuno dirà ma allora la felicità non viene mai, ma io credo nella sindrome del Sabato del villaggio, che il bello della vita sta nell’impegno, nell’intelligenza, nell’entusiasmo, nelle aspettative che si vivono sempre  il giorno prima dell’evento, della festa, della felicità, è per questo che la storia continua.

Giovani e scuola che aria che tira

La fine della pandemia prometteva che l’aria sarebbe cambiata, meno viziata dai miasmi del passato. Invece tira aria di restaurazione. Sembra che i giovani siano minori, non perché più piccoli, ma perché “minus”, cioè meno dotati, meno dotati di noi adulti. Dove inizi e dove finisca la minore dotazione è tutto da stabilire. Intanto Frida Bollani Magoni a soli sedici anni suona la sua interpretazione dell’inno d’Italia alla presenza del Presidente della Repubblica e il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, rivendica il voto ai sedicenni.

Eppure c’è sempre qualche adulto che sente il bisogno di dare una qualche lezione ai giovani, perché i loro modi di essere non combaciano con la sua cultura, con i modelli comportamentali introiettati. Così Chiara Saraceno concorda con la dirigente dell’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano che con circolare interna ha dettato il dress code a cui si devono attenere le sue studentesse e i suoi studenti.

Perché l’abito fa il monaco, ogni luogo ha il suo abbigliamento, in particolare le istituzioni come la scuola. Secondo la sociologa i giovani devono essere educati al rispetto che si deve ai professori e all’ambiente scolastico, e questo rispetto passa prima di tutto attraverso a come ti vesti. Pretendere di insegnare questo rispetto puzza sempre di accusa, di punitivismo nei confronti dei minori, preoccupa perché denuncia le frustrazioni che nascono da un senso di impotenza comunicativa con i giovani, vuoto che si pensa di colmare dettando le regole, le norme, i principi di normalità a cui attenersi, gli unici accettati per essere ammessi nei santuari del sapere. Come ti devi regolare se vuoi vivere in un mondo in cui ci sono anche gli adulti con le loro pretese. Puzzano di rivincita sui patimenti subiti negli anni della propria adolescenza per via dei soprusi del mondo adulto. Semmai si condannano quei soprusi, ma non il rispetto di quelle, che nonostante la rivoluzione dei costumi, si continua a considerare buone regole, abitudini da inculcare, la buona educazione del tempo che fu. Le ragazze acqua e sapone e grembiule nero, i ragazzi giacca, cravatta, scarpe lucide e capelli corti. Pensavamo di essere riusciti ad andare oltre, ma pare che ora si esageri ed è dunque necessario tirare il freno. Spuntano le mutande dai jeans, alcune magliette e braghe pare lascino trasparire troppo del giovane corpo che le indossa, poi ora ci sono i piercing, che sono ammessi solo se all’orecchio, per non parlare dei tatuaggi, delle  scritte insidiose su magliette e felpe. Poi la scuola non è una spiaggia, niente infradito e occhiali da sole, a meno che lo ordini il medico. 

Se si consultano i siti delle scuole nostrane, come quelle del mondo, i dress code sembrano copiati gli uni dagli altri. Dunque milioni di studenti dagli Usa all’Arabia, dall’Europa all’Australia hanno bisogno di essere educati all’abbigliamento, cosa è consono e cosa non lo è a seconda dei luoghi, a partire dalla scuola. Qualcuno l’ha risolto da tempo con le divise del college, che pure inculcano un senso di appartenenza e di identità, altri restano affezionati al grembiule delle elementari con nastro rosa per le bimbe e azzurro per i bimbi, addirittura l’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano indica ai genitori dove andarli a comprare, in modo da essere sicuri di rispettare il dress code della scuola.

