Giovani e scuola che aria che tira

La fine della pandemia prometteva che l’aria sarebbe cambiata, meno viziata dai miasmi del passato. Invece tira aria di restaurazione. Sembra che i giovani siano minori, non perché più piccoli, ma perché “minus”, cioè meno dotati, meno dotati di noi adulti. Dove inizi e dove finisca la minore dotazione è tutto da stabilire. Intanto Frida Bollani Magoni a soli sedici anni suona la sua interpretazione dell’inno d’Italia alla presenza del Presidente della Repubblica e il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, rivendica il voto ai sedicenni.

Eppure c’è sempre qualche adulto che sente il bisogno di dare una qualche lezione ai giovani, perché i loro modi di essere non combaciano con la sua cultura, con i modelli comportamentali introiettati. Così Chiara Saraceno concorda con la dirigente dell’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano che con circolare interna ha dettato il dress code a cui si devono attenere le sue studentesse e i suoi studenti.

Perché l’abito fa il monaco, ogni luogo ha il suo abbigliamento, in particolare le istituzioni come la scuola. Secondo la sociologa i giovani devono essere educati al rispetto che si deve ai professori e all’ambiente scolastico, e questo rispetto passa prima di tutto attraverso a come ti vesti. Pretendere di insegnare questo rispetto puzza sempre di accusa, di punitivismo nei confronti dei minori, preoccupa perché denuncia le frustrazioni che nascono da un senso di impotenza comunicativa con i giovani, vuoto che si pensa di colmare dettando le regole, le norme, i principi di normalità a cui attenersi, gli unici accettati per essere ammessi nei santuari del sapere. Come ti devi regolare se vuoi vivere in un mondo in cui ci sono anche gli adulti con le loro pretese. Puzzano di rivincita sui patimenti subiti negli anni della propria adolescenza per via dei soprusi del mondo adulto. Semmai si condannano quei soprusi, ma non il rispetto di quelle, che nonostante la rivoluzione dei costumi, si continua a considerare buone regole, abitudini da inculcare, la buona educazione del tempo che fu. Le ragazze acqua e sapone e grembiule nero, i ragazzi giacca, cravatta, scarpe lucide e capelli corti. Pensavamo di essere riusciti ad andare oltre, ma pare che ora si esageri ed è dunque necessario tirare il freno. Spuntano le mutande dai jeans, alcune magliette e braghe pare lascino trasparire troppo del giovane corpo che le indossa, poi ora ci sono i piercing, che sono ammessi solo se all’orecchio, per non parlare dei tatuaggi, delle  scritte insidiose su magliette e felpe. Poi la scuola non è una spiaggia, niente infradito e occhiali da sole, a meno che lo ordini il medico. 

Se si consultano i siti delle scuole nostrane, come quelle del mondo, i dress code sembrano copiati gli uni dagli altri. Dunque milioni di studenti dagli Usa all’Arabia, dall’Europa all’Australia hanno bisogno di essere educati all’abbigliamento, cosa è consono e cosa non lo è a seconda dei luoghi, a partire dalla scuola. Qualcuno l’ha risolto da tempo con le divise del college, che pure inculcano un senso di appartenenza e di identità, altri restano affezionati al grembiule delle elementari con nastro rosa per le bimbe e azzurro per i bimbi, addirittura l’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano indica ai genitori dove andarli a comprare, in modo da essere sicuri di rispettare il dress code della scuola.

Siamo sempre alla solita questione, quando l’istituzione non sa accogliere e dialogare, creare un clima di parità e di intesa nel rispetto delle differenze si ricorre a proibire, a scrivere regole e catechismi, anziché contaminarsi, capirsi reciprocamente, assegnare valore ai luoghi e a quello che in quei luoghi si fa e si vive insieme. Non accade in famiglia, non accade a scuola e la scorciatoia che solleva gli adulti da ogni responsabilità è scaricare sulle spalle dei giovani un bel dress code in nome dell’autorità degli adulti e dell’inviolabilità sacra dell’istituzione.

Il problema è che abbigliarsi è un’esigenza e un’arte, è l’arte dell’identificazione, del ritrovare se stessi, dell’interpretare la vita, del comunicare il proprio tempo, il proprio mondo e se la scuola è luogo di socializzazione, e come tale viene vissuto, la socializzazione ha le sue regole e i suoi codici. E se una generazione ha un suo linguaggio perché dovrebbe lasciarlo fuori dalla porta della classe, lasciare una parte di sé fuori dalla scuola, essere a scuola sempre dimezzati. Così la scuola non è la vita, è una para-esistenza, quello che puoi indossare per strada, in famiglia, quando incontri i tuoi amici non va bene, può dare scandalo, distrarre l’attenzione dalle lezioni e dai compiti scolastici, può indurre pensieri carnali, attrazioni sessuali. Ma dove sta tutto questo se non nella mente patologicamente sospettosa di qualche adulto?

L’ossessione del dress code ha accompagnato anche la didattica a distanza, nel sospetto che qualche studente sotto il mezzobusto della webcam indossasse i pantaloni del pigiama, bermuda e le detestate infradito, una imperdonabile mancanza di rispetto nei confronti dell’istituzione seppure virtuale, perpetrata per di più clandestinamente. Il sospetto è che gli insegnanti non siano stati da meno.

A leggere Week Education, rivista statunitense online, si scopre che durante la pandemia la maggior parte degli insegnanti impegnati nella Dad ha vissuto come un vantaggio, in un periodo particolarmente stressante, potersi disinteressare dell’abbigliamento dalla cintola in giù. Ora per ridurre lo stress dovuto alla ripresa della didattica in presenza agli insegnanti di un distretto scolastico del Missouri è stato consentito di continuare a vestirsi in modo casual.

Negli Usa i codici di abbigliamento degli insegnanti non sono una novità. Un contratto dei dipendenti della Ohio Education Association, datato 1923 e rivolto esclusivamente alle insegnanti vietava i colori vivaci o di tingersi i capelli, richiedeva di indossare “almeno due sottovesti” e abiti non più di due pollici sopra la caviglia. I tempi sono cambiati ma non mancano i ritorni di fiamma.

Nel 2018, We Are Teachers ha compilato un codice di abbigliamento per insegnanti con quattordici regole, tra le quali il divieto di indossare jeans e scarpe da ginnastica.

Fortunatamente a calare il sipario sulla assurdità di tutto questo ci hanno pensato gli insegnanti spagnoli del movimento “La Ropa non Tiene Genero”.

Dal 2020 sempre più alto si è fatto il numero dei docenti che hanno scelto di accantonare l’uso dei pantaloni in classe durante le lezioni per combattere gli stereotipi di genere e per sostenere Mikel Gómez, lo studente cacciato da scuola per essersi recato in aula con una gonna.

Invece noi siamo il paese in cui, mentre in parlamento si discute il disegno di legge Zan contro pregiudizi e stereotipi di genere, ci si preoccupa di come le nostre studentesse e i nostri studenti si vestono per andare a scuola, senza rendersi conto di quanto rasentiamo il ridicolo e che le circolari sull’abbigliamento a scuola meriterebbero  di essere sepolte da una solenne risata.

Considerate le statistiche relative all’abbandono scolastico, sarei tentato di suggerire ai  presidi di usare lo slogan: “A scuola come ti pare purché tu ci venga per imparare”. 

L’impressione però è che a scuola tiri una brutta aria, un’aria di reazione e di ostilità nei confronti dei giovani, allarma il post di un docente su Facebook che esalta il suo consiglio di  classe perché allo scrutinio di fine anno su 25 alunni ne ha promossi solo quattro, tutti gli altri respinti o con il giudizio sospeso. Inquietante perché quel docente anziché inorgoglirsi dovrebbe preoccuparsi seriamente del fallimento professionale suo e di un’intero consiglio di classe.

Dovremmo essere vicini ai nostri giovani, invece crescono gli atteggiamenti pedagogicamente punitivi, che celano sempre frustrazioni e un patologico bisogno di rivincita. 

“Cambiamo strada” è il titolo dell’ultimo libro del filosofo francese Edgar Morin, nello stesso tempo un invito. Ci avverte del pericolo di un grande processo regressivo che viene da lontano, ancora prima della crisi del virus e che si accentuerà nel post-epidemia. Il timore più grande è che questo processo regressivo, già in corso nel primo ventennio di questo secolo, possa avere varcato anche le porte delle nostre scuole.

Vintage school: gli intellettuali e la “nuova scuola”

Non conosco gli estensori del “Manifesto per la nuova scuola” sottoscritto  da uno stuolo di intellettuali che vanno da Alessandro Barbero a Chiara Frugoni, da Vito Mancuso a Massimo Recalcati, da Tomaso Montanari a Gustavo Zagrebelsky che, ovviamente, non potevano mancare.

“Nuova scuola” sta a significare che questa che abbiamo è la “vecchia scuola”, diversamente non si comprenderebbe la necessità di un manifesto. Le “buone scuole”, “le offerte formative” tutto tempo sprecato, inquinamenti nell’esercizio principe della trasmissione del sapere, come nel lontano 1994 il Testo Unico aveva decretato consistere la funzione docente.

Nuova scuola e non “scuola nuova”, forse perché agli estensori risuonava un po’ come le “scuole nuove”, il movimento di rinnovamento scolastico dei primi del novecento sorto per rispondere ai bisogni di una mondo in rapida trasformazione.

