Analisi del 2014

I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2014 per questo blog.

Ecco un estratto:

Un “cable car” di San Francisco contiene 60 passeggeri. Questo blog è stato visto circa 2.000 volte nel 2014. Se fosse un cable car, ci vorrebbero circa 33 viaggi per trasportare altrettante persone.

Clicca qui per vedere il rapporto completo.

La città che apprende

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Il giardino delle idee

 Intendiamo la città che apprende come un ambiente che innesca e consente un flusso intenso, continuo, ricco, vario e complesso di occasioni di apprendimento.

Nella letteratura sull’argomento “apprendimento” è un’esperienza umana spontanea o programmata in cui la conoscenza viene scoperta, creata, nutrita, scambiata e trasformata in una nuova forma. Esiste un ciclo della conversione del sapere in apprendimento, costituito sostanzialmente di quattro momenti: socializzazione, esternalizzazione, combinazione e internalizzazione.

Nella città della conoscenza l’apprendere avviene all’incrocio di persone, luoghi, processi e finalità.

In sostanza il momento dell’apprendimento è un dialogo tra persone in un luogo particolare, tramite processi strutturati o non strutturati indirizzati ad uno scopo esplicito o implicito.

 

Città della conoscenza

Francisco Carrillo, Knowledge Cities, 2006 (adattamento)

 

Ci sono diversi modi per esplorare e comprendere una città che apprende, usando come lente la scoperta delle occasioni di apprendimento che possono cadere sotto i nostri occhi. Visitare una città, vagando per le sue strade, anziché alla ricerca di monumenti o di testimonianze storiche, per osservare ciò che accade intorno a noi, per individuare momenti tipici o eccezionali di apprendimento e di conoscenza.

Ancora, se si avesse l’opportunità, seguire diverse persone per un giorno, scoprire come trascorrono la loro giornata e come la vivono. È un tempo pieno di occasioni di apprendimento? La città fornisce loro l’opportunità di questi momenti? Seguire per un intero giorno o per una settimana uno specifico luogo di conoscenza. Il posto è pieno di occasioni di apprendimento? Crea nuovi saperi, condivisione, scambi, scoperte, trasformazione in valore? Seguire uno specifico processo di conoscenza. Chi è coinvolto? Chi non è coinvolto? In quali luoghi si svolge? Che scopi si propone?

Sostanzialmente, una città che apprende è un collage complesso di momenti di conoscenza, tra loro interconnessi che riflettono la realtà dei cittadini. Peter Cook in The City, Seen as a Garden of Ideas(2004), propone la metafora della città come giardino delle idee.

 

La città di Zarpom

   Per molte generazioni la città di Zarpom ha goduto di una certa prosperità economica, accompagnata da stabilità sociale. Negli ultimi due decenni del 20° secolo la sua tradizionale base industriale è stata rapidamente erosa e il processo di ristrutturazione prodotto dalla globalizzazione dell’economia ha generato problemi occupazionali con la perdita di posti di lavoro, salari più bassi e taglio delle spese. Di conseguenza, mentre è calato il tenore di vita delle persone, sono aumentati gli oneri sociali. Le giovani generazioni hanno iniziato a lasciare la città.

Con i primi anni del terzo millennio, il nuovo sindaco, supportato da un consiglio comunale ambizioso, si è impegnato ad invertire questo trend di impoverimento urbano. Hanno creato una nuova strategia, che hanno chiamato “trasformare Zarpom in una città della conoscenza”. La città ha sempre avuto strutture e infrastrutture ben sviluppate e una vasta gamma di istituzioni pubbliche. Come parte della strategia di cambiamento molte di queste istituzioni ora operano come “luoghi di apprendimento”: la biblioteca comunale, il museo d’arte, la borsa, le scuole, il municipio, la piazza, il caffè, le famiglie. La mappa qui sotto fornisce una visione schematica della città.

 

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Francisco Carrillo, Knowledge Cities, 2006

 

Ma la città di Zarpom non esiste. È una invenzione di Ron Dvir, del Future Centers di Tel Aviv, fondatore di Innovation Ecology. L’ha inventata per illustrare l’idea di città della conoscenza.[1] Tuttavia molte delle occasioni di apprendimento di cui parla non sono frutto della sola fantasia, sono accaduti realmente o potrebbero essere accaduti nelle molte città che l’autore ha visitato nella sua ricerca sul significato di città che apprende. Esistono musei, biblioteche, municipi, scuole nella maggior parte delle città, e alcuni di questi sono già sulla strada per trasformarsi in luoghi che consentono e innescano occasioni di apprendimento.

Ma l’idea fondamentale che sta alla base del modello offerto da Zarpom poggia sul principio della crescita insieme, attraverso un denso flusso di momenti che producono conoscenza, tutti gli attori che operano in città concorrono alla sua evoluzione di città che apprende.

Zarpom è stata, dunque, inventata per illustrare una nuova prospettiva, quella della città della conoscenza, come tentativo di descrivere questa idea a partire dalle esperienze quotidiane di ciascuno di noi.

 

È solo l’inizio

   All’alba del secolo delle città che apprendono, stiamo venendo a patti con la consapevolezza che sempre più il destino umano si snoderà nelle città. Stiamo imparando anche che la nostra capacità di plasmare tale destino sarà determinata dalla conoscenza di noi stessi come specie urbana.

Se le città possono essere concepite come sistemi di valori, ci si può chiedere che possibilità hanno di esprimersi come potenziale e come destino umano.

Nella globalizzazione economica le città hanno sostituito gli stati-nazione. La città diviene il milieu del globalismo. Infatti, “l’inevitabilità” ha pervaso la globalizzazione urbana in quanto “l’inevitabilità” è la tradizionale giustificazione finale in mancanza di ideologie.[2]

Dal punto di vista della città della conoscenza come sistema di valori, lo spazio delle possibilità è aperto alle alternative rese possibili non solo sul piano economico o tecnologico, ma sempre più dalla conoscenza e dall’esperienza.

La città è come una pasta sfoglia, un ambiente a molti strati, di molte dimensioni culturali, economiche, sociologiche, scientifiche e tecnologiche. Ma al di là delle potenzialmente infinite combinazioni di esperienze urbane, la sfida vera è saper vivere l’enorme ricchezza degli ambienti urbani.

Questo è il cuore della città che apprende, questa è la logica della società della conoscenza. Da questo punto di vista la storia delle nostre città è solo all’inizio.

[1] Ron Dvir, Knowledge City, Seen as a Collage of Human Knowledge Moments in F.J. Carrillo, Knowledge Cities, Routledge, New York, 2011, pp. 262-290

[2] F.J. Carillo, Reconstructing Urban Experience, in F.J. Carrillo, Knowledge Cities, Routledge, New York, 2011, p. 291
 
 

I Nuovi Docenti*

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Apprendere per tutta la vita

    La percentuale degli anziani presenti sulla faccia della Terra è in aumento e quella dei giovani diminuisce, e questa tendenza continuerà se l’indice di natalità dovesse scendere e la medicina continuare ad allungare la durata media della vita. Per mantenere nelle persone più anziane l’immaginazione e la creatività e impedire che diventino un peso crescente per il vivaio sempre più ridotto della gioventù creativa, ho raccomandato molto spesso che il nostro sistema educativo venisse riformato e che lo studio venisse considerato un’attività da svolgere per tutta la vita.

Ma come si può realizzare? Dove verrebbero reperiti gli insegnanti? Comunque, chi ha mai detto che tutti gli insegnanti debbano appartenere al genere umano o anche soltanto essere animati?

Nel passato ci sono stati fondamentali punti di svolta nelle comunicazioni umane, che hanno alterato ogni aspetto del nostro mondo in maniera enorme e permanente. Il primo progresso è stata la parola, il secondo la scrittura, il terzo la stampa. Adesso ci troviamo davanti al quarto progresso nel campo delle comunicazioni, importante in tutto e per tutto quanto i primi tre, il computer. […] [1]

Supponete che durante il prossimo secolo i satelliti diventino più numerosi e più sofisticati di quelli che abbiamo messo finora in orbita nello spazio. Supponete che al posto delle onde radio il principale sistema di comunicazione diventi l’assai più capace raggio laser a luce visibile. Se le circostanze fossero queste, ci sarebbe spazio per molte migliaia di canali separati per la voce e per le immagini, ed è facile immaginare che a ogni essere umano sulla Terra potrebbe essere assegnata una particolare lunghezza d’onda televisiva.

Ciascuna persona (bambino, adulto, o anziano) potrebbe avere la propria presa personale alla quale inserire, a intervalli assegnati, la sua personale macchina istruttrice. Sarebbe una macchina assai più versatile e interattiva di quelle che potremmo mettere insieme adesso, poiché nel frattempo anche la tecnologia dei computer avrà fatto grandi progressi.

Oltre la scuola di massa

   I bambini della prossima generazione, e la società che creeranno, saranno partecipi del travolgente impatto dei computer nell’area dell’insegnamento. Attualmente la nostra società si sforza di istruire il più gran numero di bambini possibile. Il limite nel numero degli insegnanti significa che i bambini imparano in massa.

A ogni bambino, in un distretto scolastico, in una regione o in una nazione, viene insegnata la stessa cosa, nello stesso tempo, e più o meno alla stessa maniera. Ma poiché ogni bambino ha degli interessi e dei metodi di apprendimento individuali, l’esperienza dell’istruzione di massa risulta sgradevole. Il risultato è che molti adulti si oppongono all’idea di studiare nella vita postscolastica: ne hanno avuto abbastanza.

L’apprendimento potrebbe essere piacevole, persino affascinante e avvincente, se i bambini potessero studiare in maniera specifica qualcosa che li interessa individualmente, nel momento di loro scelta e alla loro maniera. Questo tipo di studio è oggigiorno possibile tramite le biblioteche pubbliche. Ma la biblioteca è uno strumento maldestro. Ci si deve andare, è possibile prendere a prestito soltanto un numero limitato di volumi, e i libri devono essere restituiti dopo un breve periodo di tempo.

È chiaro che la soluzione sarebbe quella di portare le biblioteche nelle case. Proprio come i giradischi hanno portato in casa le sale dei concerti, e la televisione ha portato il cinema, così i computer possono portare a casa la biblioteca pubblica.

I tecnobambini di domani avranno a disposizione un mezzo bell’e pronto per saziare la loro curiosità. Sapranno già in tenere età come ordinare al computer di fornir loro elenchi di materiali di ricerca. A mano a mano che il loro interesse verrà destato (e, si spera, guidato dai loro insegnanti a scuola), impareranno di più in meno tempo, e troveranno nuove strade da battere.

