“Nella storia umana non era mai capitato che gli educatori si imbattessero in una sfida paragonabile a quella rappresentata dalla svolta attuale. Semplicemente, non ci eravamo mai trovati in questa situazione prima d’ora. L’arte di vivere in un mondo più che saturo di informazioni dev’essere ancora appresa. Proprio come quella, ben più ardua, di preparare gli esseri umani a vivere una tale vita.” (Zygmunt Bauman)
Dalla Legge Casati sulla scuola in poi si è legiferato certo non concependo l’idea di una cittadinanza del sapere e nel sapere, bensì nella considerazione che gli alunni hanno ad essere dei sudditi del sapere. E così noi siamo sempre stati e tali continuiamo a trattare le nostre ragazze e i nostri ragazzi nelle nostre scuole: sudditi del sapere, coltivando più la soggezione delle loro menti e dei loro comportamenti nei confronti del sapere che non la familiarità, la naturalezza che deriva dall’abitudine a percorrere le strade della conoscenza.
Suddito è esattamente l’opposto del termine cittadino, è colui che dipende dalla sovranità di uno Stato di cui non è membro, le nostre alunne e i nostri alunni dipendono da una comunità di saperi di cui non sono, non si sentono e non li facciamo sentire membri, per questo sono e continuano ad essere sudditi.
Ma quella società che rendeva sudditi gli studenti e le famiglie promettendo loro mobilità sociale, riuscita nella vita, un posto di lavoro non c’è più e non tornerà mai più, è morta, definitivamente defunta.
In questo pianeta, che Morin ha definito come una nave spaziale che viaggia grazie alla propulsione di quattro motori scatenati: scienza, tecnica, industria, profitto e dove nello stesso tempo la minaccia nucleare e la minaccia ecologica impongono alla umanità una comunità di destino[1], non c’è possibile futuro che valga la pena costruire se non riscoprendo la centralità dell’individuo, la centralità dell’intelligenza, la centralità del pensare oggi per il futuro.
Dobbiamo chiamare all’appello tutte le nostre forze e la nostra creatività, e come già avvenne per il Rinascimento tornare a collocare al centro della nostra civiltà la donna e l’uomo, ogni singola donna e ogni singolo uomo, è inevitabile perché solo questa è l’unica risorsa che ci resta per poter tentare di scommettere sul futuro.
Replicare una rivoluzione scientifica che ci porti a superare il dogmatismo del sapere scolastico così come fino ad oggi l’abbiamo concepito e praticato, restituendo centralità alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi in quanto risorse e non più sudditi nelle nostre classi, in quanto innanzitutto intelligenze da attivare, modi di pensare da coltivare, da condurre fuori dal torpore delle nostre aule e della nostra cultura di massa. È tempo che anche la cosiddetta “cultura di massa” tramonti per consentire di compiere un passo oltre, è giunto il momento di praticare la “cittadinanza del sapere” che è ben altra cosa, assai diversa dall’evento, dal grande evento che richiama file di utenti, utenti perché non cittadini del sapere, ai botteghini delle grandi mostre.
In questo senso il cantiere scuola deve essere cantiere per un nuovo umanesimo, in grado di rimettere con forza al centro: il pensiero, la mente, la psicologia della conoscenza, il come pensiamo e conosciamo del buon vecchio e mai tramontato John Dewey.
Diversamente rischiamo che solo per la scuola e per i nostri giovani lo Stato continui ad essere uno Stato Mistagogo e Leviatano che non è in grado di offrire loro speranze, la speranza del domani, che mortifica ogni possibilità di coltivare i sogni sul futuro, perché pervicace nel pretendere da loro che apprendano il passato senza mai condurli ad imparare il futuro, il futuro di cui hanno bisogno come l’aria che respirano, perché quello, perché il futuro sarà la loro sicura dimensione di vita.
Da suddito a cittadino del sapere
Ma quando parliamo di “sapere” cosa intendiamo? Il “sapere” in quanto sostantivo o “sapere” in quanto verbo. Il patrimonio di conoscenze accumulato o il sapere agito che mai ha termine?
Da suddito del sapere a cittadino del sapere, al sapere agito per dare sapore alla nostra esistenza di cittadini, considerato che i due termini hanno una comune radice latina. La distanza tra suddito e cittadino del sapere è enorme. Il suddito è formato, il suddito è educato, il suddito deve conformarsi e convergere.
Il cittadino, al contrario, deve partecipare attivamente del sapere e dunque apprendere, non può e non deve conformarsi, è obbligato a divergere perché diversamente non si formulerebbero le ipotesi di cui la scienza necessita per nutrirsi e finirebbe per perire, negherebbe il fine stesso della sua cittadinanza che è l’ apprendimento continuo e rinnovato.
E allora in questo gioco di parole e di rovesciamenti, viene a ribaltarsi un altro luogo comune, quello che dice: la scuola deve aprirsi all’ambiente.
Ma se si è cittadini del sapere è evidente che non è più così, perché è innanzi tutto l’ambiente a doversi aprire alla scuola, a coniugarsi con la scuola, anzi è l’ambiente stesso che sempre più si costruisce come scuola, come aula di apprendimento, come abbiamo detto tante volte. Ma qui voglio dire qualcosa di più.