Le trasformazioni del mondo non sono cura di cui prendersi per i promotori del nostro manifesto, perché la nuova scuola in esso disegnata è atemporale, fuori dallo spazio e dal tempo, un’entità dello spirito, un tabernacolo del sapere dispensato dai suoi sacerdoti. Un ritorno allo spirito di Hegel e di Croce tanto bistrattati dal materialismo dei tempi della scienza e della tecnica.

Una scuola senza storia, senza prima e senza dopo, senza ricerca, senza un propria cultura accumulata nel tempo, senza conflitti, anzi una scuola dall’identità violata, sfregiata dalle riforme e dagli interventi legislativi che si sono succeduti negli anni, che ne hanno deturpato la sua vera natura di otia studiorum.

Non conosco gli estensori del “Manifesto per la nuova scuola” sottoscritto  da uno stuolo di intellettuali che vanno da Alessandro Barbero a Chiara Frugoni, da Vito Mancuso a Massimo Recalcati, da Tomaso Montanari a Gustavo Zagrebelsky che, ovviamente, non potevano mancare.

“Nuova scuola” sta a significare che questa che abbiamo è la “vecchia scuola”, diversamente non si comprenderebbe la necessità di un manifesto. Le “buone scuole”, “le offerte formative” tutto tempo sprecato, inquinamenti nell’esercizio principe della trasmissione del sapere, come nel lontano 1994 il Testo Unico aveva decretato consistere la funzione docente.

Nuova scuola e non “scuola nuova”, forse perché agli estensori risuonava un po’ come le “scuole nuove”, il movimento di rinnovamento scolastico dei primi del novecento sorto per rispondere ai bisogni di un mondo in rapida trasformazione.

Le trasformazioni del mondo non sono cura di cui prendersi per i promotori del nostro manifesto, perché la nuova scuola in esso disegnata è atemporale, fuori dallo spazio e dal tempo, un’entità dello spirito, un tabernacolo del sapere dispensato dai suoi sacerdoti. Un ritorno allo spirito di Hegel e di Croce tanto bistrattati dal materialismo dei tempi della scienza e della tecnica.

Una scuola senza storia, senza prima e senza dopo, senza ricerca, senza un propria cultura accumulata nel tempo, senza conflitti, anzi una scuola dall’identità violata, sfregiata dalle riforme e dagli interventi legislativi che si sono succeduti negli anni, che ne hanno deturpato la sua vera natura di otia studiorum.

Se qualcuno mai avesse pensato che fosse finalmente giunto il tempo di porre fine alla pratica dell’insegnamento ex cathedra, dell’insegnamento trasmissivo, di un sistema scolastico cattedracentrico, per gli estensori del manifesto è bene che si metta il cuore in pace.

Restituiamo  centralità all’ora di lezione, alle discipline, ad ogni singola disciplina senza alcuna contaminazione, alla trasmissione del sapere. Le competenze sono nemiche del sapere e di ogni dimensione “integralmente umana” è scritto nel manifesto. Le competenze come lo sterco del diavolo, asservite al mercato.

Pensiero inquietante, perché suggerirebbe che neppure chi siede in cattedra è fornito di competenze, quelle necessarie a illuminare gli studenti della luce della sua disciplina. E cosa mai possederà al loro posto? L’ispirazione dello spirito santo? Avremo nella “nuova scuola” i docenti pentecostali?  

Nessuna contaminazione con il lavoro, più che mai con l’insensata alternanza scuola lavoro, via ogni orpello dalla scuola, dal digitale all’autonomia scolastica, niente offerte formative, ma centralità del docente in cattedra. Gli unici ammessi  all’aulica scuola i mediatori linguistici per gli studenti stranieri e gli psicologi dello sportello d’ascolto per rimuovere eventuali interferenze prodotte dall’età evolutiva delle ragazze e dei ragazzi, che potrebbero ostacolare l’attenzione che è necessaria ai distributori del sapere in pillole, ai performer dell’ex cathedra.

Questo è il catechismo del manifesto, non avrai altro docente al di fuori di me, ma in questo manifesto gli studenti non ci sono, se ci sono sono schierati nei banchi, attoniti ad ascoltare la voce del maestro, affascinati dal suo eloquio e dalla sua padronanza della disciplina perché, come premette il manifesto, bontà sua: “..quello tra gli insegnanti e gli studenti è prima di tutto un “rapporto umano”. Grazie tante!

Ma quell’articolo “la” determinativo della nuova scuola non offre alternative al mondo fermato nell’ipostasi del sapere, della cattedra, semmai con la predella come auspicava tempo fa Galli della Loggia, dell’aula e della classe, degli orari e dei programmi, unico universo della nuova scuola.

Preoccupa che questi signori scrivano di scuola, intanto perché è evidente che non di tutta la scuola si occupano, la loro enfasi cattedratica rimanda ad un grado di scuola prevalentemente secondario. Sarebbe da brividi per bimbette e bimbetti la scuola che prospettano con maestri saputi che propinano pillole di nozioni già confezionate come quelle di Rodari, almeno per l’epoca che viviamo e per la cultura che sull’infanzia ci siamo anche a fatica conquistati, sarebbe davvero preoccupante. Forse agli estensori del manifesto sarebbe consigliabile prenotare qualche seduta presso uno degli epigoni del dottor Freud.

Restituire centralità allo studente che apprende, che in autonomia costruisce le sue conoscenze sarebbe lesa maestà.

La “nuova scuola” è in realtà la scuola di ieri, come se il mondo si fosse fermato a quando  sui banchi sedevano gli autori del manifesto. La scuola è tale solo se immobile, fotografata al tempo dello loro infanzia e adolescenza, dopo, solo la rovina, il degrado, l’imbarbarimento.

La “nuova scuola” è esattamente quella già scritta da Gentile, essersene allontanati per adeguarsi ai tempi, a nuovi bisogni educativi è stato per gli autori del manifesto un’eresia che richiede oggi una pubblica abiura.

Ma viene da chiedersi se il manifesto è il manufatto di docenti che quotidianamente vivono il rumore d’aula o il risultato piuttosto di pensieri subliminali frutto di frustrazioni che non si è più in grado di gestire e che la pandemia ha finito per esasperare.

Sconcerta che professionisti della cultura, come ogni insegnante dovrebbe essere, dimostrino di essere privi di una solida cultura scolastica, psicologica, pedagogica, didattica, ripiegati come sono nell’angustia della loro disciplina, senza considerare che ormai non esiste disciplina che non viva dell’apporto delle altre. Non si nasce insegnanti, e non è sufficiente essere esperti di una disciplina per essere dei bravi docenti. Essere docenti richiede quel molto di più di cui il manifesto non scrive, perché l’unica idea su cui regge tutto il manifesto è la nostalgia del carisma. Io, disciplina e carisma, si potrebbe dire. Una visione narcisistica dell’insegnante artigiano del sapere, ma non tutti sono dei poeti e se uno il carisma non ce l’ha non se lo può inventare. Socrate e peripatetici restano confinati alle pagine dei manuali di storia della filosofia, bisogna farsene una ragione.

Di fronte alla restaurazione proposta da questa millantata “nuova scuola” anche il pensiero del buon Dewey agli albori del secolo scorso, quando nelle scuole del nostro paese prendeva corpo l’idealismo gentiliano, suona eretico nel suo pragmatismo, ma noi vogliamo concludere citandolo da Scuola e Società: “È la nostra un’educazione dominata quasi interamente dalla concezione medioevale del sapere. Essa si rivolge in gran parte soltanto al lato intellettuale della nostra natura […] non già ai nostri impulsi e alle nostre tendenze a fare, a costruire, a creare, a produrre sia per scopi utilitari sia per scopi artistici. […]  Ne consegue che noi scorgiamo dovunque intorno a noi la divisione fra persone “colte” e “lavoratori”, la separazione della teoria dalla pratica”.

La “nuova scuola” del manifesto non è certo la “scuola nuova” di cui hanno necessità i nostri giovani per vivere in questo millennio, per affrontare le sfide che attendono loro e non certo chi oggi siede in cattedra a cui competerebbe la responsabilità di attrezzarli per il futuro, un futuro che non consente di guardare indietro, di rifugiarsi nel passato, solo perché è l’unica coperta di Linus che si possiede di fronte alla propria impotenza intellettuale e culturale.

L’Istruzione distorta

Photo by Katerina Holmes on Pexels.com

La consideravo archiviata, appartenere ad altri tempi, una sorta di attrezzo arrugginito del secolo scorso, riposto in soffitta tra la polvere delle cose da abbandonare all’usura del tempo. Poi l’espressione in questi lunghi mesi stravolti dalla pandemia ha iniziato a salire di tono, a ridondare nel lessico ministeriale e in quello scolastico: la “comunità educante”.

Incuriosito sono tornato a leggere la lettera che il 27 marzo 2020 la ministra Azzolina ha indirizzato alla comunità scolastica nella quale l’espressione “comunità educante” ricorre ben due volte. Non c‘è documento ministeriale dall’inizio della pandemia in cui compaiano espressioni come società della conoscenza, apprendimento permanente, come se le nostre istituzioni scolastiche fossero calate in un altro mondo, quello ancora del secolo scorso insieme alla loro scarsa familiarità con le nuove tecnologie.

