Il condono scolastico

Se c’è un abito rappezzato i cui rammendi non tengono più, quello è l’esame di stato.

Eppure con ostinazione, degna di miglior causa, continuiamo a pretendere che nuove leve di maturandi lo indossino, dimostrando le condizioni di povertà in cui versa il nostro sistema formativo.

Ora quarantamila studenti hanno indirizzato al ministro dell’istruzione la richiesta di abolire le prove scritte per la sessione 2022 dell’esame di stato in considerazione di una scuola ridotta a singhiozzo da ben due anni di pandemia. 

Non hanno chiesto, visto che ci sono ancora parecchi mesi prima del prossimo giugno, di aumentare le ore settimanali di scuola per recuperare gli apprendimenti perduti, di saltare le vacanze di Natale e di Pasqua, ma di abolire le prove scritte in modo da occultare eventuali buchi nella loro preparazione. In definitiva, visto che di questi tempi un bonus non si nega a nessuno, anche loro chiedono un bonus, il bonus esame di stato.

Ciò che dovrebbe far riflettere e preoccupare per primi gli studenti, poi gli adulti, i docenti, lo stesso ministro è che dietro la richiesta di abolire gli scritti c’è la consapevolezza di uscire dal ciclo scolastico non sufficientemente preparati, di aver speso male il proprio tempo e, dunque, l’esame deve essere più facile.

Non si sta rivendicando la tutela del diritto allo studio violato da anni di pandemia, da un sistema scolastico atrofizzato, no, si avanza una petizione per ottenere un condono.

Non siamo di fronte ad una farsa, ma a una tragedia.

Tragedia perché la preparazione persa difficilmente potrà essere recuperata e a pagare saranno quegli stessi studenti che ora chiedono il condono delle prove scritte anziché pretendere che venga loro restituito quanto gli è stato sottratto in termini di apprendimenti e competenze, in tempo scuola, in ore di lezione a cui avevano diritto.

Il fallimento di una formazione scolastica che in tredici anni di istruzione non è riuscita a inculcare in ragazze e ragazzi l’importanza di possedere saperi e competenze e che questi non si possono barattare con giochini volti a eludere l’importanza di apprendere, non per i voti a scuola, ma per la propria vita da gestire dopo. 

Un sistema di istruzione da cui si può uscire con meno anziché con più è come un ospedale che dimetta i suoi pazienti dopo una degenza senza cure. Cosi funziona la nostra scuola, incapace di fornire le cure di cui ciascuno ha bisogno. Non c’entrano l’abolizione del latino, la media unica e il repertorio di accuse alla pedagogia progressista, abbiamo semplicemente perduto la scommessa dell’I Care di Barbiana, sempre che la scuola pubblica l’abbia mai fatto suo. 

Una scuola incapace di cura, di dare a chi non ha, di recuperare gli svantaggi. E siccome la scuola è consapevole di questo dimette senza cure.

È quello che pretendono i quarantamila studenti che chiedono l’abolizione delle prove scritte, anziché rendersi conto di cosa è stato tolto loro in questi anni di pandemia ed esigerne la restituzione, perché usciranno dalla scuola più poveri di saperi e competenze.

Dovrebbe essere il ministro a garantire il diritto allo studio alle generazioni della pandemia, mettendole nelle condizioni di sostenere le prove scritte dell’esame di stato, fornendo loro più ore di insegnamento/apprendimento. Dovrebbe essere il ministro a prendersi cura di ragazze e di ragazzi, non somministrandogli palliativi ma attrezzando il sistema formativo in modo che l’emergenza sanitaria non produca discriminazioni tra il prima e il dopo e che la qualità dell’istruzione sia sempre preservata per tutti.

Allora non deve stupire l’appello degli studenti né produrre elucubrazioni circa la fuga dei giovani di fronte alle difficoltà e neppure il ritorno alla nauseante importanza formativa dei riti di passaggio.

Tutto questo è un sintomo che nasconde la vera causa: lo stato fallimentare di un sistema formativo vissuto come qualcosa che si può contrattare e contrarre a seconda delle situazioni. A nessuno, a partire dal ministro, passa per la testa che la vera questione diseducativa è avere cresciuto generazioni che chiedono meno studio anziché più studio, che considerano la scuola più una necessità che un’utilità, più un dovere che un’occasione.

O c’è un’idea di riforma dell’esame di stato, cosa che non può essere lasciata continuamente all’estemporaneità di ogni singolo ministro dell’istruzione, o diversamente non è certo educativo il messaggio ti chiedo di meno perché ti ho dato di meno. 

Nel caso della scuola ti ho dato di meno significa che ti ho privato di occasioni fondamentali per la tua formazione. Nel sapere e nelle competenze non c’è un più o un meno, o ci sono o non ci sono.

Occorre risalire a ritroso nel percorso formativo per individuare dove è iniziato quel dare meno che produce le differenze all’interno di una classe, di un istituto fino a investire le regioni del paese, il Nord e il Sud. 

È questa ricerca il compito dell’Invalsi, l’attrezzo prezioso a disposizione delle scuole che vogliano e lo sappiano usare, perché la scuola sia un luogo di cura e non di degenza e che non sia necessario l’esame di stato per accorgersi della malattia, quando ormai è troppo tardi. 

L’Invalsi ha messo a disposizione i dati relativi agli apprendimenti durante la pandemia, è legittimo domandarsi che uso ne è stato fatto. Per togliere o per dare di più? Per aggirare le difficoltà o per attrezzarsi a superarle?

Che nel chiedere lo sconto-scritti gli studenti non abbiano messo in conto la qualità del loro futuro è comprensibile perché loro vivono al presente, non è ammissibile da parte di chi ha la responsabilità di far funzionare la macchina formativa più importante del paese, per il paese e per il futuro delle generazioni-pandemia.

No signori, non è come la raccontate

Pare che le ricette per cambiare l’istruzione non manchino al pensiero ben pensante. Azzerare tutto e portare indietro la macchina del tempo, c’è chi invoca cattedre e predelle e chi il ritorno al riassunto nell’epoca degli abstract. Ben pensanti che neppure si preoccupano di visitare il sito della Fondazione Agnelli dedicato alla Scuola, giusto per tentare di aggiornare i loro archetipi al fine di diradare le nebbie che offuscano la loro navigazione.

Scrivere di istruzione richiederebbe di disporre di una buona cultura almeno in scienze dell’educazione, quelle che in tutto il mondo da decenni hanno soppiantato la pedagogia. Bisognerebbe conoscere la psicologia dell’apprendimento, un po’ di docimologia, un po’ di ricerca educativa, sempre di scarso interesse nel nostro paese persino per  la formazione dei docenti dalle scuole medie in su.

Immaginare di trattare più di mezzo secolo di storia del nostro sistema formativo come se il tempo, il mondo, la società fossero stati pietrificati intorno ad esso, denuncia una concezione della scuola come corpo a se stante, come tempio incontaminato, come luogo degli otia studiorum che non si sporca le mani con le cose prosaiche come il lavoro e le altre necessità materiali. Chi osa aprirne le porte come pretenderebbero di fare l’Invalsi e le indagini Pisa dell’Ocse altro non è  che un profanatore del tempio e dei suoi sacerdoti.

Se qualcuno l’ha dimenticato, a scuola si va con il corpo e la mente, il primo dovrebbe trovarsi a suo agio, la seconda andrebbe impiegata in un continuo allenamento. Raffaele Simone, il linguista, alcuni anni fa nel suo libro “Presi nella rete. La mente ai tempi del web” ha sottolineato come la tecnologia, modificando il nostro modo di comunicare, ha trasformato il nostro modo di usare il corpo e la mente.