Non è sufficiente che sia la scuola ad essere ambiente di apprendimento, perché se non è ambiente di apprendimento prima di tutto la società in cui viviamo quotidianamente, anche la scuola stessa fatica a qualificarsi come ambiente di apprendimento.
Dentro e fuori del sistema scolastico non più i tradizionali processi del sapere top down, dalle accademie e dalle cattedre ma sempre più processi aperti, processi bottom up che collochino ogni singolo individuo mai più come suddito, mai più come destinatario di piani di studio personalizzati, ma come protagonista primo nel vivere la sua cittadinanza piena e consapevole nella comunità del sapere.
Dobbiamo decisamente passare dalla società dell’ informazione indifferenziata, dalla società della cultura di massa, alla società del sapere diffuso, del sapere distribuito della in-formazione continua.
E come allora la scuola oggi può concorrere a tutto ciò?
Una scuola che, di fronte ai cambiamenti epocali, di fronte ai processi di globalizzazione che ci rendono tutti cittadini del pianeta, non è più luogo e non può più oggettivamente essere il luogo che mantiene le promesse del passato dove le nuove generazioni si preparano al mondo del lavoro o ad affrontare i problemi pratici di tutti i giorni.
Allora credo che la scuola si debba e si possa qualificare come quel luogo dove viene svolto un particolare tipo di lavoro, un lavoro intellettuale (intellegere = comprendere): l’addestramento e l’esercizio della riflessione e del ragionamento con l’ausilio degli attrezzi del mestiere che sono le discipline in quanto grandi narrazioni del sapere e dei saperi.
Un lavoro che non coinvolge la massa indistinta della classe, ma che deve avere come obiettivo prioritario e qualificante la capacità di coinvolgere la mente di ogni singola alunna e ogni singolo alunno in quanto individuo, in quanto unico e irripetibile, renderlo protagonista di un percorso formativo il cui esito è il prodotto certamente dell’apporto di ognuno, ma alla fine è molto di più della semplice somma delle singole parti che ognuno ha composto nel momento del proprio personale coinvolgimento.
La scuola deve divenire quel luogo in cui si apprende a praticare l’arte, la virtù e la competenza della “distanza” , del “distacco”, dello sguardo “altro”, dello sguardo “critico”, dello sguardo cioè che sa distinguere, che vede da lontano per andare lontano.
Il mondo quotidiano in cui siamo coinvolti, il mondo di fuori, nei luoghi della scuola si fa contenuto, oggetto privilegiato di riflessione e di ragionamento, perché è solo così, solo attraverso queste condotte cognitive è ammesso procedere nei territori della conoscenza e del sapere.
Usare le discipline non in quanto materie di studio fini a se stesse, ma come gli strumenti indispensabili a costruire le competenze, perché le discipline nella storia dell’uomo sono progredite e cresciute nutrendosi di competenze, cioè della capacità di porre domande, di interrogare in modo nuovo il loro territorio per poter accrescere il loro patrimonio di saperi, di interrogare la città del sapere, per muoversi e addentrasi nei suoi quartieri.
E quindi temo che se ci limitassimo ai soli obiettivi dell’apprendimento, continueremmo inevitabilmente a restare sudditi del sapere. Solo la competenza, sono convinto, può vincere questa sudditanza, sudditanza che si sconfigge nel momento in cui esercito e pratico il sapere, manipolandolo, reinventandolo, applicandolo nei laboratori intesi come saperi operosi, come operosità del sapere. Laboratori intesi nel significato etimologico di labor – laboris, cioè di “fatica”. L’apprendimento in quanto tale non è più sufficiente, perché si ferma sulla soglia delle competenze senza mai attraversarla, perché ancora oggi la scuola non conduce all’ impiego delle conoscenze via via acquisite, così che difficilmente si traducono in saperi la cui padronanza è necessaria per poter esercitare pienamente il proprio diritto di cittadinanza.
La scuola che pratica lo spezzatino del sapere, che disgiunge le conoscenze che dovrebbero essere invece interconnesse, è una scuola che forma menti unidimensionali, è una scuola riduzionista, è una scuola che privilegia una sola dimensione dei problemi umani e che occulta tutte le altre, è la scuola del pensiero pigro, è la scuola del pensiero lento, è la scuola del pensiero asfittico.
Ecco oggi, nell’era planetaria, si può essere cittadini del sapere, si può essere cittadini di un nuovo umanesimo solo se la scuola diventa la sede privilegiata di un nuovo modo di conoscere, di un nuovo modo di pensare, di un nuovo modo di insegnare.
Oltre la Scuola di massa
Si possono scrivere pagine di curricolo, si può combattere il frazionamento del sapere accorpando le discipline per aree, ma se non cambia la mappa mentale della docenza, se l’insegnamento di ieri e dell’altro ieri vale ancora per l’oggi, se non si riforma alla radice l’insegnamento si scriveranno sempre inutilmente pagine e pagine di Indicazioni che agli occhi degli insegnanti sembreranno sempre già viste, sempre già state, sempre indifferentemente tutte uguali. Non perché sia oggettivamente così, ma perché gli occhiali che indossano gli insegnanti sono da troppo tempo sempre gli stessi, per cui il mondo può cambiare, ma la loro percezione resta sempre quella di tutti i giorni, è quella di ieri e continuerà ad essere sempre quella anche domani.