Siamo sempre alla solita questione, quando l’istituzione non sa accogliere e dialogare, creare un clima di parità e di intesa nel rispetto delle differenze si ricorre a proibire, a scrivere regole e catechismi, anziché contaminarsi, capirsi reciprocamente, assegnare valore ai luoghi e a quello che in quei luoghi si fa e si vive insieme. Non accade in famiglia, non accade a scuola e la scorciatoia che solleva gli adulti da ogni responsabilità è scaricare sulle spalle dei giovani un bel dress code in nome dell’autorità degli adulti e dell’inviolabilità sacra dell’istituzione.

Il problema è che abbigliarsi è un’esigenza e un’arte, è l’arte dell’identificazione, del ritrovare se stessi, dell’interpretare la vita, del comunicare il proprio tempo, il proprio mondo e se la scuola è luogo di socializzazione, e come tale viene vissuto, la socializzazione ha le sue regole e i suoi codici. E se una generazione ha un suo linguaggio perché dovrebbe lasciarlo fuori dalla porta della classe, lasciare una parte di sé fuori dalla scuola, essere a scuola sempre dimezzati. Così la scuola non è la vita, è una para-esistenza, quello che puoi indossare per strada, in famiglia, quando incontri i tuoi amici non va bene, può dare scandalo, distrarre l’attenzione dalle lezioni e dai compiti scolastici, può indurre pensieri carnali, attrazioni sessuali. Ma dove sta tutto questo se non nella mente patologicamente sospettosa di qualche adulto?

L’ossessione del dress code ha accompagnato anche la didattica a distanza, nel sospetto che qualche studente sotto il mezzobusto della webcam indossasse i pantaloni del pigiama, bermuda e le detestate infradito, una imperdonabile mancanza di rispetto nei confronti dell’istituzione seppure virtuale, perpetrata per di più clandestinamente. Il sospetto è che gli insegnanti non siano stati da meno.

A leggere Week Education, rivista statunitense online, si scopre che durante la pandemia la maggior parte degli insegnanti impegnati nella Dad ha vissuto come un vantaggio, in un periodo particolarmente stressante, potersi disinteressare dell’abbigliamento dalla cintola in giù. Ora per ridurre lo stress dovuto alla ripresa della didattica in presenza agli insegnanti di un distretto scolastico del Missouri è stato consentito di continuare a vestirsi in modo casual.

Negli Usa i codici di abbigliamento degli insegnanti non sono una novità. Un contratto dei dipendenti della Ohio Education Association, datato 1923 e rivolto esclusivamente alle insegnanti vietava i colori vivaci o di tingersi i capelli, richiedeva di indossare “almeno due sottovesti” e abiti non più di due pollici sopra la caviglia. I tempi sono cambiati ma non mancano i ritorni di fiamma.

Nel 2018, We Are Teachers ha compilato un codice di abbigliamento per insegnanti con quattordici regole, tra le quali il divieto di indossare jeans e scarpe da ginnastica.

Fortunatamente a calare il sipario sulla assurdità di tutto questo ci hanno pensato gli insegnanti spagnoli del movimento “La Ropa non Tiene Genero”.

Dal 2020 sempre più alto si è fatto il numero dei docenti che hanno scelto di accantonare l’uso dei pantaloni in classe durante le lezioni per combattere gli stereotipi di genere e per sostenere Mikel Gómez, lo studente cacciato da scuola per essersi recato in aula con una gonna.

Invece noi siamo il paese in cui, mentre in parlamento si discute il disegno di legge Zan contro pregiudizi e stereotipi di genere, ci si preoccupa di come le nostre studentesse e i nostri studenti si vestono per andare a scuola, senza rendersi conto di quanto rasentiamo il ridicolo e che le circolari sull’abbigliamento a scuola meriterebbero  di essere sepolte da una solenne risata.

Considerate le statistiche relative all’abbandono scolastico, sarei tentato di suggerire ai  presidi di usare lo slogan: “A scuola come ti pare purché tu ci venga per imparare”. 

L’impressione però è che a scuola tiri una brutta aria, un’aria di reazione e di ostilità nei confronti dei giovani, allarma il post di un docente su Facebook che esalta il suo consiglio di  classe perché allo scrutinio di fine anno su 25 alunni ne ha promossi solo quattro, tutti gli altri respinti o con il giudizio sospeso. Inquietante perché quel docente anziché inorgoglirsi dovrebbe preoccuparsi seriamente del fallimento professionale suo e di un’intero consiglio di classe.