Il libro è del 2012 come le “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione”, che sono legge dello stato. Ci sta scritto che lo scenario è così cambiato che l’apprendimento scolastico altro non è che una delle tante esperienze di formazione che bambini e adolescenti vivono e che spesso per acquisire competenze specifiche non vi è bisogno dei contesti scolastici. C’è anche scritto che le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende (vedi: corpo e mente), non dagli insegnanti e dai programmi, ma dal piccolo o dall’ adolescente in carne ed ossa che hai di fronte, con cui dovresti stipulare un patto formativo per garantirgli l’originalità del suo percorso individuale come prescritto dalle stesse “Indicazioni nazionali”.

Dewey ci ricorda che il fine dell’istruzione è quello di andare incontro alla società: «Ogni qualvolta ci proponiamo di discutere un nuovo movimento nell’educazione, è particolarmente necessario mettersi dal punto di vista più ampio, quello sociale». 

È mettersi dal punto di vista sociale che il nostro sistema di formazione non sa fare. Quando la società e con essa gli individui cambiano e l’istruzione resta immutata in se stessa, allora si crea il cortocircuito con i diritti delle persone, in particolare delle nuove generazioni, correndo il rischio di vendere merce avariata ai nostri giovani, come dimostrano le indagini nazionali e internazionali sul nostro sistema formativo.

Se i giovani escono dalle nostre scuole impreparati non è colpa né della media unica né di Barbiana né delle lettere alle professoresse, ma del fatto che nel corso degli anni si è accresciuto il distacco tra il nostro sistema di istruzione e lo sviluppo della conoscenza, due funzioni sociali che si  muovono a velocità differenti. 

La scuola ha perso sempre più terreno rispetto alla rivoluzione spettacolare prodotta dalle nuove tecnologie della comunicazione e dallo sviluppo impetuoso della mediasfera.

L’abbiamo toccato con mano con l’emergenza della didattica digitale, della didattica a distanza. Tenersi al passo con un’evoluzione tecnologica e cognitiva inarrestabile è un enorme impegno. Come conseguenza la scuola risponde guardando al passato, limitandosi a trasmettere un pacchetto ben delimitato di conoscenze, pochi ben definiti saperi, tenendosi alla larga da due meccanismi che oggi sono invece essenziali: il veloce processo di accrescimento della conoscenza e la diffusione di metodologie di accesso ai depositi della conoscenza. Invece di essere il luogo dell’incontro con la conoscenza e della sua prima elaborazione, la scuola si ripiega su se stessa difendendo cattedre, discipline e trasmissione del sapere, per proteggersi dalla conoscenza, dal suo fluire, dal suo accrescersi che preme alle sue porte. 

Siamo un paese di retori e di retorica, di buone oratorie ma di pessime cattedre. Non sappiamo pensare al nostro sistema scolastico in termini moderni, un sistema di istruzione che ormai da troppo tempo accusa una crisi profonda nei suoi moduli organizzativi e nelle sue strutture. Se ne discetta da decenni, ma non abbiamo ancora chiarito per quale idea di scuola debbano essere formati gli insegnanti, per quali finalità dell’istruzione sono chiamati a lavorare.

In giro per il mondo gli argomenti che hanno preso il centro della scena trattano di come i giovani imparano meglio nel 21° secolo, di come  rendere le scuole i catalizzatori del loro impegno per il sapere e la cultura, di come i giovani possono scegliere di imparare, di quanto la motivazione e l’amore per l’apprendimento significano nel contesto della scuola, di come dare più enfasi al coinvolgimento degli studenti nella scelta e nelle modalità dei loro percorsi formativi.

Siamo tornati al divorzio tra scuola e società, non si tratta di una distanza di classe come nel passato, ma della distanza tra bisogni culturali diversi che determina una nuova forma di discriminazione  tra chi può soddisfarli e chi no.

La scuola si è chiusa in se stessa, nella sua autoreferenzialità. Il rischio è di rimanere stritolati tra la tentazione di un ritorno al centralismo amministrativo per insipienza, l’assordante silenzio di una classe docente senza spessore sociale e professionale,  e le ricette di intellettuali ben pensanti che finiscono per accumulare la loro supponenza all’ignoranza che la scuola è oggi accusata di produrre.

“T’aggia ‘mpara’ e t’aggia perdere”

H. Bosch «Trittico dell’Epifania» particolare, Madrid, Museo del Prado

Mi piacerebbe poter scrivere in fondo  a destra, tra parentesi, la parola continua come nei giornaletti della mia infanzia.

“Continua” sì, perché la Scuola da sempre è  una grande narrazione e la narrazione è  lo strumento principe della costruzione e della trasmissione del sapere.

Anche se tutto questo, oggi, rischia di porre la Scuola, assieme alle grandi culture  fondate sulla narrazione, fuori dal tempo, se, come già molti anni addietro ci avvertiva Walter Benjamin, la condizione postmoderna è caratterizzata dalla crisi del narrare. Jean Francois Lyotard parla di crisi dei grandi racconti e il Calvino di  Se una notte d’inverno un viaggiatore denuncia il nostro oggi come luogo di un mondo in cui sembrano esistere solo storie destinate a restare in sospeso, a perdersi per la strada.

Lo scopo originale del narrare è lo stesso dei grandi miti come osserva Eco: dare ordine al disordine delle esperienze. Le storie, sia quelle costruite dallo scienziato che dalla persona comune, sono i modi “universali” per attribuire e trasmettere significati agli eventi umani.

Raccontare una storia anziché descrivere un fenomeno rappresenta un’opzione gnoseologica, la scelta di un modello di conoscenza e non la rinuncia ad esso.

Sono convinto che proporre oggi una pedagogia narrativa che si faccia carico di un interrogativo sul “perché raccontare” non sia da ritenersi un fatto innocente,  né neutro, né banale.

Il processo formativo è sempre e comunque peculiarmente narrativo: si racconta e ci

si racconta, il narrare formativo è la costruzione di significati, la costruzione di realtà possibili, non soltanto confinate nel mondo del virtuale.

Ognuno è il prodotto delle storie che ha ascoltato, vissuto e anche di quelle che non ha vissuto, allora risulta inevitabile nei contesti formativi trovare spazio alla narrazione, come oggetto, strumento e soggetto del processo.

La formazione, la formazione delle giovani generazioni, non può e non deve  rinunciare alla propria dimensione intrinsecamente narrativa, in almeno tre direzioni:

1 – una formazione che sappia valorizzare la dimensione narrativa dei “contenuti”: raccontare l’impresa, raccontare la motivazione, raccontare la comunicazione, ma persino raccontare l’informatica…

2 – una formazione pedagogica, esperta nell’analisi delle narrazioni, preoccupata di tenere deste le capacità narrative della comunità civile, che miri ad insegnare, ad ascoltare narrazioni ed a produrre narrazioni. Ecco: l’educazione alla memoria, ad una memoria collettiva socialmente legittimata come chiave di lettura anche di periodi di crisi.

3 – una formazione  all’autobiografia  che non è solo un modo di raccontarsi, un disvelamento a sfondo narcisistico, o una spiegazione/giustificazione post hoc delle scelte compiute nel corso dell’esistenza. Scrivere la propria storia è un modo per apprendere qualcosa su di sé. Scriverla perché sia letta è un modo per formare altri alla comprensione di sé.

Tre direzioni, che sono anche motivazioni, e che devono essere assunte come proprie

da chi lavora nella e per la  formazione.

Ogni anno scolastico altro non è che una narrazione in cui comporre le pagine biografiche di bambine e bambini, di ragazze e di ragazzi, con la consapevolezza che il progetto di vita è uno solo e non è mai  quello che spesso altri hanno stabilito  in un altrove sempre lontano da noi stessi. 

