L’epoca delle competenze

748_core_competencies-300x225

E se cominciassimo a parlare dell’economia dei “fattori immateriali”, dell’economia dei “fattori extraeconomici”? Non c’è epoca post industriale se di questi fattori non si inizia a ragionare seriamente.

Oggi parliamo sempre più di economia della conoscenza, di società della conoscenza, di capitale sociale e di capitale umano, cosa c’è di più extraeconomico di tutto ciò rispetto al tradizionale capitale fisico fondato sulla triade classica: terra-capitale-lavoro?

In tempi di tecnologie e di intelligenza artificiale non c’è da stupirsi del venir meno del lavoro, perché il lavoro è stato tradizionalmente, a partire dal taylorfordismo, misurato sulla variabile tempo, ed è proprio la variabile tempo che la rivoluzione tecnologica ha sconvolto, abbattendo di conseguenza la necessità del lavoro umano. La divisione del lavoro aveva alla sua base la definizione di una tempistica, per lo stesso Marx il lavoro è commisurato in base al fattore tempo.

Scomposto in fattori immateriali o extraeconomici il lavoro non è più solo l’equazione forza lavoro/tempo impiegato per utilizzarla, ma comporta “un’attitudine” e “una competenza”.

La rivoluzione delle competenze non l’abbiamo ancora compiuta, nonostante la Strategia di Lisbona del 2000 con cui l’Europa ha introdotto per i suoi cittadini le otto competenze chiave della formazione; guardiamo alle competenze con diffidenza e difendiamo una concezione del lavoro che ha fatto il suo tempo, una concezione del lavoro da archeologia industriale: orario-salario.

Pensiamo agli insegnanti, sono pagati poco, si dice, perché il tempo-lavoro a loro richiesto è ridotto rispetto alle tradizionali 36- 40 ore settimanali. Altra cosa, evidentemente, considerati i titoli per accedere ai concorsi, sarebbe se gli insegnanti fossero pagati non per un lavoro concepito ad orario, ma per la necessità delle loro competenze. Cosa fa di un grande manager una persona pagata anche fino a 250 volte un operaio, se non la competenza, se non quanto vale la sua competenza sul mercato nel rapporto tra domanda e offerta.

Il concetto di competenza contro lavoro-tempo si comprende meglio ricorrendo all’esempio del medico, quando siamo malati cerchiamo sempre il medico più esperto, maggiormente riconosciuto per fama in quel campo della medicina, sostanzialmente il medico più competente, ed essendo più competente più ricercato e quindi, nella dinamica della domanda-offerta, più pagato sul mercato. Non più pagato perché lavora più ore, ma più pagato perché più competente, basti pensare al grande chirurgo.

Il rapporto lavoro-tempo-salario risale agli albori della rivoluzione industriale e alle lotte per la rivendicazione dei diritti dei lavoratori, lavoratori con profili professionali molto bassi che dovevano essere tutelati dallo sfruttamento dei padroni. Nel post industriale tutto questo scompare, i lavori dai profili bassi e che richiedono tempo sono eseguiti dalle macchine o a carico delle nuove tecnologie, ciò che è sempre più richiesto è il capitale umano come risorsa di competenze, come patrimonio di conoscenza, come capacità di risolvere i problemi, come spirito di iniziativa e creatività.

Ecco che entrano in campo i fattori extraeconomici, immateriali che costituiscono le risorse dell’economia della conoscenza e della società della conoscenza: le competenze dell’uomo che lavora. La variabile tempo diviene marginale, tanto più se si può lavorare a distanza, tanto più se una competenza sempre più elevata può ridurre sia i tempi di produzione che il tempo necessario al lavoro, liberando più occasioni di tempo libero da dedicare se mai ad accrescere le proprie competenze.

In un’economia in crisi divengono centrali i fattori immateriali ed extraeconomici costituiti dalle competenze. Le conoscenze in termini teoretici e pratici non sono più sufficienti, occorre essere in grado di affrontare dei compiti, essere capaci cioè di “selezionare” in relazione al compito da eseguire le conoscenze a questo funzionali. Il modello delle competenze è un modello di formazione di “carattere applicativo” estremamente importante in un mondo in cui le risorse disponibili su cui investire per il futuro sono quelle immateriali.

 

 

Mobilitazione e tassonomia della conoscenza*

knowledge-mobilization

 

La mobilitazione della conoscenza produce conoscenza, uso della conoscenza nel cuore delle comunità e delle organizzazioni, la conoscenza che agisce con le persone è insieme valore che crea valore.

La mobilitazione della conoscenza va oltre la disseminazione della conoscenza dalle sorgenti ai beneficiari, dai ricercatori alla comunità. Non è solo trasmissione, ma conoscenza dinamica, essenziale per costruire reti e relazioni, per progettare attività di conoscenza da condividere. E questo non è ancora abbastanza, perché la conoscenza è la capacità, potenziale o in atto, di realizzare azioni efficaci in varie e differenti situazioni. Un servizio di apprendimento diffuso comunitario e sociale come aspetto fondante dell’istruzione e dell’apprendimento per l’intero arco della vita.

Dovremmo apprendere a vedere dalla parte delle persone, dalla parte del futuro su questo pianeta. Allora le questioni centrali del destino umano sarebbero la conoscenza di noi stessi e l’urgenza di innovare le nostre organizzazioni sociali.

Per questo oggi la mobilitazione delle conoscenze costituisce una potente cornice metodologica, un programma d’azione di grande rilevanza, che richiede tempismo e coordinazione. Distribuire conoscenza, come facciamo con i nostri sistemi tradizionali e con le istituzioni a questo deputate, è ben altra cosa, dal mobilitare le conoscenze.

La transizione dalla società post industriale alla società della conoscenza non è un mero ideale per lo sviluppo sociale e umano, è un processo possibile e necessario. Questo cambiamento richiede la trasformazione della civiltà industriale e delle sue strutture ormai arcaiche verso un disegno intenzionale di società della conoscenza.

Assumere come approccio la mobilitazione delle conoscenze rimette in discussione fino a sovvertire i valori base che sino ad ora hanno sorretto gli assetti e i processi della conoscenza e della sua socializzazione. L’Economia della conoscenza assume il vero significato di comprensione e gestione dell’insieme delle esigenze umane, non solo quelle finanziarie, ma della Società della conoscenza come ordine civile nel quale le dinamiche comunitarie sono bilanciate e non giustificano come centrale la crescita finanziaria.

Lo sviluppo di una coscienza sociale a livello locale e globale, insieme alla capacità di agire correttamente può essere la sola strada nel medio periodo per la sopravvivenza della vita sulla Terra.

I crescenti cambiamenti, che hanno prodotto incertezza e accresciuto la complessità a livello locale come mondiale, pongono la necessità di cogliere la sfida dei processi di mobilitazione delle conoscenze. Il mondo attuale, incline alle sorprese, crea domande e pressioni a tutti i livelli della società, rendendo indispensabile agire rapidamente ed efficacemente.

Apprendimento e collaborazione, apprendimento e circolazione dei risultati delle ricerche sono necessari per innalzare il livello del pensiero umano, per comprendere come proteggere e sostenere l’umanità.

Persona, conoscenza e azione sono i fattori fondamentali per una mobilitazione efficace delle conoscenze. Possono sembrare fattori semplici, ma in realtà sono straordinariamente complessi.