Nel lessico che i nostri padri costituenti hanno utilizzato a proposito della scuola termini come educare, educazione, educante non compaiono mai.  Agli articoli 33  e 34 della nostra Costituzione istruzione è l’unica parola usata: “istruzione” e non “educazione”, e se si riflette sulla composizione dell’assemblea costituente, sulle sue differenti fonti di ispirazione, non si può che convenire che si sia trattato di una scelta soppesata e voluta. Anzi, a proposito di Enti e privati si provvede a sottolineare la distinzione tra “scuole” ed “istituti di educazione “. Precipuo delle scuole statali è l’istruzione, mentre il compito di “educare” attiene ai genitori come recita l’articolo 30: “E` dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.” 

Istruzione, dunque, e il Ministero è della Pubblica Istruzione, anche se ora gravemente privo di “pubblica”, non c’è un “Ministero dell’ educazione” e, quindi, neppure alcuna “comunità educante” di Stato. Per chi ha perduto la memoria e ancora rincorre le comunità educanti sarà utile ricordare che il Ministero dell’ Educazione Nazionale è opera del regime fascista ed è stato soppresso nel 1944.

L’ identificazione della scuola con l’educazione è una forzatura della tradizione personalistica che ha contrassegnato nel dopoguerra la cultura dei nostri governanti e che si è espressa nella “formazione della persona e del cittadino” come finalità di volta in volta prescritta dai programmi scolastici dei vari ordini e gradi. Ma si tratta di sovrapposizioni che risentono degli anni e dei vari governi che si sono succeduti nel tempo.

La scuola in quanto comunità educante fa la sua apparizione come assoluta novità, tra la distrazione generale, con il primo CCNL del Comparto Istruzione e Ricerca relativo al triennio 2016-2018. L’articolo 24, richiamando l’articolo 3 del Testo Unico in materia di istruzione (Decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297), detta: “[…] la scuola è una comunità educante […] volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni.”

La curiosità consiste nel fatto che nel citato articolo 3 del Testo Unico il legislatore usa l’espressione “comunità scolastica” “che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica”. Ora come sia possibile il passaggio da “comunità scolastica” a “comunità educante” è  spiegabile solo attraverso un pregiudizio culturale di chi ha steso le norme del contratto in questione.

E poi chi sarebbe il depositario della funzione educativa nella comunità educante costituita dalla comunità scolastica? Gli attori citati dall’articolo 24 del CCNL? È scritto: “Appartengono alla comunità educante il dirigente scolastico, il personale docente ed educativo, il DSGA e il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, nonché le famiglie, gli alunni e gli studenti che partecipano alla comunità nell’ambito degli organi collegiali previsti dal d.lgs. n. 297/1994.”

Dei soggetti citati, la nostra Costituzione attribuisce alla sola famiglia il compito dell’educazione e, dunque, quali sarebbero i protagonisti della comunità educante legittimati ad educare?

Il contratto in questione all’articolo 25, relativo all’Area docenti, distingue il personale docente da quello educativo essendo, quest’ultimo, il personale dei convitti e degli educandati femminili. Tutti gli altri sono docenti dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di 2° grado.

Dal Testo Unico in materia di istruzione ai contratti collettivi nazionali del lavoro succedutisi dal 1994 al 2009 non c’è norma relativa alla funzione docente che contempli l’educazione tra le competenze degli insegnanti.

L’artico 396 del testo unico citato detta: “La funzione docente è intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità”.
Successivamente il dettato del legislatore relativo alla funzione docente è stato aggiornato in rapporto alle conoscenze acquisite nell’ambito delle ricerche in campo psico-pedagogico, così già nel CCNL del quadriennio 1994 – 1997 “l’attività di trasmissione della cultura” come esplicazione essenziale della funzione docente viene sostituita dalla realizzazione del “…processo di insegnamento/apprendimento volto a promuovere lo sviluppo umano, culturale, civile e professionale degli alunni, sulla base delle finalità e degli obiettivi previsti dagli ordinamenti scolastici definiti per i vari ordini e gradi dell’istruzione dalle leggi dello Stato e dagli altri atti di normazione primaria e secondaria”.  

Dunque non “educazione” e neppure “trasmissione della cultura”, ma “processo di insegnamento/apprendimento”, qualcosa di dinamico e articolato, monitorato nei suoi input e nei suoi output. Processo che definisce “i vari ordini e gradi dell’istruzione”. 

La funzione docente nella sua traduzione normativa resta sostanzialmente inalterata fino al contratto del quadriennio 2006 -2009, accanto ad essa si evolve il profilo professionale del docente nel quale mai compaiono riferimenti a compiti e finalità educative.

Il profilo professionale fa del docente un professionista della cultura in considerazione delle competenze che gli sono richieste da quelle disciplinari a quelle pedagogiche, metodologiche – didattiche, organizzative, relazionali e di ricerca “tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano ed approfondiscono attraverso il maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio, di ricerca e di sistematizzazione della pratica didattica”.

Con il contratto di Comparto del 2018 il profilo docente si arricchisce di due competenze, fino ad allora assenti: informatiche e linguistiche. Competenze informatiche che l’inaspettato ricorso alla didattica digitale a distanza ha messo a dura prova, rivelandone nella maggioranza dei casi la totale fragilità.

È sorprendente come con questo contratto del Comparto Istruzione e Ricerca scompaia la funzione docente intesa come processo di insegnamento/apprendimento per cedere il posto all’azione “della comunità educante al centro della quale si colloca la progettazione educativa e didattica definita dal piano triennale dell’offerta formativa”.

La funzione docente si realizza come “prestazione professionale […] nel quadro degli obiettivi generali perseguiti dal sistema nazionale di istruzione”. Come si concilia, dunque con la “comunità educante”? Comunità educante o Sistema nazionale di istruzione?

Al momento nessuna legge nazionale ha sancito la mutazione del sistema scolastico in comunità educante, a meno che non si sia  deciso di affidare la riforma mai riuscita della scuola alla contrattazione tra le parti del Comparto Istruzione e Ricerca.

L’ultimo tentativo di riforma omnibus è stato compiuto con la legge 107 del 2015 che prometteva la Buona Scuola. In quella legge di comunità educante neppure l’ ombra, anzi l’articolo 1 e unico, con i suoi 212 commi, esordisce con la volontà del legislatore di “affermare il ruolo centrale della scuola nella società della conoscenza”. La scuola è intesa come “comunità attiva, aperta al territorio”, come “comunità professionale scolastica”.

Ora sarebbe giunto il tempo di rivolgere seriamente, senza slogan e giochi di parole, l’attenzione al Sistema Nazionale dell’Istruzione, alla preparazione professionale dei suoi professionisti per portarli all’altezza della qualità dell’Istruzione che è dovuta ai nostri giovani per crescere e realizzarsi nella società della conoscenza, nella società del capitale umano, nella società dell’apprendimento permanente del nuovo millennio ormai avanzato.

Piano Estate: prove tecniche di educazione permanente

Credo che scuola e territorio non abbiano mai visto piovere tanti soldi quanti quelli messi a disposizione dal ministro Bianchi con il suo “Piano estate”, da giugno a settembre, per “potenziare l’offerta formativa extracurricolare, il recupero delle competenze di base, il consolidamento delle discipline, la promozione di attività per il recupero della socialità, della proattività, della vita di gruppo delle studentesse e degli studenti…”

Troppi mesi di scuola strana, di scuola anomala, di opportunità perdute. E, dunque, il sistema formativo del paese è a debito nei confronti dei suoi giovani. Sistema formativo che non è solo scuola, ma anche territorio con tutte le sue risorse umane e materiali, la rete dei “patti di comunità” proposta dal comitato scientifico quando era presieduto dal professor Bianchi.

Ora la sfida è alta, le risorse non mancano e si chiede agli istituti scolastici di svolgere il ruolo di registi, di aggregatori dei vari soggetti, di proporre progetti, di chiamare in campo gli attori.

La scuola che disegna il Piano estate è tutto ciò che non è mai stata la scuola italiana: la scuola come polmone sociale e culturale della comunità, la scuola che non chiude, la scuola che non è mai stanca di fare istruzione, di promuovere e organizzare apprendimenti. La scuola dove apprendimenti formali, non formali e informali si incontrano e si valorizzano, la scuola della autonomia intesa come risorsa anziché come condanna.

La scuola aperta, aperta sempre ai bisogni delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi, adolescenti, giovani, ai bisogni degli adulti che devono accompagnare e sostenere le nuove generazioni.

Non ci sono margini di interpretazioni, il mandato è chiaro: aprire la scuola significa aprire le classi ai gruppi di apprendimento, aprirsi all’incontro con “altri mondi”, del lavoro, delle professioni, del volontariato, come pure aprirsi all’ambiente, radicarsi nel territorio, realizzare esperienze innovative, attività laboratoriali dentro e fuori della scuola.

È ciò che noi negli anni settanta del secolo scorso, affascinati dal pensiero pedagogico di Bruno Ciari, chiamavamo sistema formativo integrato. Sperimentare un modo nuovo di essere della scuola sul territorio e del territorio di essere accanto alla scuola.

Ma il tempo è passato e oggi siamo Europa, l’Europa del Manifesto di Lisbona del 2000, l’Europa della società della conoscenza, dell’istruzione permanente, delle città che apprendono, delle città della conoscenza.

Ora misuriamo con mano i nostri ritardi e a pagarli sono state le nostre ragazze e i nostri ragazzi durante tutti questi mesi di pandemia.