Il bilancio del lavoro di ogni insegnate è nella biografia personale dei ragazzi e delle ragazze che hanno occupato le loro aule, ascoltato, partecipato alle loro lezioni, alle loro proposte e prospettive formative.

Erri de Luca fa dire a un personaggio di un suo romanzo: “t’aggia ‘mpara’ e t’aggia perdere”. Devo insegnarti tutto e poi devo perderti. È nella natura del mestiere di chi lavora a scuola.

L’insegnate non è certo un emigrante e neppure qualcuno che ha dovuto espatriare in cerca di un lavoro. Ma certamente la professione che si esercita nella scuola rende migranti, migranti nei territori della cultura e della ricerca, migranti da una sede all’altra verso nuove esperienze, migranti verso nuove sfide pedagogiche e professionali, con le classi e le generazioni di alunni che cambiano. 

Migranti perché la formazione è per sua costituzione senza meta ed è ben rappresentata dalla storia dell’Imperatore della Terra Gialla, il quale vagando a Nord dell’Acquarossa, salì sul monte Cuenlùn e guardò verso il Sud.

Al ritorno perdette la sua perla magica.

Mandò Conoscenza a cercarla, ma non la trovò.

Mandò Chiarosguardo a cercarla, ma non la trovò.

Allora mandò Senzameta e la trovò.

“Strano davvero” disse l’Imperatore, “che proprio Senzameta sia riuscito a trovarla”.

Quella del viaggio è la metafora che più calza e più mi piace a proposito del lavoro scolastico.

Ma soprattutto il viaggio è uno spazio in cui si definisce l’identità del viaggiatore: “Gli esseri umani non sono realtà fisse con una propria identità precostituita che a un certo punto si mettono a fare delle scelte. Siamo invece esseri in divenire la cui identità viene continuamente trasformata dalla riflessione e dall’azione.”

Il romanzo di Erri de Luca, che ho citato poco sopra, narra la storia di uno scugnizzo napoletano che ama la scuola e l’istruzione, che legge gratis i libri delle bancarelle, incontrando figure adulte che in questo lo aiutano e lo incoraggiano, che ascolta le grandi narrazioni dalla geniale figura di un saggio portinaio che l’ha adottato, un ragazzino che si appresta a un viaggio in nave verso l’Argentina che vive come il luogo della sua felicità e il titolo del romanzo è “Il giorno prima della felicità”.

Ogni giorno di scuola delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi vorrei che fosse “il giorno prima della felicità”. Qualcuno dirà ma allora la felicità non viene mai, ma io credo nella sindrome del Sabato del villaggio, che il bello della vita sta nell’impegno, nell’intelligenza, nell’entusiasmo, nelle aspettative che si vivono sempre  il giorno prima dell’evento, della festa, della felicità, è per questo che la storia continua.

Dal diritto all’Istruzione al diritto alla Conoscenza

Qualcuno ha scritto che nell’economia della conoscenza lo sviluppo umano non dipende dall’avere di più, ma dall’essere di più, diventando un co-creatore del futuro dell’umanità.

Qualcuno potrebbe chiedersi che fine ha fatto la conoscenza, quella che l’Europa unita prometteva agli esordi del nuovo secolo come motore della sua crescita e del suo sviluppo. Se c’è qualcosa che la pandemia ha messo in crisi è proprio la conoscenza come coscienza e consapevolezza, come capacità di apprendere ad apprendere, per nostra fortuna la conoscenza ha comunque preso rapidamente la strada della ricerca che ora ci consente di combattere il virus con i vaccini.

Ma che la conoscenza non avesse buona cittadinanza l’avevamo compreso da subito dal diffondersi di pubblicazioni del tipo Ignorantocrazia, La conoscenza e i suoi nemici e altre ancora. Per non parlare dell’allarme generale suscitato dalle competenze quasi fossero malattie contagiose, fino alla complessità temuta come disegno di potenze occulte con l’intento di sconvolgere l’ordine mondiale.

Eppure tutti questi lugubri cascami mentali continuano a riprodursi, ad alimentarsi come effetti di  una malattia sociale che continua a persistere: l’ignoranza, perché la società della conoscenza promessa a Lisbona nel 2000 è rimasta a Lisbona senza fare alcuna strada.

Ci aveva avvisato Bauman nelle sue 44 lettere dal mondo liquido, la cosa più ardua sarebbe stata preparare gli esseri umani ad apprendere l’arte di vivere in un mondo più che saturo di informazioni. Informazioni, non saperi e neppure conoscenze.

Occorreva la pandemia per sorprenderci d’essere sopraffatti dalle informazioni, dalla loro confusione, dalla loro babele. 

Prepararci a vivere una tale vita sarebbe stato compito degli educatori, anche loro impreparati a questa sfida. I primi ad arrendersi sono state proprio le scuole e le università, le quali, anziché affiancarci fornendoci strumenti e conoscenze, i saperi necessari, cercando di orientare, di aiutare a districarsi di fronte all’attacco alle nostre esistenze, si sono dileguate, rinchiudendosi su se stesse, del tutto impreparate all’inatteso, ad affrontare un futuro divenuto presente per il quale mai nessuna di loro aveva pensato prima di attrezzarsi per poterne affrontare le incognite.

Abbiamo ascoltato i maghi della pioggia, ognuno solo con la sua voce senza avere alle spalle gli apparati accademici, quelli stessi che dovrebbero garantire l’attendibilità di saperi e competenze. Personaggi televisivi da talk show, un’offesa all’ansia delle persone, alle tragedie scatenate, alla gravità della situazione. Una superficialità umana che fa dubitare della credibilità di un’idea come la società della conoscenza nell’epoca della conoscenza. La supremazia dell’incultura come trastullo di cittadini incolti presuntuosamente convinti della bontà di una rete incolta.

L’ignoranza, la presunzione, l’incultura erano e sono destinate a tradursi in stupidità. Nel senso che se ne esce storditi come un pugile battuto, ma senza aver compreso alcunché.

La conoscenza intesa come coscienza, come consapevolezza, come capacità di apprendere è un diritto, un diritto di cittadinanza, perché non sei cittadino se non sai da che parte guardare. 

Ma noi il salto dal diritto all’istruzione al diritto alla conoscenza non l’abbiamo ancora compiuto. Il diritto all’istruzione, grande conquista del secolo scorso per combattere analfabetismo e svantaggi sociali, da tempo si è tradotto in diritto alla conoscenza, continua e permanente. La conoscenza e la sua mobilitazione come diritto da conquistare nel XXI° secolo, l’espandersi dell’analfabetismo funzionale, il dilagare delle incolture social ne fanno oggi una lotta fondamentale. Potevamo farlo prima, l’idea della società della conoscenza, dell’economia della conoscenza erano l’occasione da cogliere. Ma non abbiamo capito che non era più sufficiente andare a scuola e frequentare l’università, sebbene anche da questo punto di vista come paese siamo in colpevole ritardo. Doveva essere una ragione in più, invece è stata una ragione in meno, coltivata dalla diffidenza verso il sapere.

Qui ci sta la grande questione di diritto universale, di democrazia, tanto più se pretendi la democrazia diretta, che del resto di fronte alla pandemia si è sgonfiata come un ballon d’essai.

Non riesci ad abitare questo mondo con la schiena dritta se non sei in grado di procurarti gli strumenti e le conoscenze che ti permettano di comprenderlo e di orientarti. Non è che le conoscenze si comprano al mercato, è il sistema in cui sei immerso che te le deve garantire e fornire, questa è la nuova questione sociale e politica del diritto a sapere, della forza universale del diritto a conoscere che non può essere offuscato dietro il nebbione dell’informazione. L’informazione ha bisogno di cultura senza la quale diviene manipolazione. È la questione dell’istruzione permanente, della mobilitazione delle conoscenze, della diffusione dei saperi, della transdisciplinarità d’ogni apprendimento, di un approccio scientifico ed intellettuale che miri alla piena comprensione della complessità del mondo presente. 

