Il corpo va a scuola

Si fa fatica a frequentare la scuola con il corpo, pare che non si sappia dove metterlo. Prima c’erano i banchi e i compagni di banco, corpo a corpo silenziosi. Poi vennero i tavolini mono posto, ognuno per sé. Comunque in classe il corpo deve stare seduto. Poi c’è l’ora di educazione fisica, oggi motoria, in cui appunto educare il fisico che in sostanza è il  proprio corpo.

Il corpo tradizionalmente ignorato nelle nostre classi, improvvisamente ha rivendicato la sua presenza, la sua considerazione quando con la didattica a distanza ci si è accorti della sua assenza, come vicinanza necessaria, vale a dire come relazione.

Del resto il nostro corpo è quella fisicità che ci consente di socializzare, quelli che noi con estensione anglosassone chiamiamo “social” non hanno nulla di sociale, appunto perché mancano della corporeità, della fisicità delle persone. I nostri social sono popolati da ectoplasmi, da entità senza corpi, da spiriti liberi che assumono nickname e le sembianze di un avatar.

I corpi non girano più, non si muovono, seduti a scuola come nelle stanze di casa a compulsare la rete digitale.

Del resto i dati Istat non mentono, in Italia circa 2 milioni 130 mila bambini e adolescenti di età tra 3 e i 17 anni sono in eccesso di peso e quasi 2 milioni non praticano sport né attività fisica.

Allora dovremmo accogliere con favore la decisione, entrata nella legge di bilancio, di introdurre l’insegnante di educazione motoria nella scuola primaria a partire dalle classi quinte il prossimo anno e dalle quarte con l’anno dopo.

La storia dell’educazione fisica nella scuola primaria, un tempo elementare, ha a che fare con la considerazione sociale del corpo. Nei programmi del 1955, quelli del ministro Ermini, l’educazione morale, civile e fisica costituiva un unico paragrafo: “L’educazione fisica si consideri connessa all’educazione morale e civile come mezzo che induce l’alunno a rispettare e a padroneggiare il proprio corpo, a ordinare la tumultuaria esplosione delle energie, tipica della fanciullezza, e come tirocinio all’autocontrollo, all’autodisciplina e alla socievolezza”. Il corpo è una bomba pericolosa soprattutto nella “tumultuaria fanciullezza” e quindi sia “disciplinato”, “ordinato” dall’educazione morale, civile e fisica.

Così è stato per trent’anni nelle nostre scuole elementari, fino all’avvento dei programmi del 1985, sinossi di tutte le novità psico-pedagogiche che fino ad allora erano state lasciate fuori dalla porta della scuola ufficiale.

Il capovolgimento è totale, scompare l’educazione morale, civile e fisica, per restituire cittadinanza alla “tumultuaria esplosione delle energie” affidata ad un’accogliente educazione motoria “integrata nel processo di maturazione dell’autonomia personale”, rivendicando “l’affermazione nella cultura contemporanea dei nuovi significati di corporeità, di movimento e di sport.”

Nel 2012 con le Indicazioni Nazionali per il Primo Ciclo di Istruzione ritorna l’Educazione Fisica, ma questa volta con la fisicità del corpo che a scuola, sta scritto, deve stare bene. L’educazione fisica come educazione a star bene con se stessi “contribuisce alla formazione della personalità dell’alunno attraverso la conoscenza e la consapevolezza della propria identità corporea, nonché del continuo bisogno di movimento come cura costante della propria persona e del proprio benessere.” Non solo corpo, attenzione, ma anche “identità corporea”.

Dieci anni dopo, la legge di bilancio 2022 introduce nella scuola primaria la figura dell’insegnante di educazione motoria per “promuovere nei giovani, fin dalla scuola primaria, l’assunzione di comportamenti e stili di vita funzionali alla crescita armoniosa, alla salute, al benessere psico-fisico e al pieno sviluppo della persona, riconoscendo l’educazione motoria quale espressione di un diritto personale e strumento di apprendimento cognitivo“.

La prima domanda che viene spontaneo porsi è chiedersi fino ad oggi chi ha insegnato alle bambine e ai bambini dai sei ai dieci anni l’educazione fisica o motoria che sia? Non erano le maestre e i maestri che avrebbero dovuto farlo? E se l’hanno fatto finora perché improvvisamente non sono più in grado di farlo? E se non sono più in grado di farlo perché non formarli a farlo, allora? Che figura professionale è quella dell’insegnante di scuola primaria?

Domande elementari come la scuola elementare.

Sono domande destinate a rimanere senza risposta perché chi dovrebbe fornirle non le sa formulare. Perché questo paese manca di una visione sull’istruzione, di come deve essere la scuola del futuro. Avere una visione di insieme, in prospettiva è troppo faticoso, la storia ormai ci insegna che è politicamente ingestibile. Ognuno ha la sua idea di scuola, la Destra e la Sinistra, la Confindustria, la Fondazione Agnelli, i Sindacati, la Chiesa.

Così tutto resta sempre come prima e i ministri di turno provvedono per aggiunte o sottrazioni a seconda dei problemi che di volta in volta emergono. 

I giovani mancano di senso civico? E allora aggiungiamo a Cittadinanza e Costituzione l’Educazione civica. I bambini sono obesi e non si muovono? Ecco pronto l’insegnante di educazione motoria da aggiungere ai maestri. C’è il disagio adolescenziale allora introduciamo nelle scuole il pedagogista, l’educatore professionale, lo psicologo, costruiamo le scuole polo del disagio psico-sociale, come una volta c’erano le scuole speciali. Tutto senza aumenti di spesa e con un eccesso di ignoranza scolastica gratuita. Con il rischio che, considerato il crescente calo demografico, un giorno nelle aule ci saranno più adulti che alunni.

Che intorno alla scuola oggi sia necessario costruire la rete di un sistema formativo integrato è vecchia questione, che oggi riemerge sottesa al susseguirsi di frequenti richiami alle comunità educanti e ai patti educativi territoriali. 

L’autosufficienza della scuola non è mai esistita e la necessità della sua continua interazione con “il più ampio ambiente sociale” è qualcosa che non può essere delegata agli organi collegiali. Chiama in causa la vivacità del territorio nell’offrire opportunità formative in grado di arricchire il curricolo e l’offerta formativa delle singole scuole attraverso le sue strutture e la messa in gioco di differenti attori, dalle istituzioni culturali all’associazionismo.

La scuola chiusa in se stessa, autoreferenziale che moltiplica le figure professionali rischia di implodere, mentre la natura della scuola è curricolare. La scuola che scorre nel territorio, che nel territorio si vivifica e che vivifica di sé il territorio, perché ogni territorio  è significativo per i destini formativi delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi.

Il convitato di pietra

Antropocene, l’era dell’homo sapiens che ha segnato massicciamente le sorti della sua specie e della Terra che abita. Pensavamo di dover perseguire la pace tra noi e la biosfera e, improvvisamente, scopriamo che non abbiamo ancora fatto pace neppure con i nostri vicini, che la prima lotta da combattere è contro la guerra, senza la quale tutto il resto perde immediatamente di senso. La “sostenibilità” cosa significa di fronte alla insostenibilità della guerra? 

Viviamo in un mondo globalizzato ma ci siamo scordati di costruire una cultura mondiale che ci unisse. Troppo preoccupati delle nostre patrie e dei nostri cortili, delle identità nazionali come se i secoli non fossero trascorsi, come se il secolo breve e così lungo di delitti fosse passato invano. 

Questo prometteva d’essere il secolo dei saperi, delle conoscenze, delle sfide ai neuroni del cervello umano, invece ha preso il sopravvento il cervello rettile dell’aggressione dell’uomo sull’uomo.

Ora ci siamo tutti insieme. Ora, la brutale realtà quotidiana di milioni di persone in Africa, Asia, Medio Oriente e Sud America, riguarda anche l’Europa. 

Le nostre finestre erano chiuse, gli orizzonti finivano sotto casa e i nostri pensieri se ne stavano rassicurati. La pandemia della malattia ci ha allertati, ci siamo lagnati per i traumi inflitti ai nostri adolescenti privati di scampoli di socializzazione. Per troppo tempo abbiamo continuato a ignorare milioni di genitori costretti a lottare per mandare i propri figli a scuola in mezzo a conflitti armati, sfollamenti forzati, disastri causati dai cambiamenti climatici e dal COVID-19.