E del resto come può essere diversamente, come può oggi un insegnante che mai lontanamente a scuola, all’università, ecc. è stato educato ad essere o per lo meno a sentirsi, o aspirare a divenire cittadino del sapere, istruire, educare e formare le sue allieve e i suoi allievi a praticare la cittadinanza del e nel sapere?
Voglio riprendere quanto Edgar Morin scriveva ormai diversi anni fa nel prologo al suo La testa ben fatta, che del resto porta come sottotitolo, non a caso, Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero. Come dire che non c’è crescita delle intelligenze se non c’è un radicale cambiamento della didattica.
Scrive Morin nel suo prologo: “ […] Sempre più convinto della necessità della riforma del pensiero, quindi di una riforma dell’insegnamento, approfittavo di diverse occasioni per riflettervi. Avevo pronunciato, su suggerimento dell’allora ministro dell’Educazione Jack Lang, “qualche nota per un Emilio contemporaneo”. Avevo pensato a un “manuale per insegnanti e cittadini”, progetto che non ho abbandonato”
Non abbandoniamolo neppure noi questo progetto, facciamolo nostro, investiamo in esso le nostre intelligenze, la nostra passione.
Per imparare, dunque, ad apprendere in forme adeguate alla nostra dimensione planetaria a cui tutto e tutti ogni giorno ci richiamano, dobbiamo convincerci che sono ormai inevitabili e ineludibili tre riforme: quella del conoscere, quella del pensiero, quella dell’insegnamento.
Noi però, che portiamo la responsabilità sociale di lavorare nella scuola, dobbiamo sapere molto bene che il luogo per eccellenza deputato a praticare e sperimentare quotidianamente questi intrecci tra pensiero, conoscenza e insegnamento è la scuola e, se chiamati, di questo abbiamo il dovere di rispondere.
Perché è nella scuola che insegnanti e alunni insieme devono imparare a praticare, a esercitare quotidianamente la ragione, la riflessione, l’interconnessione dei saperi, anche di quelli apparentemente più distanti tra loro, la capacità di risolvere problemi, perché è a tutto ciò che i processi della società della conoscenza, della società dell’incertezza attribuiscono oggi valore e priorità.
La scuola, dunque, nella sua migliore espressione, è e deve essere questo luogo.
La richiesta di nuovi saperi, l’affermarsi di un nuovo pensiero sull’essere cittadini di questa contemporaneità sono, dunque, impellenti.
La scuola degli apprendimenti, la scuola delle competenze, del cum-petere, del saper porre domande, del saper interrogare e interrogarsi circa la realtà, è evidente che non può più essere sempre la vecchia scuola fatta e rifatta dal primo politico di turno che si ritrova al governo del Paese.
Il tema del lifelong learning, dell’apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita, come ugualmente il tema della società della conoscenza, della comunità dell’apprendimento diffuso, il tema della learning city, delle “città che imparano” costituiscono insieme, non solo un nuovo fronte di intervento per la formazione, ma un momento decisivo per ripensare i modi, i tempi e i luoghi dell’ apprendimento.[2]
La sinergia curricolare tra scuola, extrascuola e postscuola richiede scelte politiche in grado di indurre e di impegnare gli amministratori locali a non curare solo la cultura dei grandi eventi ma di farsi carico con sistematicità di dare qualità formativa ai propri contesti urbani, di restituire alla cittadinanza del sapere i territori rinnovati dei musei, delle pinacoteche, delle biblioteche, delle emeroteche, delle discoteche, delle ludoteche, dei teatri, dei cinema, delle piazze, dei monumenti e potrei continuare ancora e ancora…perché è solo così che concretamente si diventa cittadini del sapere, non come dovere, ma come diritto da esercitare naturalmente e quotidianamente nella propria crescita, sia quella di oggi che quella di domani, un diritto di portata universale e inalienabile.
Nei fatti, noi sappiamo bene che la centralità dell’individuo e la cittadinanza del sapere si praticano nel momento in cui il sistema formale dei saperi (la scuola) e il sistema non-formale (il territorio) si coniugano, concorrono cioè a disegnare il curricolo condiviso dalla scuola e dalle agenzie extrascolastiche intenzionalmente educative.
Una scuola dell’autonomia che gestisse la prerogativa dell’autonomia per finire con il coltivare il suo isolamento e i suoi distinguo, nella realtà sarebbe la scuola dei tradimenti, una scuola che tradisce lo spirito del legislatore, perché da soli non ci sono autonomie da esercitare. L’autonomia si esercita se accanto ci sono gli altri, se accanto a noi camminano anche gli altri, nella misura in cui si opera per un obiettivo comune con altri soggetti diversi da noi sia per istituzione che per compiti.