Ora paghiamo l’avere sottovalutato per ignoranza e arroganza in tutti questi anni il tema dell’apprendimento permanente lanciato già nel 1972 dal Rapporto Faure della Commissione UNESCO sull’educazione dal titolo significativo “Learning to be”. E proprio con la pandemia abbiamo toccato con mano che per essere, per esistere è necessario l’apprendimento, non l’apprendimento in generale, ma l’apprendimento continuo e che il destino dell’umanità è strettamente legato alla conquista dell’istruzione permanente.

L’Unesco non ha mancato di ricordarcelo fino al rapporto Delors del 1995. Dei quattro pilastri dell’educazione contenuti in quel rapporto pare che nessuno abbia retto all’impatto con la pandemia, la quale ha presto dimostrato che non abbiamo affatto imparato a vivere insieme, né a conoscere, né a fare, né ad essere. Perché nessuno l’ha insegnato. In venticinque anni si formano generazioni, ma noi abbiamo rinunciato a farlo, cullandoci nella nostra sicumera di cultori del passato, di cattedre e predelle. Apprendimenti formali sterili, apprendimenti informali e non formali negati, così neppure i cittadini hanno potuto formarsi, per accorgerci all’ultimo momento che ci eravamo distratti e che avevamo dimenticato proprio l’educazione civica. Abbiamo lasciato che il vento dell’antipolitica soffiasse sulle nostre città e sulle nostre istituzioni, spazzando via conquiste e agitando polveroni.

C’erano strade da percorrere, la strada delle città che apprendono, le città della conoscenza attribuendo valore ai cittadini, alla cura dei loro saperi,  delle loro intelligenze, alla loro creatività, più che ai mercati della cultura e dei grandi eventi.

L’Unesco fornisce una guida e una rete di sostegno alle città che vogliono fare dell’apprendimento permanente un asse portante del loro sviluppo, della loro crescita, del loro modo d’essere. Come non mancano nel mondo in tutti i continenti città che hanno fondato la loro rinascita sull’economia della conoscenza.

Ma è necessario un salto culturale, pretendere di studiare e guardarsi intorno. Non possiamo affidare i nostri destini e quelli delle future generazioni all’incultura e all’ignoranza, agli agitatori politici, ai rigurgiti di stomaco, alle cenestesie corporee. 

A noi servono studio, cultura, competenze e saperi sempre più diffusi, sempre più disponibili, sempre più accessibili, sempre più posseduti da ciascuno, perché non è la democrazia che è diventata ingombrante, ma ad essere ingombrante è l’ignoranza, è l’analfabetismo funzionale, è chi pensa di semplificare le nostre vite mettendo in discussione scienza e conoscenza.

Allora la cura delle nostre città, perché siano urbane in tutti i sensi, portatrici di un nuovo urbanesimo è una delle questioni centrali di questo secolo che ancora si trascina la zavorra del secolo passato. Non vogliamo la repubblica di Platone, ma la città è l’habitat che ci contiene, l’ambiente che ci deve essere congeniale, non possiamo consegnarla all’ignoranza, alla rete delle incolture, la città deve apprendere con noi, dobbiamo affidarla a mani sicure che dell’apprendere insieme facciano il cuore vitale e creativo del suo abitare.

Agenda 2030: come giocarsi la credibilità dell’Educazione civica nelle nostre scuole.

C’è una sostanziale inscindibilità tra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, e l’istruzione permanente, vale a dire un apprendimento che accompagna l’intero arco della vita delle persone.

Non so se di questo fossero consapevoli gli estensori della legge con la quale si è reintrodotto l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole di ogni ordine e grado del nostro paese.

Tra i temi che durante l’anno scolastico le nostre ragazze e i nostri ragazzi dovranno studiare c’è appunto questo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Nutro il sospetto che il legislatore avesse un’approfondita consapevolezza dei contenuti di questa Agenda, forse più affascinato dagli obiettivi della sostenibilità che interessato a conoscere effettivamente le pratiche richieste per la loro realizzazione dai diversi soggetti promotori dell’Agenda, dall’Onu all’ Unesco.

Questo potrebbe diventare un terreno molto sdrucciolevole per la credibilità e l’efficacia formativa dell’ Educazione civica come materia, dico subito perché e vedrò di spiegarlo meglio di seguito. 

L’Agenda 2030 avendo un obiettivo proiettato nel tempo costituisce un lavoro in progress, per questo studio e riflessione dei suoi contenuti richiederebbero di ritrovare poi una corrispondenza in quanto si va costruendo nell’ambiente sociale in cui le nostre ragazze e i nostri ragazzi sono immersi e la scuola opera.

L’Agenda 2030, come sappiamo, si propone di assicurare ambienti di vita sostenibili per le generazioni presenti e per quelle future, ha come obiettivi, tra gli altri, di assicurare un’istruzione di qualità, promuovendo opportunità di apprendimento permanente a partire dal governo delle città.

Nel nostro paese di Città che Apprendono, di Città della Conoscenza non se ne parla, fatta eccezione per rari casi che si contano sulle dita di una mano. E già qui si pone il problema della coerenza tra ciò che pretendiamo che i nostri ragazzi studino e i luoghi che abitano.

Del ruolo delle città, in particolare delle città che apprendono, le “learning cities”, nel perseguire gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile se ne è parlato in conferenze internazionali con la partecipazione di sindaci, amministratori di città di tutto il mondo, dirigenti scolastici, esperti di apprendimento, rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite, di settori privati, di organizzazioni regionali, internazionali e della società civile, a cui dubito che l’Italia abbia mai partecipato: Pechino nel 2013, Città del Messico nel 2015, Cork, in Irlanda, nel 2017, Medellín, in Colombia, nel 2019. 

Conferenze che si sono sempre concluse con Dichiarazioni nelle quali viene ribadito il ruolo centrale dell’apprendimento permanente come motore della sostenibilità ambientale, sociale, culturale ed economica.

Le città che apprendono sono per l’Onu e l’Unesco lo strumento principe per la realizzazione concreta degli obiettivi posti da qui al 2030 dall’Agenda, ora anche oggetto di studio nelle nostre scuole. 

Ma la prima incongruenza nasce dal constatare che nessuno dei nostri governi nazionali, fino ad oggi, ha fornito le condizioni fondamentali e le risorse sufficienti per costruire città che apprendono capaci di promuovere inclusione e crescita. 

L’idea di educazione permanente praticata nel nostro paese è a dir poco obsoleta, modellata com’è su una concezione dell’istruzione ancorata a categorie del secolo scorso.

Non solo oggi è necessario che l’istruzione permanente pervada tutta la vita delle persone, ma anche l’intero impianto del sistema formativo del paese.

Ora è il governo della città a costituire il fattore chiave per sbloccare tutto il potenziale della comunità urbana, attraverso l’importanza dell’apprendimento permanente, per assicurare ambienti di vita sostenibili alle generazioni presenti e future. 

Ma anche qui parliamo il linguaggio della luna. Se le nostre città non provvedono a divenire città che apprendono sarà proprio lo studio dell’Agenda 2030, nell’ambito dell’educazione civica, a far scoppiare le contraddizioni, che già le giovani generazioni con Greta denunciano.