L’insegnamento avrà in aggiunta una forte componente di autoincentivo. La capacità di seguire una propria via personale incoraggerà il tecnobambino ad associare l’apprendimento al piacere e a crescere fino a diventare un tecnoadulto attivo: attivo, curioso e pronto ad ampliare il proprio ambiente mentale. [2]

Andare incontro all’interesse dello studente

   Possiamo ragionevolmente sperare che la macchina istruttrice sia abbastanza complessa e flessibile da essere in grado di modificare il proprio programma (vale a dire, di “imparare”) sulla base degli input dello studente.In altre parole, lo studente farà domande, risponderà a domande, farà asserzioni, offrirà opinioni, e da tutto questo la macchina sarà in grado di valutare lo studente in modo tale da poter regolare la velocità e l’intensità del proprio corso d’insegnamento e, cosa ancora più importante, di andare incontro agli interessi mostrati dallo studente.

Tuttavia non si può immaginare una macchina istruttrice personale di grandi dimensioni. Dovrebbe assomigliare a un apparecchio televisivo, per forma e dimensioni. Può un oggetto così piccolo contenere abbastanza informazioni da riuscire a insegnare agli studenti tutto quello che vogliono sapere, in qualsivoglia direzione possa condurli la loro curiosità? No, non può, se la macchina istruttrice è autonoma, cioè isolata e indipendente da ogni altra. Ma c’è bisogno che lo sia?

In qualsiasi civiltà dove l’informatica sia così progredita da rendere possibile le macchine istruttrici, ci saranno di sicuro biblioteche centrali completamente computerizzate. Queste biblioteche potrebbero essere tutte interconnesse a formare una singola biblioteca planetaria.

Tutte le macchine istruttrici verrebbero collegate a questa biblioteca planetaria e ciascuna potrebbe avere a disposizione qualsiasi libro, periodico, documento registrazione, o video che vi si trovasse archiviato. Se la macchina ne potesse disporre, lo stesso avverrebbe per lo studente, visibile direttamente sullo schermo, oppure riprodotto su carta per poterlo studiare con maggiore comodità.

 

 Insegnanti umani

   Naturalmente gli insegnanti umani non verrebbero completamente eliminati. In alcune materie l’interazione umana è essenziale: la ginnastica, la recitazione, le lezioni pubbliche, e così via. Inoltre manterrebbero il proprio valore, e interesse, quei gruppi di studenti operanti in un campo specifico, abituati a riunirsi per discutere e fare ipotesi fra loro e con esperti umani, accendendo gli uni negli altri nuove intuizioni.

Dopo questo interscambio di idee umane, gli studenti potrebbero tornare, con un certo sollievo, alle loro macchine interminabilmente informate, interminabilmente flessibili e, soprattutto, interminabilmente pazienti.

Ma chi istruirà le macchine istruttrici? Gli studenti, senza dubbio, sarebbero anche insegnanti. Uno studente che si applica a settori o attività che lo interessano, finisce inevitabilmente per pensare, fare congetture, osservare, sperimentare e, di tanto in tanto, escogitare qualcosa di proprio che potrebbe non essere noto.

Ritrasmetterebbe questa conoscenza alle macchine, che a loro volta la registrerebbero (con il riconoscimento dovuto al vero autore, c’è da presumere) alla biblioteca planetaria, rendendola così disponibile ad altre macchine istruttrici.

L’informazione verrebbe reimmessa nel serbatoio centrale per fungere da nuovo e più elevato punto di partenza per gli altri.

Così le macchine istruttrici renderebbero possibile per la specie umana la corsa in avanti verso vette e in direzioni che adesso è impossibile prevedere.

[1] Isaac Asimov, Future Fantastic, 1989 by Whittle Communications, in I. Asimov, Visioni di Robot, Tea Due Edizioni, Milano, 1995, pp. 333

[2]  Idem, pp. 334 – 335

*by Isaac Asimov, The New Teachers, 1976 by American Airlines, in I. Asimov,Visioni di Robot, Edizioni Tea Due, Milano, 1995, pp.318-320

**I titoli dei paragrafi sono miei. Le note segnalano l’inserimento di brani presi da Futuro Fantastico.

Come pensa il mondo

Come pensa il mondo

Dall’uni-versità alla multi-versità

Per menti rigorosamente illuministe come le nostre è difficile concepire altre forme di pensiero. Già Kant scriveva che la ragione è un’isola nel mare dell’irrazionale. Nell’epoca della globalizzazione dei mercati e delle conoscenze non si può ignorare come pensa il mondo.

Sapere come pensa il mondo, scoprire se è proprio vero il detto che tutto il mondo è paese, mi pare il minimo che si possa pretendere nell’era della globalizzazione economica del villaggio globale.

Se abitiamo cioè il villaggio della conoscenza al singolare o delle conoscenze al plurale. Non è questione di poco conto, specie quando si è quotidianamente immersi nella convinzione che esista un’unica prospettiva da cui guardare il mondo e che in virtù di quella prospettiva i nostri sistemi scolastici debbano educare le nuove generazioni.

In tanto, noi che siamo terra e culla di uni-versità, proviamo i primi scricchiolii alle nostre certezze di fronte a coloro che al di là di un braccio di Mediterraneo, oltre l’equatore, coltivano il sogno di un mondo diverso, come Paul Wangoola, fondatore e presidente di Mpambo, multi-versità africana, in Uganda. Lui spiega: «Una multiversità differisce da una università nella misura in cui essa riconosce che l’esistenza di forme di sapere alternative è importante per l’insieme della conoscenza umana». Wangoola sostiene che per risolvere i problemi dell’umanità oggi è necessario trovare una sintesi tra i saperi propri delle singole tradizioni indigene e le moderne conoscenze scientifiche.

D’altra parte i risultati delle ricerche nell’ambito della psicologia interculturale forniscono una certa quantità di prove sull’esistenza di approcci differenti con cui conoscere e guardare al mondo.

Se il cervello è fisiologicamente per tutti lo stesso, altrettanto non si può dire della mente, tanto da scoprire l’esistenza di una geografia del pensiero. Ce la racconta Richard Nisbett, docente di psicologia sociale e direttore del programma Culture and Cognition dell’università del Michigan, nel suo libro, in realtà da alcuni contestato, The Geography of Thought: How Asians and Westernes Think Differently…and Why.

 La geografia del pensiero

Per Nisbett il processo di adattamento all’ambiente ha prodotto formae mentis differenti e conseguentemente condotte e metodi di conoscenza che tra loro divergono. È il caso dell’Occidente verso i paesi del Confucianesimo, Cina, Giappone e Repubblica Democratica Coreana. Basti considerare l’olismo culturale proprio di quest’ultimi, per cui ogni essere è parte di un tutto, ampio e interdipendente, e, all’opposto, il nostro individualismo che ci induce a considerare noi stessi come unici e liberi di agire.

Il lavoro di Nisbett è interessante perché sfata la presunzione che esista una sola strada che conduce alla conoscenza. È un’insidia alla premessa fondamentale dell’Illuminismo occidentale, l’idea che la ragione umana sia identica ad est come a ovest, a nord come a sud del mondo. Per Howard Gardner, il guru delle intelligenze multiple, il lavoro di Nisbett è una provocazione per gli scienziati cognitivisti che ritengono ovunque unico il modo di pensare.

Ma già altri studi hanno indirettamente anticipato le conclusioni a cui giunge Nisbett nel suo libro.

È il caso delle ricerche condotte da Marlene Brant Castellano tra gli Indiani del Canada, molte sono le differenze nei processi che conducono alla conoscenza tra le popolazioni aborigene e i colonizzatori. Innanzitutto le fonti del sapere che sono la tradizione, l’esperienza diretta, le rivelazioni dei sogni, le visioni e le intuizioni la cui origine è spirituale.

Per la Castellano la conoscenza degli aborigeni si fonda sull’esperienza personale e non ha alcuna pretesa di universalità. Mentre il pensiero occidentale assume l’esistenza di verità individuate attraverso la ragione o il metodo scientifico, per gli Indiani del Canada due persone possono tranquillamente avere visioni diametralmente contrapposte di uno stesso evento che sono accettate entrambe come valide. Non c’è competizione per far prevalere l’una sull’altra. Se proprio necessario, un gruppo di discussione e di costruzione del consenso determinerà la validità di questa o quella interpretazione di uno stesso evento. Anche gli aborigeni canadesi hanno una concezione olistica del mondo, in contrasto con quella occidentale che lo scinde in parti distinte e separate.

Ancora esistono differenze nei modi di pensare e quindi di fare cultura, tra società a impronta collettivista e società decisamente individualiste. Lo spazio di un articolo non mi consente di entrare nel merito, per chi fosse interessato rimando alla lettura del libro di Harry C. Triandis, Individualism and Collectivism: Past, Present and Future. Certo è che modalità altre nel processare le conoscenze, implicano differenti valori a monte dell’azione umana.

Incontro o scontro?

Influenze religiose e culturali concorrono a determinare i diversi caratteri del pensiero e della conoscenza. Nel modello del capitale umano il sapere è prodotto dalla scienza e il fine fondamentale d’ogni esistenza risiede nell’accumulazione di ricchezza, la conoscenza è il mezzo per conseguire la crescita economica, mentre per la maggior parte dei credi religiosi essa si piega al servizio dei disegni di una o più divinità.

L’educazione nuova, l’educazione progressiva, alla cui tradizione si rifanno oggi i modelli scolastici dell’Occidente, promette di formare le persone a farsi carico della società e della giustizia sociale. La maggioranza delle culture indigene e delle religioni considererebbero questi obiettivi come ingenui e impossibili da realizzare. Come possono le persone ricostruire un mondo che è, secondo il punto di vista di molte dottrine religiose e di tante minoranze culturali ed etniche, inconoscibile e spirituale? Come si può definire la giustizia sociale al di fuori del contesto di una teologia religiosa? Giustizia sociale vuol dire fornire a tutti le stesse possibilità di accumulare beni o significa la possibilità di godere di una vita fortemente comunitaria, diretta da un’etica spirituale?

Di certo ogni paradigma educativo deve considerare le proprie finalità in funzione dei caratteri culturali di cui è espressione. I modelli educativi del capitale umano supportano i principi dell’individualismo sociale, mentre i modelli progressivi tendono a supportare le società di tipo collettivistico.

La ricognizione delle varie differenze nel pensare del mondo suggerisce un interrogativo sul significato della globalizzazione, in particolare per quanto attiene alla globalizzazione delle pratiche formative. Queste differenze sopravviveranno nel futuro o finiranno per convergere in un senso comune del conoscere e del pensare il mondo? O porteranno a un scontro costante sulle finalità e sui contenuti dell’educazione? Il rischio vero è che la globalizzazione unisca i mercati ma non gli uomini, che nessuno di noi riesca mai a riscattarsi dalla tirannide di essere un mezzo anziché un fine.

 

 

 

Non rubiamo il tempo a nuovi paradigmi*

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C’è Waterloo e Waterloo

Quando si parla di Waterloo il pensiero corre immediatamente ai ricordi scolastici. Chi non sa che Waterloo è sinonimo di sconfitta, la sconfitta di un impero e di un imperatore. Ma noi non trattiamo della Waterloo belga, teatro del conflitto tra le truppe di Napoleone e quelle del duca di Wellington, piuttosto di una sua mimesis, una cittadina dell’Ontario in Canada, chiamata così nel 1816 in ricordo di quella belga più famosa.