Per esempio, la conoscenza può essere teorica, pratica, ampiamente descrittiva o scarsamente focalizzata. Uno scienziato sociale esprimerebbe la sua conoscenza dei tratti culturali in modo molto differente da un antropologo o da uno psicologo evolutivo.

Di solito la conoscenza per essere compresa dagli altri richiede la condivisione di contesti, che si abbiano dei modelli di pensiero comuni. Ci sono sempre molti modi di agire nella stessa situazione e raramente ce n’è uno solo giusto. Conoscere la tassonomia della conoscenza è allora utile nel prendere decisioni, nell’esecuzione e nel ritorno di informazioni, nei processi di apprendimento, nella risoluzione di problemi, particolarmente in relazione a situazioni complesse.

Sette categorie per una tassonomia della conoscenza

Metaconoscenza. Conoscenza della conoscenza, la sua creazione, i suoi attributi, flusso e integrazione.

Ricerca. Conoscenza teorica e pratica costituita da teorie, principi e osservazioni che provvedono a guidare la comprensione di un fenomeno e le relazioni tra variabili, attributi, processi, etc. Perché le cose accadono.

Prassi. Pragmatica della conoscenza relativa alle regole, alla dinamica dei processi e alla comprensione di come i sistemi si comportano, cambiano e si adattano.

Azione. La conoscenza in azione, spesso tacita. Conoscenza locale che guida le attività pratiche e l’implementazione della conoscenza.

Descrizione. Conoscenza composta di informazioni che descrivono Chi, Che cosa, Quando, Dove.

Strategica. Conoscenza strategica che considera l’azione, l’attività o il compito nei termini della sua funzione nella strategia complessiva e nell’impatto a lungo termine sulla comunità.

Apprendimento. Conoscenza relativa all’apprendimento individuale, di gruppo e di organizzazione. Considera l’apprendimento come processo di mobilitazione della conoscenza, come capacità di apprendimento di soluzioni e di schiudersi al futuro, considera l’impatto del compito sulla capacità di apprendimento della comunità.

*Traduzione e adattamento da Francisco Javier Carrillo, Knowledge Mobilization in the Social Sciences and Humanities, MQI Press

La buona scuola parla francese

buona-scuola

Altro che buona scuola! Dobbiamo andare a lezione dai cugini francesi per imparare di cosa si dovrebbe ragionare quando si ha la pretesa di usare termini come “buona scuola”.

La conferma la fornisce in questi giorni un articolo apparso il 22 settembre sul Corriere della Sera. Najat Valaud-Belkacem, ministra dell’Educazione nazionale del governo Hollande, ha dichiarato che l’obbligo scolastico in Francia sarà innalzato dai sedici ai diciotto anni. Al momento è solo nel programma del Partito socialista francese, ma se Hollande sarà confermato alle presidenziali della prossima primavera diverrà un atto del suo governo.

La questione riguarda anche casa nostra perché, mentre è in corso la sperimentazione del liceo quadriennale (più per risparmio di spesa che per visione prospettica), sull’obbligo scolastico a diciotto anni è sceso il silenzio. Eppure lo stesso PD aveva presentato un emendamento alla legge di stabilità del governo Letta, nel novembre del 2013, per l’innalzamento dell’obbligo scolastico a diciotto anni a partire dal 2014.

I 212 commi della legge di riforma a tale proposito non dicono nulla. Ma evidentemente la “Buona scuola” del governo Renzi è figlia di scarse idee e di troppi compromessi, a partire dal Jobs act che prevede l’apprendistato dai quindici ai venticinque anni. Con l’innalzamento a diciotto anni dell’obbligo scolastico sarebbe impossibile ai quindicenni l’accesso al mondo del lavoro, per non parlare dei vari enti di formazione professionale che nel nostro paese prolificano sulle elevate percentuali di drop out scolastico.

Dai tempi della Moratti, ministro dell’istruzione nel 2004, è stata introdotta la farisaica dizione: “diritto/dovere all’istruzione per dodici anni, o almeno fino al conseguimento di una qualifica entro il 18° anno di età”. “Diritto/dovere” perché in tempi di neoliberalismo dilagante la parola “obbligo” fa troppa impressione, minaccia le libertà individuali e produce mal di pancia.

Intanto tra i paesi dell’Ocse restiamo all’ultimo posto per dispersione scolastica con il nostro 17% e con un ritardo di 16 anni rispetto alla Strategia di Lisbona, a cui l’Italia ha aderito, che già nel 2000 chiedeva, tra l’altro, di contenere l’abbandono precoce degli studi al di sotto del 10% e di portare almeno l’85% dei giovani al conseguimento di un diploma di scuola secondaria superiore. In tutti questi anni le ricerche dell’Ocse-PISA hanno dimostrato che i Paesi con i risultati formativi migliori sono quelli dove la durata dell’obbligo scolastico è più elevata. L’Italia continua ad occupare il fanalino di coda nelle statistiche internazionali.

È che i propositi della ministra francese toccano un altro nervo scoperto del nostro sistema formativo, quello della scuola dell’infanzia che, nonostante nel nostro paese sia frequentata ormai dal 97% dei bambini, non fa parte del sistema scolastico obbligatorio. Lo scorso week end la ministra francese ha scelto di svelare il suo piano con un twitter: «Proporrò di estendere l’obbligo scolastico dai 3 ai 18 anni».

In Italia siamo fermi e la “buona scuola” non promette nulla di buono, la crisi si fa sentire e sul terreno dell’istruzione picchia duro, i soldi per le riforme di cui avremmo bisogno non ci sono. Ce lo dice l’annuale rapporto dell’Ocse “Education at a Glance 2016”, se c’è una certezza il passato domina sulle nostre scuole con insegnanti vecchi e mal pagati, con le materie di sempre, con i compiti a casa che ancora non si sa se fanno bene o male (sic!), ma soprattutto con un taglio, tra il 2008 e il 2013, della spesa pubblica per le istituzioni scolastiche del 14%, pari a quasi il doppio del calo del Pil nel periodo (-8%) e contro un calo inferiore al 2% per altri servizi pubblici.

 

Le generazioni del pensiero morto

scuola675

“In verità, l’umanità non può essere salvata dall’esterno, dai maestri di scuola o da qualsiasi altro genere di maestri: può essere soltanto azzoppata e messa in schiavitù da essi.”  (B. Shaw)
“Voltaire era allievo dei Gesuiti; Samuel Butler era allievo di un parroco di campagna disperatamente convenzionale ed erroneo. Ma Voltaire era Voltaire e Butler era Butler: val a dire, che la loro mente era così anormalmente forte da dar loro la possibilità di liberarsi dalle dosi di veleno che paralizzano le menti comuni.” (B. Shaw)

Educazione nazionale

Mentre gli stati-nazione di fronte alla crescente globalizzazione della società civile sembrano perdere sempre più terreno, i tradizionali modelli di scolarizzazione continuano a resistere. Continuano a resistere le tradizionali forme di educazione nazionale e, forse proprio per questo, è tanto difficile innovare i modi dell’istruzione. Come può un’idea dinamica di conoscenza e sapere esistere e alimentarsi all’interno di in un sistema scolastico pensato per essere statico, ovunque identico a se stesso, per trasmettere valori condivisi nell’intento di garantire la formazione di cittadini leali, patriottici, emozionalmente legati ai simboli dello stato.