Del resto la complessità e la varietà della domanda formativa che oggi esprime il territorio richiede inevitabilmente che si realizzi una sinergia delle istituzioni e tra le istituzioni, nell’ottica del life wide learning.
Vorrei concludere che non si può essere cittadini del sapere, cittadini di un nuovo umanesimo se la scuola nella società della conoscenza non si fa carico del compito che le compete al di sopra di ogni altro. Quello cioè di essere in prima fila nel condurre la battaglia per la democrazia del sapere e per saperi democratici.
Scuola di massa, abbiamo detto, è ormai un concetto obsoleto e ampiamente tramontato.
Oggi la vera sfida rispetto alla quale la stessa scuola rischia di essere tagliata fuori, di decretare la propria irrilevanza e inutilità, è proprio quella che si gioca sul campo della democratizzazione dei saperi, sia nella loro formazione che nella loro fruizione.
E chi deve garantire ciò ai cittadini se non le nostre scuole e le nostre università? Occorre cioè garantire proprio attraverso la scuola e proprio attraverso il disegno di una società che sia, non educante, ma diffusamente educativa, che i linguaggi della società della conoscenza, quelli orali e scritti, quelli gestuali e mediatici, elettronici, etici e bioetici, ecc siano alla portata di tutti e di ognuno.
Ecco perché la scuola di oggi deve tornare a compiere una rivoluzione copernicana, ricollocando al centro della sua scena non più l’alunno attivo del puerocentrismo, ma l’alunno intelligente, che torna a pensare, conoscere, e comprendere.
Di fronte all’incertezza delle nuove sfide a cui impegna la cittadinanza planetaria, mi sembrano queste le armi della certezza con cui attrezzare le nostre ragazze ei nostri ragazzi di oggi, perché domani possano praticare non la cittadinanza di tanti stati nazione tra loro divisi, ma la cittadinanza di un unico intero stato pianeta.
*Intervento alla giornata di studio “Cantiere scuola” organizzata a Ferrara dal CIDI il 7 marzo 2008,
allora presentato con il titolo Cittadini del sapere: cittadini di un nuovo Umanesimo.
[1] G. Bocchi, M. Ceruti, Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004, pp.VII-VIII
[2] N. Longworth, Città che imparano, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, VII-VIII
Esaurita la funzione che le principali correnti del pensiero ottocentesco hanno avuto nel determinare le sorti educative del secolo che ci ha preceduti, non ritengo che si tratti di un ozioso esercizio accademico avanzare la necessità urgente di un ripensamento radicale delle categorie e dei principi che, sebbene da tempo ampiamente devitalizzati o disattivati, pure hanno costituito e ancora, per gran parte, perdurano a costituire le fondazioni del nostro sistema educativo, secondo un principio, di deweyana memoria, per il quale non si avrebbe pedagogia senza filosofia, o meglio diremmo oggi che ogni educazione è figlia della weltanschauung del proprio tempo.
Senza sottovalutare i rischi di una eccessiva schematizzazione, credo che si possa affermare a proposito del caso italiano che valori e fini hanno segnato le dominanti del discorso intorno alla scuola per tutta la prima metà e oltre del Novecento, risentendo in massima parte dell’asfissia dottrinale ottocentesca, con un marcato prevalere delle istanze educazionali su quelle inerenti all’istruzione.
Ad un’inversione sia pure faticosa si è assistito dopo gli anni sessanta, tanto che a venire ad oggi è il binomio, di per sé programmatico, dell’insegnamento-apprendimento ad emergere nell’ambito di ciò che da discorso si è andato sempre più problematicamente facendo ricerca educativa.
Ciò nonostante l’accento sull’istruzione ancora persiste col scivolare via per ricadere innanzitutto sui suoi contenitori ed è sufficiente per rendersene conto pensare alle riforme compiute e a quelle mancate.
E’ il sistema scuola nei suoi diversi gradi a divenire il soggetto con riscritture di programmi, con leggi che ne investono l’organizzazione e l’uso delle risorse, senza per altro riuscire a capitalizzare risultati da ritenersi apprezzabili al vaglio di un attento esame critico. L’unico obiettivo segnato pare essere quello della scolarizzazione di massa ben presto contraddetto dal fatto che alla sua dimensione formale non ne è corrisposta una altrettanto sostanziale .[1]
Almeno in apparenza, ogni velleità sulle finalità ultime della scuola è stata abbandonata, al di là del generico comeniano tutto a tutti la cui versione contemporanea sarebbe un diritto allo studio affermato a parole ma poi ancora ampiamente negato nei fatti.
Incapaci di formulare una comune visione intorno ai fini e soprattutto un’organica e condivisa politica scolastica, ogni intervento ha solo sfiorato gli aspetti sostanziali della formazione per incentrarsi sull’organizzazione e sugli strumenti senza per altro riuscire a scalfire in modo significativo la struttura burocratica della amministrazione scolastica.
La nostra scuola, per come si esprime quotidianamente, pare destinata a non divenire mai né autenticamente democratica né mai culturalmente emancipatrice, e ciò fino a quando innovazioni organizzative e strumentali continueranno a servire indifferentemente il vecchio e il nuovo, quando non fini tra loro nettamente contradditori con la conseguenza, che è sotto gli occhi di tutti, di snaturare anche quello che di positivo si sarebbe potuto ricavare.