Abbiamo studiato Eschilo e Euripide sempre invano. Narrative dolorose, l’universalità dei temi del fratricidio e dell’esilio, le orde dei nemici che si abbattono sulle mura cittadine, il mare montante della moltitudine degli aggressori, il vivere come esule, migrante in casa propria. Tragedie mai finite d’essere scritte perché le barriere culturali, linguistiche e religiose ne hanno continuato la versione in ogni epoca e ancora ora nella nostra.

Era dopo la pandemia che il mondo non sarebbe più stato quello di prima, ma non era la guerra che aspettavamo a scavarci dentro. Dentro avremmo dovuto scoprici migliori, non con più paura, con la sensazione che armi e malattie non siano un caso ma una strategia. In esergo al suo Shock Economy Naomi Klein quindici anni fa poneva le parole tratte da 1984 di George Orwell: “Ti spremeremo fino a che tu non sia completamente svuotato e quindi ti riempiremo di noi stessi”.

La lotta è a non farsi svuotare per evitare di essere riempiti da chi attende la nostra distrazione. La lotta è per la nostra umanizzazione, per evitare di continuare a scoprirci ad ogni tornante della storia d’essere sempre quelli della pietra.

Secoli di predicatori della religione degli dei non ci hanno umanizzato ma condannato al dolore e alla violenza con l’illusione dell’eterna promessa, della perfezione dell’Iperuranio.

La condanna l’abbiamo alimentata dentro, nei nostri cervelli a produrre menti sospettose e aggressive, pensieri armati gli uni contro gli altri, moltitudini affiliate alle sette schierate le une contro la storia delle altre. Un delirio razionale e lucido. Uno stand by del tempo e delle coscienze. L’ignoranza nutrita per difendersi dalla comprensione della realtà. La sterilizzazione massiccia del futuro, fino alla crisi di una civiltà che non sa più come riconoscersi: la crisi dell’umanità che non riesce a diventare umanità.

Il ventunesimo secolo prometteva la cittadinanza terrestre. Il destino planetario del genere umano, il riconoscimento comune dell’identità terrestre.

Non avevamo messo in conto le relazioni umane, le conflittualità che ci sovrastano, che il miglior vivere prima che con l’ambiente avremmo dovuto praticarlo tra noi, gli uni con gli altri. Che i peggiori inquinamenti della biosfera sono le atrocità con cui l’uomo sopraffa l’uomo, la crudeltà della sua umiliazione. Vivere in armonia con l’ambiente la favola bella che non narrava dell’antagonismo, del male perpetrato l’uno sull’altro. Vedevamo la pace e fingevamo di non vedere la guerra, volevamo respirare l’aria pura a pieni polmoni ignorando i fronti dove i colpi delle armi rendono l’aria mortifera.

Avevamo bisogno del secolo della conoscenza per comprendere e appena hanno potuto ce l’hanno sottratto per lasciarci nel dubbio, nella confusione, per minare la nostra fiducia nella scienza e nella ragione.

Avevamo bisogno di comprensione. Di conoscenza e comprensione quelle che Edgar Morin aveva individuato come le parole chiave del nostro secolo. La conoscenza della conoscenza quella che ci può permettere di individuare i nostri errori, gli errori degli uni e degli altri. La comprensione come virtù principale di ogni vita sociale, la comprensione che consente il riconoscimento della piena umanità e della piena dignità degli altri.

Antagonismi e conflittualità difficilmente spariranno, ma essere in grado di comprendere, di riconoscere è l’unico strumento che ci resta per proseguire nella nostra ominizzazione.

Per questo non possiamo permetterci di farci svuotare da campagne di informazione orchestrate per alimentare la babele delle parole, per inculcare la paura e la continua incertezza, la sfiducia nelle capacità offerte dal sapere.

C’è un convitato di pietra in questo scenario agli esordi degli anni venti del nuovo secolo, questo convitato è l’educazione, l’educazione che ha forgiato ciascuno di noi e che soprattutto dovrà forgiare le nuove generazioni. 

La scuola è il mondo intero. I profughi dalla guerra in Ucraina giungono nelle nostre aule come se fossero il prolungamento della classe lasciata nel loro paese, la didattica a distanza unisce ciò che la guerra pretende di spaccare.

Ci siamo lasciati sfuggire la mondialità della scuola, l’unica che avrebbe potuto far sorgere una rete globale di reciprocità, di dialoghi e di conoscenze da eclissare ogni altro canale informativo, le scuole con le scuole, peer to peer per aprire le menti e la comprensione dei nostri ragazzi su questo pianeta.

Era nelle opportunità delle scuole del mondo attraverso la rete realizzare la società mondiale della conoscenza come sfida da lanciare nei confronti della società dell’informazione. Intrecciare twinning non tra simili ma tra distanti, culturalmente e linguisticamente, cittadini del mondo e non solo dell’Europa o dell’Occidente. Non abbiamo saputo cogliere la sfida urgente che ci stava di fronte, diventare una grande comunità di apprendimento senza confini, dove aiutarsi a vicenda per arricchire il potenziale umano di ciascuno contro i muri innalzati dall’irrazionalità delle fedi, delle nazioni, delle culture e delle guerre.

Una scuola mondiale impegnata nella riforma della conoscenza e del pensiero da cui dipendono  il destino dell’uomo e della Terra in questa era dell’Antropocene.

Una scuola fuori di testa*

Che un buco nel muro potesse diventare un luogo di apprendimento come minimo deve aver fatto rivoltare nella tomba il gota del pensiero pedagogico da Comenio a Froebel e oltre. Ora le “scuole cloud” di Sugata Mitra hanno conquistato l’India, il Messico, l’Inghilterra e il loro ideatore oggi è un’icona.

Non è che l’idea di Mitra sia poi così nuova. È antica per lo meno quanto la ricerca pedagogica da Socrate a Pestalozzi, da Maria Montessori a Jean Piaget, da quando avrebbe dovuto divenire patrimonio culturale comune di ogni scuola del globo terracqueo che l’apprendimento è una continua invenzione, che si apprende giocando e inseguendo le proprie curiosità.

A Nuova Delhi i computer nei buchi dei muri degli slum perché i bambini apprendano, da noi minacciose circolari ministeriali sull’uso dello smartphone a scuola, chi vorrebbe sostituire i tablet con le predelle, i dies irae socio-psico-pedagogici intonati per scongiurare come la peste la didattica a distanza.

A undici anni, nel 1890, Albert Einstein frequentava una scuola ispirata al metodo Pestalozzi e lì gli fu data la possibilità di iniziare i suoi primi esperimenti che l’avrebbero portato alla teoria della relatività. I fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, hanno affermato di dovere spirito di indipendenza e creatività alla loro istruzione montessoriana. 

Secondo i neuroscienziati della Northwestern University se non siamo noi quelli che controllano il proprio apprendimento, difficilmente impareremo. 

Lo psicologo Peter Gray, professore al Boston College, che studia i modi naturali di apprendimento dei bambini, sostiene che i meccanismi cognitivi umani sono fondamentalmente incompatibili con la scuola convenzionale. Gray sottolinea che i bambini piccoli, motivati dalla curiosità e dalla giocosità, apprendono moltissimo sul mondo. Eppure quando raggiungono l’età scolare, quella spinta innata a imparare viene sostituita da un curricolo imposto. Stiamo insegnando agli studenti che i loro pensieri e le loro domande non contano, che ciò che conta sono le domande e le risposte dei programmi scolastici. Questo non è il modo in cui la selezione naturale ci ha progettati per imparare. Ci ha progettato per risolvere i problemi e capire le cose che fanno parte della nostra vita reale. 

Una scuola fuori di testa per dirla con Ken Robinson, divenuto famoso per i suoi TED, sul ruolo della creatività in materia di istruzione, le visualizzazioni attraverso il sito web di TED nel 2021 sono state oltre 70 milioni.

Abbiamo bisogno di creatività, di intuizione, inventiva, della curiosità che spinge a formulare domande e ipotesi che sono il motore di ogni sapere.