La nostra è una cittadina di circa 120.000 abitanti, con una università che ha più di 20.000 studenti fuori sede. Qui ha sede il Waterloo Global Science Initiative che ha organizzato nell’autunno scorso, tra il 29 settembre e il 3 ottobre, l’Equinox Summit: Learning 2030. Perché 2030?

Perché i 134 milioni di bambini che nasceranno quest’anno allora frequenteranno l’high school, in un mondo prevedibilmente molto differente da quello di oggi. Non c’è tempo da perdere, è necessario che da subito scuola e insegnanti si attrezzino affinché le nuove leve di alunni apprendano l’arte di vivere in un mondo più che saturo di informazioni. Ma il fatto è che la cosa ben più ardua, come osserva Zygmunt Bauman nelle sue 44 lettere dal mondo liquido, è preparare gli esseri umani a vivere una tale vita, perché ciò, prima d’ora, non era mai capitato a nessun educatore.

È per attrezzarsi a questa sfida che l’Equinox Summit ha riunito i maggiori leader in materia di istruzione, i migliori professionisti dell’insegnamento, ricercatori e politici, insieme ai giovani studenti di quelle scuole che nel mondo hanno innovato i processi di apprendimento. Trentatré rappresentanti provenienti da tutti i continenti, espressioni di diverse realtà socioeconomiche: Sierra Leone, Singapore, Finlandia, United Kingdom, USA, Australia e ancora altri.

Se non si interviene subito, anche la nostra scuola rischia d’essere schiacciata da un lato dall’incalzare di saperi e apprendimenti propri del mondo liquido e dall’altro dal persistere del modello di un impero scolastico creato dagli stati-nazione a partire dal diciannovesimo secolo, ancora focalizzato intorno alla crescita economica, allo sviluppo militare, alla formazione del cittadino. Dove più del 90% dei fanciulli del mondo, circa il 20% della popolazione mondiale, è quotidianamente irreggimentato, per una estensione di tempo che varia a seconda dei sistemi scolastici nazionali, in classi aggregate per età dall’istruzione primaria a quella secondaria.

Per questo dobbiamo considerare con attenzione gli esiti dei lavori dell’Equinox Summit della Waterloo canadese, perché possono aiutare il nostro sistema scolastico a prevenire i possibili esiti di una rovinosa Waterloo belga.

 

Recuperare il valore della crescita dei singoli

È il sistema di istruzione fondato sul capitale umano che nel ventunesimo secolo non regge più, perché il divorzio tra quel sistema e i paradigmi del mondo globalizzato è ogni giorno sotto gli occhi di tutti. Del resto oramai da diverso tempo l’assunzione della crescita economica come misura del progresso umano viene contestata, ci sono economisti, come il nobel Amartya Sen, e anche sociologi i quali ritengono che la felicità umana o, come alcuni ricercatori dicono, il benessere della persona, dovrebbe essere il fine delle politiche sociali. Gli stessi indicatori internazionali sembrano suggerire che la percezione individuale del diritto all’istruzione coinvolge in modo sempre più consapevole ed esteso il diritto soggettivo delle persone ad avere non solo un futuro di lavoro, ma un progetto di vita da realizzare e soprattutto un progetto di vita che sia di qualità, che investe la felicità individuale, la salute e la tutela dell’ambiente.

In particolare di fronte al divorzio tra conoscenze e stili cognitivi che le nostre scuole ancora trasmettono ai giovani e un mondo che muta con una rapidità che non si lascia afferrare, i convenuti all’Equinox Summit canadese hanno disegnato la road map dei cambiamenti percorribili, componendo una prospettiva sull’apprendimento veramente globale e intergenerazionale, convinti che ogni bambino, non importa dove viva nel mondo, possa sviluppare le competenze necessarie alla propria cittadinanza nel 2030. Per non naufragare nella liquidità moderna è necessario ridisegnare di continuo le mappe per orientarsi, fornire ai giovani gli strumenti per districarsi nei prossimi futuri tutti renitenti ad ogni previsione.

Si comprende come nel nostro paese sia divenuto angusto, addirittura soffocante, il discorso sull’istruzione, incapace di liberarsi dalla soggezione al sistema di valutazione imposto dalla Banca Mondiale alle scuole dell’educazione globalizzata. Occorre che sulla formazione recuperi innanzitutto autonomia politica e di pensiero e con esse la capacità di valutazioni e considerazioni largamente autonome, avendo più l’occhio rivolto al valore della crescita dei singoli, bambine e bambini, ragazze e ragazzi, alle competenze necessarie alla realizzazione del loro progetto di vita, più che agli interessi della crescita economica e sociale del mondo globalizzato. È davvero tempo di nuovi paradigmi per la politica scolastica, soprattutto per il nostro paese che più di altri ha necessità di recuperare sulle numerose stagioni perdute e sui ritardi fin qui accumulati.

È questo il messaggio che ci viene dal Waterloo Global Science Initiative, collocare al centro ogni singolo studente e renderlo protagonista del proprio processo di apprendimento, motivato dal proprio progetto di vita. Ma per fare questo è necessario che la scuola si liberi del vecchio strumentario, incompatibile con percorsi che portino ad acquisire un pensare creativo, indipendente, critico, rigoroso, l’agire in modo collaborativo, nella piena consapevolezza di sé e del contesto sociale. Perché, secondo i convenuti all’Equinox Summit, queste sono le competenze urgenti e irrinunciabili che di norma i sistemi scolastici del mondo dovranno saper fornire per poter attrezzare le nuove generazioni ad affrontare il loro futuro.

 

Cambiare l’architettura scolastica

Il tramonto di ogni ex cathedra, l’innovazione nella relazione tra studente e insegnante, tra studente e adulti esperti, sono la chiave di volta di questo cambiamento. Ma anche gli insegnanti più capaci e impegnati difficilmente potranno riuscire a preparare gli studenti per il ventunesimo secolo lavorando in un sistema scolastico il cui modello educativo è ancora quello pensato per il diciannovesimo. Basti pensare ai guasti che la natura antiquata di questo modello continua a causare, a partire dal nostro Paese che occupa l’ultimo posto in Europa per dispersione scolastica e anche coloro che portano a termine il percorso di studi lo fanno con crescente noia e demotivazione.

È l’architettura scolastica, come tradizionalmente la conosciamo, che deve cambiare. Le conclusioni del summit sono che per raggiungere nel 2030 gli obiettivi più sopra elencati è necessaria una struttura di apprendimento radicalmente diversa da quella tradizionalmente fondata sulle classi, i corsi, gli orari, i voti e gli esami. Si tratta di una strumentazione che deve cedere il passo alla centralità dello studente, al piacere di studiare, alle sue motivazioni, al percorso di apprendimento scelto, a una struttura di questo percorso flessibile, creativa, più corrispondente alle modalità di apprendimento dei giovani oggi.

Realizzare, dunque, la diversificazione dei percorsi di apprendimento rispetto alle motivazioni e agli obiettivi dei singoli. Non più classi. Alle classi si sostituiscono gruppi fluidi, mobili, di differente composizione, gruppi che si costituiscono per obiettivo, gruppi la cui scelta e formazione è dettata dalle esigenze dello studente in quel particolare momento. In questo modo scompare l’aggregazione di classe per età anagrafica, perché spesso questi gruppi possono combinare studenti di età differenti, di differenti livelli di apprendimento e di differenti interessi. I gruppi lavorano chiedendo consigli e sostegno a insegnanti diversi, ad altri consulenti come facilitatori ed esperti disciplinari.

Gli insegnanti, con altri professionisti dell’istruzione, operano come guide e curatori dei curricoli personali. Sono i partner dell’apprendimento che indirizzano gli studenti a scegliere gli argomenti per uno studio più approfondito a seconda degli obiettivi che si sono dati, a selezionare e valutare le informazioni, a contattare esperti esterni alla scuola, ad agevolare le discussioni.

La conoscenza approfondita e la passione per la propria area tematica sono centrali per il ruolo dell’insegnante, unitamente alla cura costante della propria formazione permanente.

Nel sistema progettato da Learning 2030 i docenti svolgono un secondo compito fondamentale per il successo e l’apprendimento di ogni singolo studente, quello di chi si prende cura, di un caring, di un mentore che è interessato alla riuscita dell’altro. Ogni studente si incontra regolarmente con un insegnante/mentore per discutere gli obiettivi e il percorso di apprendimento, per aiutarlo nel raggiungimento e per monitorarne i progressi.

Non più voti, non più esami. I risultati dell’apprendimento vengono misurati attraverso una valutazione qualitativa delle competenze che documentano l’intera esperienza dello studente, piuttosto che misurare singole e isolate performance.

Queste valutazioni sono condotte in modo collaborativo tra alunno, insegnanti, compagni, genitori e talvolta mentori esterni alla scuola. Si tratta di valutazioni personalizzate che fanno parte del regolare processo di apprendimento degli studenti, dove una particolare attenzione viene riservata alla capacità dello studente di portare a completamento anche progetti complessi. Come risultato gli studenti sanno in ogni momento quali sono i loro punti di forza, dove hanno spazio per migliorare, e come stanno affrontando i loro progressi.

Altro punto di forza scaturito dall’Equinox summit è l’importanza dell’autonomia delle scuole come chiave di volta dell’ambiente di apprendimento del 2030, dove le decisioni sono prese dai soggetti interessati, dai gruppi formati da studenti, insegnanti, amministratori e genitori.

 

L’autonomia per un’educazione progressiva

Qui c’è da riflettere per la politica italiana che in questi anni ha largamente ferito l’autonomia delle scuole, dilazionato la riforma degli organi collegali, inibendo ogni possibile processo di innovazione.

La Waterloo canadese è invece vincente putando al cambiamento a partire da scuole che investono sui loro studenti e sui loro insegnanti, incoraggiandoli a sperimentare con nuove idee, senza temere di fallire. Ciò include l’uso creativo di qualunque tecnologia disponibile. Le tecnologie per la didattica sono esplorate in un cultura che abbraccia la sperimentazione e consente di essere utilizzata come un’opportunità di continuo miglioramento. Ciò si traduce in un sistema di apprendimento dinamico, in evoluzione, in grado di adattarsi alle differenti condizioni sociali e ai continui cambiamenti tecnologici.

Questa è la scommessa su cui l’Equinox Summit invita i paesi del mondo a investire da subito per quanti saranno adolescenti nel 2030, a partire dalla esperienza di quelle scuole che già vanno praticando tutto ciò.

Qui per noi si gioca l’esito della nostra Waterloo, la Waterloo delle politiche scolastiche del nostro paese. Eppure né alla politica né alla scuola mancano le armi giuste per la battaglia. Stanno soprattutto in quella che è stata la più grande e importante riforma che la scuola italiana ha conosciuto con la legge Bassanini, con l’autonomia e il suo DPR applicativo. È riappropriandosi di questo strumento che è possibile focalizzare il cambiamento sui contenuti e sulla vita concreta della scuola, su ciò che si insegna e su come si insegna, sui rapporti, sugli scambi, sui comportamenti che si danno dentro la scuola.