Dovremmo essere vicini ai nostri giovani, invece crescono gli atteggiamenti pedagogicamente punitivi, che celano sempre frustrazioni e un patologico bisogno di rivincita. 

“Cambiamo strada” è il titolo dell’ultimo libro del filosofo francese Edgar Morin, nello stesso tempo un invito. Ci avverte del pericolo di un grande processo regressivo che viene da lontano, ancora prima della crisi del virus e che si accentuerà nel post-epidemia. Il timore più grande è che questo processo regressivo, già in corso nel primo ventennio di questo secolo, possa avere varcato anche le porte delle nostre scuole.

La lingua salvata*

Mother-tongue-UNESCO

Non sarà che ci scopriamo tutti migranti in questo mondo del globale, se non altro per via della lingua che parliamo? Disorientati tra il difendere le nostre radici e il desiderio di aprirci sempre di più alle sfide di internet e della globalizzazione, sopraffatti dall’onda crescente e colonizzante del panEnglish?

La mente torna alle pagine della biografia che Canetti fa di sé con La lingua salvata.

Lui che nasce a Rustschuk, in Bulgaria, sul basso Danubio, naturalizzato britannico, sceglie come lingua madre il tedesco, quella lingua che la mamma “con terrore pedagogico” gli impone. Studierà al liceo di Zurigo e a Zurigo morirà.

Noi che ancora ci muoviamo nell’angustia dei ragionamenti sui vari bilinguismi e su quanto sia opportuno anticipare l’apprendimento delle lingue straniere, non è che ci possiamo rifugiare nel «ma lui è Elias Canetti!» quando dalle sue parole apprendiamo che già alle elementari parla spagnolo, bulgaro, inglese, francese e subito dopo il tedesco.

È vero il nostro grande paese, un tempo crocevia di culture, oggi è attraversato da leghismi padani, da velleitarie repubbliche da cortile di casa, da migrazioni di lingue e culture che nella nostra pertinace ottusità fatichiamo ad accogliere e comprendere.

La Rustschuk di Canetti agli inizi del secolo scorso era un luogo dove vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue, un microcosmo dove circolavano bulgari, turchi, greci, albanesi, armeni, zingari, circassi, rumeni…

Ora anche da noi, se facciamo attenzione, in giro per la città udiamo che il vecchio familiare dialetto sta cedendo il passo ad un moltiplicatore di lingue che non riconosciamo.

Elias Canetti racconta di quando piccolo, scendendo le scale di casa, dall’appartamento di fronte usciva un uomo sorridente che gli intima di mostrargli la lingua; e non appena il piccolo Elias la tira fuori, quello estrae di tasca un coltellino e dice: «ora gliela tagliamo». Ma all’ultimo momento richiude il coltellino con un colpo secco e rimanda il taglio all’indomani.

Non è solo un episodio, lo scherzo di un adulto si trasforma nell’incubo d’un ragazzo che spiega la scelta del titolo “La lingua salvata”. Perché privarci della nostra lingua è come cancellare la nostra identità, la nostra capacità di pensiero, l’intimità del sentire e degli affetti.

Tove Skutnabb-Kangas, docente all’università danese di Roskilde e alla accademia universitaria di Vasa in Finlandia, è conosciuta nel mondo per le sue crociate a favore del riconoscimento dei diritti linguistici umani e per il diritto all’istruzione delle minoranze linguistiche e culturali.

Denuncia che le lingue stanno scomparendo dal pianeta più rapidamente delle specie viventi, in parte, sostiene, a causa della diffusione dell’inglese. Ma è anche il risultato delle nazioni che non proteggono le minoranze linguistiche e non usano queste lingue come medium dell’istruzione nelle loro scuole.

