Il sapere come principio del piacere. L’erotica dell’insegnamento che propone Massimo Recalcati per riscoprire la singolare bellezza dell’apprendere, la conoscenza come oggetto del desiderio, come oggetto erotico. Ma cultura, educazione, istruzione e insegnamento, sono termini che tutti confluiscono in uno stesso campo semantico, in una stessa energia erotizzante o al contrario possono tra loro entrare in conflitto, escludersi a vicenda?
La questione se la poneva Lev Tolstoj intorno agli anni Sessanta del diciannovesimo secolo. Tolstoj risolve il problema sostituendo al concetto di educazione quello di ‘cultura’, sostenendo che si deve operare una netta distinzione tra i concetti di cultura, educazione, istruzione e insegnamento.
La cultura è la somma di tutte le esperienze che formano il nostro carattere, mentre l’educazione è il prodotto della volontà di plasmare la personalità e il comportamento delle persone. Ciò che differenzia l’educazione dalla cultura è, dunque, ‘il carattere coercitivo’, l’educazione è cultura obbligatoria; la cultura è libertà.
Senza istruzione e insegnamento non si vive, la qualità della scuola si gioca tutta qui, sulla qualità dei saperi e degli insegnanti. L’educazione non ha bisogno di investimenti. I saperi e gli insegnanti invece sì. Sono i testimoni di quella cultura della cui bellezza fin da piccolissimi i nostri giovani, e non solo, si devono nutrire e innamorare.
È di questi giorni il richiamo della Commissione libertà civili e affari interni dell’europarlamento perché nessuno in Europa spende meno di noi per l’istruzione pubblica e per gli stipendi dei docenti.
Istruzione e insegnamento non sono mai asettici, perché servono indifferentemente sia la cultura che l’educazione. Ogni trasmissione di conoscenza da una persona all’altra è istruzione, come condividere capacità con gli altri è insegnamento. Entrambi sono processi culturali quando sono liberi, divengono però processi educativi quando l’insegnamento è imposto, quando l’istruzione è esclusiva, quando si insegna solo ciò che è prescritto dai programmi.
Senza libertà non c’è principio del piacere, senza abbandono dei corpi non c’è eros, per questo le ore di lezione che possono cambiare la vita, di cui parla Recalcati, non avranno mai cittadinanza nelle nostre scuole. E le eccezioni non fanno la norma.
Quello che non va, quando si parla di riforme della scuola è proprio questa incapacità di pensare una scuola che liberi i nostri giovani dalla scuola stessa, una scuola che serva la felicità delle persone, che è diritto universale, non per farne dei deficienti felici, ma per farne degli uomini e delle donne ricche di sapere vero e autentico, anche difficile e faticoso, libere, non asservite né ai fini di un sistema sociale, né ai fini di un qualunque credo, religioso o politico che sia.
Per essere chiari dovremmo dire che la scuola autentica è qualcosa che si muove in direzione opposta a quella seguita dalle nostre consuetudini.
Se la cultura è libertà, l’istruzione non può significare fornire a tutti e in egual modo le stesse informazioni secondo un programma prestabilito. Ma è proprio questo invece quello che facciamo nella realtà quotidiana delle nostre aule. È infatti opinione, difficile da sradicare, che a scuola si debba insegnare tutto ciò che è ritenuto necessario dal sistema sociale.
O si aggredisce criticamente questa concezione storicamente costitutiva del nostro sistema scolastico o parlare di riforme è puramente eufemistico. Il sistema potrà migliorare, ma per rimanere sempre identico a se stesso, più abbellito, più accettabile, una nuova carrozzeria, ma sempre lo stesso motore per percorrere le strade di sempre.
I nostri edifici scolastici sono magazzini di vite, catalogate per classi, archiviate nei banchi e nelle cattedre, predisposte per trasmettere e ricevere quel tanto di stock di nozioni inevitabili che, nel loro insieme, costituiscono appunto i programmi scolastici.
Come arriva a destinazione questo stock, è poi graduato dal meccanismo di una scala numerica, che le scuole chiamano voti.
Strana questa ostinazione, questo rovesciament della realtà, questa coazione a scaricare sugli alunni il fallimento del sistema: l’idea che tutti gli studenti si impadroniscano, senza eccezioni, dell’intero materiale nozionistico predisposto per loro. Siccome questo non è mai accaduto, anziché rivedere il sistema, si è stabilito, come fosse nell’ordine naturale delle cose, un meccanismo a perdere, un congegno capace di eliminare quanti non apprendono un numero sufficiente di nozioni.
Come dire che questa scuola con la cultura, almeno nella definizione di Tolstoj, non c’entra niente, men che meno con l’erotica dell’insegnamento di Recalcati. Anzi è una scuola che si oppone al sapere e alla conoscenza propriamente detti.
L’apprendimento è un processo culturale, mai educativo, in cui la scuola deve evitare ogni interferenza, ma essere in grado, di fare ciò che ancora non sa fare, predisporre gli ambienti di apprendimento, non i silos e i magazzini di generazioni e generazioni da plasmare giorno dopo giorno a immagine di se stessi.
Il mestiere a cui è chiamata la scuola oggi è quello di predisporre le scenografie, tenere la regia della cultura, la regia dei saperi. Mettersi a disposizione della sceneggiatura, in modo che ogni singolo studente, ogni bambino, ogni bambina, ogni ragazza ogni ragazzo possa scrivere la propria, secondo le sue esigenze, secondo il tipo di insegnamento di cui ha bisogno e a cui aspira.
Non è forse quello che succede quotidianamente nel grande tessuto di apprendimenti che è la vita e che il nostro sistema scolastico con un certo sussiego d’antan continua ostinatamente a definire extra-scuola?
* Pubblicato su ferraraitalia http://www.ferraraitalia.it/la-citta-della-conoscenza-mobilitare-i-saperi-qualcuno-ci-ha-gia-pensato-40681.html
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