Non possono che essere i professionisti dell’istruzione la forza d’urto di questo cambiamento e la politica deve porli nelle condizioni di poterlo operare, perché la loro professionalità è tale se si esprime nell’esercizio dell’autonomia didattica, organizzativa, di sperimentazione e ricerca. Non dà fiducia vivere in un Paese dove chi ha la responsabilità dell’istruzione dei nostri giovani non si pone o non è posto professionalmente alla testa dei cambiamenti, a capo di quel filone di educazione progressiva e democratica che nella ricerca e nella pratica dell’innovazione didattica quotidiana, fin dagli inizi del secolo scorso, ha sempre anticipato ciò che poi la politica non poteva che tradurre in strumenti di legge a favore della scuola e della sua crescita democratica. Chi vive il rumore quotidiano delle aule sa benissimo che i cambiamenti o nascano dall’interno della scuola o difficilmente incidono sulle pratiche didattiche, difficilmente scendono in profondità e si prestano a divenire condizione diffusa.

In questo anno, in cui ci ha lasciati Mario Lodi, forse l’ultimo esponente di quel filone di educazione progressiva, democratica e popolare, dovremmo riflettere che a non interrogarsi costantemente, a non guardare avanti, a non rischiare non si può che essere sopraffatti dai duri colpi che le sfide di oggi assestano ogni giorno all’essenza stessa dell’istruzione. Sfide, queste sì, capaci di decretare la Waterloo del nostro sistema di istruzione e dei suoi condottieri, la Waterloo delle generazioni che si affacciano ancora con speranza alla nostra scuola.

* Pubblicato nel n. 3-2014 di Rivista dell’istruzione

 

Istruiti per una cittadinanza planetaria*

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Studiare per il mercato? E se imparassimo a studiare per noi stessi, per difendere non solo i nostri diritti ma anche e prima di tutto la nostra vita? In realtà noi studiamo come consumare la vita, non come difenderla, preservarla, migliorarla. Dico la vita e non l’esistenza, perché per esistere si può fare in tanti modi. Ma il vivere è uno solo. Se lo studio è partecipazione alla cultura della specie cosa serve se domani la specie non c’è più, è destinata a scomparire? In questa frenesia a rendere tutto globale per l’interesse di pochi che arricchiscono fuori d’ogni misura, cosa c’è di più globale della qualità delle nostre vite personali, individuali, singole vite identiche di chi sta fianco a fianco nell’abitare questo mondo, al momento ancora glocale?

Tra le varie carte che noi umani scriviamo ce n’è una, visto che abbiamo appena celebrato la giornata mondiale della Terra, che è più Magna delle altre: la Earth Charter, la Carta della Terra. Ha la sua bella e accattivante origine proprio all’inizio di questo nuovo millennio, nel Palazzo della Pace all’Aia. È una carta etica, una proclamazione di intenti etici, un impegno morale che tutti quelli che condividono l’umana avventura dovrebbero onorare.

Per Joel Spring, pedagogista statunitense, docente al Queens College di New York, alcuni principi proclamati dalla Carta della Terra dovrebbero costituire il cuore di un curricolo scolastico di dimensione mondiale, il cui scopo non sia il mercato, bensì quello di perseguire un futuro di benessere per l’umanità. Del resto anche Edgar Morin, il filosofo sociologo francese, ha già da diversi anni lanciato questo appello con il suo Terre-Patrie.

Un curricolo scolastico urgente da realizzare, se prestiamo fede al preambolo della Carta. Ci avverte che stiamo attraversando un momento critico della storia della Terra, un tempo in cui l’umanità è chiamata a scegliere il suo futuro. Il mondo diventa sempre più interdipendente e fragile, riservando grandi pericoli, ma anche grandi promesse.

Partendo dai principi proclamati dalla Carta della Terra è possibile scrivere un curricolo comune a tutte le scuole del mondo, che istruisca le nuove generazioni ad esercitare una cittadinanza planetaria attiva e responsabile. Non si tratta di tracciare un percorso genericamente lastricato di buone intenzioni ecologiche, come è ancora nella pratica didattica delle nostre scuole, ma di scrivere un curricolo in grado di istruire generazioni di umanità nuova, di nuovi cittadini della Terra.

Istruire, perché i seguenti principi, proclamati dalle nazioni della Terra all’Aia nel 2000, non continuino a restare sulla carta, ma possano farci nutrire la speranza che un giorno si traducano in realtà:

  1.  Garantire l’accesso universale all’assistenza sanitaria in grado di promuovere la salute e la riproduzione responsabile.

  2. Adottare stili di vita che enfatizzino la qualità della vita e un uso delle risorse adeguato a un mondo finito.

  3. Promuovere la distribuzione equa della ricchezza tra le nazioni e al loro interno.

  4. Sostenere il diritto di tutti a ricevere informazioni chiare e tempestive sulle questioni ambientali e su tutti i piani e le attività di sviluppo che possono incidere sulla vita di ciascuno.

  5. Fornire a tutti, soprattutto ai bambini e ai giovani, le opportunità educative che li rendano capaci di contribuire attivamente allo sviluppo sostenibile.

  6. Promuovere il contributo delle arti e delle scienze umane, nonché della scienza, all’ educazione alla sostenibilità.

  7. Smilitarizzare i sistemi nazionali di sicurezza e convertire le risorse militari per scopi pacifici, tra cui il recupero ecologico.

Probabilmente il primo principio in materia di “riproduzione responsabile” solleva qualche reazione religiosa a causa delle implicazioni legate al controllo delle nascite. Tuttavia, l’effetto della riproduzione umana, in particolare l’aumento a spirale della popolazione mondiale, ha un impatto sulle questioni ambientali che va dalla disponibilità di risorse naturali fino al trattamento dei rifiuti. I contenuti dei nostri saperi si modificano, si arricchiscono, i cittadini della Terra di domani, che sono gli studenti d’oggi, hanno necessità d’ essere istruiti circa gli effetti prodotti dalla dimensione della popolazione umana sull’ambiente. Conoscere ciò che, se necessario, deve essere fatto per controllare la crescita della popolazione.

Il secondo punto, gli stili di vita. La felicità umana, la longevità sono le nostre aspirazioni, non i consumi di mercato. Occorre uscire dalle ambiguità. Almeno la scuola ha questo dovere in assoluto. Acquisire solide competenze su questo terreno è indispensabile, c’è un imperativo morale, fare in modo che le nostre ragazze e i nostri ragazzi apprendano attraverso la scuola gli strumenti per rivendicare e considerare imprescindibili gli stili di vita che sono indispensabili a proteggere la biosfera. Il terzo principio nella lista è il più importante perché le disuguaglianze uccidono ogni aspirazione individuale al benessere e alla felicità. Sebbene la realtà ogni giorno ci smentisca, dobbiamo affidare alle nuove generazioni il grande ideale umano di sconfiggere le iniquità. La questione della cattiva distribuzione della ricchezza fa sì che pochi speculino sull’uso delle risorse a danno di tutti gli altri e soprattutto del destino delle future generazioni. Il quarto principio è il cardine della conoscenza, l’ossigeno della consapevolezza, poiché è essenziale per qualsiasi cittadino, studente o insegnante avere un tempestivo accesso alle informazioni in materia ambientale. Il quinto principio elencato sostiene l’insegnamento della responsabilità etica, che devono condividere i cittadini della Terra, di proteggere la vita umana e la felicità di ognuno. Il sesto principio riflette l’approccio olistico alla conoscenza, l’idea di un curricolo integrato, dove i saperi volti a tutelare l’uomo, la sua vita, il suo ambiente siano fortemente interrelati in ogni percorso formativo. E, naturalmente, il soggetto dell’ultimo principio, la guerra. L’attività umana più distruttiva, che minaccia con la sola sua ombra la durata e la felicità di ogni vita individuale. Ce n’è abbastanza per scrivere un curricolo che ponga al centro l’uomo e il suo abitare la Terra, un curricolo le cui ragioni sarebbero state impensabili da John Dewey a Paulo Freire.

* Pubblicato online: http://www.ferraraitalia.it/istruiti-per-una-cittadinanza-planetaria-10019.html

 

 

La lingua salvata*

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Non sarà che ci scopriamo tutti migranti in questo mondo del globale, se non altro per via della lingua che parliamo? Disorientati tra il difendere le nostre radici e il desiderio di aprirci sempre di più alle sfide di internet e della globalizzazione, sopraffatti dall’onda crescente e colonizzante del panEnglish?

La mente torna alle pagine della biografia che Canetti fa di sé con La lingua salvata.

Lui che nasce a Rustschuk, in Bulgaria, sul basso Danubio, naturalizzato britannico, sceglie come lingua madre il tedesco, quella lingua che la mamma “con terrore pedagogico” gli impone. Studierà al liceo di Zurigo e a Zurigo morirà.

Noi che ancora ci muoviamo nell’angustia dei ragionamenti sui vari bilinguismi e su quanto sia opportuno anticipare l’apprendimento delle lingue straniere, non è che ci possiamo rifugiare nel «ma lui è Elias Canetti!» quando dalle sue parole apprendiamo che già alle elementari parla spagnolo, bulgaro, inglese, francese e subito dopo il tedesco.

È vero il nostro grande paese, un tempo crocevia di culture, oggi è attraversato da leghismi padani, da velleitarie repubbliche da cortile di casa, da migrazioni di lingue e culture che nella nostra pertinace ottusità fatichiamo ad accogliere e comprendere.

La Rustschuk di Canetti agli inizi del secolo scorso era un luogo dove vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue, un microcosmo dove circolavano bulgari, turchi, greci, albanesi, armeni, zingari, circassi, rumeni…

Ora anche da noi, se facciamo attenzione, in giro per la città udiamo che il vecchio familiare dialetto sta cedendo il passo ad un moltiplicatore di lingue che non riconosciamo.

Elias Canetti racconta di quando piccolo, scendendo le scale di casa, dall’appartamento di fronte usciva un uomo sorridente che gli intima di mostrargli la lingua; e non appena il piccolo Elias la tira fuori, quello estrae di tasca un coltellino e dice: «ora gliela tagliamo». Ma all’ultimo momento richiude il coltellino con un colpo secco e rimanda il taglio all’indomani.

Non è solo un episodio, lo scherzo di un adulto si trasforma nell’incubo d’un ragazzo che spiega la scelta del titolo “La lingua salvata”. Perché privarci della nostra lingua è come cancellare la nostra identità, la nostra capacità di pensiero, l’intimità del sentire e degli affetti.

Tove Skutnabb-Kangas, docente all’università danese di Roskilde e alla accademia universitaria di Vasa in Finlandia, è conosciuta nel mondo per le sue crociate a favore del riconoscimento dei diritti linguistici umani e per il diritto all’istruzione delle minoranze linguistiche e culturali.