Il “Piano estate” del ministro avrebbe dovuto corrispondere alla normalità, all’ordinarietà dell’istruzione diffusa sul territorio, calarsi nel tessuto di territori ricchi di opportunità, di luoghi e di spazi per un apprendimento e una crescita culturale diffusi.

Sentire ancora usare terminologie come “comunità educante” non fa altro che riconfermare i danni dei nostri ritardi politici, le nostre responsabilità per gli atti mancati, per l’impreparazione culturale sul versante della formazione per l’intero arco della vita delle persone. 

Recuperare non è facile, specie se non si è preparati culturalmente, specie se scuola e territorio non si sono mai considerati come un tutto unico e integrato per la crescita delle persone. La proposta innovativa del ministro rischia oggettivamente di esaurirsi, quando va bene, nel chiuso, delle scuole.

Le disposizioni attuative invece sollecitano i Dirigenti scolastici, i Consigli di Istituto, i Collegi dei Docenti, in definitiva gli organi di governo delle nostre scuole, a farsi promotori e  registi di progetti che coinvolgano gli enti locali, le istituzioni culturali, il mondo del lavoro, le associazioni, il terzo settore secondo un principio di sussidiarietà per offrire ai giovani del loro territorio un’estate diversa in una scuola diversa. La circolare ministeriale invita a “modalità scolari innovative”, “sguardi plurimi”, “apporti differenziati”, ad una scuola aperta, dischiusa al mondo esterno.

Il piano estate del ministro Bianchi più che un ponte tra la fine dell’anno scolastico e l’inizio del nuovo, disegna una possibile transizione verso una scuola nuova, una scuola come da tempo vorremmo che fosse e ancora non è. 

Un anticipo di quei cambiamenti che dovranno essere avviati e realizzati con i miliardi della Next Generation EU destinati alla scuola.

Occorrono energie generose, intelligenza, lungimiranza difficili da mettere in campo senza una presa di coscienza nuova del ruolo professionale di chi lavora per l’istruzione, la ricerca e la cultura, occorrono territori che vivano la scuola come il cuore pulsante delle loro realtà.

La sfida è, dunque,  per le scuole e per i territori. Ci sono luoghi che hanno una tradizione di estati ricche di offerte per bambini e ragazzi, dai centri estivi alle iniziative di associazioni, volontariato, cooperative e parrocchie. Ora le opportunità si arricchiscono ulteriormente, ogni istituzione scolastica potrà contare su considerevoli finanziamenti. Allora perché non mettere insieme le idee, i progetti, unire le forze e le risorse, fare rete per uno straordinario “Piano Estate” da offrire alle bambine e ai bambini, alle ragazze ai ragazzi delle nostre comunità? Istituti scolastici, amministrazioni comunali, mondo del lavoro, parrocchie, volontariato, cooperative, istituzioni culturali possono lavorare insieme per offrire ai nostri giovani e alle loro famiglie una pluralità di offerte formative, ricreative, sociali tra cui scegliere, un’estate molto più ricca di quelle che finora abbiamo conosciuto, mirata a colmare i vuoti che si sono creati nella formazione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, impegnata a compensare ciascuno di ciò che ha perduto.

Credo che dovrebbero essere soprattutto le istituzioni scolastiche a sollecitare le amministrazioni locali perché si facciano promotrici di un tavolo intorno al quale riunire tutti i soggetti che possono contribuire a progettare quest’estate “unica” per i nostri figli e nipoti. Dovrebbe essere interesse di tutte le comunità, in questo particolare momento che stiamo vivendo dare un segnale importante, dotarsi di un grande “Piano estate” per i propri giovani, dai più piccoli ai più grandi. L’opportunità l’offre il ministero dell’istruzione, ma occorre darsi da fare, perché qui si vedrà di quale qualità è la stoffa che costituisce il tessuto sociale del nostro paese.

Si è rotto il “patto educativo”, ma la “premura” ne può scrivere uno nuovo

*Ledro Land Art

Oltre oceano, l’editorialista del New York Times David Brooks ha recentemente scritto che virtù come gentilezza, correttezza, onestà e rispetto sono sottovalutate e che nessuno si batte più per esse. Il rischio è vivere un futuro in cui  leader, media e influencer ci abbiano convinto che tutte le persone sono intrinsecamente manipolatrici, egoiste e meschine. Gli atti di compassione sono per i perdenti. E peggio di tutto, i concittadini non si fidano l’uno dell’altro perché ci è stato insegnato che tutti sono bugiardi, senza scrupoli o imbroglioni e che si preoccupano solo di se stessi.

Si capisce perché negli Stati Uniti si diffondano organizzazioni come “Character” con l’obiettivo di promuovere nelle scuole l’educazione della personalità e del carattere.

Il suo presidente, Arthur Schwartz, in un articolo, pubblicato da Education Week, lamenta che il tema dell’educazione del carattere e della personalità non appaia nei programmi dei contendenti alle elezioni presidenziali.

La piattaforma dei Democratici, a proposito di scuola, menziona le esigenze di salute mentale degli studenti e il supporto all’apprendimento sociale ed emotivo, mentre quella dei Repubblicani sostiene che le scuole dovrebbero insegnare “l’eccezionalismo americano”, ispirato dalla descrizione di Alexis de Tocqueville della società americana negli anni ’30 dell’Ottocento. 

Il papa, nel messaggio inviato al convegno promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali su “Educazione: il Patto Globale”, denuncia che si è rotto il cosiddetto “patto educativo”.

Ad essere gravemente malato è il tessuto sociale, quello che la storia ha confezionato finora e all’interno del quale sempre più ci stiamo trasformando in tanti analfabeti della convivenza civile.

Qualcosa non funziona più correttamente nel rapporto tra scuola e società e riunire gli sforzi, ricomporre una alleanza educativa ampia richiede innanzitutto di comprendere, dove il tessuto si è lacerato e perché. 

Abbiamo fallito nel raggiungere l’obiettivo che il nostro sistema educativo di istruzione e di formazione si era dato: “la crescita e la valorizzazione della persona umana”.

Ora ci accorgiamo di individualismi e di solitudini esasperate, senza renderci conto di essere stati noi a coltivarle, spezzando il legame originale tra Io e Tu, con lo spersonalizzare e il reificare le persone a partire da quel tragitto che ci ostiniamo a chiamare educazione.

Il nostro rapporto con gli altri è un aspetto essenziale del nostro “essere”, ed è proprio questo rapporto ad essere sempre più minacciato. Il crescere esponenziale di una cultura della violenza tra i giovani, non solo nel nostro paese, è la conferma che qualcosa di molto importante si è spezzato.

L’epidemia in tutto il mondo ha riproposto la fragilità delle categorie su cui si fonda il rapporto tra la scuola e la società. 

Deciso il lockdown degli istituti scolastici, la preoccupazione prima non è stata per gli apprendimenti che bambine e bambini, ragazze e ragazzi avrebbero perduti, ma sul come poter gestire una vita che improvvisamente comprendeva a pieno tempo l’ingombro dei figli. L’incompatibilità tra il mondo quotidiano degli adulti, attivo e produttivo e il pianeta giovani, dall’infanzia all’adolescenza.

È emerso con prepotenza lo spettro della scuola come luogo dell’isolamento, della  distanza dalla vita degli adulti, della quarantena dei giovani dalla società, Non il luogo dello studio e dell’apprendimento, ma il contenitore della necessaria separazione tra generazioni distanti, dove altri adulti svolgono la funzione di mediare tra i due mondi differenti.

Nessuno ha avvertito che qualcosa di insensato prendeva corpo, come l’ostinarsi nel continuare a crescere i giovani lontani da sé, dagli altri e dal mondo. Divisi da se stessi e dalla loro identità, per assumere quella di scolari, alunni e allievi, in una sorta di schizofrenia istituzionalizzata. Perché è convinzione generale che sia normale procedere così, così si è sempre fatto. Si è sempre fatto di allevare una gioventù in conflitto con gli adulti, salvo poi scandalizzarsi se i conflitti degenerano nei comportamenti di devianza sociale.

Non abbiamo pensato mai che forse si potevano mescolare le vite, che la distanza tra mondo degli adulti e i ragazzi si sarebbe potuta accorciare, se non abbattere, con il vantaggio di farli sentire parte responsabile di quel mondo fin da piccoli, senza la stupida trafila dei riti di passaggio che ci siamo inventati. 

Non abbiamo bisogno di fare ritorno a lessici abbandonati da tempo come “carattere” e “personalità”, forse la chiave per riscrivere quel patto educativo che si è rotto, sta in una parola sola: “premura”.

Una società che non ha premura per i suoi giovani, finisce che poi li perde per strada, come sta sempre più avvenendo in modo allarmante.

Premura significa che i giovani devono crescere a fianco degli adulti, non distanti da loro, formarsi sentendo di condividere la medesima vita, ognuno con le proprie peculiarità, che non c’è una vita di serie A che seguirà a una vita di serie B.

Dall’esperienza del Covid dovremmo aver appreso che la premura per i nostri giovani, grandi e piccoli, è ben più complessa dei banchi di scuola da recuperare. Che dovremmo ripensare le nostre città, la loro organizzazione, il nostro modo di vivere tornando a farci carico dell’altro che per crescere ha bisogno di tutti noi, non solo di insegnanti e scuole a cui delegare quello che non sappiamo più fare.