In un quadro di educazione, di conformismo, di modellamento l’istruzione è secondaria, l’istruzione diviene strumento ad esclusivo servizio della prima. Così si studiano la storia patria, l’arte e la letteratura, più che per cultura e istruzione, per educazione, per coltivare il sentimento di appartenenza alla propria comunità identitaria. Qui non riveste alcuna importanza la didattica dell’apprendimento, ciò che conta è ascoltare, leggere, ripetere e memorizzare. Ragione e pensiero non possono agire, debbono tacere, perché metterebbero a rischio tutto il progetto, il fine stesso del servizio di educazione nazionale. Così sono cresciute generazioni, e continuano a crescere generazioni dal pensiero morto, dal pensiero mai esercitato, dalla mente che non sa come funzionare, che temono i varchi dove può condurre il ragionare, le sfide a cui l’intelligenza libera può portare.

C’è parsa una grande conquista lottare per affermare il diritto allo studio, il diritto all’istruzione, e sapevamo che erano battaglie per godere tutti delle stesse opportunità di essere conformati, per non rimanere indietro nella rincorsa all’inserimento e all’adattamento, per non mancare agli appuntamenti con la società.

La questione nuova dei diritti

Altra cosa è difendere il diritto al pensiero, alla scoperta dei potenziali della propria intelligenza, accedendo alle conoscenze e ai saperi per liberare i nostri pensieri, per vedere le nostre idee prendere corpo. Si può ancora pensare che libertà e diritti possano conciliarsi con la scuola come ancora oggi perdura un po’ ovunque? Anche i diritti si rivoltano, perché non sono più solo quelli di ieri.

Allora imparare i diritti è già questione nuova, a partire dall’imparare ad apprendere il diritto di essere se stessi, non altri da sé come pretende ogni forma di educazione, ogni pretesa che sia sociale o meno di conformazione, di modellamento della persona secondo un idealtipo che altri da noi hanno deciso essere tale.

Rousseau è morto e con lui il suo contratto sociale. Non è più tempo di “Considerazioni sul governo della Polonia”, di creazioni di identità nazionali e di contratti tra cittadini e stato-nazione. La narrazione umana ha mutato le categorie.

Globale e individuale si intrecciano nei flussi migratori, nelle contaminazioni, così il mondo intero si fa strada entro gli angusti confini dei nostri stati-nazione geografici e mentali. Le categorie che salgono sulle barricate della storia sono “l’etica” e “l’umanità”; barricate contro il sopruso di governi temporali e spirituali che pretendono di continuare a innalzare il vessillo del diritto al controllo sulle donne e sugli uomini schiacciandone le vite.

Educare è parola inquietante che dà i brividi, come se fosse legittimo agire sulle persone per giungere ad uno scopo, solitamente il proprio. Educare è, dunque, di quelle parole da maneggiare con estrema cautela.

Un’idea come quella coltivata da Rousseau, di un Emilio sottratto alla sua famiglia per manipolarlo lontano dalle influenze della società, oggi passerebbe per violenza nei confronti di un minore.

Dai tempi di Rousseau gli stati-nazione hanno ritenuto invece che questo fosse legittimo, purché esercitato nei sistemi scolastici nazionali, e in questo inganno è pure caduto il John Dewey di Democrazia e educazione, di Scuola e società.

Il Capitale Umano

È incredibile come il passaggio al post-industriale e alla globalizzazione stia muovendo il mondo verso tutt’altra direzione. “Capitale umano” è espressione di nuovo conio. Le società non hanno bisogno di forza lavoro, di sudditi, ma di risorse umane. La donna e l’uomo non più come servi, non più come schiavi, non più come massa da sfruttare ma come risorse, come intelligenze dinamiche, è la prima volta nella storia. Siamo entrati nell’era di donne e di uomini la cui intelligenza, il cui sapere costituiscono la risorsa indispensabile per ogni futuro: appunto l’era del “capitale umano”.

Che cos’è il capitale umano se non la somma delle storie di ciascuno, la somma di conoscenze, competenze, abilità, emozioni per quanti siamo?

E allora perché vedere nei flussi migratori che attraversano il vecchio continente solo un’umanità disperata in fuga da guerre e miserie che minaccia la quiete di popoli benestanti, anziché una enorme fuga di cervelli dai loro luoghi di origine, una massa di risorse in fuga, di capitale umano di cui le nostre società hanno invece un’enorme necessità?

Siamo di fronte alla più grande mobilitazione di conoscenze forse mai accaduta, di cui non conosciamo gli esiti, ma certamente destinata a mutare il corso della storia, come ogni migrazione su questa Terra.

Reti umane e reti virtuali attraversano il mondo, nulla è più come prima e nessuna memoria del passato aiuta a imparare, aiuta a comprendere, aiuta a proseguire per una strada che ancora non si conosce.

I sistemi scolastici sono nati per trasmettere soprattutto la tradizione, i bagagli del sapere passato. Mandarli a memoria, ripeterli, riferirli per dimostrare di possederli, per dimostrare di aver appreso i codici della propria cittadinanza sociale. Sono ancora questi i sistemi scolastici che da occidente ad oriente, dal nord al sud del pianeta producono la morte di ogni pensiero, ingabbiano generazioni dopo generazioni con il loro potenziale di interessi, intelligenza, ragione, ricerca, scoperta che solo attende di essere liberato per poter far fronte a questa nuova era di sfida alla cittadinanza umana.

Non è alla descolarizzazione che pensiamo, ma a un’altra idea di scuola, non più al servizio degli stati-nazione, ma al servizio delle donne e degli uomini, al servizio del diritto a non essere educati, ma istruiti, al diritto di vivere questo mondo come persone capaci d’essere sempre consapevoli, perché sanno e conoscono attraverso un processo di apprendimento continuo e diffuso che nasce con la nascita e muore con la morte.

La nostra descolarizzazione è per l’idea che un’altra scuola è possibile, ma per far questo è necessario che le nostre scuole siano poste in grado di difendersi da se stesse, dall’occupazione dei saperi che hanno compiuto, dal loro modo di essere, dall’uso che ancora ne viene fatto.

Libri di testa*

pila_libri

Con l’inizio dell’anno scolastico si ripropone il tema del caro scuola per le famiglie, scuola mia quanto mi costi! La scuola chiede a ciascuno di attrezzarsi: libri, materiale didattico e quant’altro; è perfino invalso l’uso che, soprattutto all’ingresso nella scuola primaria e secondaria di primo grado, gli insegnanti forniscano alle famiglie la lista delle strumentazioni necessarie ad affrontare l’impegno scolastico, solitamente un impegno di banco, ascolto e attenzione. Ovviamente su tutto prolifica l’industria dell’editoria scolastica e l’indotto che gravita attorno ad essa. C’è una sorta di vegetazione che si innesca nel corpo della scuola che ormai si dà per scontata e che si alimenta per via di simbiosi parassitaria, qualcosa di cui nonostante l’autonomia gli istituti scolastici pare non siano in grado di liberarsi.

Secondo i dati del rapporto Eurydice del 2012, i soli paesi europei che impongono agli insegnanti l’uso dei libri di testo sono Grecia, Cipro e Malta, che sono, peraltro, gli unici paesi in cui la selezione dei libri di testo è compiuta a livello centrale.