Denuncia che le lingue stanno scomparendo dal pianeta più rapidamente delle specie viventi, in parte, sostiene, a causa della diffusione dell’inglese. Ma è anche il risultato delle nazioni che non proteggono le minoranze linguistiche e non usano queste lingue come medium dell’istruzione nelle loro scuole.

Contro l’estinguersi delle lingue e con esse lo scomparire di culture, di tradizioni e di identità, la Tove propone una Convenzione Universale dei Diritti Linguistici Umani. In essa afferma che ogni persona ha diritto a identificarsi con la propria madrelingua e vedere questa identificazione riconosciuta e rispettata dagli altri.

Ognuno ha il diritto ad apprendere la madrelingua, orale (quando è fisiologicamente possibile) e scritta. In particolare, e questo riguarda soprattutto i figli di prima e di seconda generazione degli immigrati, anche per il nostro paese, di essere istruito, prioritariamente, attraverso il medium della propria madrelingua, all’interno del sistema scolastico finanziato dallo Stato. Di utilizzare la madrelingua nella maggior parte delle situazioni ufficiali (comprese le scuole). Soprattutto ogni cambio rispetto alla propria madrelingua, poiché include conoscenze e conseguenze a lungo termine, deve essere volontario e non può essere imposto.

La Tove difende con forza il diritto di tutti i fanciulli a ricevere l’istruzione nella loro madrelingua, divenendo bilingui o trilingui con l’apprendimento della lingua dominante nel paese che li ospita.

Del resto i dati dell’OCSE sono chiari. Dimostrano che, in generale, la prima generazione dei figli di migranti non raggiunge lo stesso grado di istruzione dei loro coetanei indigeni. Sia per la prima che per la seconda generazione l’istruzione acquisita dipende dal livello culturale dei genitori.

Per tanto le politiche migratorie dei paesi ospitanti non sono indifferenti, ma incidono sui risultati scolastici dei figli degli immigrati. Dove la selezione di lavoratori stranieri avviene tenendo conto delle necessità del mercato del lavoro, delle qualifiche e dei livelli di istruzione, come in Australia e in Canada, il tasso di preparazione a cui giungono i figli di seconda generazione è circa lo stesso o superiore a quello dei coetanei nativi. All’opposto in Germania, in Belgio e in Italia, dove sono reclutati lavoratori stranieri con basse competenze, i livelli di istruzione raggiunti dalla seconda generazione sono significativamente al di sotto di quelli dei madrelingua.

Secondo i dati OCSE è proprio la lingua a creare lo svantaggio, la lingua è il fattore prevalente che riguarda il rendimento scolastico, il non poter studiare e pensare nella propria lingua madre. Inoltre, poiché la madrelingua è la lingua del quotidiano, i fanciulli delle famiglie migranti spesso parlano in casa una lingua che è differente da quella del paese ospite.

Noi siamo una nazione con una scuola in teoria attenta alla lingua materna, alla lingua di scolarizzazione e alle lingue europee, ma in pratica molto lontana dall’essere un sistema scolastico plurilingue. Per cui, mentre i ministri dell’istruzione progettano fin dalle elementari lezioni in lingua inglese, non sono in grado, non solo di procurare i mezzi, ma neppure di pensare a come garantire ai figli degli immigrati il diritto di imparare a scuola per mezzo della loro madrelingua, quella famigliare e di tutti i giorni, come è nel diritto di tutte le bambine e i bambini di questo mondo. Così gli svantaggi per questi fanciulli si moltiplicano e per loro, che hanno il medesimo diritto all’istruzione dei loro coetanei italiani, viene meno il dettato dell’art. 3 della nostra Costituzione, che dovrebbe valere ancor prima di ogni altra disquisizione intorno allo ius soli o allo ius sanguinis.

Eppure è dal 1960 che esiste la Convenzione dell’ONU contro le discriminazioni nell’istruzione. All’art. 5 fornisce una chiara protezione delle minoranze culturali e linguistiche, a partire dai fanciulli migranti. L’Unesco, nel 1999, ha istituito la giornata internazionale della madrelingua, il 21 febbraio.

Ma evidentemente anni di governi ignoranti e di leghismi intellettualmente asfittici hanno finito con ottundere le menti di questo nostro paese e rendere cronica la sua miopia.

*pubblicato su ferraraitalia http://www.ferraraitalia.it/la-lingua-salvata-8992.html

 

 

Dove tramonta “no child left behind”

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La raccolta dei dati

Circa ogni due anni dal 1968, l’US Department of Education raccoglie dati sulle scuole della nazione attraverso il Civil Rights Data Collectio. Le informazioni servono al dipartimento per verificare quanto vengono rispettate le leggi sui diritti civili che prevedono pari opportunità educative per gli studenti di diversa razza, genere, con disabilità, con scarsa padronanza dell’inglese.

I dati, riferiti all’anno scolastico 2011-2012, raccolgono le informazioni provenienti da tutte le scuole e da tutti i distretti, incluse tutte le charter school e le juvenile justice facilities, cioè le strutture educative proprie del sistema giudiziario minorile.

I dati che sono stati richiesti alle scuole sono relativi a quattro aree: disciplina, equità nella distribuzione degli insegnanti, educazione prescolare, preparazione per il college e per il lavoro. Le scuole dovevano segnalare quanti studenti sono stati sospesi, espulsi e quanti hanno compiuto atti di bullismo. Quanto hanno speso per gli insegnanti e quanto per le spese in generale. Quanti gli studenti che hanno completato Algebra 1, i corsi Advanced Placement, e quanti hanno sostenuto i test del SAT.

Per la prima volta le scuole dovevano riportare anche il numero delle espulsioni in età prescolare.

La maggior parte dei dati è suddivisa per razza/etnia, sesso, disabilità, conoscenza della lingua inglese per discente, consentendo così al governo e all’ opinione pubblica di prendere in esame la disparità degli indicatori chiave in tutto lo spettro scolastico pre – K – 12 , vale a dire dai 4-5 anni ai 17-18 anni.

Cosa dicono i dati

I dati che sono stati resi pubblici nei giorni scorsi dal Dipartimento dell’Istruzione circa l’uguaglianza delle opportunità educative dalla scuola dell’infanzia alla scuola superiore sono davvero inquietanti, ne emerge un quadro che dovrebbe far riflettere seriamente su un modello di scuola che, salvo varianti nazionali, è pressoché lo stesso in buona parte del mondo.

Ciò che emerge è una realtà scolastica che ancora viola il diritto universale delle persone all’istruzione, nonostante la dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei diritti del fanciullo. Non si riesce a determinare una condizione capace di rimuovere le cause degli svantaggi sociali, culturali, economici che a loro volta stanno all’origine di discriminazioni e disadattamenti nell’ambito scolastico.

I risultati dicono che le minoranze e gli studenti con una limitata conoscenza della lingua inglese hanno, rispetto agli altri, maggiore probabilità di avere insegnanti inesperti, con una preparazione insufficiente, di frequentare high school dove l’offerta curricolare è povera, specie per la matematica e le discipline scientifiche e incorrono in provvedimenti disciplinari con una frequenza maggiore rispetto ai loro coetanei bianchi.

Sui provvedimenti disciplinari il rapporto del Dipartimento non spiega molto, se non che gli studenti neri, i quali costituiscono il 16 percento del complesso delle iscrizioni, costituiscono il 33 percento degli studenti sospesi dalla scuola e il 34 percento di quelli espulsi. In questo confermando un dato, che è universale, ossia che l’utenza più disagiata è quella che maggiormente subisce gli svantaggi e la selezione. Dato che negli USA emerge già chiaramente a partire dall’educazione prescolastica nella quale i bambini di famiglie nere sono il 18 per cento e vanno a formare quasi la metà, il 48 per cento, dei bambini che in età prescolare sono stati “out of”, vale a dire sospesi più di una volta.

I risultati di questa indagine globale disegnano un quadro fosco della situazione circa le opportunità educative negli Stati Uniti d’America, anche se il governo federale spende circa 14,4 miliardi dollari all’anno per aiutare gli studenti svantaggiati.

Quasi il 7 per cento degli studenti neri frequenta scuole dove oltre il 20 per cento degli insegnanti non possiede ancora tutti i requisiti necessari per insegnare. Una cifra che è di 4 volte superiore a quella relativa alle scuole frequentate dagli studenti bianchi.

Tra le scuole frequentate dalla maggior parte degli studenti neri e latini, solo il 66 per cento per i primi e il 74 per i secondi, offre curriculi con l’insegnamento della chimica e di Algebra II.

Questi dati d’oltre oceano gettano un’ombra lunga sulla promessa di un’istruzione uguale per ogni bambino, dovrebbero farci comprendere come i dati dei test internazionali che la Banca Mondiale commissiona all’ OCSE PISA odorino tanto di mercato e profumino molto poco di diritti umani. È evidente che il riflettore va nuovamente puntato sui luoghi scolastici e sulle ragioni delle grandi lacune che perdurano in questo nuovo secolo al suo inizio. Al di là dei proclamati “I care”, No Child Left Behind”, ancora è grande la distanza che separa dal raggiungere l’obiettivo di offrire pari opportunità di successo ad ogni studente.

Il catalogo è questo

È la prima volta dal 2000 che i dati relativi ai diritti civili sono stati raccolti da tutte le 97.000 scuole pubbliche statunitensi e dai 16.500 distretti scolastici, che rappresenta 49 milioni di studenti.

Quest’anno le scuole dovevano fornire anche i dati relativi al numero di sospensioni ed espulsioni in età prescolare (sic!). Da questi si ricava che il 6 per cento di bambini in età prescolare ha avuto una sospensione. Ad essere sospesi sono soprattutto i bambini neri, mentre i bambini latino-americani registrano risultati migliori. Il 29 per cento dei bambini che frequentano la fascia prescolare è latino e latino è il 25 per cento degli studenti sospesi dalla scuola.

Sotto accusa è un trend disciplinare che ha allarmato i sostenitori degli studenti e dei diritti civili. Molte pratiche disciplinari sono troppo dure e colpiscono soprattutto alcuni gruppi come gli studenti neri e gli studenti con disabilità. Non va dimenticato che solo 19 Stati considerano illegali le punizioni corporali, mentre in tutti gli altri si continuano a praticare, a volte con una frequenza inaudita come nel Texas, che nell’anno scolastico 2009-2010 ha punito fisicamente 25015 studenti, di cui 7080 ispanici, 4786 neri e 12973 bianchi.

Mentre gli studenti neri sono il 16 per cento di tutti gli studenti, rappresentano il 27 per cento di quelli a cui viene applicata la legge da parte delle scuole e il 31 per cento di coloro che sono stati oggetto di arresti legati alla scuola.