“Non si può educare senza indurre alla bellezza” scrive il papa nel suo messaggio alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, e che “un’educazione non è efficace se non sa creare poeti”. 

Ma la bellezza o si vive od è puro estetismo, come non si possono formare poeti, se la vita non induce alla poesia. Sono apprendimenti sterili quelli che si ricevono sui banchi di scuola, se bellezza e poesia non scaturiscono dal viverle insieme, coinvolti dagli adulti, in un processo di formazione che non può che essere olistico, dalla cui responsabilità nessuno dei soggetti sociali può sottrarsi. 

Se fossimo il paese delle “Città Educative” …

Sono tornato a leggere in questi giorni la Carta delle Città Educative. Compirà trent’anni quest’anno, perché è nata dal primo congresso celebrato a Barcellona nel novembre del 1990. In quel documento sono raccolti i principi basilari per la spinta educativa delle città. La Carta è stata poi revisionata in occasione del III° Congresso Internazionale tenuto a Bologna nel 1994 e in quello di Genova del 2004 per adattare la sua impostazione alle nuove sfide e necessità sociali.

L’ho ripresa in mano perché continuava a stonarmi nell’orecchie il fatto che la ministra dell’istruzione Azzolina, nelle linee guida per la ripresa scolastica autunnale, avesse scelto di utilizzare l’espressione “comunità educante” per invocare la collaborazione dei territori e dei portatori di interesse.

Per uno come me, che da anni continua ostinatamente a occuparsi di Città della Conoscenza, Learning Cities e Ciudades Educadoras, tutte individuate dall’Unione Europea come soggetti formativi per eccellenza del nuovo millennio, quella ‘comunità educante’ tanto novecentesca continuava a stridere.

Ora non posso dire se l’espressione scelta dalla ministra sia dovuta ad una precisa intenzionalità o, invece, sia solo il frutto di una scarsa competenza.

Un dato è però certo che, se la Carta delle Città Educative fosse stata fatta propria da tutte le città del paese e dai governi che si sono succeduti fin qui, con ogni probabilità sia la chiusura forzata delle scuole, sia la ripresa scolastica avrebbero permesso alle famiglie, a bambini e adolescenti di pagare un prezzo meno caro. 

L’impreparazione ad affrontare gli effetti della pandemia sul piano educativo non è stata solo della scuola, ma anche dei territori e delle nostre città.  Sento già chi osserva che negli altri paesi non è andata meglio. Certo, ma questo non può esimere da aprire una riflessione su che cosa avrebbe potuto accadere, se nelle nostre città da tempo fosse diffusa, organizzata e funzionante un’ampia rete di istruzione permanente, tanto da dare per scontato che formazione formale e formazione non formale collaborino e dialoghino costantemente, fino a intersecarsi. Questo avrebbe prodotto una maggiore differenziazione e distribuzione dei compiti formativi tra scuole e istituzioni del territorio. Molto probabilmente avremmo avuto a disposizione una pluralità di luoghi oltre alle aule degli istituti scolastici, sarebbe stato possibile frazionare le classi in gruppi più ristretti come è avvenuto in Germania e in Inghilterra, avremmo potuto fare affidamento su più risorse umane per far fronte al  moltiplicarsi delle necessità di insegnamento e per non lasciare i più piccoli tanto a lungo confinati in casa, coinvolgendo oltre al personale scolastico e agli educatori comunali, insegnanti messi a disposizione dall’associazionismo e dal volontariato, figure di esperti disposte a farsi carico di sostenere lo studio delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Le nostre città sarebbero state più smart, così da poter contare su pratiche di didattica a distanza e sull’utilizzo di reti digitali da tempo già collaudate. 

Le linee guida per la ripresa autunnale avrebbero avuto come destinatari le reti educative territoriali anziché auspicare il coinvolgimento di fantomatiche comunità educanti.

Insomma l’emergenza non sarebbe stata affrontata con un occhio tutto ed esclusivamente ripiegato sulla scuola, dai banchi alle distanze.

L’Aice è l’Associazione Internazionale delle Città Educative che si è costituita a Bologna nel 1994, si tratta di una struttura collaborativa permanente tra diversi comuni europei sul tema dell’Istruzione e della Formazione Continua, di cui fanno parte quasi 500 città da 37 Paesi del mondo.

In Italia vi aderiscono altre 17 città (Siracusa, Foggia, Roma, Castelfiorentino, Ravenna, Genova, Collegno, Torino, Settimo Torinese, Brandizzo, Busto Garolfo, Orzinuovi, Brescia, Vicenza, Venezia, Sacile e Portogruaro), ciascuna con una propria rete interna di associazioni, scuole, accademie. Il Comune di Bologna fa parte di altre 8 reti internazionali.

Diciotto in tutto su 7915 comuni italiani a cui spetta il titolo di città, esattamente lo 0,22%.

Rimane senza risposta, dunque, la domanda relativa a come si sarebbe potuta affrontare l’emergenza scolastica se negli anni, a partire dai vari governi e dai ministri che si sono succeduti alla guida dell’istruzione, si fosse provveduto a incentivare in tutto il paese la diffusione delle ‘città educative’, anziché perdersi dietro la vuota retorica della comunità educante.

Se questa non è colpevole inerzia diseducativa, non saprei come definirla, inerzia diseducativa che coinvolge non solo chi amministra le nostre città, ma anche il governo e il ministro che avrebbe il compito di occuparsi di istruzione, con un occhio che guardi oltre viale Trastevere e non solo alla punta dei propri piedi. 

La grande sfida del XXI secolo è  “investire” sull’istruzione,  su ogni persona giovane o adulta, di modo che ognuno sia sempre capace di esprimere, affermare e sviluppare il proprio potenziale umano, con le proprie singolarità, creatività e responsabilità. Amministrazioni cittadine che progettano  sviluppo urbano, architetture, spazi e politiche senza mai perdere di vista che devono essere funzionali anche alla formazione continua dei loro abitanti, formazione che costituisce la vocazione, il compito prioritario di ogni città educativa, moltiplicando i luoghi e le reti dell’ apprendimento.

Ciò che preoccupa è che a livello locale come a livello nazionale in materia di formazione il pensiero si sia da troppo tempo arrestato e si continui a ragionare con le logiche del secolo scorso, quelle del novecento, da lungo inadeguate, alimentando l’impressione che per le nuove generazioni il futuro non sorgerà mai.

Ritorno a scuola. È il tempo dell’accoglienza, della narrazione, della rimodulazione.

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Si torna a scuola. Ma che scuola è quella che sta riaprendo in queste settimane di settembre?

È la scuola che improvvisamente per mesi è venuta a mancare non si sa bene se più alle famiglie che ai ragazzi, è la scuola del compagno che ieri era di banco e che ora è da tenere a distanza sociale. La scuola della ricreazione monoposto, la scuola asettica delle mascherine, dei guanti e degli igienizzanti. La scuola delle prescrizioni che si moltiplicano come non mai prima.

E perché dovremmo chiamare tutto questo “scuola”? Solo perché la scenografia è quella di sempre: l’aula, la cattedra, il banco, i compiti, le lezioni e le interrogazioni, gli orari, gli ingressi e le uscite.

Pareva cresciuta negli anni la domanda sociale di una scuola che oltre a istruire recuperasse il suo ruolo di fucina dell’educazione. Nei suoi curricoli si sono andate moltiplicando le educazioni di ogni genere, addirittura spesso le è stato chiesto di svolgere una funzione di supplenza nei confronti delle famiglie e dei genitori in crisi di ruolo e di capacità educativa.

Ora che dell’educazione ce ne sarebbe bisogno come non mai, pare che l’emergenza sanitaria l’abbia cancellata dall’orizzonte. Ce lo ricorda Umberto Galimberti che “educare” significa prendersi cura della dimensione emotivo-sentimentale dei nostri ragazzi, aiutarli a passare dalla pulsione all’emozione. La mente non si apre se prima non si è aperto il cuore, scrive il filosofo.

Non c’è solo, pertanto, l’attenzione sanitaria da allertare, c’è quella verso l’interiorità di ogni bambina e di ogni bambino, di ciascuna ragazza e di ciascun ragazzo. Come tanti mesi lontani dalla scuola li hanno cambiati. Quali segni ha lasciato la lunga convivenza in famiglia, quanto hanno appagato il loro bisogno di affetto le cure e le attenzioni ricevute, che significato ha assunto il condividere in modo più partecipato da genitori, fratelli e famigliari il frequentare la scuola sia pure a distanza. Tutti sappiamo che c’è anche il rovescio della medaglia e che per quanti la scuola era l’unico spazio di liberazione, il lockdown può aver costituito la condanna a vivere una dimensione famigliare frustrante, di privazione, quando non conflittuale, se non pericolosa. Ci sono, dunque, anche cicatrici da rimarginare, che hanno bisogno del balsamo della comunità ritrovata.

Ecco, la scuola come luogo in cui c’è sempre qualcuno che si prende cura di te, che ti accoglie in modo disinteressato e si pone a tua disposizione. La scuola del respiro ampio, la scuola dei tempi lunghi, la scuola dell’ascolto e della confidenza, la scuola della solidarietà degli insegnanti e dei compagni, il luogo dove condividere emozioni che sono uniche.

Ciò che andrebbe evitata è la fretta di sedersi alla cattedra e al banco, di riprendere a insegnare per recuperare il tempo perduto, lasciando le vite di prima, le vite del vuoto scolastico, fuori dalle aule.