Una scuola libera dove si apprende a liberare se stessi, le proprie energie e potenzialità, a dare slancio al proprio sviluppo sociale e intellettivo.

Le free-school non mancano per il mondo, quella di Brooklyn la potete trovare sul web, si presenta come il luogo dove i bambini, ragazze e ragazzi sono liberi. Due registi indipendenti, Kenneth Chu e Diana Ecker, hanno realizzato un film documentario incentrato sulla vita quotidiana e sulle realtà emotive di una comunità estremamente diversificata di studenti dall’asilo nido alle superiori.

C’è anche la “Scuola dell’uno”, “School of one”, un programma sperimentale condotto nelle scuole pubbliche di New York il cui obiettivo è quello di creare una “playlist di apprendimento” personalizzata per ogni studente.

La didattica della trasmissione non ha bisogno di intelligenze, ha bisogno di megafoni e i megafoni sono gli studenti, il megafono può parlare o scrivere, ma sempre megafono resta. Quando il megafono non funziona o viene eliminato o si elimina da solo.

Che lo si voglia o no questo è ancora il modello dominante dell’istruzione pubblica, quello generato dalla rivoluzione industriale, quando il mercato del lavoro apprezzava puntualità, regolarità, attenzione e silenzio sopra ogni altra cosa. Oggigiorno è rimasto solo il nostro sistema educativo ad apprezzare questi “valori” con le sue routine che mettono alla prova  gli studenti di ogni età sulla loro capacità di trattenere informazioni e replicarle. L’editoria dei testi scolastici fa da guida indicando agli insegnanti cosa insegnare ogni giorno. 

I risultati parlano da soli, centinaia di migliaia di abbandoni scolastici ogni anno, e oltre un terzo dei diplomati alla scuola superiore che non è preparato per affrontare i corsi universitari. 

Chi difende la scuola tradizionale difende un’epoca che non c’è più, incapace di interpretare il presente. C’è rimasto un paese arretrato, indietro di decenni, che ha scritto pagine di riforma della scuola senza mai riformarla, perché a fare la scuola sono gli insegnanti i quali hanno continuato a fare come hanno sempre fatto, vale a dire a insegnare come è stato insegnato a loro con la complicità di una università identica a se stessa impreparata per preparare chi avrebbe dovuto “formare ad apprendere”.

Una scuola che non riesce a produrre le “teste ben fatte”, perché è una questione di generazioni culturali che devono esaurirsi, perché ben fatte non sono le teste di chi si deve occupare delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi che ha davanti.

O si produce una nuova generazione di educatori capace di formare se stessa nel vivo della relazione con i bisogni formativi di ciascuno studente, lontana da tutti gli armamentari educativi di un secolo per sempre concluso o neppure la replicante strada delle riforme e dei provvedimenti più o meno estemporanei potrà salvare il nostro sistema formativo.

Una scuola che non può pretendere di restare ancorata a certezze che non esistono più in un mondo in continua metamorfosi che mette in questione ogni strumento del sapere, mentre le nostre enciclopedie di riferimento diventano obsolete e di conseguenza necessitano di essere continuamente reinventate.

Scopo dell’istruzione è prendersi cura del sapere, alimentare l’esplorazione, la curiosità degli studenti, interrogarsi su come si apprende in questo tempo di continue trasformazioni.  Un lavoro di cura che comporta tempo e fatica, difficoltà di comprensione perché le coordinate non sono più quelle di prima. Un lavoro che chiama in causa la responsabilità e la formazione degli insegnanti, di chi ha scelto di percorrere la strada  che porta ad appropriarsi della cultura e del patrimonio di saperi dell’umanità a fianco delle giovani generazioni.

*Pubblicato anche da EDSCUOLA.EU

Il paese sbagliato

Non c’era solo Mario Lodi nel paese sbagliato, ma anche Bruno Ciari maestro a Certaldo e Albino Bernardini maestro nella borgata romana di Pietralata.

Poi c’eravamo anche noi, giovani maestri vincitori di concorso a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Mandati a insegnare nelle classi di “risulta”, quelle “difficili” con 35 alunni tutti ripetenti, adolescenti condannati alle elementari.

Il primo giorno che arrivai a Comacchio, la sede che mi fu assegnata ai primi di dicembre del ’69, mi trovai di fronte una madre venuta a protestare perché la supplente aveva tirato la cimosa contro un alunno il quale per tutta risposta aveva lanciato una seggiola alla volta dell’insegnante, fortunatamente senza colpirla.

Il giorno dopo per raggiungere la mia classe confinata nella sala mensa dell’ECA (l’allora Ente di Assistenza Comunale, sede del Patronato Scolastico), passai davanti ad un’aula buia, pensando che fosse vuota, così avrei potuto trasferirmi lì con i miei alunni, accesi la luce e mi ritrovai di fronte a trenta alunni lasciati tutti in ginocchio, alla mia domanda cosa facessero in quella posizione la risposta fu che erano in punizione e che la loro maestra era dal direttore.

Non è che la scuola elementare ai Cappuccini di Comacchio fosse un’ eccezione, era la normalità del massimo oscurantismo educativo che aveva trovato la sua espressione pedagogica nei programmi Ermini del 1955, con l’insegnamento della religione cattolica a “fondamento e coronamento” di tutta l’educazione impartita dalla scuola pubblica.

Venivo dalle lezioni di Guido Petter sul Piaget, recuperato vent’anni dopo che nel 1945 era fallito, per via dei problemi economici del nostro paese, il tentativo dello Washburne di mandare alcune maestre e maestri all’università di Ginevra per apprendere la lezione dello psicologo di Neuchâtel.

Questo era il paese sbagliato dove ho incominciato a insegnare, dove l’insofferenza per cattedre, banchi, lavagne, per quelle giovani vite impacchettate nei grandi scatoloni delle nostre aule mi portò a studiare, a ricercare fino a scoprire la pedagogia popolare di Célestin Freinet, la cooperazione educativa, il Movimento di Cooperazione Educativa, maestri come Lodi, Ciari, Bernardini le cui esperienze erano da leggere e imitare, perché avrebbero cambiato “il mestiere del maestro” come scriverà nel 1974 un altro compagno di strada: Fiorenzo Alfieri.

Si trattava di contrapporre a una pedagogia reazionaria che sprigionava ancora miasmi di idealismo fascista, una pedagogia rispettosa della centralità e particolarità di ogni bambina e bambino, ragazza e ragazzo. Di applicare nella didattica quotidiana le tecniche didattiche di cui scriveva Bruno Ciari, le esperienze del giornalino “Insieme” di Mario Lodi, la sua biblioteca scolastica, con l’abolizione dei voti, dei libri di testo, la scrittura dei testi liberi e la tipografia per stamparli, il calcolo vivente. La conoscenza di un’infanzia “operatoria” come ce l’aveva descritta il Piaget, lo strutturalismo pedagogico di Jerome Bruner, tutta una cultura di attrezzi pedagogici a cui la scuola italiana contrapponeva ignoranza e resistenza. 

Era anche una battaglia politica che facevamo contrapponendo ad una scuola autoritaria e antidemocratica i principi di una pedagogia socialista ispirata agli studi di Dina Bertoni Jovine, al Poema Pedagogico di Makarenko, a Lucio Lombardo Radice, il figlio di Giuseppe, alla Riforma della Scuola, pubblicata dagli Editori Riuniti.

Se oggi la nostra scuola primaria può essere presa a modello lo dobbiamo a loro: Mario Lodi, Bruno Ciari, Albino Bernardini, alle tante maestre e ai tanti maestri del Movimento di Cooperazione Educativa come Franco Lorenzoni, che hanno posto giorno dopo giorno uno sopra l’altro i mattoni dell’ innovazione didattica e attraverso essa della liberazione dell’infanzia dall’oppressione scolastica.

È una battaglia che non è finita, che richiede una vigilanza quotidiana contro i tentativi di restaurazione.

Ora tutti corrono a celebrare la figura di Mario Lodi straordinario maestro e scrittore, ma se vogliamo parlare di Mario evitando le celebrazioni, parliamo della nostra scuola, da dove è partita la strada tracciata dal maestro di Vho di Piadena, come ha attraversato le nostre classi, quali segni ha lasciato. Se nelle nostre aule, nel fare scuola di ogni giorno si riconosce la mano, il pensiero di quel maestro. Dove è arrivato e dove ancora non è arrivato, e perché.