Contro l’estinguersi delle lingue e con esse lo scomparire di culture, di tradizioni e di identità, la Tove propone una Convenzione Universale dei Diritti Linguistici Umani. In essa afferma che ogni persona ha diritto a identificarsi con la propria madrelingua e vedere questa identificazione riconosciuta e rispettata dagli altri.

Ognuno ha il diritto ad apprendere la madrelingua, orale (quando è fisiologicamente possibile) e scritta. In particolare, e questo riguarda soprattutto i figli di prima e di seconda generazione degli immigrati, anche per il nostro paese, di essere istruito, prioritariamente, attraverso il medium della propria madrelingua, all’interno del sistema scolastico finanziato dallo Stato. Di utilizzare la madrelingua nella maggior parte delle situazioni ufficiali (comprese le scuole). Soprattutto ogni cambio rispetto alla propria madrelingua, poiché include conoscenze e conseguenze a lungo termine, deve essere volontario e non può essere imposto.

La Tove difende con forza il diritto di tutti i fanciulli a ricevere l’istruzione nella loro madrelingua, divenendo bilingui o trilingui con l’apprendimento della lingua dominante nel paese che li ospita.

Del resto i dati dell’OCSE sono chiari. Dimostrano che, in generale, la prima generazione dei figli di migranti non raggiunge lo stesso grado di istruzione dei loro coetanei indigeni. Sia per la prima che per la seconda generazione l’istruzione acquisita dipende dal livello culturale dei genitori.

Per tanto le politiche migratorie dei paesi ospitanti non sono indifferenti, ma incidono sui risultati scolastici dei figli degli immigrati. Dove la selezione di lavoratori stranieri avviene tenendo conto delle necessità del mercato del lavoro, delle qualifiche e dei livelli di istruzione, come in Australia e in Canada, il tasso di preparazione a cui giungono i figli di seconda generazione è circa lo stesso o superiore a quello dei coetanei nativi. All’opposto in Germania, in Belgio e in Italia, dove sono reclutati lavoratori stranieri con basse competenze, i livelli di istruzione raggiunti dalla seconda generazione sono significativamente al di sotto di quelli dei madrelingua.

Secondo i dati OCSE è proprio la lingua a creare lo svantaggio, la lingua è il fattore prevalente che riguarda il rendimento scolastico, il non poter studiare e pensare nella propria lingua madre. Inoltre, poiché la madrelingua è la lingua del quotidiano, i fanciulli delle famiglie migranti spesso parlano in casa una lingua che è differente da quella del paese ospite.

Noi siamo una nazione con una scuola in teoria attenta alla lingua materna, alla lingua di scolarizzazione e alle lingue europee, ma in pratica molto lontana dall’essere un sistema scolastico plurilingue. Per cui, mentre i ministri dell’istruzione progettano fin dalle elementari lezioni in lingua inglese, non sono in grado, non solo di procurare i mezzi, ma neppure di pensare a come garantire ai figli degli immigrati il diritto di imparare a scuola per mezzo della loro madrelingua, quella famigliare e di tutti i giorni, come è nel diritto di tutte le bambine e i bambini di questo mondo. Così gli svantaggi per questi fanciulli si moltiplicano e per loro, che hanno il medesimo diritto all’istruzione dei loro coetanei italiani, viene meno il dettato dell’art. 3 della nostra Costituzione, che dovrebbe valere ancor prima di ogni altra disquisizione intorno allo ius soli o allo ius sanguinis.

Eppure è dal 1960 che esiste la Convenzione dell’ONU contro le discriminazioni nell’istruzione. All’art. 5 fornisce una chiara protezione delle minoranze culturali e linguistiche, a partire dai fanciulli migranti. L’Unesco, nel 1999, ha istituito la giornata internazionale della madrelingua, il 21 febbraio.

Ma evidentemente anni di governi ignoranti e di leghismi intellettualmente asfittici hanno finito con ottundere le menti di questo nostro paese e rendere cronica la sua miopia.