E allora c’è da chiedersi perché nonostante l’autonomia didattica, organizzativa e di sperimentazione sancita del DPR 275 del 1999, nelle nostre “buone scuole” continui a resistere un arnese così vecchio ed equivoco come il libro di testo in tempi di nuove tecnologie che mettono a disposizione in tempo reale la biblioteca e l’emeroteca più grandi del mondo che permetterebbero di scrivere tanti libri di testa anziché compulsare il libro di testo. Come mai dai tempi di “Dio, patria e caramella” alla biblioteca di lavoro di Mario Lodi il libro di testo continua a resistere come sintomo di una scuola incapace di cambiare se stessa? È una questione grave che denuncia una scarsa spinta al rinnovamento e la resistenza di ampie sacche di pigrizia e di ignoranza.

Nell’altra società, che è il mondo separato della scuola in cui da noi s’usano aggregare per ore quotidiane le infanzie e le adolescenze, si continuano a celebrare antiche usanze e rituali che hanno negli insegnanti i loro sacerdoti, mentre la forza del verbo risiede tra le pagine dei libri di testo, tutti uguali come i messali in chiesa, specificatamente scritti per l’uso scolastico, per onorare le richieste  del sacro dio “programma” o “curricolo standard”, secondo una versione più aggiornata del lessico.

Pensiero, intelligenza, creatività non abitano le nostre aule dove la mediocrità degli insegnamenti nutre altra mediocrità negli allievi in una sorta di coazione a ripetere.

Del resto perché meravigliarsi, quando il sito del Miur celebra il libro di testo come “…lo strumento didattico ancora oggi più utilizzato mediante il quale gli studenti realizzano il loro percorso di conoscenza e apprendimento. Esso rappresenta il principale luogo di incontro tra le competenze del docente e le aspettative dello studente, il canale preferenziale su cui si attiva la comunicazione didattica.”

Non so se l’autore di questo testo, lo stesso ministero, si rendano conto dell’idea di scuola che propagandano: il libro di testo come percorso di conoscenza e apprendimento… luogo di incontro tra docenti e studenti… canale della comunicazione didattica… Questa sarebbe la buona scuola del ventunesimo secolo?  L’idea più malinconica di scuola, di sapere in pillole, di morte della ricerca, di costruzione del sapere, di confronto tra intelligenze. In questa scuola cattedre, banchi e libri di testo sono gli unici ad essere a loro agio, ciò che non potrà mai essere a proprio agio sono le menti dei nostri studenti.

C’è da chiedersi se esistono docenti in grado di far scuola senza il pannolone del libro di testo, c’è da chiedersi cosa si faccia nel nostro paese per far crescere professionalità docenti del tutto nuove, al passo con le sfide dei tempi che viviamo, ma che soprattutto attendono la vita delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Le nostre sono scuole ancora chiuse al sapere, non c’è vita, non c’è dinamica, e soprattutto sono troppo costose per le famiglie che pagano cara una formazione sempre più scadente.

Ma pare che almeno in materia di libri di testo il ministero preferisca stare dalla parte del “si è sempre fatto così” quello che la “Buona scuola” al suo esordio si proponeva di superare, per “pensare in grande”, prometteva. Per il momento il grande non si vede e il “si è sempre fatto così” resiste con la partigianeria dello stesso Miur.

Realizzare una scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica…” “Scuola aperta”, “laboratorio permanente”, dove “permanente” è l’opposto di “saltuariamente”, mica l’hanno scritto persone da una vita didatticamente eversive come il sottoscritto, è solo il testo del comma 1 dell’articolo 1 della legge 107 di riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione. Al momento le uniche cose che le nostre scuole promettono di aprire sono le pagine dei quaderni e dei libri di testo sui banchi nelle aule.

Continuo a credere che “la buona scuola” non sia in grado di curare i mali del nostro sistema nazionale di istruzione e formazione, perché neppure l’accanimento terapeutico può pretendere di tenere in vita nel terzo millennio un “sistema” scolastico, sottolineo sistema, che ha fatto da tempo il suo tempo e che meriterebbe di conquistarsi finalmente il riposo eterno.

*Pubblicato su Edscuola

http://www.edscuola.eu/wordpress/?p=80499

Cittadini non per caso

global-citizens-learning-and-teaching-scotland

Quando ero piccolo, percorrere e scoprire la città a cavallo della mia bicicletta era un’avventura iniziatica piena di possibilità e di emozioni. Sono rimasto convinto che non si è cittadini solo perché si nasce per caso in un determinato luogo e neppure per lo status di cittadino attribuito o conferito da una autorità.

La città è il telaio che tesse i fili della nostra crescita, della nostra formazione, della nostra vita, è il libro aperto delle opportunità personali e collettive, è lo spazio della libertà, dell’incontro, del riconoscimento, della solidarietà.

L’intenzionalità formativa non può che essere una dimensione forte e pregnante della città e della cittadinanza. Non ha senso invocare la necessità della formazione, se poi la città per prima non mette in gioco tutte le sue componenti a questo scopo. A partire dal ripensare se stessa, dal ripensare ai bisogni formativi dei suoi giovani e dei suoi abitanti in generale, senza attendere gli input dall’alto, dalle politiche nazionali. I bisogni, le necessità del cambiamento non nascono in territori lontani, ma giorno dopo giorno vicino a noi, nel territorio che abitiamo.

Se si conviene sulla necessità che la formazione oggi punti alla costruzione di mappe personali utili per orientarsi e situarsi in questo mondo dove tutto è globale, simultaneo e compresente, dove spazio e tempo si dilatano, dove valori, credenze, lingue si manifestano, si contaminano, si intersecano, non si può che riconoscere che oggi è la città ad essere il laboratorio più significativo, più ricco, più interessante  per la formazione, per una formazione coerente con le aspettative culturali che la società ripone in merito al fatto formativo.

La componente educativa oggi non ha più la sua caratteristica centrale nella scuola, ma nella territorialità. È la territorialità che rende le esperienze educative calde, che consente di sporcarsi sanamente le mani, che rende le esperienze educative piene di risonanze e fortemente contestualizzate, è questa profonda immersione nella realtà che la città deve preoccuparsi di favorire e di accogliere, non tanto l’istruzione curriculare, che non è di sua competenza.

Ogni momento della città dovrebbe contenere un’opportunità educativa strutturata, rivolta soprattutto ai giovani. Una città che non sa creare cortocircuiti con i suoi giovani è destinata a perdere energia, a spegnersi. E allora perché questo non accada è necessario che la città sia una realtà significativa per i giovani, che offra loro implicazioni operative, emozionali e progettuali.

Una città senza un proprio progetto formativo è una città senza futuro, perché non si sa pensare in prospettiva. Un progetto formativo con un ruolo, una funzione, una responsabilità per ciascuno: il governo della città in primo luogo, i servizi pubblici, le istituzioni e le strutture culturali, il mondo della creazione e della produzione culturale, dell’arte, delle scienze e delle nuove tecnologie, il mondo delle organizzazioni economiche e del lavoro, le associazioni, la stampa, la radio e la televisione locale.