Diversamente evitiamo di ricordare Mario Lodi con le parole, perché abbiamo bisogno che Mario Lodi sia presente ogni giorno, dal nord al sud, da est a ovest nelle aule dove crescono le nostre bimbe e i nostri bimbi. Abbiamo bisogno di aule che brulichino di vita, di fermento pedagogico, di innovazione, di creatività, del fare e dell’inventare. Non abbiamo bisogno di aule con banchi che contengono corpi con i loro grembiuli, di lavagne per dettare i compiti a casa, di sussidiari da studiare da pagina a pagina. Abbiamo bisogno di laboratori attivi, di maestre e maestri operosi, imbevuti di spirito innovativo, di intelligenza pedagogica, capaci di suscitare curiosità, fantasia e sogni di bambine e bambini, di fargli scoprire il mondo non dalle finestre delle aule, neppure dalle finestre dei libri di testo o dagli schermi  dei loro laptop, ma per le strade dei loro paesi e delle loro città, dialogando con pari dignità con gli adulti e il loro mondo.

Nella quarta di copertina della prima edizione, 1970, di “Il Paese Sbagliato” l’editore Einaudi sintetizza l’opera del maestro Lodi con queste parole: “Distruggere la prigione, mettere al centro della scuola il bambino, liberarlo da ogni paura, dare motivazione e felicità al suo lavoro, creare intorno a lui una comunità di compagni che non gli siano antagonisti, dare importanza alla sua vita e ai sentimenti più alti che dentro gli si sviluppano…”.

Quattro anni dopo Einaudi pubblica “Insieme” il giornale di una quinta elementare del maestro Lodi. Nell’introduzione scrive il maestro: “A scuola, rifiutare il piccolo potere della cattedra e gli strumenti passivizzanti della scuola autoritaria è già vivere, o essere pronti a vivere, in modo alternativo e coerente; è cambiare se stessi nel profondo e tradurre questo cambiamento nelle scelte quotidiane, in un processo di costruzione della persona che i “rivoluzionari della parola” rifiutano perché costa. […] Non è facile per un maestro rinunciare al ruolo di trasmettitore di un “sapere” in scatola come quello condensato nei libri di testo e mettersi alla pari degli alunni per capirne i problemi e aiutarli a ragionare senza chiusure ideologiche, su quanto accade nel mondo.”

Cinquant’anni dopo quanto di tutto questo costituisce il patrimonio della cultura professionale di chi entra per lavorare nella scuola? Quanto è praticato nelle scuole di ogni angolo del paese, da quelle dei piccoli a quelle dei grandi, dalla primaria all’ultimo grado della secondaria?  

Il modo migliore per ricordare Mario Lodi, insegnante di bambine e bambini, è interrogarsi onestamente e realisticamente, senza inventarci giustificazioni, alibi e argomentazioni, su che scuola siamo, dalla primaria alla secondaria superiore, su che scuola vogliamo diventare, se ne abbiamo maturato un’idea, masticando di Lodi e Montessori, o ancora se siamo destinati ad arrabattarci in una scuola sbagliata di un paese sbagliato.

La scuola di tutti è ancora un’incompiuta

Erewhon è una parola che non c’è. È una parola che non si riconosce, che gli altri non sanno comprendere, perché è una parola diversa. Erewhon è una parola rovesciata, il suo dritto è Nowhere: In nessun posto.

Nel 1872 l’inglese Samuel Butler scrive un romanzo fantastico e satirico sul mondo di Erewhon dove i malati vengono messi in prigione e processati, le vittime sono considerate immorali, nelle scuole si insegna l’Irragionevolezza.

Un mondo solo apparentemente immaginario se riflettiamo bene, se pensiamo da dove siamo partiti per giungere all’inclusione di “tutti” nella scuola di tutti.
Dovremmo essere sempre inquieti, mai soddisfatti dei nostri risultati, perché noi che lavoriamo nella scuola entriamo in relazione con quanto vi è di più delicato e di più complesso nella storia di ogni persona. L’infanzia, l’adolescenza, essere bambina o bambino, ragazzo o ragazza e nessuno può scegliere quello che è, né il luogo della sua nascita né la famiglia, nessuno può scegliere la sua sorte, perché di sorte si tratta.

Abbiamo fatto molta strada per giungere a costruire la scuola di tutti, ma sono di quelle strade che non sono mai compiute, che a volte non trovi più sotto i piedi e ti tocca tornare a ripercorrerle da capo.

Le conquiste legislative non bastano se poi da strumento di progresso civile e di tutela delle persone più fragili diventano ostaggio di prassi burocratiche, dei ministri di turno e delle loro circolari.

Se guardiamo agli esiti che ci saremmo attesi dall’applicazione di leggi come la 517 e la 104 non possiamo sentirci soddisfatti. L’integrazione e l’inclusione degli alunni portatori di handicap ha costituito sempre un terreno di battaglia, per conquistare più ore di sostegno, più personale, educatori, spazi, la riduzione del numero degli alunni per classe, fino ad impedire che dentro alla scuola di tutti si riproducessero i ghetti delle classi speciali.

Le leggi coglievano i punti di arrivo della pedagogia speciale, ma le scuole e gli insegnanti rimanevano sempre identici a se stessi, salvo le eccezioni ovviamente, eccezioni che ormai non sappiamo se siano un vizio o una virtù delle nostre scuole.

La resistenza al cambiamento culturale e professionale ha prodotto la “clinicizzazione” della diversità, facendo della diversità una disabilità. 

La scuola è di tutti perché tutti diversi. Invece no. Si sono pretese le certificazione cliniche per dispensare, per avere diritto ad una didattica individualizzata, fino a fare dell’essere straniero, dell’essere immigrato, del possedere una lingua madre non riconosciuta uno svantaggio da certificare. La scuola monolite. Gli insegnati monoliti.

La scuola di tutti necessitava dell’autonomia e del territorio, aspirava ad un sistema formativo integrato e nel momento in cui ne avremmo avuto bisogno non l’abbiamo trovato. In questi anni di pandemia ne abbiamo pagato la mancanza, abbiamo toccato con mano come un sistema formativo scuola-centrico abbia fallito, non sia stato in grado di essere la scuola di tutti e a pagare sono stati i bambini e le bambine, gli adolescenti che si sono persi nel bosco.

Mentre c’è chi pensa di salvare il futuro della scuola avvolto nelle nebbie dei propri pensieri come hanno dimostrato Paola Mastrocola, Luca Ricolfi e Luciano Canfora intervistati da Raffaella De Santis per la Repubblica, il PNRR procede con la Componente 1 della Mission 4: Rivedere l’organizzazione e innovare il sistema di istruzione. 

La politica ha fallito, ma ha fallito soprattutto la scuola in tutte le sue componenti e a riformare il nostro sistema formativo provvederà l’Europa. 

Intanto i miliardi del PNRR su disabilità e inclusione tacciono di un silenzio che non sa di distrazione.

Studenti in piazza

E così in un solo giorno la scuola affettiva del ministro Bianchi, la comunità educante della pandemia si sono frantumate sotto i colpi dei manganelli della polizia. In un paese che non ha imparato ad essere adulto perché privo di adulti degni di questo nome.

Una generazione di adulti mai diventati tale, che scarica la propria inconsistenza in applausi, simili ad ole parlamentari, per un presidente rieletto, perché incapaci di sceglierne uno, in un record di ascolti per il festival di Sanremo come catarsi della propria immaturità.

Botte, castighi, punizioni, sospensioni tutto il repertorio della pedagogia repressiva del secolo scorso e dei secoli prima. La rivincita del padre di Kafka e del metodo “pestalozzi”.

Eppure questi studenti da anni, ancora prima della pandemia, chiedono agli adulti di essere adulti, di assumersi le loro responsabilità, di crescere, di non continuare a protrarre la loro adolescenza in un’età adulta inconcludente, priva di decisioni, perché orba di visioni, di prospettive, di sogni di futuro da condividere con le loro figlie e i loro figli.