Cronaca nera e disciplina si accompagnano nella storia anche più recente della scuola americana. Molti degli inasprimenti disciplinari approvati dai Distretti scolastici costituiscono l’unica risposta che adulti esperti hanno saputo fornire. Certo che, se l’origine di tali fatti è da ricercarsi nel disagio sociale o psichico dei loro protagonisti, il rimedio pare più atto ad alimentare la malattia che a curarla.

Per molti studenti di questi distretti l’applicazione della disciplina è vaga e incoerente, tanto che per uno stesso tipo di reato uno studente può essere punito più di un altro. Ci sono avvocati che puntano a modificare le pratiche disciplinari delle scuole, specie dopo la pubblicazione a Baltimora delle linee guida sulla disciplina scolastica, uniche nel loro genere, dettate dai servizi dell’Istruzione statunitensi e dal Dipartimento di Giustizia nel gennaio scorso.

Il nuovo orientamento esorta i distretti a ripensare le politiche di “tolleranza zero” che fino ad ora hanno comportato l’espulsione dalle scuole anche per reati non violenti. Inoltre si richiamano i distretti, ai sensi delle leggi federali sui diritti civili, a rivedere e monitorare l’impatto dei provvedimenti disciplinari, al fine di garantire che non colpiscano ingiustamente alcune parti della popolazione scolastica. Lo stesso Segretario all’Istruzione degli Stati Uniti, Arne Duncan, ha dichiarato che tassi più elevati di provvedimenti disciplinari nei confronti degli studenti di diversi gruppi etnici e razziali non possono essere interamente spiegati da una maggiore frequenza di comportamenti scorretti. Gli stessi studenti spingono per il ritorno a pratiche di mediazione tra pari, anziché ricorrere a sospensioni e a provvedimenti disciplinari che non affrontano le reali cause che inducono gli studenti a comportarsi male. Gli studenti non possono essere trattati come un problema che deve essere isolato e risolto.

I dati forniti dalle scuole dimostrano che anche gli studenti con disabilità sono stati oggetto di provvedimenti sproporzionati di contenzione fisica. Questi studenti rappresentano il 12 percento dell’intera popolazione delle scuole pubbliche e circa il 75 percento di coloro che sono stati fisicamente trattenuti.

Alzare il livello dell’attenzione

Il tema dell’equità ha prodotto una rinnovata attenzione da parte del Dipartimento dell’Istruzione USA che sta lavorando per migliorare in 50 Stati la preparazione degli insegnanti e l’amministrazione Obama ha impresso una spinta significativa all’espansione dell’educazione prescolastica per accrescere le possibilità di frequenza della scuola dell’infanzia da parte dei bambini più svantaggiati. Tra i distretti scolastici statunitensi la frequenza del kindergarten per l’intera giornata è relativamente rara. Solo il 60 per cento dei distretti offre l’opportunità di servizi per l’età prescolare e, di questi, più della metà ha un programma di sola mezza giornata.

I dati mostrano che le disparità razziali e di genere hanno inizio molto presto. Nel 2011- 2012 più di 140.000 bambini, a livello nazionale, sono stati trattenuti alla scuola dell’infanzia, pari a circa il 4 per cento dell’intera popolazione scolastica dei kindergarten pubblici. I nativi hawaiani e di altre isole dell’oceano Pacifico, gli Indiani d’America, i bambini nativi dell’Alaska sono stati trattenuti in percentuale quasi doppia rispetto ai bambini bianchi. Per il 5 per cento i piccoli neri e per il 4 percento quelli ispanici.

Ad essere discriminati sono soprattutto gli studenti di colore che non ricevono la quota loro spettante di accesso alle opportunità scolastiche che contano per la propria realizzazione.

I dati federali, confermati da una miriade di altri studi, mostrano un sistema scolastico, K – 12, che perpetua le discriminazioni sociali nei confronti degli studenti di colore, i quali frequentano le scuole con insegnanti scarsamente qualificati, alle prime armi e con stipendi più bassi di quelli dei loro coetanei.

I ricercatori hanno dimostrato che gli insegnanti alle prime armi, in particolare quelli al loro primo anno di insegnamento, sono in media meno efficaci dei loro colleghi più esperti. Eppure i neri, i latino-americani, gli indiani d’America e i nativi dell’Alaska hanno maggiore probabilità di frequentare scuole con una concentrazione più alta di insegnanti novizi rispetto ai loro coetanei bianchi.

A livello di high school, quasi un quarto dei distretti con almeno due scuole superiori ha uno scarto di 5.000 dollari nelle retribuzioni degli insegnanti tra scuole con la concentrazione più alta e più bassa di studenti neri e latini.

Scuole e responsabili politici cercano di incoraggiare più studenti a impegnarsi nello Stem, nello studio cioè delle discipline relative alla scienza, tecnologia, ingegneria e matematica. Soprattutto le minoranze sono però quelle che sembrano maggiormente tagliate fuori dal poter usufruire di queste opportunità curricolari.

Un quarto delle scuole superiori con le più alte percentuali di studenti neri e latini non offrono Algebra II. Un terzo di queste scuole non offre curricoli di chimica. Tutte discipline queste che consentirebbero di avere successo nell’accedere ai college.

Le carenze di opportunità sono evidenti anche nel campo di chi è maggiormente dotato di talenti. Qui gli studenti neri e latini rappresentano solo il 26 per cento degli studenti iscritti a tali programmi, sul 40 per cento di scuole che li offrono. Inoltre, mentre gli studenti neri e latini costituiscono il 37 per cento degli studenti delle scuole superiori, rappresentano il 27 per cento degli studenti iscritti ad almeno un corso AP.

Un settore in cui gli studenti di colore risultano sovra rappresentati è quello del numero delle ripetenze. Gli studenti neri e English-learners sono bocciati nell’ high school con un tasso due volte superiore a quello della popolazione studentesca complessiva.

 

* http://ocrdata.ed.gov/

 

La città della conoscenza

 

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L’imperativo dell’apprendimento

La città della conoscenza è questo: è la città della creatività e dell’innovazione, la città dell’apprendimento continuo, dell’apprendimento per tutta la vita, dell’apprendimento nel modo più piacevole possibile.

È un sogno che molti coltivano da tempo, almeno i viaggiatori nei territori formali e informali del sapere. Ma questo nostro sogno ogni giorno si infrange contro l’ottusità delle menti che non sanno pensare, che del presente non sanno mai scorgere il futuro e pensano di procedere con la testa sempre rivolta all’indietro, perché il passato insegna, come se il futuro, solo per essere futuro, non ci sapesse insegnare.

È inevitabile che al dunque si finisca per sbattere contro il muro di una realtà che ci è sfuggita di mano e nella quale non siamo più in grado di riconoscerci e di orientarci, perché le attese dei nostri sogni erano ben altre, ben più lontane da quello che ora ci troviamo innanzi, sotto i nostri occhi.

E risalire la china, recuperare strada e distanze diventa sempre più arduo.

Che parliamo di educazione permanente, life long learning, si perde negli anni del secolo scorso. In vero combinando assai poco, se non una sorta di vecchia istruzione popolare, malamente rivista e corretta, nella totale insipienza che caratterizza l’educazione degli adulti nel nostro paese. Già usare il termine educazione a proposito di adulti dovrebbe far rabbrividire.

Del resto conserviamo con lodevole ostinazione il nostro buon vecchio sistema scolastico, funzionale ad una società fondata sulla divisione del lavoro, di un lavoro che non c’è più, perché da tempo quel mondo si è eclissato.

L’educazione permanente è in realtà episodica, quasi clandestina a volte, non riesce a diventare sistema di vita, andare a regime, dar luogo a una nuova organizzazione sociale, a un diverso modo di vivere, a un sistema formativo esteso.

Al di là delle proclamazioni, ancora viviamo come se ci fosse un’età per lo studio, un’età per il lavoro, un’età per mettere su famiglia. Sappiamo benissimo tutti che non è più così da lungo tempo. Ma i luoghi della nostra vita e del nostro studio continuano ancora ad essere organizzati come se tutto fosse come prima.

Le nostre città ci sono cambiate sotto gli occhi in questi anni e cambieranno ancora nei prossimi. Così come c’è un cambiamento a cui oggi assistiamo e, forse proprio perché noi per primi ne siamo coinvolti, forse perché l’abbiamo quotidianamente intorno e innanzi a noi, forse per questo non lo vediamo.

È l’aspetto mentale del cambiamento. Quello che non si vede. Il modo in cui le persone pensano, interagiscono, collaborano, risolvono problemi, prendono decisioni, gestiscono le informazioni, convivono tra loro.

Alla parola “educazione” che implica adattamento, assuefazione all’esistente, occorre contrapporre “apprendimento”, apprendimento e ancora apprendimento, carico di respiro perché carico di curiosità, perché il concetto di apprendimento comporta dinamicità, un futurismo permanente, l’idea di attrezzarsi compiutamente e in modo sempre rinnovato per affrontare le sfide che ci stanno di fronte.

Non è una questione di competenza delle nostre scuole, delle nostre università, dei nostri insegnanti, dei nostri amministratori. È l’idea che nessuno può più chiamarsi fuori, l’idea che tutti noi dobbiamo farci coinvolgere se vogliamo creare una società in cui sentirci sicuri e appagati.

L’apprendimento è alla radice di ogni futuro e, dunque, di tutto il nostro futuro. Del resto l’apprendimento è uno dei nostri istinti fondamentali; se non fosse così non saremmo in grado di parlare, di camminare, di nutrirci.

Che cosa deve cambiare nell’apprendimento perché apprendere diventi un diritto universale che non può essere barattato e nello stesso tempo un piacere?

E che cosa c’è di tanto importante nella creazione di una cultura dell’apprendimento nelle nostre città e nelle nostre regioni?

Ci sono già parecchie città e regioni, in molte parti del mondo, impegnate in questo viaggio.

Le riflessioni e le suggestioni che propongo non mi appartengono, sono tratte dalla rilettura del libro di Norman Longworth, Città che imparano, che Raffaello Cortina Editore ha pubblicato già da alcuni anni, nel 2007.

L’autore è stato per anni presidente dell’associazione ELLI, acronimo di European Lifelong Learning Initiative.

Il richiamo al viaggio non è a caso, perché il progetto europeo delle città che apprendono, che ha visto la Dublino di Joyce rivestire un ruolo di primo piano, si chiama LILLIPUT.

Il viaggio verso l’apprendimento è un’avventura che ci porta in nuovi mondi e ci spinge verso nuovi lidi. Quelle terre da scoprire sono il punto d’arrivo di percorsi personali che richiedono coraggio, ottimismo e senso dell’avventura. Come Colombo, dobbiamo iniziare il nostro viaggio con un atto di fede; e diversamente da lui dobbiamo preoccuparci di rispettare e onorare le nuove culture e le nuove esperienze che incontreremo lungo la via.

Si sono autodichiarate learning city e learning region città dove le persone più avvedute si rendono conto che ciò non accadrà senza l’appoggio di milioni di cittadini, dell’ambiente economico, degli studiosi, delle scuole, degli ospedali e delle comunità locali.