E, senza dubbio, in questo quadro generale della città, anche la scuola. La scuola può svolgere un grande ruolo per quanto riguarda il lavoro sulle idee e le opzioni cognitive. Alla scuola compete il compito di far emergere i modi diversi attraverso i quali l’uomo si rappresenta il mondo. La scuola è la palestra che esercita al conflitto cognitivo, al confronto fra idee diverse per prendere coscienza di cosa significa la cultura, della necessità che ogni persona ha di ricostruire mentalmente la realtà esterna, di dare una spiegazione di essa. Ma le spiegazioni possibili sono tante, per questo essere istruiti significa rispettare la diversità e nello stesso tempo cercare di condividerla il più possibile. Se questa doppia lezione non si impara a scuola, è difficile che possa essere insegnata altrove. È dovere della scuola garantire la comunità che tale servizio è svolto con serietà e tenacia, perché è a scuola che si può e si deve imparare a imparare, questo è l’obiettivo prioritario della scuola al servizio del territorio e dei diritti di cittadinanza.

Due oggi sono le principali esigenze di formazione che definiscono l’istruzione: un alto grado di intellettualità e un elevato grado di solidarietà. Il primo per consentire a ciascuno di raggiungere i livelli di sviluppo scientifico e tecnologico richiesti dalla civiltà contemporanea; il secondo, per apprezzare i valori delle diverse culture, per superare la crescente emarginazione e l’esclusione che la globalizzazione della società di oggi genera e tende ad aumentare.

La cittadinanza può anche essere come una pianta che cresce in mezzo a un terreno contaminato, ai margini delle autostrade più trafficate o tra le fabbriche più inquinanti. La città bisogna sapersela conquistare, perché è viva, perché palpita, perché è desiderio. Come   la Zenobia di Calvino per la quale non si può utilizzare la classica categoria della felicità e dell’infelicità, ma quella del desiderio. Ci sono le città che realizzano i desideri dei loro abitanti e quelle che li ignorano fino a cancellarli.

 

Quando ero piccolo, percorrere e scoprire la città a cavallo della mia bicicletta era un’avventura iniziatica piena di possibilità e di emozioni. Sono rimasto convinto che non si è cittadini solo perché si nasce per caso in un determinato luogo e neppure per lo status di cittadino attribuito o conferito da una autorità.

La città è il telaio che tesse i fili della nostra crescita, della nostra formazione, della nostra vita, è il libro aperto delle opportunità personali e collettive, è lo spazio della libertà, dell’incontro, del riconoscimento, della solidarietà.

L’intenzionalità formativa non può che essere una dimensione forte e pregnante della città e della cittadinanza. Non ha senso invocare la necessità della formazione, se poi la città per prima non mette in gioco tutte le sue componenti a questo scopo. A partire dal ripensare se stessa, dal ripensare ai bisogni formativi dei suoi giovani e dei suoi abitanti in generale, senza attendere gli input dall’alto, dalle politiche nazionali. I bisogni, le necessità del cambiamento non nascono in territori lontani, ma giorno dopo giorno vicino a noi, nel territorio che abitiamo.

Se si conviene sulla necessità che la formazione oggi punti alla costruzione di mappe personali utili per orientarsi e situarsi in questo mondo dove tutto è globale, simultaneo e compresente, dove spazio e tempo si dilatano, dove valori, credenze, lingue si manifestano, si contaminano, si intersecano, non si può che riconoscere che oggi è la città ad essere il laboratorio più significativo, più ricco, più interessante  per la formazione, per una formazione coerente con le aspettative culturali che la società ripone in merito al fatto formativo.

La componente educativa oggi non ha più la sua caratteristica centrale nella scuola, ma nella territorialità. È la territorialità che rende le esperienze educative calde, che consente di sporcarsi sanamente le mani, che rende le esperienze educative piene di risonanze e fortemente contestualizzate, è questa profonda immersione nella realtà che la città deve preoccuparsi di favorire e di accogliere, non tanto l’istruzione curriculare, che non è di sua competenza.

Ogni momento della città dovrebbe contenere un’opportunità educativa strutturata, rivolta soprattutto ai giovani. Una città che non sa creare cortocircuiti con i suoi giovani è destinata a perdere energia, a spegnersi. E allora perché questo non accada è necessario che la città sia una realtà significativa per i giovani, che offra loro implicazioni operative, emozionali e progettuali.

Una città senza un proprio progetto formativo è una città senza futuro, perché non si sa pensare in prospettiva. Un progetto formativo con un ruolo, una funzione, una responsabilità per ciascuno: il governo della città in primo luogo, i servizi pubblici, le istituzioni e le strutture culturali, il mondo della creazione e della produzione culturale, dell’arte, delle scienze e delle nuove tecnologie, il mondo delle organizzazioni economiche e del lavoro, le associazioni, la stampa, la radio e la televisione locale.

E, senza dubbio, in questo quadro generale della città, anche la scuola. La scuola può svolgere un grande ruolo per quanto riguarda il lavoro sulle idee e le opzioni cognitive. Alla scuola compete il compito di far emergere i modi diversi attraverso i quali l’uomo si rappresenta il mondo. La scuola è la palestra che esercita al conflitto cognitivo, al confronto fra idee diverse per prendere coscienza di cosa significa la cultura, della necessità che ogni persona ha di ricostruire mentalmente la realtà esterna, di dare una spiegazione di essa. Ma le spiegazioni possibili sono tante, per questo essere istruiti significa rispettare la diversità e nello stesso tempo cercare di condividerla il più possibile. Se questa doppia lezione non si impara a scuola, è difficile che possa essere insegnata altrove. È dovere della scuola garantire la comunità che tale servizio è svolto con serietà e tenacia, perché è a scuola che si può e si deve imparare a imparare, questo è l’obiettivo prioritario della scuola al servizio del territorio e dei diritti di cittadinanza.

Due oggi sono le principali esigenze di formazione che definiscono l’istruzione: un alto grado di intellettualità e un elevato grado di solidarietà. Il primo per consentire a ciascuno di raggiungere i livelli di sviluppo scientifico e tecnologico richiesti dalla civiltà contemporanea; il secondo, per apprezzare i valori delle diverse culture, per superare la crescente emarginazione e l’esclusione che la globalizzazione della società di oggi genera e tende ad aumentare.

La cittadinanza può anche essere come una pianta che cresce in mezzo a un terreno contaminato, ai margini delle autostrade più trafficate o tra le fabbriche più inquinanti. La città bisogna sapersela conquistare, perché è viva, perché palpita, perché è desiderio. Come   la Zenobia di Calvino per la quale non si può utilizzare la classica categoria della felicità e dell’infelicità, ma quella del desiderio. Ci sono le città che realizzano i desideri dei loro abitanti e quelle che li ignorano fino a cancellarli.

 

 

 

Essere una learning city, una Città che apprende

Learning city

È importante conoscere le linee guida dell’Unesco per la Rete Mondiale delle Learning Cities, le città che apprendono. Conoscerle per misurare la nostra distanza da una rinnovata visione dell’apprendimento e, in particolare, dall’avere realizzato l’istruzione permanente per tutti.

Forse nel nostro Paese nutriamo la presunzione di aver compiuto grandi passi avanti in materia di istruzione, è un’illusione che si può continuare a coltivare solo rimanendo ancorati a categorie già inadeguate nel secolo scorso e che oggi in tante parti del mondo si stanno rivedendo.