Invece no. I giovani così complicati, così poco decifrabili dal cervello elementare di questa generazione di adulti, che a cinquant’anni sono no vax, mentre i loro “incomprensibili” figli fanno la coda agli hub per farsi vaccinare, queste generazioni “maneskin” sono la zavorra di questa società.

Pongono troppe questioni a un mondo di adulti impreparati, troppo presi a gestire loro stessi e i loro casini, a tentare di cavare fuori i piedi dalla loro vita, da non avere tempo per cercare di capire i loro figli.

Ognuno si trastulli con i propri “giochini” e non stia a creare troppi problemi. Si facciano lo spinello, facciano i bulli, stuprino pure ai festini, che tanto è roba da ragazzi che hanno bisogno di socializzare.

E ora, proprio ora la scuola con la DAD gli impedisce di stare insieme, di sfogare la loro pubertà crescendo degli psicopatici, disturbati mentalmente e nei comportamenti.

Se poi socializzano troppo occupando la scuola che, pilotata dagli adulti, si è arenata contro il muro del passato, allora giù botte, come gli schiaffoni degni dei genitori di una volta che usavano la cinghia, contravvenendo ogni principio pedagogico predicato e ostentato di educazione  libertaria da Tolstoj a Montessori, da Steiner a Alexander Neill, da Danilo Dolci a Noam Chomsky.

È un fermo immagine. Anzi, no. È il riavvolgimento della pellicola di un film che non avremmo voluto rivedere in tempi di DVD.

A leggere Recalcati pareva che dovessimo galvanizzare classi di studentesse e di studenti con il fascino erotico dei discorsi dalla cattedra. Per non parlare dei vari Galli della Loggia, Mastrocola, Ricolfi e Canfora con le loro elucubrazioni sul futuro della scuola, sarebbe il caso che si affrettassero a chiedere asilo politico dove la scuola è come la pensano loro, se sono in grado di trovare un luogo simile. Anni che la stampa e la cultura italiana con scandalosa incompetenza macinano idee a vuoto sulla formazione dei giovani in questo paese. Che si leggessero la Mission 4 del Piano Nazionale di Rinascita e Resilienza e scopriranno che il futuro della scuola italiana non è più nelle nostre mani, a riorganizzare il nostro sistema formativo ci sta pensando mamma Europa con le sue condizioni e i suoi vincoli.

Non a caso sono scesi in piazza gli studenti delle medie inferiori e delle superiori, come quelli che hanno risposto all’appello di Greta Thunberg per la salvaguardia dell’ambiente.

Dimostrando ancora una volta di essere i veri adulti, adulti prima del tempo, perché l’adultità non è una questione anagrafica, ma una questione di responsabilità, di capacità di guardare lontano, di guardare avanti.

Sono scesi in piazza perché fa tristezza pensare di essere figli di generazioni di adulti che non sono neppure capaci di fermarsi e di urlare che è un orrore, non un incidente, morire a diciott’anni durante uno stage scuola-lavoro. Un paese che non si ferma a riflettere, i grandi sindacati inerti, attoniti, come se si trattasse di uno dei tanti incidenti sul lavoro che in questo paese continuano ad alimentare le statistiche. 

Che i giovani non vogliano vivere in un paese così dimostra che non mancano di uno spiccato senso della realtà, soprattutto non mancano della consapevolezza del presente. 

Un mondo di adulti che poi si autoassolve, dimentica tutto dopo i riti televisivi delle bare bianche portate a spalla dai compagni. È scandaloso, è soprattutto un mondo di adulti che poi non può pretendere di dare a scuola ai suoi giovani lezioni di educazione civica, perché l’educazione civica insieme a quella etica neppure la conoscono.

Si è toccato con mano il fallimento, il fallimento di una generazione che ha distrutto la politica, messo a rischio la democrazia, condannato generazioni di figli a non avere un futuro. 

E allora tutto entra in un grande calderone di confusione, scuola, lavoro, ambiente, i mali endemici del paese e del suo sistema formativo, la grande nebbia che offusca le viste.

Anche scendere in piazza a protestare non è facile quando i tuoi interlocutori non hanno la maturità oltre che l’intelligenza per capire e si difendono dietro gli scudi della polizia, dietro i provvedimenti disciplinari della scuola di sempre, dietro le denunce.

I giovani hanno realizzato che il futuro è loro e che non possono lasciarlo in mano ad una generazione di genitori inetti, di famiglie inette, di educatori, insegnanti, intellettuali inetti: platealmente non idonei.

C’è un’emergenza istruzione, come c’è un’emergenza ambiente, le due cose vanno di pari passo. Come l’hanno fatto con l’ambiente ora lo faranno con la scuola perché questa scuola sempre identica a se stessa non funziona e loro non hanno tempo da sprecare.

L’istruzione è il capitale più prezioso che hanno da conservare ed arricchire e non certo da giocarsi in una scuola che gli vuol far credere di essere formativa, in grado di prepararli al futuro del 2030, del 2050, i numeri che danno gli adulti, imponendogli gli scritti all’immarcescibile rito dell’esame di maturità ormai divenuto solo il simbolo dell’immaturità di un intero paese e della sua classe dirigente.

Uno spettro si aggira per la scuola: le Non Cognitive Skills

La Camera ha approvato, l’11 gennaio scorso, pressoché all’unanimità, la proposta di legge relativa all’introduzione dello sviluppo delle competenze non cognitive nei percorsi scolastici. 

L’organizzazione degli studi nel nostro paese resta grossomodo la stessa dai tempi di Croce e Gentile, per non dire di Casati, ma la priorità che ora scopre coralmente il nostro Parlamento, con sfoggi culturali da Dewey al Costruttivismo, sono le competenze non cognitive (NCS), vendute come scoperta anglosassone e come panacea per migliorare il successo formativo, prevenire l’analfabetismo funzionale, la povertà educativa e la dispersione scolastica.

La sindrome da bonus edilizia deve avere contagiato i membri dell’intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà fautori della proposta, i quali evidentemente pensano che siano sufficienti alcuni ritocchi alla facciata e i problemi della nostra scuola sono risolti. Si sperimenta per qualche anno e poi si vede, allo stesso modo di come si sta procedendo con la sperimentazione dei licei quadriennali. È la scuola a due velocità, da una parte si sta fermi un giro lasciando tutto inalterato, dall’altra si prova l’ebrezza del nuovo, salvo che non si tratti invece dell’usato riciclato, com’è costume storico nella nostra scuola.

La cosa strabiliante è che la proposta di legge in questione vorrebbe sperimentare l’insegnamento delle life skills, così sono definite dagli economisti le competenze non cognitive, senza indicare in alcun modo cosa siano e quali siano. 

La confusione regna sovrana. Per capirci qualcosa bisogna leggere gli ordini del giorno che accompagnano l’approvazione della proposta in Parlamento. In essi si dice che le competenze non cognitive sono le Soft Skills, quelle cioè che rappresentano una risorsa fondamentale per l’accesso al mercato del lavoro come coscienziosità, apertura mentale, autodeterminazione, mentalità dinamica e resilienza. Si evoca il premio Nobel per l’economia nell’anno 2000, James Heckman, per il quale le competenze non cognitive sono l’affidabilità, capacità di lavorare in gruppo, la perseveranza e l’impegno nel processo di apprendimento e nel lavoro.

A nessuno è dato sapere come si raggiungerà e come sarà misurata la “competenza” nelle competenze non cognitive. È comunque importante iniziare fin dalla fase prescolare e dalla prima scolarizzazione, lo suggeriscono il professor Heckman, noto per la sua ricerca empirica in economia del lavoro e, in particolare, per quanto riguarda l’efficacia dei programmi di educazione della prima infanzia. E poi c’è Martin Seligman, psicologo statunitense, fondatore della psicologia positiva, autore di molti best seller come Imparare l’Ottimismo, Come Crescere Un Bambino Ottimista e La Costruzione Della Felicità.

Quando si evocano le competenze non cognitive come un corpo a se stante, specie nella scuola, è difficile non pensare alla teoria del doppio legame della pragmatica della comunicazione e all’ingiunzione divenuta famosa: “Sii spontaneo!”. Sarà interessante verificare gli esiti dell’apprendimento: “essere spontanei”.