Il progetto educativo della ripresa avrebbe bisogno di tre passaggi: accoglienza, narrazione, rimodulazione.

Accoglienza per tornare a riconoscersi, per scoprirsi mutati e quanto, per comunicarsi cosa si pensa di aver perduto e che aspettative si nutrono, per pronunciare promesse e rilanciare prospettive. Quali sono i bisogni a cui ciascuno vorrebbe che la ripresa scolastica rispondesse. Riprendere il filo interrotto, da dove ci eravamo lasciati e progettare i prossimi cammini. Parlare di noi e dell’effetto che fa ritrovarsi. Quanto ci sono mancati il gioco e l’aula. Quanto è mancato il calore della stare insieme, del condividere idee, saperi e anche conflitti.

Narrazione di come è stato vissuto il tempo forzato dell’extrascuola, le ansie, i timori, le relazioni, i pensieri maturati. La vita vissuta in famiglia, mesi lontani dai propri compagni, il desiderio di fuga e di ribellione. Esperienze di maggiore armonia o, al contrario, di maggiore attrito con i genitori e gli adulti in generale. La perdita di spazi di autonomia, le rinunce, i social come l’unica finestra aperta sugli altri, la compagnia dei propri device divenuti gli amici preziosi con cui vincere la gravità del tempo sospeso. La scoperta del guscio con cui ci si è difesi dall’esterno, dalla presenza invadente degli altri in famiglia, il richiudersi in se stessi, la fuga nella lettura, nei film scaricati, negli auricolari che sparano la musica. Scoprire d’essere un’isola e di aver vissuto come in un’isola. La rivelazione a se stessi di se stessi, della compagnia che ci si può fare quando ci si ritrova soli a tu per tu con il proprio io. Maggiore o minore stima di sé, maggiore o minore fiducia nelle proprie risorse e potenzialità. Depressione o resilienza. La narrazione per trovare uno specchio negli altri, riflettersi nelle compagne e nei compagni, in testimoni a cui credere ed affidarsi come gli insegnanti che ti aiutano a parlare delle tue esperienze, a ripercorrerle, non per rimuoverle ma per comprenderle, comprenderle nella mappa della propria storia.

In fine la rimodulazione. Il rapporto con la scuola che non può essere più quello di prima. A scuola i bisogni non sono mai stati uguali e se la scuola di prima li uniformava ora non è più possibile, perché l’emergenza ha portato alla luce una scuola traumatizzata, una scuola ferita, di una ferita che per essere rimarginata ha bisogno della cura di studenti e insegnanti.

Rimodulazione significa che la ripresa del cammino deve essere personalizzata, perché non si esce da mesi senza scuola tutti uguali, i pesi portati sono stati differenti, come diverse erano le forze per reggerli. C’è un lavoro di ricomposizione di ciò che per ciascuno si è indebolito o è andato in frantumi, con attenzioni e modalità che inevitabilmente variano per ognuno. Rimodulare il fare didattica tra presenza e distanza, cercando di annullare la lontananza prodotta dall’on-line. Rimodulare la classe in gruppi differenti, non per età ma per necessità educative, per bisogni e tempi di apprendimento sempre più personalizzati. Utilizzare gli incontri in presenza per organizzare il lavoro che si farà a distanza, per evitare la divaricazione tra il dentro e il fuori, per impedire che la distanza si traduca per qualcuno in un accumulo di svantaggi.

Rimodulazione significa flessibilità dei curricoli, degli spazi e degli orari, dell’uso delle figure professionali, docenti, educatori, insegnanti di sostegno, esperti, attori del territorio.

Rimodulazione suggerisce di ripensare il rapporto tra apprendimenti formali e apprendimenti non formali, come riconoscere competenze acquisite non direttamente a scuola, semmai nell’impegno e nello studio individuale. Riconoscere con un sistema di crediti i saperi acquisiti al di fuori della programmazione scolastica. Ibridare il sistema non solo con la didattica a distanza, ma con il riconoscimento delle competenze da ciascuno acquisite per altre vie non necessariamente formali.

L’eccezionalità della situazione dovrebbe suggerire di predisporre per ogni bambina e bambino, per ogni ragazza e ragazzo un patto formativo, un contratto formativo tra scuola, studente e famiglia in cui definire l’impegno di ciascun soggetto, il percorso di studio, le sue modalità, le tappe  e gli obiettivi da raggiungere in funzione delle necessità individuali. Cosa si impegna a fare la scuola, cosa si impegna a fare la famiglia, cosa mi impegno a fare io. Predisporre il profilo di tutor a cui affidare gruppi di studenti, grandi e piccoli, incaricati di prendersi cura di loro, di seguirne i processi di apprendimento, sostenerli e indirizzarli, da incontrare a scuola nei pomeriggi o da visitare a casa.

Non resta che augurare ai nostri ragazzi e a noi stessi che i mesi di assenza forzata dalle aule non abbiano messo in quarantena anche i cervelli e che il ritorno a scuola offra loro la gradita sorpresa di beneficiare di qualche idea nuova in più, non solo per l’oggi ma anche per il futuro.

*La copertina è tratta da The Wall Street Journal

*Pubblicato anche da: https://www.edscuola.eu/wordpress/?p=135062https://www.ferraraitalia.it/ritorno-a-scuola-e-il-tempo-dellaccoglienza-della-narrazione-della-rimodulazione-215364.html

Dallo spazio che “insegna” allo spazio che “consegna”*

Quando c’era Profumo. Chi lo ricorda? Sono nove anni, poco meno di due lustri, eppure sembra un’epoca lontana, ancora appartenere al secolo scorso. Profumo è stato ministro della pubblica istruzione nel governo Monti. Nel 2012 si è intestato un convegno, tenuto a Roma, molto importante, con una sineddoche per tema: “Quando lo spazio insegna”, nuove architetture per la scuola del nuovo millennio. 

La scuola open space, senza aule, né corridoi. Dove studenti e insegnanti lavorano in modo collaborativo, sfruttando le possibilità offerte da internet e dalle tecnologie della comunicazione. Una scuola aperta tutto il giorno, disponibile alle contaminazioni con il territorio: scuola vera e propria al mattino, centro sportivo e di aggregazione al pomeriggio, centro di formazione per gli adulti alla sera. Queste, nelle parole del ministro di allora, le conclusioni del convegno, perché la scuola della società della conoscenza richiede spazi modulari e polifunzionali, facilmente configurabili ed in grado di rispondere a contesti educativi sempre in evoluzione.

Il suggerimento uscito dal convegno era quello di alzare lo sguardo sulle esperienza delle  scuole europee che avevano intrapreso un percorso di ripensamento dell’ambiente di apprendimento. 

Siamo al dunque, e la legge sull’edilizia scolastica è ancora quella dal 1975, con le aule come unità didattica. Ora che si studiano gli spazi il principio è sempre lo stesso.

Quando si deve mettere in sicurezza un luogo o lo si chiude o, se si tiene aperto, occorre considerare attentamente l’uso a cui è destinato quel luogo e quali attività in esso si svolgono.

Non so chi abbia coniato la pessima espressione “classi pollaio”, so però che la promessa di eliminarle contiene un inganno, perché anche quando si riducesse il numero dei polli il pollaio resterebbe sempre un pollaio. La scuola magazzino, la scuola silos di generazioni non funziona più, non da oggi, ma da tempo. Un tempo nutrito di riflessioni pedagogiche e di esperienze, ma sempre un tempo che la scuola ha tenuto distante da sé.

E, dunque, si continua ad ignorare la necessità di aprire il pollaio, di abbattere le mura del magazzino, di demolire i silos. Ci si comporta come se fosse scoppiata l’aftaepizootica e la soluzione consistesse nel distribuire gli animali in più stalle a ruminare come prima.

Con “andare a scuola” noi intendiamo l’impegno ad apprendere e a studiare, che però non vuol dire per forza di cose stare tutti insieme in una aula ogni giorno per duecento giorni all’anno, come non significa che giunge un momento nella vita di ciascuno di noi in cui si smette di “andare a scuola”, nel senso che si cessa di studiare.

Un aspetto su cui è opportuno fare chiarezza è che “cultura” e “educazione” sono due cose distinte che non vanno mischiate tra loro come spesso invece ci accade di fare.

La questione se la poneva Lev Tolstoj intorno agli anni Sessanta del diciannovesimo secolo. Tolstoj risolve il problema sostituendo al concetto di educazione quello di ‘cultura’, sostenendo che si deve operare una netta distinzione tra le nozioni di cultura, educazione, istruzione e insegnamento.

La cultura è la somma di tutte le esperienze che formano il nostro carattere, mentre l’educazione è il prodotto della volontà di plasmare la personalità e il comportamento delle persone. Ciò che differenzia l’educazione dalla cultura è, dunque, ‘il carattere coercitivo’, l’educazione è cultura obbligatoria; la cultura è libertà.

Sto sostenendo che volendo riaprire le scuole a settembre, prima sarebbe stato necessario decidere cosa farci dentro a quegli edifici: organizzare il pollaio in funzione della  sicurezza o organizzare la sicurezza in funzione del riprendere a fare cultura?