Sullo sfondo o dietro le quinte non mancano d’agitarsi ancora gli assiologisti o i teleocrati dell’educazione, spoglie persistenti d’altre epoche, fantasmi dei loro fantasmi che non cessano d’agitarsi e mi pare ragionevole pensare che sia giunto il momento di stanare anche loro, di cessare di fingere un inutile rimpiattino, di affrontarli invece e nuovamente in campo aperto.
Scuola e individualità
Non so quante e quali delle idee che hanno nutrito la storia dell’educazione siano tramontate per oblio o ancora giacciano silenti nelle coscienze individuali semmai in attesa di essere ridestate o rivisitate, ma certo è che la teoria dell’educazione ancora oggi vive dell’assunto che ogni individuo è altro dai principi e dai fini che l’educazione si propone di perseguire pena la sua decadenza tanto da assegnarsi il compito di con-formare ad essi ogni singolo individuo scolarizzato, nella pratica poi al servizio di questo postulato sempre più spesso è stato piegato l’uso delle così dette scienze dell’educazione. Comunque si voglia, sia che il compito dell’educazione si prospetti quale medium della partecipazione degli individui alla coscienza della specie sia che verifichi l’improduttività di ogni adjustment per poi puntare tutte le proprie carte sulla competenza e sull’ eccellenza, c’è sempre un sociale una ragione altra che sopravanzano sull’individuale, su quell’individuo che l’educazione in palese contraddizione con se stessa in ogni epoca ha faticato a celebrare quale valore di per sé e per sé.
Del resto il succedersi di scomposizioni e ricomposizioni della natura umana è una costante di tutta la storia dell’educazione; i dualismi anima-corpo, intelligenza-carattere, istinto-ragione ed altri ancora sembrano agitarsi come una sorta di Leviatano contro il quale sarebbe parsa missione dell’educazione combattere affinché l’individuo ad essa affidato non ne venisse divorato. Così, spesso, la relazione educativa nei sistemi scolastici ha finito per assomigliare alla rappresentazione di una tragedia greca i cui corifei, discenti e docenti, si annientano nella ricerca di una comune catarsi programmata. Chi tra noi può dire di essersi sentito soggetto, protagonista, insomma di essersi mai sentito se stesso una volta inserito nel sistema educativo, nei suoi ingranaggi, nei suoi linguaggi e nei suoi riti? Quel qualcosa dell’esperienza scolastica che avrebbe dovuto essere rivolto al nostro mondo interiore in realtà ci è sempre stato esterno e come a noi esteriore l’abbiamo sempre vissuto sia nelle gratificazioni come nelle frustrazioni subite.
John Dewey pareva giunto a vendicare tutti gli allievi del mondo restituendo loro centralità nel processo educativo, non per questo possiamo dire che la rivoluzione copernicana dell’americano abbia ricollocato all’apice del discorso educativo l’uomo, tanto più che essere relegati di volta in volta al ruolo di fanciulli, alunni o studenti come avviene nelle nostre scuole non è mai essere uomini, ma evidentemente sempre e solo una parte di noi, essere cioè inesorabilmente considerati sempre e solo delle parzialità.
E’ inutile dire che se l’educazione ha tratto vantaggi dalla storia del pensiero ha anche pagato ad essa prezzi altissimi, così come ai machiavellismi economici e politici. La morale è che l’uomo nella storia della nostra cultura non è mai stato accettato per se stesso, poiché le sue radici muovono dalla sfiducia nell’uomo non già per una sorta di condanna biblica, ma piuttosto semmai per una prevalente e duratura dannazione culturale. Qui sta la ragione, forse prima, della scarsa rilevanza dei processi educativi sui risultati finali dei singoli individui. La scuola, in quanto tale, non ha mai prodotto dei grandi uomini che al contrario, più spesso, si sono realizzati a partire dal suo rifiuto, contro di essa o quali figli esiliati, vittime dell’ostracismo delle sue liturgie.
– Se ripenso all’educazione ricevuta ciò che mi sorprende è il constatare che essa non è riuscita ad impedirmi di fare quello che ho fatto – ritornano le parole di Einstein e, con identico spirito, Iosif Brodskij : – Ciò che rendeva la mia fabbrica diversa dalla mia scuola non era quello che mi era capitato di fare dentro l’una o l’altra, e neppure quello che mi era capitato di pensare nei rispettivi periodi, bensì l’aspetto delle loro facciate…– E Brodskij prosegue scrivendo: – Liberté, Egalité, Fraternité…Perché nessuno aggiunge Cultura? –[2]
L’avventuradel sapere è, dunque, esterna alle preoccupazioni dei nostri sistemi scolastici o falsamente interna perché e-ducare, i-struire, tra-smettere non sono mai territori di libertà, di quella libertà di conoscenza tutta interiore invece alla natura umana, ad ognuno di noi stessi.