In definitiva non sono sufficienti le linee guida dettate dal MIUR per i PCTO, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, occorre una legge in modo che fin da subito i piccoli siano esercitati alle competenze non cognitive. Non è più una questione di competenze chiave per l’apprendimento permanente come richiesto dall’Europa, ma ne va della capacità di resilienza ed autodeterminazione dei nostri figli.

Ora, cognitivo e non cognitivo rischiano di tradursi in una sorta di dubbio amletico, di rompicapo cinese, come scindere il cognitivo dal non cognitivo, quando in realtà si vuole, almeno nelle intenzioni degli estensori della proposta, che a scuola il cognitivo si accompagni al non cognitivo, che conoscenze ed emozioni, ammesso che siano non cognitive, si intreccino durante le ore di lezione.

Noi non le chiamiamo character skills, perché non siamo anglosassoni, ma il nostro sistema scolastico, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, ha come obiettivo la formazione  della persona e del cittadino. Nelle indicazioni curricolari per le nostre scuole sta scritto che le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni  persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione. Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato.

C’è un’idea di interezza della persona dello studente difficilmente scindibile in mano destra e mano sinistra, in corpo e mente, in cognitivo e non cognitivo.

Dunque non siamo una scuola prussiana che addestra alla disciplina generazioni di alunni. Quindi attenzione ad imporre per legge l’addestramento delle emozioni, delle competenze non cognitive in nome della comunità educante il cui progetto non è detto che concordi con gli “orizzonti di significato” delle nostre bambine e dei nostri bambini, delle nostre ragazze e dei  nostri ragazzi, dei nostri adolescenti.

Mentre Mastrocola e coniuge denunciano il danno scolastico prodotto da una scuola pubblica progressista, i nostri parlamentari invece pensano che è giunto il momento di porre fine alla scuola tutta hard skills e poco soft skills, tutta abilità di calcolo, verbali, logiche, capacità di memorizzazione senza lasciare spazio a motivazione, coscienziosità, positività, estroversione, proattività, stabilità emotiva, eccetera.

Il fatto è che i dati dell’Ocse Pisa e quelli Invalsi ci dicono che le nostre scuole, da nord a sud, neppure per le hard skills brillano.

L’impressione è che intorno al capezzale del malato si agitino maghi della pioggia, improvvisatori, spesso a zero come preparazione rispetto alla cultura che sarebbe necessaria per tentare di guarire il paziente.

Sembra che intorno alla scuola si coagulino tutti i fallimenti a partire da quelli degli adulti nei confronti dei giovani. I comportamenti dei giovani sono sfuggiti di mano, ora bisogna recuperarli e siccome l’educazione famigliare e sociale hanno fallito non rimane che rifugiarsi nella scuola e commissionarle tempo fa l’educazione civica, ora l’educazione della personalità, plasmarne le character skills per correre ai ripari prima che sia troppo tardi, per evitare di crescere adolescenti dalle condotte socialmente destabilizzanti.

E poi il fallimento del mercato, che non sa cosa farsene delle competenze cognitive dei nostri giovani che quando possiedono le hard skills devono andarsene all’estero perché il sistema delle imprese nel nostro paese è arretrato di almeno vent’anni. Infine il fallimento della politica che non conosce la scuola che pretende di governare, che non possiede cultura della scuola e non sa progettare l’istruzione per il futuro.

Viviamo in un mondo controverso, il XXI secolo si è aperto come il secolo della conoscenza, con il tema del cognitivo ingigantito dalla crescita delle conoscenze e dallo sviluppo delle tecnologie, di fronte a questa montagna la nostra scuola ha continuato a fare la parte del topolino. Chi sta attrezzando i nostri giovani a vivere in questo mondo, ad abitare questo secolo senza sentirsi troppo piccoli, senza doversi tirare indietro? 

Nel giro di pochi anni siamo passati dal secolo della conoscenza al secolo della resilienza. La preoccupazione di addestrare i nostri giovani alle competenze non cognitive fa sorgere l’inquietante  sospetto che li si voglia preparare a saper reggere l’urto di una annunciata pesante sconfitta nell’incontro con il futuro.

Agenda 2030: come giocarsi la credibilità dell’Educazione civica nelle nostre scuole.

C’è una sostanziale inscindibilità tra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, e l’istruzione permanente, vale a dire un apprendimento che accompagna l’intero arco della vita delle persone.

Non so se di questo fossero consapevoli gli estensori della legge con la quale si è reintrodotto l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole di ogni ordine e grado del nostro paese.

Tra i temi che durante l’anno scolastico le nostre ragazze e i nostri ragazzi dovranno studiare c’è appunto questo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Nutro il sospetto che il legislatore avesse un’approfondita consapevolezza dei contenuti di questa Agenda, forse più affascinato dagli obiettivi della sostenibilità che interessato a conoscere effettivamente le pratiche richieste per la loro realizzazione dai diversi soggetti promotori dell’Agenda, dall’Onu all’ Unesco.

Questo potrebbe diventare un terreno molto sdrucciolevole per la credibilità e l’efficacia formativa dell’ Educazione civica come materia, dico subito perché e vedrò di spiegarlo meglio di seguito. 

L’Agenda 2030 avendo un obiettivo proiettato nel tempo costituisce un lavoro in progress, per questo studio e riflessione dei suoi contenuti richiederebbero di ritrovare poi una corrispondenza in quanto si va costruendo nell’ambiente sociale in cui le nostre ragazze e i nostri ragazzi sono immersi e la scuola opera.

L’Agenda 2030, come sappiamo, si propone di assicurare ambienti di vita sostenibili per le generazioni presenti e per quelle future, ha come obiettivi, tra gli altri, di assicurare un’istruzione di qualità, promuovendo opportunità di apprendimento permanente a partire dal governo delle città.

Nel nostro paese di Città che Apprendono, di Città della Conoscenza non se ne parla, fatta eccezione per rari casi che si contano sulle dita di una mano. E già qui si pone il problema della coerenza tra ciò che pretendiamo che i nostri ragazzi studino e i luoghi che abitano.

Del ruolo delle città, in particolare delle città che apprendono, le “learning cities”, nel perseguire gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile se ne è parlato in conferenze internazionali con la partecipazione di sindaci, amministratori di città di tutto il mondo, dirigenti scolastici, esperti di apprendimento, rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite, di settori privati, di organizzazioni regionali, internazionali e della società civile, a cui dubito che l’Italia abbia mai partecipato: Pechino nel 2013, Città del Messico nel 2015, Cork, in Irlanda, nel 2017, Medellín, in Colombia, nel 2019. 

Conferenze che si sono sempre concluse con Dichiarazioni nelle quali viene ribadito il ruolo centrale dell’apprendimento permanente come motore della sostenibilità ambientale, sociale, culturale ed economica.

Le città che apprendono sono per l’Onu e l’Unesco lo strumento principe per la realizzazione concreta degli obiettivi posti da qui al 2030 dall’Agenda, ora anche oggetto di studio nelle nostre scuole. 

Ma la prima incongruenza nasce dal constatare che nessuno dei nostri governi nazionali, fino ad oggi, ha fornito le condizioni fondamentali e le risorse sufficienti per costruire città che apprendono capaci di promuovere inclusione e crescita. 

L’idea di educazione permanente praticata nel nostro paese è a dir poco obsoleta, modellata com’è su una concezione dell’istruzione ancorata a categorie del secolo scorso.

Non solo oggi è necessario che l’istruzione permanente pervada tutta la vita delle persone, ma anche l’intero impianto del sistema formativo del paese.

Ora è il governo della città a costituire il fattore chiave per sbloccare tutto il potenziale della comunità urbana, attraverso l’importanza dell’apprendimento permanente, per assicurare ambienti di vita sostenibili alle generazioni presenti e future. 

Ma anche qui parliamo il linguaggio della luna. Se le nostre città non provvedono a divenire città che apprendono sarà proprio lo studio dell’Agenda 2030, nell’ambito dell’educazione civica, a far scoppiare le contraddizioni, che già le giovani generazioni con Greta denunciano.

Eppure si potrebbe fare se solo attori pubblici e privati, settori delle città e delle comunità, compresi istituti di istruzione superiore e di formazione, nonché i rappresentanti dei giovani si riunissero in partenariato per promuovere l’apprendimento permanente a livello locale al fine di garantire che tutte le generazioni siano coinvolte nel processo di crescita della città che apprende.