*pubblicato su ferraraitalia http://www.ferraraitalia.it/la-lingua-salvata-8992.html

 

 

La città della conoscenza

 

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L’imperativo dell’apprendimento

La città della conoscenza è questo: è la città della creatività e dell’innovazione, la città dell’apprendimento continuo, dell’apprendimento per tutta la vita, dell’apprendimento nel modo più piacevole possibile.

È un sogno che molti coltivano da tempo, almeno i viaggiatori nei territori formali e informali del sapere. Ma questo nostro sogno ogni giorno si infrange contro l’ottusità delle menti che non sanno pensare, che del presente non sanno mai scorgere il futuro e pensano di procedere con la testa sempre rivolta all’indietro, perché il passato insegna, come se il futuro, solo per essere futuro, non ci sapesse insegnare.

È inevitabile che al dunque si finisca per sbattere contro il muro di una realtà che ci è sfuggita di mano e nella quale non siamo più in grado di riconoscerci e di orientarci, perché le attese dei nostri sogni erano ben altre, ben più lontane da quello che ora ci troviamo innanzi, sotto i nostri occhi.

E risalire la china, recuperare strada e distanze diventa sempre più arduo.

Che parliamo di educazione permanente, life long learning, si perde negli anni del secolo scorso. In vero combinando assai poco, se non una sorta di vecchia istruzione popolare, malamente rivista e corretta, nella totale insipienza che caratterizza l’educazione degli adulti nel nostro paese. Già usare il termine educazione a proposito di adulti dovrebbe far rabbrividire.

Del resto conserviamo con lodevole ostinazione il nostro buon vecchio sistema scolastico, funzionale ad una società fondata sulla divisione del lavoro, di un lavoro che non c’è più, perché da tempo quel mondo si è eclissato.

L’educazione permanente è in realtà episodica, quasi clandestina a volte, non riesce a diventare sistema di vita, andare a regime, dar luogo a una nuova organizzazione sociale, a un diverso modo di vivere, a un sistema formativo esteso.

Al di là delle proclamazioni, ancora viviamo come se ci fosse un’età per lo studio, un’età per il lavoro, un’età per mettere su famiglia. Sappiamo benissimo tutti che non è più così da lungo tempo. Ma i luoghi della nostra vita e del nostro studio continuano ancora ad essere organizzati come se tutto fosse come prima.

Le nostre città ci sono cambiate sotto gli occhi in questi anni e cambieranno ancora nei prossimi. Così come c’è un cambiamento a cui oggi assistiamo e, forse proprio perché noi per primi ne siamo coinvolti, forse perché l’abbiamo quotidianamente intorno e innanzi a noi, forse per questo non lo vediamo.

È l’aspetto mentale del cambiamento. Quello che non si vede. Il modo in cui le persone pensano, interagiscono, collaborano, risolvono problemi, prendono decisioni, gestiscono le informazioni, convivono tra loro.

Alla parola “educazione” che implica adattamento, assuefazione all’esistente, occorre contrapporre “apprendimento”, apprendimento e ancora apprendimento, carico di respiro perché carico di curiosità, perché il concetto di apprendimento comporta dinamicità, un futurismo permanente, l’idea di attrezzarsi compiutamente e in modo sempre rinnovato per affrontare le sfide che ci stanno di fronte.

Non è una questione di competenza delle nostre scuole, delle nostre università, dei nostri insegnanti, dei nostri amministratori. È l’idea che nessuno può più chiamarsi fuori, l’idea che tutti noi dobbiamo farci coinvolgere se vogliamo creare una società in cui sentirci sicuri e appagati.

L’apprendimento è alla radice di ogni futuro e, dunque, di tutto il nostro futuro. Del resto l’apprendimento è uno dei nostri istinti fondamentali; se non fosse così non saremmo in grado di parlare, di camminare, di nutrirci.

Che cosa deve cambiare nell’apprendimento perché apprendere diventi un diritto universale che non può essere barattato e nello stesso tempo un piacere?

E che cosa c’è di tanto importante nella creazione di una cultura dell’apprendimento nelle nostre città e nelle nostre regioni?

Ci sono già parecchie città e regioni, in molte parti del mondo, impegnate in questo viaggio.