Eppure si potrebbe fare se solo attori pubblici e privati, settori delle città e delle comunità, compresi istituti di istruzione superiore e di formazione, nonché i rappresentanti dei giovani si riunissero in partenariato per promuovere l’apprendimento permanente a livello locale al fine di garantire che tutte le generazioni siano coinvolte nel processo di crescita della città che apprende.

Gli strumenti non mancano, dalla rete Unesco delle città che apprendono alla Dichiarazione di Città del Messico del 2015 che fornisce una lista di controllo completa dei punti di azione per migliorare e misurare il progresso delle città che apprendono. 

La cosa stravagante del nostro paese è che tante sono le nostre città riconosciute come patrimonio dell’Unesco, ma nessuna di loro aderisce alle Rete delle “Learning cities” dell’Unesco, né, tanto meno, è  impegnata a perseguirne gli obiettivi, a partire dalla città in cui vivo secondo l’adagio latino: nemo propheta in patria.

È probabile che dovremo attendere la generazione degli amministratori istruiti alla scuola della nuova Educazione civica, sempre che decolli, ma temo che entro il 2030 non ce la faremo.

L’Apprendimento a qualcuno piace caldo

Parlo con Regi Palermo, di Gessetti Colorati, del mio libro “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza”.

Emozioni, apprendimenti, cultura e conoscenza nel XXI secolo.

La cura di prendersi cura

Negli anni Sessanta i giovani obiettori al servizio militare finivano in carcere. Poi, circa un decennio dopo, sono venuti i medici obiettori di coscienza di fronte all’interruzione anticipata della gravidanza, e nessuno li ha cacciati dagli ospedali né messi in galera.

Ora l’obiezione dei no vax non è di coscienza, perché apparentemente non ci sono in gioco valori morali e civili, ma obiezioni nei confronti della pervasività della scienza.

Prima Francesco, il papa, poi il presidente della repubblica hanno sostenuto che vaccinarsi è un atto d’amore. Al valore civile della tutela della salute pubblica sancita dalla Costituzione ora si aggiunge la portata etica dell’amore, amore per il prossimo oltre che per se stessi.

Ci sono luoghi particolarmente sensibili, ad alta intensità etica e civica, questi, primo tra tutti, la Scuola. La scuola è il luogo di passaggio di milioni di giovani e di adulti, in questo passaggio che ha la durata delle ore, dei giorni, delle settimane, dei mesi e degli anni avviene qualcosa di eccezionale, che solo lì resta isolato, tra l’adulto e un gruppo di giovani, bambini e bambine, ragazzi e ragazze, una sorta di bene immateriale, che non si vede, ma che respira con il respiro di quell’insieme che è la classe, il gruppo, l’aula, il laboratorio, la palestra. Quella cosa bellissima che ogni società ad ogni lato della Terra chiama crescita, crescita delle nuove generazioni, allevamento, innalzare da terra per portare sempre più in alto.

I Care. È la cura, il prendersi cura, il camminare al tuo fianco, prenderti la mano e accompagnarti, aiutarti a superare gli ostacoli, lasciarti correre quando ti senti sicuro, sedermi al tuo fianco quando pensi di non farcela. Non possiamo scrivere I Care sulle pareti delle nostre scuole e pensare che insegnare sia un fatto nostro, che esclude testo e contesto, l’umanità che lo nutre, la responsabilità che lo sorveglia, l’attenzione e l’interesse della società intorno. 

Insegnare non ammette il conflitto né con le generazioni degli studenti né con le famiglie.

Quando si insegna, si entra in una classe, ci si accosta ad una cattedra non si parte per una missione, ma più semplicemente si è chiamati ad esercitare la propria professione, a professare la cultura che è sempre aperta, accogliente, rivolta a scovare il sapere, che è passione per l’altro che deve apprendere.

Ora non c’è più nulla di più incongruente, di più inconciliabile, di più inspiegabile di un insegnante no vax. Non vaccinarsi per un insegnante significa pensare che la propria professione è distanza e giudizio, comunicazione oracolare e sentenza finale, una staticità angustiante di teste inscatolate da inscatolare nel packing della propria materia.

La scuola degli imballaggi dove collocare ogni alunna e ogni alunno per poi sfornarlo confezionato “secundum curricula” al termine del corso studiorum.

L’I Care di don Milani è la scuola dell’umanità, la scuola di Freinet, di Bruno Ciari, di Mario Lodi e di tutti coloro che li hanno assunti come testimoni e che a loro si sono sempre ispirati nel proprio lavoro.

Nella nostra scuola non c’è posto per i no vax, per i sindacati che stagnano nell’ambiguità corporativa. La scuola è delle ragazze e dei ragazzi, e per tornare ad essere loro è necessario che tutti gli insegnanti e chi lavora nella scuola, dai collaboratori scolastici ai dirigenti, siano tutti vaccinati. Diversamente nessuno di questi merita di mettere piede in una scuola, in una classe, perché non sarà mai dalla parte dei giovani che devono crescere, studiare, imparare ad apprendere.

La scuola è passione e se non è appassionata non è scuola, manca pure lo spazio per esitare un solo attimo tra il vaccinarsi e il non vaccinarsi. Chi pensa di avere questo spazio ha sbagliato mestiere, quello dell’insegnante non è il suo lavoro e, se l’ha scelto per ripiego, è bene che mediti sulla sua superficialità e sulla responsabilità che porta. Il paese ha bisogno di passione per la scuola, di questo hanno bisogno tutti i bambini e le bambine, tutte le ragazze  e tutti i ragazzi.

Non si vuole obbligare al vaccino? Benissimo. Nella scuola pubblica, quella solidale, quella dell’inclusione, quella dell’accoglienza, quella dove hanno piena cittadinanza fragilità e disabilità non ci può essere posto per personale che non sia vaccinato, la scuola pubblica non può che essere radicale nell’applicazione del dettato costituzionale dell’articolo 32.

Non c’è posto per tutti nella scuola pubblica, non è un ufficio di collocamento per mezzi servizi e mezzi stipendi. È ora di chiudere con la storia che a scuola entrano tutti dopo anni di graduatorie dove i punteggi si accumulano nei modi più disparati e in graduatoria si sosta per anni, fino a quando, dopo aver optato per un impiego alle Poste, ti ripescano per una supplenza. Questo è il valore che attribuiamo alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi. All’inizio del secolo scorso John Dewey ci ricordava che compito della società è quello di assicurare ciò che ciascun genitore desidera per il proprio figlio, vale a dire gli insegnanti migliori e non il primo che capita per via di un algoritmo.

La Scuola deve essere l’istituzione migliore del paese, con i professionisti più preparati, non più saputi, ma più preparati nella fatica di curare ognuno, uno per uno, di condurre per mano, con pazienza e intelligenza ogni ragazza e ogni ragazzo dal nido all’università, senza perderne uno, senza lasciare indietro nessuno, disegnando per ognuno il percorso che può fare. Con l’arte della tartaruga, con il festina lente.

È il principio di responsabilità di cui si carica chi lavora nella scuola, responsabilità innanzitutto di fronte alla crescita di ogni ragazza e di ogni ragazzo, responsabilità nei confronti della società e del suoi futuro, responsabilità nei confronti delle famiglie. Chi non  se la sente di portare un simile fardello sulle spalle è bene che a mettere piede in una scuola non ci pensi neppure lontanamente.

Ora non è che dopo aver introdotto nelle nostre scuole, allarmati dai comportamenti delle giovani generazioni, l’Educazione Civica come insegnamento trasversale, che interessa tutti i docenti e tutti i gradi scolastici, per formare cittadini responsabili, come proclama il sito ministeriale, l’insegnamento dell’educazione civica poi lo affidiamo agli insegnanti no-vax?