Basta scorrere le sei caratteristiche che per l’Unesco deve avere una learning city per comprendere dove è necessario impegnarsi per fare di una città, una città che apprende:

 

  1. Promuovere l’apprendimento inclusivo, da quello di base agli studi universitari;

  2. Rivitalizzare l’apprendimento nelle famiglie e nella comunità;

  3. Facilitare l’apprendimento continuo e nei luoghi di lavoro;

  4. Estendere l’uso delle moderne tecnologie per l’apprendimento;

  5. Migliorare la qualità e l’eccellenza dell’apprendimento;

  6. Coltivare la cultura dell’apprendimento per tutta la vita.

 

Nel nostro paese continua a prevalere una concezione dell’istruzione scolastico-centrica, quando tutto il sistema formativo avrebbe la necessità di essere rivisto nell’ottica dell’istruzione permanente. L’idea dominante di un’istruzione prevalentemente scolastica fa sì che essa sia segmentata per età, a discapito di un’idea del diritto all’istruzione che abbraccia l’intero arco della vita delle persone.

Da questo punto di vista la riforma del titolo V della Costituzione è rimasta un’opera incompiuta. È sufficiente riprendere l’articolo 117 per cui lo Stato ha legislazione esclusiva solo per le norme generali dell’istruzione, mentre esiste un vasto campo di materie, tra cui l’istruzione permanente, di legislazione concorrente Stato e Regioni che necessiterebbe d’essere governato. Chi si occupa dell’istruzione permanente? Non intesa come istruzione degli adulti, ma come istruzione per l’intero arco della vita? Dalla pre-scuola, all’università e oltre? È evidente che gli strumenti normativi, prevalentemente concepiti negli anni settanta del secolo scorso oggi sono del tutto inadeguati e che il sistema formativo nel suo complesso necessita di una nuova stagione legislativa, non nell’ottica della sola riforma della scuola e dell’università, ma di un ripensamento radicale dell’istruzione per tutti e ad ogni età.

Quando neppure sappiamo il futuro che vogliamo, tutto diventa più difficile. Eppure, in materia di istruzione i documenti non mancano, sono quelli a cui fa riferimento l’Unesco, le Dichiarazioni di Città del Messico e di Pechino, l’Agenda per lo sviluppo dopo il 2015, ma nel nostro paese non girano, non se ne parla, bisogna tradurli dal sito dell’Unesco della rete mondiale delle learning cities.

L’apprendimento permanente per tutti è il futuro della nostra società, sia per il potenziamento e la crescita individuale delle persone, che per la coesione sociale, lo sviluppo economico e la crescita culturale. Ma non sembra essere nell’agenda del governo, come non è nell’agenda dell’amministrazione delle nostre città, non si vede l’impegno politico, né la mobilitazione delle risorse, né il coinvolgimento di tutti i soggetti ed attori interessati.

Quarantadue sono gli indicatori individuati dall’Unesco per verificare se una città è impegnata a sviluppare una politica per convertirsi in una learning city, una città che apprende. Sono indicatori che valgono per le città, come per il paese e le regioni. (In calce riportiamo il pdf con le indicazioni dell’Unesco)

Sono indicatori impegnativi per il governo della città, perché prevedono per ognuno gli strumenti per una valutazione costante e sistematica e le modalità di misurazione. Il problema delle nostre città è che, nonostante si facciano promotrici di molteplici iniziative, che siano città d’arte e di cultura, nessuna di loro dichiara la volontà politica di essere una città che apprende, una learning city. Perché è più facile fare spettacolo, portare turismo con gli eventi e le mostre, che mettere in campo giorno dopo giorno una non facile politica dalla parte dei cittadini, della loro crescita nel sapere, per uno sviluppo sostenibile e per una consapevole e responsabile partecipazione di tutti.

È giunto il momento di pretendere dalle Amministrazioni delle nostre città che aderiscano alla Rete mondiale dell’Unesco delle Città che Apprendono, delle Learning Cities, mettendo in capo alla loro agenda politica gli impegni che questo comporta.

Elementi costitutivi della Learning City (pdf.)

Visita il sito: http://learningcities.uil.unesco.org/home

Umanità: un prototipo di libro di testo per un curricolo mondiale

A new paradigm for

 

Produzione e consumo non sono il massimo per garantire all’umanità una vita lunga e felice. Ogni giorno pezzi di questo sistema mostrano la loro fragilità e i danni che arrecano alla nostra esistenza. Ciò nonostante i nostri sistemi scolastici nazionali continuano ad educare le giovani generazioni in funzione di questo sistema economico e sociale. Un sistema che non ci promette né una vita lunga né una vita felice.

Con il suo libro Joel Spring dimostra che è possibile un nuovo modello di scuola mondiale. In tanto è possibile una scuola che insegni a vivere a lungo e felici.

Joel Spring sviluppa le linee guida di un programma, di metodi di insegnamento, di organizzazione scolastica che potrebbero essere comuni alle scuole di tutto il mondo. Un sistema scolastico mondiale fondato sull’educazione progressiva, sui diritti umani e sull’educazione ambientale.

Un prototipo di eco-scuola globale che funzioni per proteggere i diritti della biosfera e dell’uomo, per sostenere la felicità e il benessere di ogni persona, dal personale della scuola, agli studenti, alle nostre comunità, un core curriculum globale basato su modelli olistici per le lezioni e l’istruzione.

 Il libro si conclude con il racconto che Spring fa del Mito della caverna di Platone, in cui gli educatori rompono le catene che li legano al paradigma industriale-consumistico e ripensano il loro impegno per il benessere dell’umanità.

Qui offriamo la traduzione del capitolo 6: Umanità: un prototipo di libro di testo per un curricolo mondiale.

Umanità

 

World Education Forum 2015*

 

2015-EWF-1

19-22 May 2015, Incheon, Republic of Korea
Per un’educazione di qualità equa e inclusiva e per l’educazione permanente per tutti entro il 2030. Trasformare la vita attraverso l’istruzione

 Dichiarazione di Incheon

 

Preambolo

1. Noi, ministri, capi e membri delle delegazioni, capi di agenzie, funzionari di organismi internazionali, rappresentanti della società civile, dei settori del privato, insegnanti e giovani riuniti nel maggio 2015, su invito del Direttore Generale dell’UNESCO, a Incheon, Repubblica di Corea, per il Forum Mondiale dell’Educazione 2015 (WEF 2015), ringraziamo il Governo e il popolo della Repubblica di Corea per aver ospitato questo importante evento, così come l’UNICEF, la Banca Mondiale, UNFPA, UNDP, UN Women e l’UNHCR, come co-promotori di questo incontro, per i loro contributi. Esprimiamo il nostro sincero apprezzamento all’UNESCO per aver avviato e diretto la convocazione di questo evento, pietra miliare per l’Istruzione 2030.

2. In questa occasione storica, riaffermiamo la visione del movimento mondiale “Istruzione per Tutti” avviata a Jomtien nel 1990 e ribadita a Dakar nel 2000, l’impegno più importante per l’istruzione negli ultimi decenni, che ha contribuito a produrre significativi progressi in materia di istruzione. Riaffermiamo inoltre la visione e la volontà politica, riflesse in numerosi trattati internazionali, che prevedono il diritto all’istruzione e la sua interrelazione con gli altri diritti umani. Riconosciamo gli sforzi fatti; tuttavia, riconosciamo con grande preoccupazione che siamo ben lungi dall’aver raggiunto l’istruzione per tutti.