Le riflessioni e le suggestioni che propongo non mi appartengono, sono tratte dalla rilettura del libro di Norman Longworth, Città che imparano, che Raffaello Cortina Editore ha pubblicato già da alcuni anni, nel 2007.

L’autore è stato per anni presidente dell’associazione ELLI, acronimo di European Lifelong Learning Initiative.

Il richiamo al viaggio non è a caso, perché il progetto europeo delle città che apprendono, che ha visto la Dublino di Joyce rivestire un ruolo di primo piano, si chiama LILLIPUT.

Il viaggio verso l’apprendimento è un’avventura che ci porta in nuovi mondi e ci spinge verso nuovi lidi. Quelle terre da scoprire sono il punto d’arrivo di percorsi personali che richiedono coraggio, ottimismo e senso dell’avventura. Come Colombo, dobbiamo iniziare il nostro viaggio con un atto di fede; e diversamente da lui dobbiamo preoccuparci di rispettare e onorare le nuove culture e le nuove esperienze che incontreremo lungo la via.

Si sono autodichiarate learning city e learning region città dove le persone più avvedute si rendono conto che ciò non accadrà senza l’appoggio di milioni di cittadini, dell’ambiente economico, degli studiosi, delle scuole, degli ospedali e delle comunità locali.

Tra le linee guida della politica ufficiale dell’Unione Europea sulla dimensione locale e regionale dell’apprendimento continuo si legge:

Le città e le cittadine di un mondo globalizzato non si posso permettere di non diventare città e cittadine che apprendono. Ci sono in gioco la prosperità, la stabilità e lo sviluppo personale di tutti i cittadini”.

Sta di fatto che learning city, learning town, learning region, learning community sono termini ormai divenuti d’uso comune in tutto il mondo sviluppato e in via di sviluppo, soprattutto perché le amministrazioni locali e regionali hanno capito che un futuro più prospero dipende dallo sviluppo del capitale umano e sociale di cui dispongono al loro interno.

E la chiave di questo sviluppo è riducibile a tre parole: apprendimento, apprendimento, apprendimento.

Significa instillare l’abitudine ad imparare nel maggior numero possibile di cittadini e aiutarli a costruire comunità che siano comunità di apprendimento.

Obiettivo questo che dal vertice di Lisbona (UE 2000) avrebbe dovuto appartenere ed essere perseguito da tutti gli Stati membri, ma il nostro Paese è parso impegnato in ben altro, tanto da aver smarrito la strada.

Che cosa significa apprendimento continuo nel contesto della città?

E come fa una città a rendersi conto di essere diventata una “learning city ”?

Come può una città sviluppare una cultura dell’apprendimento o della conoscenza all’interno dei propri confini?

James W. Botkin, autore di Imparare il futuro: apprendimento e istruzione, settimo rapporto al Club di Roma, nel lontano 1979 predicava una società della saggezza. Intendendo sagge quelle società che hanno tolleranza per i valori alternativi e apprezzano l’eterogeneità, le cui culture si sono affrancate dall’arroganza monopolistica di chi crede di avere le risposte e di dover dire agli altri come vivere. Società abitate da un gran numero di persone in grado di accettare più di un punto di vista.

Ma diventare una società della saggezza implica un processo di apprendimento che ci renda più tolleranti, più rispettosi del valore delle opinioni alternative e degli altri modi di vivere, più aperti alla differenza e meno desiderosi di preservare stili di vita che poggiano sul dominare su altre persone.

La risposta dunque sta nell’apertura di un gran numero di menti all’apprendimento.

L’ apprendimento continuo

 Del resto il rapporto tra cittadinanza e apprendimento non è nuovo alla storia e alla cultura dell’Occidente. Già Platone 2500 anni fa aveva definito “la responsabilità che grava su ogni cittadino di educare se stesso e sviluppare appieno il proprio potenziale ”.

Ad Atene e in molte altre città greche, per centinaia di anni, l’apprendimento e il contributo allo sviluppo della società furono attività quotidiane e naturali per tantissimi cittadini.