L’articolo 1, comma 1 della legge richiama il patto educativo di corresponsabilità come terreno di esercizio concreto per sviluppare “la capacità di agire da cittadini responsabili e di partecipare pienamente e consapevolmente alla vita civile, culturale, sociale della comunità.”

Di fronte agli appelli del presidente della repubblica, del papa, delle autorità sanitarie gli insegnanti, più di ogni altro, non hanno possibilità di scelta. L’obbligo a vaccinarsi è connaturato al mestiere che hanno deciso di esercitare, perché quel mestiere ha particolarità che a stare seduti in cattedra non si possono scoprire e neppure apprendere,  sono quelle stesse peculiarità per cui o l’insegnamento è in presenza, umanamente intimo e corale allo stesso tempo, o è un’altra cosa. Per l’altra cosa non serve né l’insegnante né il vaccino.

La montagna da scalare

L’esperienza pare abbia dimostrato che DAD e liturgie scolastiche di classe non possano convivere. Diversamente non si spiegherebbe come gli studenti siano abili a navigare in rete alla ricerca di informazioni e saperi, e pure riuscire ad apprendere, mentre quando usano la rete per collegarsi alle lezioni di classe si determina una sorte di entropia, di modificazione di stato che rende tutto diverso.

La spiegazione più semplice suggerirebbe che scuola e digitale sono due ambienti di apprendimento differenti, con regole e  liturgie difficilmente conciliabili tra loro.

Ma se apprendimento informatico e apprendimento d’aula sono tra loro irriducibili, merita compiere alcune riflessioni.

Intanto stupisce l’avversione di molti docenti nei confronti dell’apprendimento a distanza, il quale è già una realtà per le tante piattaforme e-learning che offrono un apprendimento misto “blended learning”, di cui pure i nostri docenti dovrebbero avere fruito sia per ottenere la cattedra, sia per mantenersi aggiornati. È evidente che di fronte alla necessità di attivare l’apprendimento a distanza le nostre scuole si sono trovate sprovvedute, né hanno provveduto a ricorrere ai ripari aggrappandosi al mantra della scuola in presenza, mentre mezzo mondo si sta organizzando per rendere la didattica digitale a distanza organica alla implementazione dei propri curricoli.

Fermo restando che la didattica a distanza non è auspicabile per i più piccoli e comunque per ragazze e ragazzi che non abbiano raggiunto un minimo di autonomia nelle pratiche dello studio, essa tuttavia resta un importante strumento di insegnamento/apprendimento capace di abbattere, almeno virtualmente, i muri dell’aula.

Ma ciò che preoccupa è la chiusura culturale che cela l’ostilità ad apprendere non in presenza, come se le sedi dell’insegnamento e dell’imparare fossero precostituite una volta per tutte: le aule delle scuole, le aule delle accademie universitarie, e il sapere fosse il prodotto esclusivo di una relazione personale tra maestro e discente. Un gioco delle perle di vetro, un’evocazione dei Magister ludi di Castalia.

La rivoluzione informatica che avanza inesorabile, che cresce tra le nostre contraddizioni di stupore, timore e diffidenza potrebbe portare ad una condivisione delle conoscenze tra il genere umano tale da preludere ad inattese stagioni planetarie.

Una crescita senza precedenti dei saperi del nostro tempo pone problemi di cambiamento, di trasformazione, di adattamento a nuovi modi di pensare e a nuove mentalità.

Dovremmo evitare, dunque, di trovarci nei panni di Epimeteo, il fratello di Prometeo, di colui cioè che, anziché prevedere, riflette troppo tardi.

Ostinarci a credere che l’apprendimento appartenga ad un solo piano di realtà, quello scolastico ed accademico, continuare a coltivare una cultura scuola-centrica, senza renderci conto che la rivoluzione informatica ha abbattuto le barriere del sapere, cammina nel mondo unendo ciò che è distante,  cambiando verso a ciò che per noi continua ad essere “l’uni-verso”, nel senso di “verso unico”, rischia di portarci fuori dalla storia, di ancorarci al passato. 

Il chiosco informatico di “Hole in the Wall”,  il buco nel muro situato in un quartiere povero di Nuova Delhi, l’intuizione di Sugata Mitra: l’idea che i bambini possono imparare da soli e meglio grazie alle tecnologie informatiche. Noi invece disquisiamo di dad sì, dad no.

Il premio Nobel per la fisica Leon Lederman fa scoprire le leggi della fisica ai giovani delle periferie degradate di Chicago attraverso il gioco, la manipolazione di diversi oggetti, attraverso il coinvolgimento dei differenti organi di senso: la vista, il tatto, l’udito. Tutto ciò in un clima di gioia e di divertimento, vale a dire tutto ciò che vi è di più lontano dall’apprendimento formale della matematica e della fisica. È interessante sottolineare che le più grandi difficoltà di questa operazione sono venute dalla resistenza degli insegnanti: a loro è costato moltissimo abbandonare i vecchi metodi. La formazione dei formatori è stata più lunga e più difficile che il lavoro con i ragazzi.

Ogni aspetto della nostra vita rischia di essere aggravato dal permanere di un sistema di istruzione fondato sui valori di un altro secolo, che determinano uno scarto sempre più marcato rispetto alle continue trasformazioni della nostra epoca. L’istruzione è il cuore del nostro avvenire, poiché il futuro si struttura attraverso l’istruzione che è impartita nel presente, qui e ora.

Apprendere a conoscere, apprendere a fare, apprendere a vivere insieme e apprendere ad essere. Sono i quattro pilastri su cui fondare l’educazione nel ventunesimo secolo, questa era l’utopia educativa nel 1996 del rapporto Delors.

Apprendere a conoscere significa avere un approccio intelligente ai saperi dell’epoca in cui viviamo, a partire dallo spirito scientifico che, tra le più importanti conquiste dell’avventura umana, è indispensabile.

L’iniziazione precoce alla scienza è fondamentale, non si tratta di assimilare una massa di conoscenze scientifiche, ma di apprendere a problematizzare, a non accettare risposte già pre-confezionate. Apprendere a conoscere significa anche non arenarsi negli alvei di un sapere rigidamente frantumato in discipline che poi si riducono a materie, come se questo fosse l’unico modo possibile per imparare. Apprendere a transitare da una disciplina all’altra, produrre contaminazioni, ricavare nuovi apporti e contributi. Essere capaci di stabilire delle passerelle tra i differenti saperi, tra questi saperi e il loro significato per la vita di tutti i giorni; tra i saperi, i loro significati e le capacità della nostra mente.

La crescita senza precedenti del sapere in tutti campi ha moltiplicato la complessità con cui le nostre esistenze devono confrontarsi. Il rischio è che ciò, anziché costituire una conquista a favore dell’intera umanità, porti invece ad aumentare le disuguaglianze e le distanze tra coloro che padroneggiano le nuove conoscenze e coloro che invece ne sono sprovvisti, disuguaglianze all’interno dei popoli e tra le nazioni del mondo.

Questa è la montagna da scalare per tutti i sistemi formativi della Terra a partire dal nostro.

Questo straordinario sviluppo dei saperi qualcuno ha sottolineato che a lungo termine porterà ad una evoluzione paragonabile a quella del passaggio dagli ominidi all’homo sapiens.

Mentre ancora ragioniamo su cosa far studiare e come far studiare le generazioni del ventunesimo secolo, sarà bene che nessuna occasione e nessuno strumento siano trascurati, aprendoci all’idea che tutto intorno a noi oggi si presta ad essere oggetto di nuovi saperi senza che sempre ci sia un magister ludi a vigilare.

PNRR: Mission e Cultura

Il sistema istruzione del paese funziona male, ormai è molto tempo che mostra segni di invecchiamento tanto da far presagire il suo esaurimento, dunque non è questione né di Covid  né di Dad.