Gli strumenti non mancano, dalla rete Unesco delle città che apprendono alla Dichiarazione di Città del Messico del 2015 che fornisce una lista di controllo completa dei punti di azione per migliorare e misurare il progresso delle città che apprendono. 

La cosa stravagante del nostro paese è che tante sono le nostre città riconosciute come patrimonio dell’Unesco, ma nessuna di loro aderisce alle Rete delle “Learning cities” dell’Unesco, né, tanto meno, è  impegnata a perseguirne gli obiettivi, a partire dalla città in cui vivo secondo l’adagio latino: nemo propheta in patria.

È probabile che dovremo attendere la generazione degli amministratori istruiti alla scuola della nuova Educazione civica, sempre che decolli, ma temo che entro il 2030 non ce la faremo.

Saperi, futuro e destino umano

L’otto luglio Edgar Morin, uno dei più grandi intellettuali contemporanei, raggiungerà il traguardo del secolo. Troppo complesso per essere preso sul serio, lui iniziatore del pensiero complesso, della necessità di una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi a cui siamo ancora abbarbicati, semmai rivendicata come merito del passato da una scuola incapace di preparare al pensiero della complessità. La conoscenza è avventura e la scuola è parte del territorio in cui vivere questa avventura, in cui apprendere a conoscere e a ri-conoscere la conoscenza. La palestra in cui esercitarsi fin da piccoli alla metacognizione, a interrogarsi, a nutrire la curiosità, a inseguire lo stupore.

Il compito dell’istruzione non può ridursi all’angustia di formare cittadini da integrare nella società presente, né in ipotetiche società future, le categorie pedagogiche degli Stati-Nazione come le pedagogie progressive del Novecento hanno fatto il loro tempo. 

Morin ci rappresenta il nostro pianeta come una nave spaziale che viaggia grazie alla propulsione di quattro motori scatenati: scienza, tecnica, industria, profitto e dove nello stesso tempo la minaccia nucleare e la minaccia ecologica impongono alla umanità una comunità di destino, non c’è possibile futuro che valga la pena costruire se non riscoprendo la centralità di ogni donna e di ogni uomo, la centralità dell’intelligenza, la centralità del pensare oggi  per il futuro. In gioco non è l’integrazione culturale nella propria comunità, in gioco per tutti, da ogni lato della Terra, è la vivibilità del futuro. L’asfittico obiettivo dei sistemi scolastici nazionali è soppiantato dal ben più impegnativo e difficile compito di attrezzare le giovani generazioni a vivere un futuro vivibile. L’Agenda 2030 dell’Onu è lì a ricordarcelo in ogni istante.

In questo orizzonte sa di anacronistico brandire la difesa dell’ora di lezione, della cattedra e delle discipline, come un Don Chisciotte che insegue i suoi fantasmi, come il soldato giapponese che non si arrende perché non crede che la guerra sia finita. Il tempo è scaduto da tempo e la conseguenza è non aver provveduto a farsi la cultura necessaria al ritorno alla realtà.

Da “Introduzione al pensiero complesso  a “La testa ben fatta”, dal “Manifesto per cambiare l’educazione”, ai “Sette saperi necessari all’educazione del futuro”, ormai sono più di trent’anni  che Morin ci invita a riflettere sullo stato attuale dei saperi e sulle sfide che caratterizzano la nostra epoca. A richiamare soprattutto quanti hanno in mano le sorti delle future generazioni, come gli insegnanti, a prendere consapevolezza che la posta in gioco sono i nuovi problemi prodotti dalla convivenza umana, da una interdipendenza planetaria irreversibile fra le economie, le politiche, le religioni, le malattie di tutte le società umane.

Una riforma dell’insegnamento è indispensabile per poter affrontare queste sfide, a partire dalla riflessione sullo stato dei saperi frantumati in singole discipline, quando la complessità per essere indagata richiede la capacità di collegare e praticare ambiti di sapere tra loro apparentemente distanti, ma il cui dialogo, mai intuito prima, ora si manifesta prezioso per la risoluzione dei problemi, per rendere prevedibile ciò che i paradigmi precedenti ritenevano imprevedibile. Umanesimo e scienza che ancora non siamo in grado di far comunicare,  di contaminare nei curricula dei nostri percorsi scolastici, come se i tempi di Vico non fossero mai tramontati, come se il crocianesimo continuasse ad essere radicato nel DNA dei nostri studi. Occorrevano le vicende di questa pandemia inattesa a svelare l’impreparazione della scienza a comunicare e la nostra incapacità a misurarci con le certezze “incerte” proprie della scienza.

La riforma dell’insegnamento è il nodo che ancora non abbiamo sciolto. Un nodo che richiede di non cessare di interrogarsi, perché la complessità non ha risposte semplici e meno che mai risolutive, l’avvento della pandemia ha certo aiutato a sgombrare le menti da ogni dubbio.

Eppure quando si innalzano peana a celebrare l’afflato erotico che abbatte le distanze tra cattedra e banco, tra docente e discente, l’impressione è di vivere in un paese in cui intellettuali e sistema formativo sono fermi al passato, non siano in grado di comprendere il presente e, tanto meno, di leggere il dopo.

Morin ci propone di porre alla base della riforma della scuola, del mestiere della scuola che è l’istruzione, il pensiero complesso, une tête bien faite. Qualcosa di più difficile, di complesso, appunto.

Insegnare a vivere. Dovevamo attrezzarci per far apprendere ai nostri studenti come si vive, ma non qui ed ora, bensì nel luogo che ancora non c’è. Una sfida da capogiro, di fronte alla quale ci siamo ritirati, trastullandoci con i banchi a rotelle e con la Dad che non è scuola. Ripiegati sui noi stessi, rispecchiati nelle certezze del passato, ci è scomparsa la cognizione del futuro, che chi ha creature da crescere non dovrebbe permettersi di perdere, ma questo è quello che è accaduto. Il dopo delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, la loro vita futura come uscirà attrezzata dalle nostre scuole? Piena dell’ira d’Achille, degli atri muscosi e dei fori cadenti, ma vuota dell’imprevedibile, del novus che è sempre stato il modo del “moderno”.

Da sempre la missione dell’educazione è insegnare a vivere, ma è un conto farlo per vite già confezionate, altro per vite ancora da confezionare.

Morin ci suggerisce di porci una domanda che non ha spazio nei nostri programmi d’insegnamento e che riguarda ciascuno di noi: che cosa significa essere umano?

Si tratta di permettere a ciascuno di sviluppare al meglio la propria individualità, il legame con gli altri ma anche di prepararsi ad affrontare le molteplici incertezze e difficoltà del destino umano. 

E qui entra in gioco il sistema di conoscenze e dei saperi di cui le nostre scuole sono depositarie. Altro che centralità della lezione, quella lezione rischia di divenire tossica, perché a fronte della realtà che le nostre ragazze e i nostri ragazzi si troveranno a vivere il sistema delle conoscenze che le nostre scuole trasmettono è ancora troppo debole. E se debole non aiuterà certo i nostri giovani a cogliere le carenze dei loro pensieri, i buchi neri della loro mente che rischiano di rendere invisibile la complessità del reale. 

Il pericolo è che dalle nostre scuole escano giovani costretti ad affrontare il futuro a mani nude. 

Da questa pandemia abbiamo appreso che non è solo la nostra ignoranza ad aver ostacolato la comprensione di quanto è accaduto, ma soprattutto l’inadeguatezza delle conoscenze di cui disponiamo. I buchi neri nella nostra mente confermano che il nostro sistema di saperi e di pensiero non è in grado di rispondere alle sfide della complessità. 

Allora non abbiamo bisogno di docenti e di intellettuali che sottoscrivono manifesti, ma di intellettuali e professionisti della cultura in grado di promuovere una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi presente nella nostra epoca e che sia capace di formare insegnanti e studenti a pensare la complessità. 

Siamo in ritardo e il tempo non attende, il futuro imprevedibile è in gestazione oggi.