Una simile rivoluzione culturale ebbe luogo nel mondo islamico mediorientale dell’VIII e del IX secolo, in cui Damasco, Gerusalemme e Alessandria divennero capitali del sapere e dell’apprendimento.

Oggi per noi parlare di città della conoscenza, di learning city significa operare per realizzare il nostro desiderio di vivere in una società, a partire dalla nostra città, più uguale, più democratica, più stimolante.

E mi sembra che l’avvio non possa che muovere dalla nostra intelligenza e capacità di rimettere in discussione, di porre sul tavolo anatomico innanzitutto i modelli educativi fin qui da noi praticati, fondare sistemi formativi sul diritto universale ad apprendere, sul piacere, sul promuovere e certificare il successo anziché sanzionare l’insuccesso, sull’abbattere le barriere dell’apprendimento, sulla soddisfazione dei bisogni e delle istanze di chi apprende, sul celebrare l’apprendimento con festival dedicati all’apprendimento.

Questo vuol dire confrontarsi con l’idea di città della conoscenza.

Dobbiamo sapere che ciò che oggi accade alle nostre bambine, alle nostre ragazze, ai nostri bambini, ai nostri ragazzi nelle nostre scuole è destinato a determinare, a segnare, a condizionare valori e modi dell’apprendimento, i loro atteggiamenti di persone quando giungeranno alla loro età adulta.

Perché è l’approccio positivo e continuativo all’apprendimento che sta alla base di una possibile città della conoscenza, di una città del benessere individuale, della stabilità e della prosperità.

È quindi a partire dalle scuole che si determinano le condizioni per la creazione di una città della conoscenza.

La conoscenza, il sapere, l’istruzione, la curiosità, la meraviglia sono la nostra libertà. Si nasce che è tutto un darsi da fare per assimilare il mondo che ci sta intorno e che ci deve ospitare. E quello è un imparare, un apprendere incessante, spontaneo, naturale. I tempi che non sapevamo di questo ormai ci sono distanti, lontani per durata e per cultura.

La stupenda avventura della crescita come cammino nel mondo è storicamente imbrigliata, mortificata dalle culture e dai costumi sociali, attraverso un’educazione che è ancora un universo di riti di passaggio, obbligatori per essere accolti nell’alveo degli adulti.

L’amore per i nostri piccoli non è ancora così forte da difenderli dai nostri condizionamenti, dalle nostre aspettative, dalle nostre visioni del mondo.

Il Rinascimento è la rinascita della conoscenza, nella conoscenza e attraverso la conoscenza. L’umana avventura è solo nostra, individuale, intersecata alla avventura umana degli altri a noi contemporanei o già vissuti, condotta portando la responsabilità nei confronti degli altri che vengono e che verranno. Il rispetto della libertà dell’individuo, dell’autodeterminazione dovrebbe portare a diffidare della parola educazione che si sostituisca all’istruzione, alla conoscenza, all’esperienza, ai processi di adattamento che ne discendono. Abbiamo un eccesso di cultura di integrazione sociale che distrae dai sentieri dell’apprendimento, dai percorsi che conducono ai saperi, alle conoscenze.

L’infelicità è nella classe, è nel banco, nell’anonima solitudine delle nostre scuole, degli apprendimenti gelidi, dei tradimenti del pensiero, della mente, dell’intelligenza. La noia che precipita le sue nubi sul tempo dei nostri giovani, che ne oscura il sole, che ne anticipa i tramonti.

Il cambiamento è la condizione necessaria ormai inevitabile.

La Commissione dell’Unione Europea da tempo ha coraggiosamente affermato che l’apprendimento continuo non è più solo un aspetto dell’educazione e della formazione: deve diventare il fondamento, il principio guida dell’intero sistema formativo, dell’intero sistema di erogazione e di partecipazione sullo spettro totale dei contesti di apprendimento.

L’enfasi va posta sui diritti dell’individuo come discente e sullo sviluppo del potenziale individuale. In questa prospettiva è evidente che tutta la società deve farsi apprendimento, perché gli individui e la scuola con le solo loro forze non sarebbero in grado di risolvere tutti i problemi dell’apprendimento.