Una verità elementare, questa, antica almeno quanto Socrate, la cui coscienza ha mosso Religioni, Ideologie, Stati. Una volta rivelata, sarebbe stato compito dell’educazione imbrigliarla, assumerne il monopolio, predisporre il vischio e le trappole, le gabbie e le riserve, i territori protetti del sapere dalla famiglia alla scuola, dalle università alle accademie. Dare regole, esercitare controlli sulla più grande forma di emancipazione, di rendersi libero di cui ogni singolo individuo, donna o uomo che fosse, ragazza o ragazzo avrebbe potuto personalmente disporre.
E in questa volontà di controllo si è aperto lo scontro per l’affermazione del primato tra le Religioni e gli Stati, l’individuo, ciò che per sua natura non è divisibile, è stato separato, scisso tra Storia e Metastoria, tra Fedi e Laicità. A pensarci bene , quando le Sacre Scritture ancora erano l’unum del sapere, la grande Riforma protestante ha fallito in pieno il suo scopo; l’affermazione del primato di ogni singolo essere umano nella ricerca della conoscenza ancora una volta è stata sacrificata alle ragioni di altre Chiese e senz’altro anche per questo tutta la storia concreta, quotidiana degli individui ha pagato e continua a pagare il prezzo della morte di ogni rinascita.
Non appaia banale parafrasare Schelling per dire che la nostra esistenza è inadeguata alla nostra essenza materiale, perché questa espressione è tanto banale quanto lo può essere ogni verità, una verità, in questo caso, che dovrebbe vedere gli uomini di cultura e di scuola radicalmente impegnati più a rinnovare che a conservare.
Ormai oltre il decimo anno del terzo millennio, se una qualche ragione ancora esiste, non ci si può che sentire profondamente ribelli all’idea che tutto ciò sia inesorabilmente connaturato alla complessità del vivere politico o ancora peggio ad un ineluttabile destino umano.
Riscoprire ognuno di noi come discorso, un discorso interrotto da un tempo troppo lontano ma che ancora può tornare a fluire, rigenerando le essenze della ragione, rigettando ostinatamente e pervicacemente ogni loro negazione, ogni atto che non sia indirizzato a liberarne quelle potenzialità che definiscono la natura stessa dell’uomo.
Non deve essere forse questo il grande compito del sistema formativo di uno Stato autenticamente moderno, democratico e liberale: portare ogni individuo a tornare ad essere pienamente cittadino della polis, perché innanzitutto torna ad essere cittadino di sé e dentro di sé?
Neppure le psicologie cognitiviste e costruttiviste hanno colmato il divario tra individuo e educazione, tra individuo e il proprio sé. Non tanto perché la loro diffusione nella prassi scolastica possa essere stata insufficiente, ma piuttosto perché esse ancora si prospettano come strategie di pianificazione verso sistemi a rendimento garantito; muovono dall’individuo ma poi ne smarriscono l’essenza nell’efficienza e nell’efficacia dei curricoli. Stiamo attenti agli equivoci! Siamo davvero sicuri che il soggetto di una strategia di mastery learning sia l’alunno in situazione di apprendimento e non piuttosto l’obiettivo che si è programmato di fargli acquisire? Che ogni volta non si assista ad una sostituzione volendo in realtà verificare l’efficacia dello strumento per cui l’obiettivo si fa soggetto e l’alunno oggetto del processo di apprendimento? In ultima analisi, a me pare, che si sia finito in realtà per comprovare quanto è brava quella determinata scuola nel realizzare i suoi compiti, anziché verificare quanto quell’alunno, per effetto del processo formativo, è più cittadino di se stesso anziché di quel sociale che si esprime nell’inevitabile parzialità degli obiettivi assegnati dai programmi.
Voglio dire, e non per paradosso, che delle finalità sociali della scuola, che fanno l’uomo e il cittadino, i nostri Stati e la nostra Cultura ne hanno abusato fin troppo e a sproposito, più spesso oserei dire a danno del singolo individuo, delle singole individualità che a loro vantaggio.
Stato e Scuola
Io non mi sento di liquidare con alcuna professione di fede la lezione niciana Sull’avvenire delle nostre scuole[3] in particolare là dove si additano gli Stati come antagonisti e nemici della cultura.
Ognuno di noi è cultura, poiché ognuno di noi tende costantemente alla propria ideale formazione, alla realizzazione di sé nel rispetto della propria autentica forma e natura. Mi accade spesso di ripensare le pagine di La lingua salvata di Elias Canetti, in particolare quelle nelle quali racconta come durante la sua infanzia fosse avviato alla passione per la lettura e i libri dal padre e dalla madre.
– In realtà la cosa incomparabilmente più importante, più eccitante e più caratteristica di questo periodo erano le serate che io e la mamma dedicavamo alla lettura e ai discorsi che facevamo intorno a ciascuno di quei testi. (…) Se esiste una sostanza intellettuale che si riceve nei primi anni, alla quale ci si riporta poi sempre e della quale non ci si libera mai più, per me quella sostanza è lì.