Tra le linee guida della politica ufficiale dell’Unione Europea sulla dimensione locale e regionale dell’apprendimento continuo si legge:

Le città e le cittadine di un mondo globalizzato non si posso permettere di non diventare città e cittadine che apprendono. Ci sono in gioco la prosperità, la stabilità e lo sviluppo personale di tutti i cittadini”.

Sta di fatto che learning city, learning town, learning region, learning community sono termini ormai divenuti d’uso comune in tutto il mondo sviluppato e in via di sviluppo, soprattutto perché le amministrazioni locali e regionali hanno capito che un futuro più prospero dipende dallo sviluppo del capitale umano e sociale di cui dispongono al loro interno.

E la chiave di questo sviluppo è riducibile a tre parole: apprendimento, apprendimento, apprendimento.

Significa instillare l’abitudine ad imparare nel maggior numero possibile di cittadini e aiutarli a costruire comunità che siano comunità di apprendimento.

Obiettivo questo che dal vertice di Lisbona (UE 2000) avrebbe dovuto appartenere ed essere perseguito da tutti gli Stati membri, ma il nostro Paese è parso impegnato in ben altro, tanto da aver smarrito la strada.

Che cosa significa apprendimento continuo nel contesto della città?

E come fa una città a rendersi conto di essere diventata una “learning city ”?

Come può una città sviluppare una cultura dell’apprendimento o della conoscenza all’interno dei propri confini?

James W. Botkin, autore di Imparare il futuro: apprendimento e istruzione, settimo rapporto al Club di Roma, nel lontano 1979 predicava una società della saggezza. Intendendo sagge quelle società che hanno tolleranza per i valori alternativi e apprezzano l’eterogeneità, le cui culture si sono affrancate dall’arroganza monopolistica di chi crede di avere le risposte e di dover dire agli altri come vivere. Società abitate da un gran numero di persone in grado di accettare più di un punto di vista.

Ma diventare una società della saggezza implica un processo di apprendimento che ci renda più tolleranti, più rispettosi del valore delle opinioni alternative e degli altri modi di vivere, più aperti alla differenza e meno desiderosi di preservare stili di vita che poggiano sul dominare su altre persone.

La risposta dunque sta nell’apertura di un gran numero di menti all’apprendimento.

L’ apprendimento continuo

 Del resto il rapporto tra cittadinanza e apprendimento non è nuovo alla storia e alla cultura dell’Occidente. Già Platone 2500 anni fa aveva definito “la responsabilità che grava su ogni cittadino di educare se stesso e sviluppare appieno il proprio potenziale ”.

Ad Atene e in molte altre città greche, per centinaia di anni, l’apprendimento e il contributo allo sviluppo della società furono attività quotidiane e naturali per tantissimi cittadini.

Una simile rivoluzione culturale ebbe luogo nel mondo islamico mediorientale dell’VIII e del IX secolo, in cui Damasco, Gerusalemme e Alessandria divennero capitali del sapere e dell’apprendimento.

Oggi per noi parlare di città della conoscenza, di learning city significa operare per realizzare il nostro desiderio di vivere in una società, a partire dalla nostra città, più uguale, più democratica, più stimolante.

E mi sembra che l’avvio non possa che muovere dalla nostra intelligenza e capacità di rimettere in discussione, di porre sul tavolo anatomico innanzitutto i modelli educativi fin qui da noi praticati, fondare sistemi formativi sul diritto universale ad apprendere, sul piacere, sul promuovere e certificare il successo anziché sanzionare l’insuccesso, sull’abbattere le barriere dell’apprendimento, sulla soddisfazione dei bisogni e delle istanze di chi apprende, sul celebrare l’apprendimento con festival dedicati all’apprendimento.

Questo vuol dire confrontarsi con l’idea di città della conoscenza.

Dobbiamo sapere che ciò che oggi accade alle nostre bambine, alle nostre ragazze, ai nostri bambini, ai nostri ragazzi nelle nostre scuole è destinato a determinare, a segnare, a condizionare valori e modi dell’apprendimento, i loro atteggiamenti di persone quando giungeranno alla loro età adulta.

Perché è l’approccio positivo e continuativo all’apprendimento che sta alla base di una possibile città della conoscenza, di una città del benessere individuale, della stabilità e della prosperità.

È quindi a partire dalle scuole che si determinano le condizioni per la creazione di una città della conoscenza.

La conoscenza, il sapere, l’istruzione, la curiosità, la meraviglia sono la nostra libertà. Si nasce che è tutto un darsi da fare per assimilare il mondo che ci sta intorno e che ci deve ospitare. E quello è un imparare, un apprendere incessante, spontaneo, naturale. I tempi che non sapevamo di questo ormai ci sono distanti, lontani per durata e per cultura.

La stupenda avventura della crescita come cammino nel mondo è storicamente imbrigliata, mortificata dalle culture e dai costumi sociali, attraverso un’educazione che è ancora un universo di riti di passaggio, obbligatori per essere accolti nell’alveo degli adulti.

L’amore per i nostri piccoli non è ancora così forte da difenderli dai nostri condizionamenti, dalle nostre aspettative, dalle nostre visioni del mondo.

Il Rinascimento è la rinascita della conoscenza, nella conoscenza e attraverso la conoscenza. L’umana avventura è solo nostra, individuale, intersecata alla avventura umana degli altri a noi contemporanei o già vissuti, condotta portando la responsabilità nei confronti degli altri che vengono e che verranno. Il rispetto della libertà dell’individuo, dell’autodeterminazione dovrebbe portare a diffidare della parola educazione che si sostituisca all’istruzione, alla conoscenza, all’esperienza, ai processi di adattamento che ne discendono. Abbiamo un eccesso di cultura di integrazione sociale che distrae dai sentieri dell’apprendimento, dai percorsi che conducono ai saperi, alle conoscenze.

L’infelicità è nella classe, è nel banco, nell’anonima solitudine delle nostre scuole, degli apprendimenti gelidi, dei tradimenti del pensiero, della mente, dell’intelligenza. La noia che precipita le sue nubi sul tempo dei nostri giovani, che ne oscura il sole, che ne anticipa i tramonti.

Il cambiamento è la condizione necessaria ormai inevitabile.

La Commissione dell’Unione Europea da tempo ha coraggiosamente affermato che l’apprendimento continuo non è più solo un aspetto dell’educazione e della formazione: deve diventare il fondamento, il principio guida dell’intero sistema formativo, dell’intero sistema di erogazione e di partecipazione sullo spettro totale dei contesti di apprendimento.

L’enfasi va posta sui diritti dell’individuo come discente e sullo sviluppo del potenziale individuale. In questa prospettiva è evidente che tutta la società deve farsi apprendimento, perché gli individui e la scuola con le solo loro forze non sarebbero in grado di risolvere tutti i problemi dell’apprendimento.

Nonostante i fiumi di inchiostro che sono stati versati per propugnare la causa dell’apprendimento continuo, siamo ancora lontani dall’aver compreso e assimilato la sostanza e il significato dell’apprendimento così come si estrinseca attualmente.

Il messaggio che “continuativo” significa “per tutta la vita”, l’intera vita dall’alfa all’omega, e che l’apprendimento è un processo attivo focalizzato sulla persona e aperto a tutti, non è ancora arrivato alla coscienza delle persone, dei politici, degli amministratori, alla maggior parte degli insegnanti.

In questa dimensione l’apprendimento è condivisione, è cura, è evento quotidiano gestito dalle persone, anziché processo collettivo che avviene in una istituzione scolastica.

Ciò in tanto comporterebbe adottare procedure e processi più bottom-up, più basati sui reali bisogni e sulle effettive istanze dei discenti, con un ribaltamento del rapporto di potere e della titolarità dell’apprendimento dal docente verso il discente.

Secondo il programma della Commissione dell’Unione Europea una learning city va al di là del proprio compito istituzionale di fornire istruzione e formazione […], crea un ambiente partecipativo, culturalmente consapevole ed economicamente vivace attraverso la fornitura e la promozione attiva di opportunità di apprendimento in grado di sviluppare il potenziale di tutti i suoi abitanti.

Riconosce e comprende il ruolo fondamentale dell’apprendimento per la prosperità, la stabilità sociale e la realizzazione personale, mobilita creativamente e sensibilmente tutte le risorse umane, fisiche e finanziarie per sviluppare appieno il potenziale umano di tutti i suoi abitanti.

La città della conoscenza enfatizza l’importanza della partnership tra istituzioni e organizzazioni.

Le partnership locali per l’apprendimento continuo sono composte da rappresentanti di scuole, università, imprese, enti locali e regionali, centri di formazione per gli adulti e associazioni di volontariato.

La città della conoscenza incoraggia lo spirito di cittadinanza e il volontariato, i progetti che permettono di attivare l’impegno, il talento, l’esperienza, le conoscenze presenti nelle comunità.

La città della conoscenza estende il numero dei luoghi in cui avviene l’apprendimento, in modo che i cittadini possano riceverlo dovunque, quando e come vogliono: nei centri di formazione istituiti all’interno di centri commerciali, nei learning shops, negli stadi, in tutte le strade, nelle sale parrocchiali, nei centri sociali, e forse addirittura nei ristoranti, negli ambulatori, e in altri luoghi di riunione.

L’apprendimento è considerato creativo, appagante e piacevole.

L’apprendimento è un’attività rivolta all’esterno, in grado di aprire la mente e promuove tolleranza, rispetto e comprensione per le altre culture, le altre religioni, le altre razze e le altre tradizioni.

Tutti accettano una certa responsabilità per l’apprendimento degli altri.

Uomini, donne, disabili e minoranze hanno pari accesso alle opportunità di apprendimento

L’apprendimento viene frequentemente celebrato a livello individuale, nelle famiglie, nella comunità e nella società in generale.

Ogni aspetto della comunità fa parte integrante del programma di apprendimento.

Le biblioteche, i musei, i parchi, le palestre, i negozi, le banche, le aziende, gli uffici municipali, le fattorie, le fabbriche, le strade e l’ambiente forniscono opportunità di apprendimento, strutture e servizi per autodidatti.

Nello stesso tempo, l’apprendimento diventa un servizio alla comunità perché i futuri cittadini vengono coinvolti nella comunità locale. L’educazione concerne l’apprendimento, e non la ricezione passiva dell’insegnamento.

Un apprendimento che procede dal basso e non promana dall’alto, quasi per concessione o calcolo politico. Un apprendimento il cui focus è contenuto nel concetto di realizzazione del potenziale umano di tutti, dello sviluppo del capitale umano come risorsa per la crescita del capitale sociale.

 

Quando le ombre distraggono dalla realtà

Plato's cave

 

Le sei idee di Tuttoscuola

    Ai primi di settembre dell’anno scorso, con la ripresa delle attività scolastiche, la rivista Tuttoscuola proponeva sei idee per rilanciare la nostra scuola e contribuire alla crescita del Paese.