Nonostante i fiumi di inchiostro che sono stati versati per propugnare la causa dell’apprendimento continuo, siamo ancora lontani dall’aver compreso e assimilato la sostanza e il significato dell’apprendimento così come si estrinseca attualmente.

Il messaggio che “continuativo” significa “per tutta la vita”, l’intera vita dall’alfa all’omega, e che l’apprendimento è un processo attivo focalizzato sulla persona e aperto a tutti, non è ancora arrivato alla coscienza delle persone, dei politici, degli amministratori, alla maggior parte degli insegnanti.

In questa dimensione l’apprendimento è condivisione, è cura, è evento quotidiano gestito dalle persone, anziché processo collettivo che avviene in una istituzione scolastica.

Ciò in tanto comporterebbe adottare procedure e processi più bottom-up, più basati sui reali bisogni e sulle effettive istanze dei discenti, con un ribaltamento del rapporto di potere e della titolarità dell’apprendimento dal docente verso il discente.

Secondo il programma della Commissione dell’Unione Europea una learning city va al di là del proprio compito istituzionale di fornire istruzione e formazione […], crea un ambiente partecipativo, culturalmente consapevole ed economicamente vivace attraverso la fornitura e la promozione attiva di opportunità di apprendimento in grado di sviluppare il potenziale di tutti i suoi abitanti.

Riconosce e comprende il ruolo fondamentale dell’apprendimento per la prosperità, la stabilità sociale e la realizzazione personale, mobilita creativamente e sensibilmente tutte le risorse umane, fisiche e finanziarie per sviluppare appieno il potenziale umano di tutti i suoi abitanti.

La città della conoscenza enfatizza l’importanza della partnership tra istituzioni e organizzazioni.

Le partnership locali per l’apprendimento continuo sono composte da rappresentanti di scuole, università, imprese, enti locali e regionali, centri di formazione per gli adulti e associazioni di volontariato.

La città della conoscenza incoraggia lo spirito di cittadinanza e il volontariato, i progetti che permettono di attivare l’impegno, il talento, l’esperienza, le conoscenze presenti nelle comunità.

La città della conoscenza estende il numero dei luoghi in cui avviene l’apprendimento, in modo che i cittadini possano riceverlo dovunque, quando e come vogliono: nei centri di formazione istituiti all’interno di centri commerciali, nei learning shops, negli stadi, in tutte le strade, nelle sale parrocchiali, nei centri sociali, e forse addirittura nei ristoranti, negli ambulatori, e in altri luoghi di riunione.

L’apprendimento è considerato creativo, appagante e piacevole.

L’apprendimento è un’attività rivolta all’esterno, in grado di aprire la mente e promuove tolleranza, rispetto e comprensione per le altre culture, le altre religioni, le altre razze e le altre tradizioni.

Tutti accettano una certa responsabilità per l’apprendimento degli altri.

Uomini, donne, disabili e minoranze hanno pari accesso alle opportunità di apprendimento

L’apprendimento viene frequentemente celebrato a livello individuale, nelle famiglie, nella comunità e nella società in generale.

Ogni aspetto della comunità fa parte integrante del programma di apprendimento.

Le biblioteche, i musei, i parchi, le palestre, i negozi, le banche, le aziende, gli uffici municipali, le fattorie, le fabbriche, le strade e l’ambiente forniscono opportunità di apprendimento, strutture e servizi per autodidatti.

Nello stesso tempo, l’apprendimento diventa un servizio alla comunità perché i futuri cittadini vengono coinvolti nella comunità locale. L’educazione concerne l’apprendimento, e non la ricezione passiva dell’insegnamento.

Un apprendimento che procede dal basso e non promana dall’alto, quasi per concessione o calcolo politico. Un apprendimento il cui focus è contenuto nel concetto di realizzazione del potenziale umano di tutti, dello sviluppo del capitale umano come risorsa per la crescita del capitale sociale.