(…) Tutti gli influssi che ho subito successivamente sono in grado di rintracciarli uno per uno. Questi, invece, formano un’entità unica che ha una sua densità e un suo spessore indivisibili. –[4]
Se questo è un esempio di autentica esperienza culturale che non mortifica né il singolo né il processo della conoscenza, perché tollerare ancora che si persegua, non già un modello di scuola di massa, bensì un’improduttiva massificazione scolastica che anche nei migliori dei casi finisce per snaturare persone e saperi?
Un modello concepito quando l’idea del rapporto Stato-Educazione si esauriva nell’obiettivo di tenere ogni giorno occupata in modo organizzato una parte dei soggetti sociali: i più giovani. Penso che sulla difficile strada della lotta per l’affermazione del diritto all’istruzione ci siamo davvero smarriti e abbiamo soprattutto smarrito il valore dell’essere individuale e quello ad esso connaturato della cultura.
O meglio, lo smarrimento oggi è evidente, perché di fronte al fallimento, pressoché generale dei nostri sistemi scolastici, non abbiamo ancora l’onestà e il coraggio di chiudere con questa epoca e con le sue stagioni di scuola e di discorso educativo. E lo stato di salute è più grave proprio sul versante della cultura e della formazione: i sistemi scolastici sono al collasso e i processi di de-culturazione e di disapprendimento sono avanzati come mai nel passato. Mentre pare allontanarsi il pericolo della catastrofe nucleare c’è già chi paventa quella dell’ignoranza che incombe sul nostro futuro.
Mai come oggi mi pare giunto il momento di tornare ad avere il coraggio e l’audacia delle idee, dell’immaginazione, dell’idealismo politico.
In tanto non sono gli individui che devono continuare a rivendicare il diritto alla scolarizzazione di massa o il diritto all’educazione permanente. Lo Stato ottocentesco che nell’amministrazione e nella burocrazia rende tutti sudditi è naufragato nelle coscienze individuali, sia esso liberale sia esso socialista, o lo Stato serve o è una nemica astrazione.
Lo Stato diviene nemico e antagonista di ognuno di noi quando tradisce le basi della civil society venendo meno ai principi fondati sul valore del singolo che hanno ispirato l’origine delle democrazie moderne. Stati-autorità che esercitano il loro potere ponendosi al di sopra dei bisogni del cittadino anziché al suo fianco, perché non sono Stati al servizio e di servizio come richiederebbe il principio secondo il quale non si può avere autentica cittadinanza sociale se prima ognuno non è posto nelle condizioni di divenire pienamente cittadino di se stesso.
Dal Novecento i nostri Stati sono usciti non solo con la bancarotta economica ma anche e soprattutto con quella umana. La loro colpa più grave di fronte alla Storia è quella del più grande spreco d’intelligenze, vale a dire di risorse umane con le guerre, gli olocausti, con il disprezzo per l’uomo, nessuna civiltà che pretenda di definirsi tale può sottrarsi a questa riflessione, a questa responsabilità, è fin tropo facile, qui, ricordare la lezione di Marx :
– Una società piena di cose utili con uomini inutili.-
E come negare che l’inimicizia e l’antagonismo dello Stato nei confronti della cultura sono proprio testimoniati dalle nostre scuole, dai nostri sistemi scolastici, un’inimicizia ed un antagonismo che con la scuola di massa hanno finito per massificarsi nelle loro manifestazioni.
Pare che l’istruzione, anziché essere dovuta ad ogni singolo individuo che esiste su questa Terra come diritto permanente e bene incommensurabile, sia dovuta allo Stato nei modi, nei tempi e nelle quantità che lo Stato stabilisce e a ciò ogni singolo individuo si deve adattare e con-formare. E come per ogni rito collettivo, decretato dall’alto, alla stessa ora tutti gli individui devono riunirsi nel luogo deputato dove ad attenderli ci sono gli strumenti della liturgia, ogni giorno riordinati per il giorno dopo come i paramenti sacri e le divise. E nell’idea della partecipazione ognuno si annulla , ognuno si snatura: insegnanti, alunni, strumenti. Per chi non partecipa al rito collettivo, la nostra idea di democrazia ci ha fatto giungere al nobile obiettivo di sostenerlo, di recuperarlo, di non perderlo comunque al rito, fortunatamente, più spesso non riuscendoci.
Non c’è nulla di più innaturale di un’aula di studenti con il loro insegnante, dove le relazioni interpersonali si chiamano disciplina, compiti o consegne (come in una caserma), interrogazioni, verifiche, valutazioni.
Questo nostro sistema scolastico, che lo vogliamo o no, nonostante anni di generose e isolate sperimentazioni, di appassionati dibattiti, di illusioni di tanti docenti, resta pienamente espressione della concezione che gli Stati hanno avuto e dimostrano di avere della cultura, vale a dire della sua più assoluta negazione.
Le sedi che dovrebbero essere i luoghi abituali e quotidiani dove svolgere sistematicamente l’istruzione dei giovani, la loro formazione, i percorsi culturali autentici, i luoghi degli impieghi epistemici dalle biblioteche agli archivi, dalle fondazioni ai musei, ai laboratori, ai teatri, alle cineteche, le mostre, il patrimonio artistico in genere, anziché essere learning citu, sono i luoghi della crisi permanente dove si manifesta e si nutre la trascuratezza dello Stato, il vuoto spinto di ogni idea innovativa e, dunque, la sua inimicizia.