Ora però siamo di fronte ad una svolta, il governo ha licenziato il PNRR che contiene quattro macro mission, dieci riforme e dodici investimenti per oltre diciannove miliardi  con l’obiettivo del “Potenziamento  dei servizi di istruzione: dagli asili nido alle università”, da realizzare da qui al 2026.

Asili nido, tempo pieno e mense, riduzione dei divari territoriali nella formazione, riforma degli istituti tecnici e professionali, sviluppo degli istituti tecnici superiori, riforma del sistema di orientamento. Nuove competenze e nuovi linguaggi, sviluppo del digitale e della didattica integrata, nuove aule didattiche e laboratori, riqualificazione dell’edilizia scolastica. E in fine riforma dell’organizzazione del sistema scolastico, riforma del sistema di formazione e reclutamento dei docenti.

Ma sorge un interrogativo: con quale cultura?

La cultura di un sistema formativo morente? Quali modelli? Quale idea di istruzione?

Il problema della cultura è rilevante in tutto il mondo. 

Il nostro sistema scolastico è entrato nell’epoca della conoscenza con cui si è aperto questo secolo senza colpo ferire, sempre uguale a se stesso, come se il tempo fosse da sempre fermo.

Un treno con vagoni importanti al suo seguito, la media unica, la scuola di massa, la scuola a tempo pieno, i Decreti Delegati, la scuola della legge 517 del 1977: la scuola di tutti, la scuola del lavoro collegiale dei docenti,  la scuola senza voti. Il sistema integrato zero-sei, l’autonomia scolastica.

Un treno su cui sono saliti personaggi come Loris Malaguzzi e Sergio Neri, Bruno Ciari, Don Milani e Mario Lodi. Ma in prima classe continuavano a sedere Gentile, Croce e Maritain, poco disposti a cedere il posto ai Piaget, agli Erikson, ai Bruner. Un treno di merci vecchie su cui si sono gettate, di volta in volta, quelle nuove un po’ alla rinfusa e con poca convinzione. Un treno ancora con le carrozze di prima: i licei, di seconda: gli istituti tecnici e, in fine, di terza, quelle con i sedili di legno, per la formazione professionale. Un treno che per troppi territori ha viaggiato a scartamento ridotto e che ancora perde passeggeri lungo il suo percorso. Un treno senza dubbio non attrezzato per attraversare le regioni della complessità, paradigma del nostro tempo.

Capitale umano non è una parolaccia, non è che persona e cittadino soggetti formativi delle nostre scuole siano meglio. Di fronte alla complessità l’umanità per salvarsi ha bisogno di capitale umano e il valore del capitale umano si misura in conoscenza. La centralità della conoscenza non perché funzionale al mercato ma perché funzionale alla nostra vita. Veniamo dal secolo, quello scorso, dell’informazione e della formazione, abbiamo visto che nonostante l’enfasi attribuita a queste parole, esse servono a ben poco se non si traducono in conoscenza e da conoscenza in competenza, in padronanze per vivere, per dominare la nostra realtà, quella che ci circonda e quella che condividiamo con gli altri.

La conoscenza non è qualcosa che risiede a scuola, solo uno stupido potrebbe oggi coltivare un’idea simile. La conoscenza è ovunque, dalle reti del web al mondo universo, ovunque rintanata e ovunque si fa scoprire; scuole, biblioteche, musei, teatri e cinema ci offrono gli strumenti per conoscere, ce li insegnano, permettono di esercitarci nel loro uso, ma poi non c’è nulla della nostra vita che non sia conoscenza da farsi in proprio, da ricercare di continuo. Allora abbiamo necessità di apprendere da subito ad usare gli strumenti della conoscenza, da quando apriamo gli occhi sul panorama del mondo, su questo libro che non finiremo mai di sfogliare e di studiare, che passeremo agli altri dopo di noi, perché continuino a sfogliarlo e a studiarlo come hanno fatto quelli che sono venuti prima e ci hanno lasciato le loro pagine.

Dobbiamo assumere delle categorie nuove, degli a priori kantiani. La conoscenza, lo studio, l’apprendimento appartengono a un tempo che mai ci abbandona, che ci sta addosso. Possiamo apprendere in tanti modi, gioiosi come quelli dei bambini, faticosi come quelli dell’adulto che si misura con la complessità, con le sfide di ciò che ancora non conosce, anche noiosi, poco interessanti, ma necessari.  Ma un concetto ci deve essere chiaro e cioè che l’apprendimento è permanente, che ha bisogno del nido per arrivare all’università ed oltre. Quando dico nido e università non penso alle istituzioni, penso a tappe della vita. Penso che darsi come obiettivo di giungere al 33% di bambini che frequentino l’asilo nido, anche se target europeo, equivale comunque ad accettare ancora per molti anni che nel nostro paese solo il 29% dei giovani tra i 25 e i 34 anni sia in possesso del diploma di laurea. La società dell’educazione permanente è la società del cento per cento.

Uscire dall’idea dell’istruzione come servizio sociale, acquisire un concetto maturo, universale, radicale di diritto allo studio, che non tollera limiti, che ha origine alla nascita come il respirare,  il nutrirsi e l’essere accuditi. La società della conoscenza dell’Europa di Lisbona del 2000 ha introdotto l’apprendimento per tutta la vita, non certo nell’ottica mercatistica di recuperare nuove competenze al lavoro, ma con l’dea di rompere con il concetto dell’ istruzione istituzionalizzata, statica, ingessata, unidirezionale dalle scuole alle università.

Nella società del capitale umano l’apprendimento inizia con la nascita e dura per tutta la vita, i luoghi di studio e di sapere sono luoghi aperti, di relazione permanente con il territorio e la vita delle persone, non conoscono chiusure, luoghi di flessibilità e non di rigidità, luoghi di accompagnamento e non di mortificazione, luoghi di valorizzazione e di condivisione, luoghi non di giudizio ma di comprensione, luoghi di crescita insieme, costante continua, luoghi di accudimento dei saperi.  Luoghi in cui non ci si dispera se si apprende a distanza perché la qualità degli apprendimenti e delle relazioni non ne risentono essendo luoghi dove l’apprendimento è organizzato e diffuso ovunque, dove le città che apprendono, che affondano le loro radici nel sapere diffuso, nella cultura e creatività dei loro abitanti sono considerate luoghi normali di vita e di costume.

Se i miliardi del Recovery Fund li spenderemo mantenendo i paradigmi del  ‘900 saranno soldi buttati via, spesi per inutili cattedrali nel deserto. 

Insegnamento e apprendimento sono state le parole chiave della seconda metà del novecento per impossessarsi  attraverso discipline e curricoli del patrimonio di conoscenze già accumulato. Ora la parola chiave è l’apprendimento permanente, la società della conoscenza dove tutto deve essere al servizio di ciascuno per essere in grado di apprendere ciò che ancora non conosciamo, non ciò che ci sta alle spalle, ma ciò che ci sta davanti e ancora non vediamo. Dobbiamo immagazzinare il nuovo e saperlo andare a scoprire là dove si rintana, abbiamo bisogno degli attrezzi cognitivi per fare questo. Questo non è un compito da comunità educanti, ma è il compito di società che nelle loro politiche e in ogni aspetto della loro organizzazione sono strutturate per dare centralità alla formazione, alla conoscenza, alla cultura necessaria a nutrire il capitale umano, l’unica vera risorsa di cui possa disporre oggi l’intera umanità. Società della conoscenza dove scuole e istituzioni culturali sono parte di una rete di apprendimento permanente che ne costituisce il tessuto connettivo.