L’edificio scolastico è un luogo di studio dove i processi di apprendimento sono individualizzati, né più ne meno delle cure mediche, dove si promuove l’autonomia,  vale a dire il camminare da soli con le proprie gambe nei territori della cultura, avendo grande attenzione alla qualità dei compiti a ciascuno richiesti. La scuola non può che essere il luogo della flessibilità, della scomposizione e della ricomposizione di spazi, gruppi, esperienze e relazioni. Alla scuola non servono piani d’appoggio, ma tavoli da lavoro, le sedute con il piano ribaltabile vanno bene per l’aula magna, per la sala delle conferenze, non certo per spazi laboratorio, intendendo per laboratorio “i saperi operosi”, l’operosità del sapere. L’apprendimento come processo culturale, mai statico ma sempre dinamico. Allora la sfida mancata è quella di riaprire a settembre degli ambienti di apprendimento, degli spazi dove si svolge la cultura, anziché i silos e i magazzini che continuano a contenere generazioni dopo generazioni.

Il tempo ci sarebbe stato già prima, ma volendo, anziché usare la demagogia delle classi pollaio come specchietto per le allodole, sempre che si avessero delle idee e delle riflessioni in testa, si sarebbe potuto lavorare fin da marzo per predisporre nuove scenografie, nuove regie degli apprendimenti, della cultura e dei saperi. 

Invece si è nominato un commissario al grande Moloch, senza considerare che in un luogo in cui si fa cultura l’uso dello spazio oltre ad essere dinamico è dialettico. Varia dai progetti, dai percorsi didattici, dalle proposte di lavoro, dai conflitti, dalle strumentazioni di cui si dispone, insomma da quello che si intende fare che non sempre è identico a se stesso e da quello che avviene che non sempre è anticipabile. Gruppi che possono essere anche numerosi, con le necessarie misure di sicurezza, se si tratta di un video o di una conferenza, gruppi più piccoli, monadi che necessitano di spazi in cui gli arredi siano fruibili in modo da permettere sia il lavoro singolo che cooperativo e agli insegnanti di muoversi da un’isola all’altra, di avere un rapporto uno a uno quando necessario.  Aule atelier in cui si può essere anche in diversi e mantenere le distanze, aule di musica dove l’apprendimento dello strumento musicale avviene con la presenza di poche unità di alunni per volta. Se si suona il flauto e la chitarra in forma orchestrale lo si può fare in spazi ampi. E poi c’è il territorio con le strutture e le istituzioni culturali che offre, dunque, una distribuzione degli spazi che va ben oltre l’aula. In questa prospettiva ci sta anche l’ibrido con la didattica a distanza che può funzionare da tutoraggio di ciò che è già stato predisposto a lezione negli spazi scolastici o fuori sul territorio.

Infine la variabile tempo entro cui la cultura non può essere sacrificata come avviene a scuola, un tempo che va dilatato in funzione degli apprendimenti e dell’uso degli spazi. Le scuole sono gli edifici del nostro sistema culturale, pertanto non possono essere adibite alle sole necessità della didattica, come per lo più è accaduto finora, ma devono soddisfare anche quelle del territorio. Per cui non ci sarebbe nulla di scandaloso se si facessero turni di fruizione diversi in edifici predisposti con ambienti di apprendimento anziché di insegnamento, lo stesso vale per l’uso delle strutture messe a disposizione dal contesto urbano.

Da marzo il discorso sulla scuola ha conosciuto solo banchi, piani di riapertura sfornati dai comitati tecnico-scientifici e linee guida riviste e corrette. Tutto è stato enfatizzato come se la scuola fosse una vita a parte, diversa, come se le norme da rispettare non fossero quelle di tutti i giorni, distanziamento, mascherine, igienizzazione. 

Siamo transitati dallo spazio che “insegna” vagheggiato dal ministro Profumo allo spazio che “consegna”, alle bambine e ai bambini, alle ragazze e  ai ragazzi che, in tempo di Covid, sono consegnati nelle aule e nei banchi, semmai nuovi, ma sempre in fila gli uni dietro agli altri come plotoncini alla conquista della loro educazione.

Al racconto di idee, proposte e soluzioni sono mancati i professionisti della cultura, gli insegnanti, a cui neppure si è pensato di dare voce o che non hanno avuto la  necessaria autorevolezza professionale per farsi ascoltare. Epidemiologi e virologi sono saliti alla ribalta delle interviste e degli studi televisivi,  gli insegnanti hanno lavorato a distanza, verrebbe da dire in ombra, sopravanzati da una catasta di banchi che non ha mancato di riempire i palinsesti televisivi.

*Pubblicato il 25 agosto 2020 su ferraraitalia

Le linee guida che portano fuori strada*

Stop

Tanto tuonò che piovve, pare abbia detto imperturbato Socrate dopo che sua moglie Santippe gli rovesciò sul capo una brocca d’acqua.

Con altrettanta imperturbabilità accogliamo le linee guida che la ministra Azzolina ha licenziato per l’avvio del prossimo anno scolastico con tavoli e Conferenze a livello regionale e locale.

I tempi non sono stati rapidi, ma dopo comitati tecnico scientifici e task force il ministero dell’istruzione il 26 giugno ha deliberato che  tavoli e conferenze andavano convocati.

Di più, la Ministra con la sua lettera a tutta la comunità scolastica assicura che: “La scuola di settembre sarà responsabile, flessibile, aperta, rinnovata, rafforzata.”

Sì, avete letto bene, cinque aggettivi qualificativi, uno dietro all’altro di fila: responsabile, flessibile, aperta, rinnovata, rafforzata.

Incredibile, dopo mesi di lockdown, di didattica a distanza, nel giro dell’estate, a settembre il paese su tutto il suo territorio avrà una scuola che non ha mai conosciuto prima. O questi hanno lavorato duro per tutti i mesi di chiusura forzata delle scuole o al ministero di viale Trastevere sono dei veri Mandrake a partire dalla loro ministra.

Di colpo scomparsi i ritardi cronici del nostro sistema formativo, anni di tagli e assenze di risorse, differenze tra nord e sud. 

Poi a leggere di seguito capite subito che non poteva essere. Perché la ministra per “responsabile” intende misure di sicurezza, locali puliti e igienizzati, “flessibile” per via degli orari, delle classi, degli ingressi e delle uscite, “aperta” significa alla ricerca di nuovi spazi, per “rinnovata” si riferisce ai locali e agli arredi scolastici, “rafforzata” attraverso il potenziamento dell’organico scolastico.

Allora perché sprecare aggettivi così impegnativi che si prestano ad essere usati più per il contenuto dell’apprendimento e le sue modalità che per il suo contenitore. È come un abito che ha bisogno di essere rovesciato, di aggiustamenti e abbellimenti per poter continuare ad essere portato, ma per chi lo indossa nulla cambia, il tessuto è sempre quello di prima.

È la solita strategia a cui ci stanno assuefacendo, mancano i soldi, le idee e le competenze, ma non le parole roboanti con cui coprire il vuoto. Ha ragione Antonio Scurati che, sulle pagine del Corriere della Sera del 30 giugno, osserva come la pubblicazione delle linee guida, per il rientro in aula il 14 settembre , “ha raggiunto il colmo di una sequenza di incompetenze e incapacità”.

Non solo, c’è di peggio. Ad un occhio attento che non si lasci offuscare dal fumo delle parole non può sfuggire che con quelle linee guida si compie un cambio di prospettiva. Nel loro esordio, infatti, non si rivolgono al paese ma a “…un’intera comunità educante, intesa come insieme di portatori di interesse della scuola e del territorio…”

Alla “comunità educante” e ai “portatori di interesse”, gli stakeholder, come si usa dire con linguaggio anglofono. Viene da chiedersi cosa sono e dove sono le comunità educanti e i portatori d’interesse. O è il cedimento ad un lessico ormai abusato, con faciloneria e senza pesare il senso delle parole o la “comunità educante e i suoi portatori di interesse”, che per forza di cose variano da realtà a realtà, rappresenta una curvatura pensata e studiata verso l’autonomia differenziata, verso lo spezzatino della scuola della Repubblica e della Costituzione.

Un paese che rinuncia ad avere un suo sistema formativo valido per tutto il territorio per delegare l’istruzione a tante comunità educanti, e, mentre si cita a difesa delle proprie argomentazioni l’art. 3 della Costituzione, non ci si rende conto di compiere passi destinati a vanificarlo.

Quella comunità educante nasconde una preoccupante angustia di prospettiva, un’autarchia da fai da te dell’educazione, vanifica il respiro europeo che da decenni  istruzione e formazione dovrebbero avere assunto nel nostro paese.

Ci si è dimenticati, se mai è stato letto, del Libro Bianco che la Commissione europea pubblicò 25 anni fa, giusto nel 1995, in cui si affermava un concetto  nuovo di formazione, in particolare alla funzione di “educazione” si sostituiva quella di “apprendimento continuo”, non comunità educanti ma “società della conoscenza”, fondate sull’apprendimento permanente come impianto dei loro sistemi formativi a partire dalle scuole, dai loro curricoli e dalla loro organizzazione.

Scrive Scurati che per la scuola dei nostri figli pretendiamo il meglio. Certo, è il paese che innanzitutto dovrebbe pretenderlo, ma la questione del sistema formativo pare del tutto scomparsa dal nostro orizzonte concettuale e politico. 

La scuola delle linee guida non vede oltre il prossimo anno scolastico come se la questione riguardasse la sola contingenza del Corona virus. 