– Sulla terra più fortunata è la rosa che ci concede i suoi profumi, di quella che appassendo muore nella pace solitaria.–[5] scriveva Shakespeare. Francamente non so quante generazioni ancora accetteranno di appassire anziché pervadere del loro profumo la Terra.
Una modesta proposta di lavoro
Allora è necessario riproporsi radicalmente il quesito di quale sia il sistema educativo da porre oggi al servizio dell’uomo reale affinché possa sempre dire di essere autenticamente il risultato del proprio lavoro.
Allo stato attuale della riflessione, ritengo sia possibile indicare almeno tre requisiti indispensabili.
1. Innanzitutto il discorso sui fini e i modi di essere della scuola che non può prescindere da una più generale ricollocazione dello Stato e del sociale come servizio ai singoli nella collettività in quanto valori e somma di valori, poiché non sono né lo Stato, né il sociale a dare valore all’individuo, ma viceversa è la somma dei valori dei singoli individui a dare valore alle istituzioni sociali.
Le filosofie dell’Ottocento sono state filosofie di Organizzazione e di Sistema, al contrario quelle del Novecento, che ancora poca cittadinanza hanno avuto nella nostra vita civile, sono state più spesso di liberazione dell’individuo dall’Organizzazione e dal Sistema. Da esse abbiamo appreso come anche la scienza abbia necessità di procedere per utopie concrete, per luoghi che ancora non esistono ma che sono nell’ordine del possibile[6]. E’ pensabile che ci aiutino a immaginare la nostra cittadinanza nel nuovo millennio? Una cittadinanza che sia in grado di assicurare al maggior numero possibile di soggetti l’autonomia personale ponendo gli individui nelle condizioni di sviluppare liberamente le loro capacità. Non più individui amministrati o che si devono adattare a regole razionalizzate, ma individui in grado di amministrarsi e di giocare un ruolo sempre più significativo per sé e per gli altri, perché sempre più nel futuro Intelligenza, Informazione, Idee costituiranno il valore aggiunto delle skill intellettuali dei singoli e di tutti.
2. In secondo luogo occorre affermare il primato dell’incontro con il proprio sé. Non v’è nulla di più personale dell’esperienza culturale, del cammino che porta al raggiungimento della propria identità e alla partecipazione di quella collettiva sempre meno locale e sempre più cosmopolita. Di questa esperienza lo Stato non si può impadronire, ma solo servirla mettendo a disposizione tutti i mezzi necessari. Occorre tornare a considerare i problemi della cultura come esperienze intime, personali di cui coloro che in qualche modo hanno familiarità con la cultura devono aver sentito almeno per un momento le vibrazioni.
Uno Stato, dunque, che si ritira dall’invadenza sugli individui attraverso i sistemi scolastici, non più lo Stato mistagogo che è venuto meno alla massima kantiana di non trattare il prossimo come mezzo.
3. In fine alla cittadinanza educativa va assegnato il compito di creare le condizioni per ripristinare il rapporto tra coscienza e essere, di ricondurre i singoli individui all’esigenza classica di pensare il pensiero. Qualche tentativo in questo senso venne avanzato dall’ecologia dello sviluppo umano che meglio però dovrebbe indirizzarsi verso l’ecologia del discorso umano sviluppando le strade aperte da Gregory Bateson e dall’ultimo Jerome Bruner[7]
Comunque sia, la cittadinanza educativa deve costruirsi a partire dalla consapevolezza piena e sempre presente che il punto archimedico del mondo è l’uomo nella sua libera e creativa progettualità, a lui compete la responsabilità del futuro, poiché egli è il solo depositario del potere di trasformare il mondo, non l’uomo solo e in quanto in generale, ma ogni singolo individuo poiché quel generale è la somma degli individuali.
In definitiva la cittadinanza educativa deve riconciliare l’uomo con il suo genere, ricomporre quella frattura che già Goethe ed Hegel avevano intuito nella nostra cultura e che i nostri sistemi educativi, complici gli Stati, hanno invano ricomposto nel conformismo e nell’annullamento delle individualità come risorse preziose per il destino di tutti noi su questa Terra.
[1] A tale proposito si vedano i risultati conseguiti dagli studenti italiani nell’ambito delle inchieste PISA (Program for International Student Assessment) condotta dall’ OCSE.
[2] I. Brodskij, Fuga da Bisanzio, trad. di G. Forti, Adelphi Edizioni, Milano, 1987
[3] F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, trad, G. Colli, Adelphi Edizioni, Milano, 1978
[4] E. Canetti, La lingua salvata, trad. it., Adelphi Edizioni, Milano, 1981
[5] W. Shakespeare, Sonetti, Giulio Einaudi editore, Torino, 1965
[6] Il riferimento in particolare, come si può ben evincere, è a K. R. Popper di La società aperta e i suoi nemici e di Congetture e confutazioni.
[7] I riferimenti sono G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi Edizioni, Milano, 1977 e a J. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano, 1997
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