3. Ricordiamo l’accordo di Muscat, sviluppato attraverso ampie consultazioni e adottato in occasione del Global Education for All (EFA) Meeting 2014, che ha raccolto gli obiettivi formativi proposti dal gruppo di lavoro, rivolti ad uno sviluppo sostenibile (OSS). Ricordiamo inoltre i risultati delle conferenze ministeriali regionali in materia di istruzione post 2015 e prendiamo atto dei risultati dell’EFA 2015 sulla base del Global Monitoring Report e della sintesi dei rapporti EFA regionali. Riconosciamo l’importante contributo del Global Education First Initiative, nonché il ruolo dei governi e delle organizzazioni regionali, intergovernative e non governative per l’impegno politico per l’istruzione.

4. Dopo aver fatto il punto sui progressi compiuti verso gli obiettivi EFA dal 2000 e gli obiettivi relativi allo sviluppo dell’istruzione nel Millennio (MDG), così come sulle lezioni apprese, e dopo aver esaminato le sfide rimanenti e deliberato sulla proposta di ordine del giorno 2030 l’istruzione e il quadro d’azione, nonché sulle priorità future e le strategie per la sua realizzazione, adottiamo questa Dichiarazione.

Verso il 2030: una nuova visione per l’istruzione

5. La nostra visione è quella di cambiare la vita attraverso l’educazione, riconoscendo l’importante ruolo dell’istruzione come motore principale dello sviluppo e di raggiungere gli altri obiettivi SDGs (Obiettivi di Sviluppo Sostenibile). Ci impegniamo, con il senso dell’urgenza, per una nuova agenda della formazione olistica e ambiziosa che non lasci nessuno indietro. Questa nuova visione è compiutamente espressa dalla proposta di SDG4: “Garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere le opportunità di apprendimento permanente per tutti” e dagli obiettivi corrispondenti. Una visione trasformativa e universale, di sostegno al lavoro non ancora compiuto dell’agenda EFA e OSM relativa all’istruzione, per affrontare le sfide educative a livello globale e nazionale. È ispirata da una visione umanistica della formazione e dello sviluppo basato sui diritti e sulla dignità umana, sulla giustizia sociale, l’inclusione, la protezione, la diversità culturale, linguistica ed etnica, sulla responsabilità e sulla responsabilità condivisa. Riaffermiamo che l’istruzione è un bene pubblico, un diritto umano fondamentale, è la base per garantire la realizzazione di altri diritti. È essenziale per la pace, la tolleranza, la realizzazione umana e lo sviluppo sostenibile. Riconosciamo la formazione come chiave per raggiungere la piena occupazione e l’eliminazione della povertà. Concentreremo i nostri sforzi in materia di accesso, di equità e di inclusione, sulla qualità dell’apprendimento, in un approccio di istruzione permanente.

6. Motivati dai risultati significativi ottenuti per ampliare l’accesso all’istruzione negli ultimi 15 anni, ci impegniamo per 12 anni di istruzione primaria e secondaria libera, finanziata con fondi pubblici, di cui almeno nove obbligatori e un anno di istruzione prescolastica di qualità, gratuita e obbligatoria. Che tutti i bambini abbiano accesso nella prima infanzia a cure e educazione di qualità. Ci impegniamo a fornire opportunità di istruzione e di formazione significative per la vasta popolazione di bambini e di adolescenti ancora esclusa dalla scuola, con un intervento immediato, mirato a garantire l’istruzione a tutti.

7. Inclusione ed equità attraverso l’istruzione sono la pietra angolare di un programma di sviluppo attraverso l’istruzione, pertanto ci impegniamo ad affrontare tutte le forme di esclusione e di emarginazione, le disparità e le disuguaglianze nell’ accesso, nella partecipazione e nei risultati. Nessun obiettivo educativo può essere considerato soddisfatto se non raggiunto da tutti. Pertanto ci impegniamo a compiere i cambiamenti necessari nelle politiche dell’istruzione, concentrando i nostri sforzi sui più svantaggiati, in particolare coloro che hanno disabilità, al fine di garantire che nessuno sia lasciato indietro.

8. Riconosciamo l’importanza della parità di genere nella realizzazione del diritto all’istruzione per tutti. Siamo quindi impegnati a sostenere politiche, programmi, ambienti di apprendimento sensibili alla parità di genere; l’integrazione delle questioni di genere nella formazione degli insegnanti e dei curricula; eliminando le discriminazioni di genere e la violenza nelle scuole.

9. Ci impegniamo per un’istruzione di qualità, per migliorare i risultati dell’apprendimento. Ciò richiede il rafforzamento degli input, dei processi e della valutazione dei risultati, oltre agli strumenti per misurare i progressi. Faremo in modo che gli insegnanti e gli educatori vengano assunti tra i più professionalmente qualificati, motivati e che siano poi supportati con le risorse necessarie e da sistemi efficienti oltre che efficacemente governati. Un insegnamento di qualità stimola la creatività e la conoscenza, garantisce l’acquisizione delle competenze fondamentali, l’analisi, il problem-solving, alti livelli cognitivi, abilità interpersonali e sociali. Sviluppa inoltre le capacità, i valori e gli atteggiamenti che consentono ai cittadini di condurre una vita sana e soddisfacente, prendere decisioni informate, rispondere alle sfide locali e globali attraverso l’educazione ad uno sviluppo sostenibile (ESD) e l’educazione alla cittadinanza globale (GCED). A questo proposito, sosteniamo con forza l’attuazione del programma d’azione globale sulla ESD, inaugurato alla Conferenza mondiale dell’UNESCO sulla ESD a Aichi-Nagoya nel 2014. Sottolineiamo anche l’importanza dell’istruzione e della formazione ai diritti umani, al fine di realizzare l’agenda per lo sviluppo sostenibile post 2015.

10. Ci impegniamo a promuovere opportunità di apprendimento permanente di qualità per tutti, in tutti gli ambiti e a tutti i livelli di istruzione. Questo include l’accesso all’istruzione tecnica, alla formazione professionale e all’istruzione superiore di maggiore qualità e una ricerca che dia garanzie di qualità. Inoltre, la fornitura di percorsi di apprendimento flessibili ed è importante il riconoscimento, la convalida e l’accreditamento delle conoscenze, abilità e competenze acquisite attraverso l’istruzione non formale e informale. Ci impegniamo inoltre a garantire che tutti i giovani e gli adulti, in particolare le ragazze e le donne, raggiungano rilevanti e riconosciuti livelli di conoscenza della lingua e della matematica, di competenze funzionali e di competenze di vita, e che siano fornite agli adulti opportunità di apprendimento, istruzione e formazione. Siamo inoltre impegnati a rafforzare lo studio delle scienze, la tecnologia e l’innovazione. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) devono essere utilizzate per rafforzare i sistemi di istruzione, la diffusione delle conoscenze, l’accesso a informazioni di qualità e a un apprendimento efficace con la fornitura di servizi più efficienti.