Giovani e scuola che aria che tira

La fine della pandemia prometteva che l’aria sarebbe cambiata, meno viziata dai miasmi del passato. Invece tira aria di restaurazione. Sembra che i giovani siano minori, non perché più piccoli, ma perché “minus”, cioè meno dotati, meno dotati di noi adulti. Dove inizi e dove finisca la minore dotazione è tutto da stabilire. Intanto Frida Bollani Magoni a soli sedici anni suona la sua interpretazione dell’inno d’Italia alla presenza del Presidente della Repubblica e il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, rivendica il voto ai sedicenni.

Eppure c’è sempre qualche adulto che sente il bisogno di dare una qualche lezione ai giovani, perché i loro modi di essere non combaciano con la sua cultura, con i modelli comportamentali introiettati. Così Chiara Saraceno concorda con la dirigente dell’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano che con circolare interna ha dettato il dress code a cui si devono attenere le sue studentesse e i suoi studenti.

Perché l’abito fa il monaco, ogni luogo ha il suo abbigliamento, in particolare le istituzioni come la scuola. Secondo la sociologa i giovani devono essere educati al rispetto che si deve ai professori e all’ambiente scolastico, e questo rispetto passa prima di tutto attraverso a come ti vesti. Pretendere di insegnare questo rispetto puzza sempre di accusa, di punitivismo nei confronti dei minori, preoccupa perché denuncia le frustrazioni che nascono da un senso di impotenza comunicativa con i giovani, vuoto che si pensa di colmare dettando le regole, le norme, i principi di normalità a cui attenersi, gli unici accettati per essere ammessi nei santuari del sapere. Come ti devi regolare se vuoi vivere in un mondo in cui ci sono anche gli adulti con le loro pretese. Puzzano di rivincita sui patimenti subiti negli anni della propria adolescenza per via dei soprusi del mondo adulto. Semmai si condannano quei soprusi, ma non il rispetto di quelle, che nonostante la rivoluzione dei costumi, si continua a considerare buone regole, abitudini da inculcare, la buona educazione del tempo che fu. Le ragazze acqua e sapone e grembiule nero, i ragazzi giacca, cravatta, scarpe lucide e capelli corti. Pensavamo di essere riusciti ad andare oltre, ma pare che ora si esageri ed è dunque necessario tirare il freno. Spuntano le mutande dai jeans, alcune magliette e braghe pare lascino trasparire troppo del giovane corpo che le indossa, poi ora ci sono i piercing, che sono ammessi solo se all’orecchio, per non parlare dei tatuaggi, delle  scritte insidiose su magliette e felpe. Poi la scuola non è una spiaggia, niente infradito e occhiali da sole, a meno che lo ordini il medico. 

Se si consultano i siti delle scuole nostrane, come quelle del mondo, i dress code sembrano copiati gli uni dagli altri. Dunque milioni di studenti dagli Usa all’Arabia, dall’Europa all’Australia hanno bisogno di essere educati all’abbigliamento, cosa è consono e cosa non lo è a seconda dei luoghi, a partire dalla scuola. Qualcuno l’ha risolto da tempo con le divise del college, che pure inculcano un senso di appartenenza e di identità, altri restano affezionati al grembiule delle elementari con nastro rosa per le bimbe e azzurro per i bimbi, addirittura l’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano indica ai genitori dove andarli a comprare, in modo da essere sicuri di rispettare il dress code della scuola.

Siamo sempre alla solita questione, quando l’istituzione non sa accogliere e dialogare, creare un clima di parità e di intesa nel rispetto delle differenze si ricorre a proibire, a scrivere regole e catechismi, anziché contaminarsi, capirsi reciprocamente, assegnare valore ai luoghi e a quello che in quei luoghi si fa e si vive insieme. Non accade in famiglia, non accade a scuola e la scorciatoia che solleva gli adulti da ogni responsabilità è scaricare sulle spalle dei giovani un bel dress code in nome dell’autorità degli adulti e dell’inviolabilità sacra dell’istituzione.

Il problema è che abbigliarsi è un’esigenza e un’arte, è l’arte dell’identificazione, del ritrovare se stessi, dell’interpretare la vita, del comunicare il proprio tempo, il proprio mondo e se la scuola è luogo di socializzazione, e come tale viene vissuto, la socializzazione ha le sue regole e i suoi codici. E se una generazione ha un suo linguaggio perché dovrebbe lasciarlo fuori dalla porta della classe, lasciare una parte di sé fuori dalla scuola, essere a scuola sempre dimezzati. Così la scuola non è la vita, è una para-esistenza, quello che puoi indossare per strada, in famiglia, quando incontri i tuoi amici non va bene, può dare scandalo, distrarre l’attenzione dalle lezioni e dai compiti scolastici, può indurre pensieri carnali, attrazioni sessuali. Ma dove sta tutto questo se non nella mente patologicamente sospettosa di qualche adulto?

L’ossessione del dress code ha accompagnato anche la didattica a distanza, nel sospetto che qualche studente sotto il mezzobusto della webcam indossasse i pantaloni del pigiama, bermuda e le detestate infradito, una imperdonabile mancanza di rispetto nei confronti dell’istituzione seppure virtuale, perpetrata per di più clandestinamente. Il sospetto è che gli insegnanti non siano stati da meno.

A leggere Week Education, rivista statunitense online, si scopre che durante la pandemia la maggior parte degli insegnanti impegnati nella Dad ha vissuto come un vantaggio, in un periodo particolarmente stressante, potersi disinteressare dell’abbigliamento dalla cintola in giù. Ora per ridurre lo stress dovuto alla ripresa della didattica in presenza agli insegnanti di un distretto scolastico del Missouri è stato consentito di continuare a vestirsi in modo casual.

Negli Usa i codici di abbigliamento degli insegnanti non sono una novità. Un contratto dei dipendenti della Ohio Education Association, datato 1923 e rivolto esclusivamente alle insegnanti vietava i colori vivaci o di tingersi i capelli, richiedeva di indossare “almeno due sottovesti” e abiti non più di due pollici sopra la caviglia. I tempi sono cambiati ma non mancano i ritorni di fiamma.

Nel 2018, We Are Teachers ha compilato un codice di abbigliamento per insegnanti con quattordici regole, tra le quali il divieto di indossare jeans e scarpe da ginnastica.

Fortunatamente a calare il sipario sulla assurdità di tutto questo ci hanno pensato gli insegnanti spagnoli del movimento “La Ropa non Tiene Genero”.

Dal 2020 sempre più alto si è fatto il numero dei docenti che hanno scelto di accantonare l’uso dei pantaloni in classe durante le lezioni per combattere gli stereotipi di genere e per sostenere Mikel Gómez, lo studente cacciato da scuola per essersi recato in aula con una gonna.

Invece noi siamo il paese in cui, mentre in parlamento si discute il disegno di legge Zan contro pregiudizi e stereotipi di genere, ci si preoccupa di come le nostre studentesse e i nostri studenti si vestono per andare a scuola, senza rendersi conto di quanto rasentiamo il ridicolo e che le circolari sull’abbigliamento a scuola meriterebbero  di essere sepolte da una solenne risata.

Considerate le statistiche relative all’abbandono scolastico, sarei tentato di suggerire ai  presidi di usare lo slogan: “A scuola come ti pare purché tu ci venga per imparare”. 

L’impressione però è che a scuola tiri una brutta aria, un’aria di reazione e di ostilità nei confronti dei giovani, allarma il post di un docente su Facebook che esalta il suo consiglio di  classe perché allo scrutinio di fine anno su 25 alunni ne ha promossi solo quattro, tutti gli altri respinti o con il giudizio sospeso. Inquietante perché quel docente anziché inorgoglirsi dovrebbe preoccuparsi seriamente del fallimento professionale suo e di un’intero consiglio di classe.

Dovremmo essere vicini ai nostri giovani, invece crescono gli atteggiamenti pedagogicamente punitivi, che celano sempre frustrazioni e un patologico bisogno di rivincita. 

“Cambiamo strada” è il titolo dell’ultimo libro del filosofo francese Edgar Morin, nello stesso tempo un invito. Ci avverte del pericolo di un grande processo regressivo che viene da lontano, ancora prima della crisi del virus e che si accentuerà nel post-epidemia. Il timore più grande è che questo processo regressivo, già in corso nel primo ventennio di questo secolo, possa avere varcato anche le porte delle nostre scuole.