Il paese pare ancora sotto l’anestesia del lungo lockdown, con un letargo del pensiero e della politica, quando ci scuoteremo comprenderemo che se vogliamo recuperare venticinque anni di ritardi anche il nostro sistema formativo, vecchio di secoli nel suo impianto, ha necessità del suo Mes o comunque di una cifra almeno equivalente del Recovery fund. 

Ma perché questo possa accadere bisognerebbe realizzare il sogno che Scurati, sulle pagine del Corriere della Sera, dice di aver fatto: “Il sogno che a governare la disastrata scuola italiana ci sia una persona seria, competente, capace, una guida sicura, brillante, eccellente, una persona cui tutti noi affideremmo volentieri il futuro dei nostri figli con piena fiducia, giusta ammirazione, motivata speranza”.

Già questo potrebbe costituire il segnale di una inversione di tendenza, un promettente inizio e ci eviterebbe di finire fuori strada.

*Pubblicato anche su Educazione e Scuola

Come seduti su un vecchio baule, la scuola attende ancora il suo discorso

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È nata la didattica a distanza, di cui avevamo poca o quasi nulla esperienza. Ci siamo arrangiati come si è soliti fare nella scuola italiana ormai da sempre, acquisendo la consapevolezza di aver messo a punto uno strumento in più al servizio dell’ apprendimento, ma non certo in grado di sostituire la scuola né come luogo fisico né come offerta formativa.

Tuttavia l’emergenza di una didattica in rete ha portato con sé il venir meno, l’infrangersi dell’identificazione dell’apprendimento con la scuola. Con la scuola come edificio, con le classi, le cattedre e i banchi. L’apprendimento a distanza ha fatto delle nostre case tanti edifici scolastici e delle stanze dei nostri ragazzi tante aule. È stato messo all’angolo ciò che il tempo ha accumulato nell’immaginario collettivo, concetti e categorie da lungo sedimentati su scuola e istruzione.

Per chi non se ne fosse accorto l’abbecedario e la cartella di Pinocchio da lunga data non frequentano più la narrazione della scuola.

Ora il problema è quello di gestire l’uscita dalla cesura. Si può uscire cercando di rimettere insieme i pezzi delle abitudini di prima o facendo l’inventario di ciò che è bene conservare, di ciò che è necessario cambiare, di ciò che va definitivamente eliminato.

Se la Dad, la didattica a distanza, ha provato, se ce n’era bisogno, che si può fare scuola anche senza la scuola con i suoi annessi e connessi è evidente che si rende necessaria una riflessione per restituire smalto alla funzione della scuola.

Il mondo non era fermo prima del virus, tanto meno lo starà ora. Da tempo conoscenza, competenze, patrimonio di saperi non solo hanno cambiato volto, hanno pure mutato percorso, abbandonando i sentieri tradizionali per intraprendere strade nuove. Anziché bagaglio nozionistico, riserva di erudizione da esibire, si sono trasformati in risorsa preziosa del capitale umano. 

L’educazione permanente è divenuta una necessità, ma ancora non sappiamo praticarla, tanto che non abbiamo provveduto a moltiplicare i luoghi e le modalità dell’apprendimento oltre la scuola. Imparare è il risultato di un’orchestrazione, non è monocorde, anzi direi che è stereofonico, con una collocazione spaziale ampia, dilatata, dinamica, ma questo spartito ci siamo scordati di suonarlo.

Ora che sarebbero necessari più spazi questi ci mancano, perché non ne abbiamo approntati altri, a partire da musei, biblioteche, archivi e gallerie, teatri, dimore antiche e ancora se ne potrebbero aggiungere, luoghi spesso ostinatamente più di conservazione che di azione. Non li abbiamo attrezzati come avremmo dovuto con spazi interattivi, modulari, con ambienti per fare didattica, con la rigidità prussiana che un museo e una biblioteca non sono una scuola. Idea davvero stravagante visto che ciò che ospitano e conservano ha fatto scuola nei secoli e ancora fa scuola. L’esperienza dei laboratori didattici ancora non si è tradotta in consuetudine, in modo che sia più che naturale l’intercambiabilità tra spazi scolastici e spazi delle istituzioni culturali.

Spazi sono le classi o, meglio, le aule, come horti conclusi, senza il fascino del giardino.

Classe è termine da coscritti della leva. Qualcosa di militare che ancora resiste alle radici delle nostre scuole. L’alzarsi in piedi quando entra l’insegnante in classe, l’allineamento dei banchi, le classi assemblate per età anagrafica, il numero degli alunni, tanti plotoni pronti ad ingaggiare la lotta con il sapere, per non parlare di coloro che ancora vorrebbero bambini e bambine in divisa, con il loro grembiule. Sembra di raccontare di un altro secolo, eppure è la registrazione di quello che, incredibilmente, ancora resiste oggi, e spesso incontrando il compiacimento di tanti a partire dai laudatores temporis acti. E non ci si rende conto degli anacronismi, della muffa che pervade il proprio cervello, del vulnus di non essere riusciti ad immaginare finora altro.

Non ci sono più gli ospedali con le camerate, forse le camerate hanno abbandonato anche le caserme, le classi no, le classi sono un pilastro che come ogni cariatide che si rispetti sfida i tempi.

È come se stessimo seduti su un vecchio baule trovato in soffitta, senza avere il coraggio di aprirlo per tenere ciò che è ancora buono e gettare ciò che è divenuto inservibile.

Adesso sarebbe il momento giusto per fare pulizia, di parlarci, di confrontarci, di avviare un discorso con metodo, gli argomenti non mancherebbero.

Patti formativi, piani di studio, crediti, tutoraggio, un linguaggio che non è mai appartenuto alla scuola, ma che l’università ha da tempo fatto suo. Flessibilità e differenziazione dei percorsi potrebbero costituire gli elementi di una istruzione rinnovata a partire dal primo grado del ciclo secondario. Non più studenti che attendono il cambio dell’ora seduti in aula, ma studenti che al cambio d’ora si muovono da un laboratorio all’altro specificamente dedicato alle singole  discipline o transdisciplinare. Gli esami a conclusione del primo e del secondo ciclo potrebbero essere sostituiti da progetti concreti, la cui realizzazione dovrebbe accompagnare l’intero curricolo dello studente e sia il risultato dell’interazione tra scuola e  territorio. Oppure si potrebbe pensare qualcosa che assomigli a una vera tesi, sinossi dell’intero ciclo di studio. Quanto è ancora indispensabile la pratica degli scritti e degli orali? È proprio necessario che tutti studino le stesse discipline o si potrebbe dare spazio ad opzioni più legate ai propri interessi, alle proprie attitudini, ai propri progetti? Le discipline devono continuare a resistere come discipline o è meglio “dematerializzarle” nella  tessitura dell’intreccio dei saperi?

In territori ricchi di strutture sportive, piscine e palestre, è ancora necessario proseguire nella cultura della mens sana in corpore sano che tradizionalmente ha dato luogo alla pratica scolastica dell’educazione fisica? Movimento, sport, educazione motoria non potrebbero essere delegati al territorio anziché alla scuola?

Allo stesso modo sarebbe ora di affrontare seriamente la questione dell’insegnamento della religione cattolica nell’ambito dell’orario scolastico. 

Sono convinto che tanta pigrizia, noncuranza per il rinnovamento della scuola siano anche dovute a tare che resistono come l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica.

Liberare ore dell’orario scolastico sarebbe importante ad esempio per dare spazio ad apprendere seriamente la musica, a suonare uno strumento che non sia il flauto dolce, anziché continuare nella pratica della musica come attività per i soli baciati da dio.

Socialità e appartenenza anziché passare per le classi e le sezioni identificate con le lettere dell’alfabeto, potrebbero essere coltivate dal partecipare a gruppi orchestrali e corali scolastici o compagnie teatrali o a gruppi di filmmaker.

Educazione lungo l’intero arco della vita e scuola a “pieno tempo”, come la voleva Lorenzo Milani, avremmo voluto che si incontrassero e si intrecciassero. Non sono utopie, attendono solo il momento che la storia ce ne imponga la scrittura.

Non si tratta, dunque, di invenzioni, neppure di idee tanto nuove, semmai di esperienze e riflessioni che sono andate accumulandosi negli anni, nate non dal nulla,  ma dal vivere spesso le contraddizioni del nostro sistema formativo, dal pensare come si sarebbe potuto fare meglio, senza che mai fossero prese realmente in considerazione.

Continuiamo a reclutare insegnanti precari per una scuola precaria, perché al di là delle nostre volontà la scuola non potrà rimanere così com’è, così come l’abbiamo conservata finora. Non solo è un vecchio attrezzo è anche un attrezzo che non funziona più bene, considerata la nostra collocazione tra i paesi Ocse per i bassi livelli di competenza, l’alta dispersione scolastica e il ridotto numero di laureati.

Non è che la scuola può cambiare da un giorno all’altro e neppure che ci possiamo permettere di buttar via il bambino con l’acqua sporca. Ciò che non ci possiamo assolutamente permettere è continuare a ignorare l’urgenza di dare avvio a un discorso corale sull’istruzione, capace di raccogliere il contributo di idee e esperienze accumulate negli anni, di chiamare all’appello innanzitutto gli insegnanti, che sono i professionisti della cultura, e le intelligenze migliori, archiviando per sempre ogni nostalgia per le predelle e per le classi, perché è proprio ciò di cui non sentiamo assolutamente il bisogno. Discorso è discorrere, è percorrere una strada, è darsi un percorso, è disegnare il percorso dell’istruzione nel nostro paese.