Le idee messe in campo dai redattori, con l’invito di contribuire ad aprire un dibattito intorno ad esse, sono l’ottimizzazione delle strutture scolastiche, l’abbattimento degli abbandoni scolastici, la carriera docente, l’autonomia, la lotta agli sprechi, la digitalizzazione.

Tutti temi pratici, per così dire strumentali, nessun tema teorico, nessun tema generale.

Sano pragmatismo o l’urgenza di ricorrere ai ripari prima che la casa crolli definitivamente?

Perché, ad esempio, gli abitatori quotidiani della casa, gli studenti, non sono neppure citati tra le priorità individuate, neppure presi in considerazione. Quelli sono gli utenti, sono i fruitori, gli utilizzatori finali del sistema. Di loro non si ragiona. Ma pare che di loro non si ragioni ormai da troppo tempo.

Sei idee tutte interne al sistema scolastico come oggi si configura. Tuttoscuola non avanza alcun dubbio in merito alla sua adeguatezza, sebbene viviamo in tempi di nuovi paradigmi per i sistemi scolasti nel mondo globalizzato, in un Paese che, in termini di riflessione e di ricerca sull’istruzione, esprime tutto il suo provincialismo, ansioso per gli esiti delle indagini OCSE, ma indifferente o assente rispetto a quanto oggi si va muovendo sul terreno della ricerca educativa in giro per il mondo dalla Cina al Giappone, dagli Stati Uniti all’Unione Europea.[1]

Eppure il nostro sistema scolastico, dopo essere stato privato di risorse finanziarie e culturali importanti, oggi appare fermo al palo, tutto ripiegato su se stesso, neppure in grado di leccarsi le ferite di decenni di politiche che hanno prodotto il massimo di mortificazione dell’istruzione nel nostro Paese, con un ministro che ora pensa di raccattare idee di cambiamento dai referendum online. Come se, per riconsiderare i luoghi dello studio, non occorresse molto studio   e, per di più, predisposto per tempo.

Sicuramente si tratta di idee che denunciano anni di abbandono della scuola da parte dei policymakers di casa nostra, che invocano l’ovvia urgenza di provvedere a quanto di più elementare è necessario affinché l’organizzazione minimale di un sistema formativo possa funzionare, ma che hanno l’inaccettabile limite di non dire assolutamente nulla sul futuro, su quello che i nostri giovani e le famiglie dovrebbero pretendere di ricevere e di ottenere dal sistema scolastico nazionale, sui bisogni formativi e di sapere che oggi sono necessari all’avvenire delle giovani generazioni.

Cosa significa nel terzo millennio formare cittadini e lavoratori destinati a portare se stessi per il mondo della competizione economica globale?

Il focus sull’educazione

A livello mondiale è ancora la crescita economica il focus delle politiche globali sull’educazione. La crescita economica continua ad essere contrabbandata come la misura per eccellenza del progresso sociale. La stragrande maggioranza delle nazioni mondiali ancora individua nella scuola e nei suoi curricoli il mezzo per fornire ai giovani ciò che si ritiene sia necessario per poter competere nel mercato globalizzato del lavoro e nel mondo dell’economia globale.

Nello stesso tempo però queste politiche sono oggi sempre più oggetto di critica per i loro effetti negativi sulla qualità della vita delle persone. Il Nobel dell’economia Amartya Sen, ad esempio, poco più di un decennio fa già esprimeva le sue preoccupazioni circa lo sviluppo di politiche incentrate solamente sulla crescita economica. Nel suo Development as Freedom egli individua nel tasso di longevità di una popolazione l’indicatore della qualità della vita umana.[2] Sen sottolinea che, poiché le variazioni della speranza di vita dipendono da una gamma di opportunità sociali che sono fondamentali per lo sviluppo (comprese le politiche epidemiologiche, l’assistenza sanitaria, le   strutture scolastiche e così via), una visione esclusivamente centrata sul reddito ha bisogno oggi di essere rivisitata, o quanto meno integrata, se si vuole giungere a una piena comprensione dei processi di sviluppo.[3]

Inoltre gli studi internazionali di economisti e di psicologi sociali hanno da tempo individuato i fattori sociali che influenzano la percezione soggettiva del benessere e la longevità.  Non può che essere considerato significativo che tra questi, nel mondo globalizzato, non ci sia l’istruzione nella sua forma attuale, se non solo quando consente di accedere a un lavoro ben retribuito.

Ma il valore dell’istruzione e dei sistemi formativi può essere oggi ridotto unicamente alla   preparazione degli studenti per il mercato del lavoro?

Gli stessi indicatori internazionali sembrano suggerire che la percezione individuale del diritto all’istruzione coinvolge in modo sempre più consapevole ed esteso il diritto soggettivo delle persone ad avere non solo un futuro di lavoro ma un progetto di vita da realizzare, e soprattutto un progetto di vita che sia di qualità, che investe la felicità individuale, la salute e la tutela dell’ambiente.

A tale proposito, la scoperta del contributo che l’istruzione può dare alla felicità delle persone e alla loro longevità dovrebbe essere considerata come una chiamata alle armi per cambiare profondamente le politiche dell’istruzione, sostiene Joel Spring, professore alla City University di New York e maggiore esperto dei sistemi educativi nel mondo.[4]

E’ tempo di nuovi paradigmi

I modelli educativi prevalenti nel tempo della globalizzazione hanno assunto come paradigma la positività della crescita economica e che il benessere consiste nell’accrescere la propria capacità di consumo di sempre nuovi prodotti. In questo sistema di industria e consumo l’uguaglianza di opportunità educative significa fornire a ciascuno un’eguale possibilità di essere formato per divenire partecipe dell’economia globale attraverso il lavoro e il consumo. L’uguaglianza delle opportunità consiste nel disporre di uguali chance di guadagno e di reddito per l’acquisto di un flusso infinito di prodotti fabbricati dall’ impresa globale.

Le scuole del mondo globalizzato finiscono così con l’assomigliare a fabbriche per la lavorazione della materia prima umana, testata e certificata per diventare forza di lavoro e di consumo globale.[5]

Ce n’è abbastanza per riflettere che 150 anni di organizzazione scolastica italiana, pressoché sempre identica, necessitano di ripensamenti radicali, ben più impegnativi delle sei idee di Tuttoscuola o dei referendum online annunciati dal ministro Carrozza.

La fruizione del diritto all’istruzione per l’integrazione sociale non appare più una finalità  sufficiente, istruzione e cultura sono ormai gli elementi indispensabili ad ogni singolo individuo, bambina e bambino, ragazza e ragazzo per poter concretamente esercitare il proprio diritto alla salute, alla felicità che non sono il diritto a consumare ma a costruire e realizzare un progetto di vita di qualità.

L’istruzione, la formazione, l’educazione non sono solo mezzo, strumento, occasione, sono invece parte determinante della qualità del progetto di vita di ciascun giovane. In questa dimensione ci rendiamo conto che lo strumentario delle classi, dei voti, della didattica ex cathedra, degli edifici scolastici riciclati da conventi e caserme, eccetera dovrebbe appartenere da tempo ad un’epoca ormai distante e che l’istruzione amica, esperienza ottimale per ciascuno, appagante richiede di essere vissuta e partecipata con mezzi, spazi, relazioni, strumenti che sono tutti da ripensare con creatività e lena.

Lo stesso sistema di valutazione delle competenze imposto dalla Banca Mondiale alle scuole dell’educazione globalizzata, l’OCSE PISA, ci deve vedere capaci di valutazioni e considerazioni largamente autonome, avendo l’occhio rivolto alla crescita delle persone, alle competenze necessarie alla realizzazione del loro progetto di vita, più che agli interessi della crescita economica sociale. Il nostro sistema scolastico non può più continuare ad assomigliare al convoglio di un treno dove le classi sono i vagoni su cui si sale a seconda dell’età e dove il viaggio termina alla stazione a cui si scende o si è costretti a scendere.

E se la felicità entrasse a scuola?

E’ davvero tempo di nuovi paradigmi per la politica scolastica, non anche per il nostro Paese, ma soprattutto per il nostro Paese, che più di altri ha necessità di recuperare sulle numerose stagioni perdute e sui ritardi fin qui accumulati.

Le sei idee proposte da Tuttoscuola sembrano prodotte dagli schiavi della caverna di Platone che incatenati sono impediti di volgersi a guardare alle loro spalle, per cui scambiano le ombre proiettate sul muro innanzi a loro per la realtà. Non è che i temi proposti al dibattito dalla rivista non costituiscano delle urgenze, ma sono solo le ombre che proietta lo sfascio di una realtà che è ben più consistente e che non consente più di continuare a soffermarsi a contemplarne solo gli effetti senza prendere seriamente e urgentemente in considerazione l’insieme del corpo che genera quelle ombre. Perché quel corpo palpita delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, del loro tempo, dei loro sogni, del loro e del nostro futuro.

Troppi anni, inutilmente, si sono perduti a inseguire delle ombre sulle analisi della nostra scuola, perdendo di vista che come non mai scuola e istruzione sono la vita dei nostri giovani e di questo un Paese, degno di tale nome, deve sentire di portare tutto il peso della responsabilità.

Una vita che non può continuare ad essere la vita di ieri, la vita di nostalgici passati, trascinata in una scuola dell’altro ieri, che non conosce i linguaggi dello studio come esperienze che coinvolgono e che esaltano, che chiamano a sfidare le proprie potenzialità e capacità, che ha significato perché ossigeno imprescindibile  dell’esistenza di ognuno, condotta in quell’arricchimento che solo danno i saperi quando sono coniugati non al passato, ma nella prospettiva del presente e del futuro, non come angusti luoghi di ripetizione, di  misura o di avvilimento delle intelligenze e delle persone.

Si può e si deve pensare a un sistema scolastico che sia luogo, non della retorica di star bene a scuola, ma di benessere che è ben altra cosa, ad un sistema scolastico che nella organizzazione della sua struttura, nei suoi curricoli, nei suoi metodi di istruzione e di studio contribuisca ad accrescere il benessere e la felicità delle persone, assumendo le persone, prese singolarmente, ognuna per se stessa come il prezioso capitale umano, come valore su cui il nostro Paese, attraverso l’istruzione e il suo sistema, investe per il proprio futuro e soprattutto per prospettare alle giovani generazioni un avvenire più felice, per il quale vale la pena davvero impegnarsi, investire gli anni preziosi della propria crescita.

 


[1] Si vedano:

Joel Spring, A new paradigm for global school systems, Lawrence Erlbaum Associates, Inc., Publishers, Mahwah, New Jersey, 2007

Joel Spring, Globalization of education, Routledge, New York, 2009

 [2] Amartya Sen, Development as Freedom, Anchor Books, New York, 2000

[3] Ibid., pp. 46 – 47

[4] Joel Spring, A new paradigm for global school systems, Lawrence Erlbaum Associates, Inc., Publishers, Mahwah, New Jersey, 2007, p. xi

 [5] Ibid., p.xi