Se sarà questa la cultura e la consapevolezza con cui affronteremo le mission  per il “Potenziamento dei servizi di istruzione: dagli asili nido alle università” del PNRR, potremo sperare di far entrare il nostro sistema formativo a pieno titolo nella società della conoscenza, nell’epoca della conoscenza del ventunesimo secolo. Ma l’interrogativo con quale cultura resta aperto, con molte ombre e preoccupazioni, perché ciò che non è stato curato finora è proprio la cultura e il tempo per recuperare il tempo perduto potrebbe essere scaduto.

Saperi, futuro e destino umano

L’otto luglio Edgar Morin, uno dei più grandi intellettuali contemporanei, raggiungerà il traguardo del secolo. Troppo complesso per essere preso sul serio, lui iniziatore del pensiero complesso, della necessità di una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi a cui siamo ancora abbarbicati, semmai rivendicata come merito del passato da una scuola incapace di preparare al pensiero della complessità. La conoscenza è avventura e la scuola è parte del territorio in cui vivere questa avventura, in cui apprendere a conoscere e a ri-conoscere la conoscenza. La palestra in cui esercitarsi fin da piccoli alla metacognizione, a interrogarsi, a nutrire la curiosità, a inseguire lo stupore.

Il compito dell’istruzione non può ridursi all’angustia di formare cittadini da integrare nella società presente, né in ipotetiche società future, le categorie pedagogiche degli Stati-Nazione come le pedagogie progressive del Novecento hanno fatto il loro tempo. 

Morin ci rappresenta il nostro pianeta come una nave spaziale che viaggia grazie alla propulsione di quattro motori scatenati: scienza, tecnica, industria, profitto e dove nello stesso tempo la minaccia nucleare e la minaccia ecologica impongono alla umanità una comunità di destino, non c’è possibile futuro che valga la pena costruire se non riscoprendo la centralità di ogni donna e di ogni uomo, la centralità dell’intelligenza, la centralità del pensare oggi  per il futuro. In gioco non è l’integrazione culturale nella propria comunità, in gioco per tutti, da ogni lato della Terra, è la vivibilità del futuro. L’asfittico obiettivo dei sistemi scolastici nazionali è soppiantato dal ben più impegnativo e difficile compito di attrezzare le giovani generazioni a vivere un futuro vivibile. L’Agenda 2030 dell’Onu è lì a ricordarcelo in ogni istante.

In questo orizzonte sa di anacronistico brandire la difesa dell’ora di lezione, della cattedra e delle discipline, come un Don Chisciotte che insegue i suoi fantasmi, come il soldato giapponese che non si arrende perché non crede che la guerra sia finita. Il tempo è scaduto da tempo e la conseguenza è non aver provveduto a farsi la cultura necessaria al ritorno alla realtà.

Da “Introduzione al pensiero complesso  a “La testa ben fatta”, dal “Manifesto per cambiare l’educazione”, ai “Sette saperi necessari all’educazione del futuro”, ormai sono più di trent’anni  che Morin ci invita a riflettere sullo stato attuale dei saperi e sulle sfide che caratterizzano la nostra epoca. A richiamare soprattutto quanti hanno in mano le sorti delle future generazioni, come gli insegnanti, a prendere consapevolezza che la posta in gioco sono i nuovi problemi prodotti dalla convivenza umana, da una interdipendenza planetaria irreversibile fra le economie, le politiche, le religioni, le malattie di tutte le società umane.

Una riforma dell’insegnamento è indispensabile per poter affrontare queste sfide, a partire dalla riflessione sullo stato dei saperi frantumati in singole discipline, quando la complessità per essere indagata richiede la capacità di collegare e praticare ambiti di sapere tra loro apparentemente distanti, ma il cui dialogo, mai intuito prima, ora si manifesta prezioso per la risoluzione dei problemi, per rendere prevedibile ciò che i paradigmi precedenti ritenevano imprevedibile. Umanesimo e scienza che ancora non siamo in grado di far comunicare,  di contaminare nei curricula dei nostri percorsi scolastici, come se i tempi di Vico non fossero mai tramontati, come se il crocianesimo continuasse ad essere radicato nel DNA dei nostri studi. Occorrevano le vicende di questa pandemia inattesa a svelare l’impreparazione della scienza a comunicare e la nostra incapacità a misurarci con le certezze “incerte” proprie della scienza.

La riforma dell’insegnamento è il nodo che ancora non abbiamo sciolto. Un nodo che richiede di non cessare di interrogarsi, perché la complessità non ha risposte semplici e meno che mai risolutive, l’avvento della pandemia ha certo aiutato a sgombrare le menti da ogni dubbio.

Eppure quando si innalzano peana a celebrare l’afflato erotico che abbatte le distanze tra cattedra e banco, tra docente e discente, l’impressione è di vivere in un paese in cui intellettuali e sistema formativo sono fermi al passato, non siano in grado di comprendere il presente e, tanto meno, di leggere il dopo.

Morin ci propone di porre alla base della riforma della scuola, del mestiere della scuola che è l’istruzione, il pensiero complesso, une tête bien faite. Qualcosa di più difficile, di complesso, appunto.

Insegnare a vivere. Dovevamo attrezzarci per far apprendere ai nostri studenti come si vive, ma non qui ed ora, bensì nel luogo che ancora non c’è. Una sfida da capogiro, di fronte alla quale ci siamo ritirati, trastullandoci con i banchi a rotelle e con la Dad che non è scuola. Ripiegati sui noi stessi, rispecchiati nelle certezze del passato, ci è scomparsa la cognizione del futuro, che chi ha creature da crescere non dovrebbe permettersi di perdere, ma questo è quello che è accaduto. Il dopo delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, la loro vita futura come uscirà attrezzata dalle nostre scuole? Piena dell’ira d’Achille, degli atri muscosi e dei fori cadenti, ma vuota dell’imprevedibile, del novus che è sempre stato il modo del “moderno”.

Da sempre la missione dell’educazione è insegnare a vivere, ma è un conto farlo per vite già confezionate, altro per vite ancora da confezionare.

Morin ci suggerisce di porci una domanda che non ha spazio nei nostri programmi d’insegnamento e che riguarda ciascuno di noi: che cosa significa essere umano?

Si tratta di permettere a ciascuno di sviluppare al meglio la propria individualità, il legame con gli altri ma anche di prepararsi ad affrontare le molteplici incertezze e difficoltà del destino umano. 

E qui entra in gioco il sistema di conoscenze e dei saperi di cui le nostre scuole sono depositarie. Altro che centralità della lezione, quella lezione rischia di divenire tossica, perché a fronte della realtà che le nostre ragazze e i nostri ragazzi si troveranno a vivere il sistema delle conoscenze che le nostre scuole trasmettono è ancora troppo debole. E se debole non aiuterà certo i nostri giovani a cogliere le carenze dei loro pensieri, i buchi neri della loro mente che rischiano di rendere invisibile la complessità del reale. 

Il pericolo è che dalle nostre scuole escano giovani costretti ad affrontare il futuro a mani nude. 

Da questa pandemia abbiamo appreso che non è solo la nostra ignoranza ad aver ostacolato la comprensione di quanto è accaduto, ma soprattutto l’inadeguatezza delle conoscenze di cui disponiamo. I buchi neri nella nostra mente confermano che il nostro sistema di saperi e di pensiero non è in grado di rispondere alle sfide della complessità. 

Allora non abbiamo bisogno di docenti e di intellettuali che sottoscrivono manifesti, ma di intellettuali e professionisti della cultura in grado di promuovere una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi presente nella nostra epoca e che sia capace di formare insegnanti e studenti a pensare la complessità. 

Siamo in ritardo e il tempo non attende, il futuro imprevedibile è in gestazione oggi.