11. Inoltre si segnala la grave preoccupazione per l’esclusione di gran parte della popolazione mondiale dalla scuola perché vive in aree colpite da conflitti, e che crisi, violenze e attacchi contro le scuole, oltre ai disastri naturali e alle pandemie, continuano a sconvolgere l’educazione e lo sviluppo a livello globale. Ci impegniamo a sviluppare sistemi educativi più inclusivi, sensibili e resistenti per soddisfare le esigenze di bambini, giovani e adulti in questi contesti, tra sfollati interni e rifugiati. Sottolineiamo la necessità di un’educazione da realizzare in ambienti di apprendimento sicuri, solidali e privi di violenza. È necessario rispondere alle crisi con interventi di emergenza attraverso il recupero e la ricostruzione; coordinando meglio le risposte nazionali, regionali e globali; con lo sviluppo di capacità per la riduzione del rischio globale e la mitigazione al fine di garantire che l’istruzione venga mantenuta durante situazioni di conflitto, di emergenza, post-conflittuale e di recupero precoce.

Attuare la nostra agenda comune

12. Ribadiamo che la responsabilità principale di attuare con successo questo ordine del giorno è dei governi. Siamo determinati a stabilire un quadro giuridico e politico che promuova la responsabilità e la trasparenza, nonché la governance partecipativa e collaborazioni coordinate a tutti i livelli e in tutti i settori, per difendere il diritto alla partecipazione di tutte le parti interessate.

13. Chiediamo una forte collaborazione globale e regionale, la cooperazione, il coordinamento e il monitoraggio dell’attuazione del programma di formazione basato sulla raccolta di dati, analisi e reporting a livello nazionale, nel quadro delle entità regionali, dei meccanismi e delle strategie.

14. Riconosciamo che il successo del programma di istruzione 2030 richiede politiche di pianificazione, nonché modalità di attuazione efficienti. È anche chiaro che le aspirazioni racchiuse nella proposta di SDG4 non possono essere realizzate senza un aumento significativo e ben mirato dei finanziamenti, in particolare in quei paesi che devono raggiungere l’istruzione di qualità per tutti a tutti i livelli. Pertanto siamo determinati ad aumentare la spesa pubblica per l’istruzione secondo i contesti nazionali, e sollecitare il rispetto dei parametri di riferimento internazionali e regionali di allocazione efficiente almeno 4-6% del prodotto interno lordo e/o di almeno il 15 – 20% del totale della spesa pubblica per l’istruzione.

15. Tenendo conto dell’importanza della cooperazione per lo sviluppo nel completare gli investimenti da parte dei governi, chiediamo ai paesi sviluppati, ai paesi emergenti, quelli a medio reddito e alle istituzioni finanziarie internazionali di aumentare i finanziamenti per l’istruzione e per sostenere l’attuazione del programma in base alle esigenze e alle priorità dei paesi. Ci rendiamo conto che il rispetto di tutti gli impegni relativi all’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) è di fondamentale importanza, tra cui gli impegni di molti paesi sviluppati per raggiungere l’obiettivo dello 0,7 per cento del prodotto nazionale lordo (PNL) per l’APS nei paesi in via di sviluppo. In conformità con i loro impegni, sollecitiamo i paesi sviluppati, che non l’hanno ancora fatto, a compiere sforzi concreti supplementari verso l’obiettivo dello 0,7 per cento del PIL per l’APS nei paesi in via di sviluppo. Ci impegniamo anche ad aumentare il nostro sostegno ai paesi meno sviluppati. Riconosciamo inoltre l’importanza di sbloccare tutte le risorse possibili per sostenere il diritto all’istruzione. Raccomandiamo di migliorare l’efficacia degli aiuti attraverso un migliore coordinamento e armonizzazione dei finanziamenti e degli aiuti ai paesi a basso reddito. Chiediamo un maggiore sostegno per l’istruzione dove si protraggono crisi umanitarie. Accogliamo con favore le conclusioni del vertice sull’Educazione per lo Sviluppo di Oslo (luglio 2015) e chiediamo di sostenere il programma di finanziamento della Conferenza per lo sviluppo di Addis Abeba per sostenere la proposta di SDG4.

16. Chiediamo a quanti hanno promosso il Foro Mondiale per l’Istruzione 2015, in particolare all’UNESCO, nonché a tutti i partner, di sostenere i paesi, singolarmente e nel loro insieme, dando attuazione all’agenda dell’istruzione 2030, fornendo consulenza tecnica, promuovendo lo sviluppo delle capacità nazionali e il sostegno finanziario sulla base dei rispettivi mandati. A tal fine, affidiamo all’UNESCO, in consultazione con gli Stati membri, i promotori del WEF 2015 e altri partner, il compito di istituire un adeguato organo di coordinamento globale. Ritenendo necessaria una partnership mondiale per l’istruzione per finanziare e sostenere l’attuazione del programma secondo le esigenze e le priorità dei singoli paesi, chiediamo che l’Unesco sia parte di questo futuro organo di coordinamento globale.

17. All’UNESCO, come agenzia delle Nazioni Unite per l’istruzione, è affidato il compito di continuare a svolgere il ruolo di guida e coordinamento del programma “Istruzione 2030”, in particolare di: incoraggiare e sostenere l’impegno politico; facilitare il dialogo politico, la condivisione delle conoscenze e degli standard da raggiungere; compiere il monitoraggio dei progressi verso gli obiettivi di istruzione; convocare le parti interessate a livello mondiale, regionale e nazionale per orientare l’attuazione dell’ordine del giorno; funzionare come punto di riferimento per i coordinamento e la complessiva architettura del SDG.

18. Noi decidiamo di sviluppare sistemi di monitoraggio e di valutazione nazionali al fine di monitorare le politiche e la gestione dei sistemi di istruzione, nonché per garantire responsabilità trasparenza e rendicontazione sociale. Chiediamo inoltre ai promotori del WEF 2015 e a tutti i partner di sostenere lo sviluppo delle capacità di raccogliere dati, di compiere analisi e fornire report a livello nazionale. I paesi devono cercare di migliorare la qualità, i livelli di disaggregazione e di tempestività nella segnalazione dei dati all’Istituto di statistica dell’UNESCO. Chiediamo, inoltre, che l’Education for All Global Monitoring Report proceda indipendentemente dal Global Education Monitoring Report (GEMR), ospitato e pubblicato dall’UNESCO, come organismo di monitoraggio e comunicazione del progetto SDG4, dell’istruzione negli altri progetti SDGs, all’interno dell’organo da istituire per monitorare e valutare l’attuazione dei SDGs proposti.

19. Abbiamo discusso e concordato gli elementi essenziali d’azione del quadro Education 2030. Tenendo conto del vertice delle Nazioni Unite per l’adozione del programma di sviluppo post 2015 (New York, settembre 2015), e i risultati della Terza Conferenza Internazionale sul finanziamento dello sviluppo (Addis Abeba, luglio 2015), la versione finale sarà presentata per l’adozione e il lancio in una speciale riunione ad alto livello per organizzare insieme la 38a sessione della Conferenza Generale dell’UNESCO nel novembre 2015. Siamo pienamente impegnati alla sua attuazione dopo la sua adozione, a ispirare e guidare i paesi e i partner per garantire che il nostro ordine del giorno sia raggiunto.

20. Sulla base dell’eredità di Jomtien e Dakar, questa Dichiarazione di Incheon è un impegno storico da parte di tutti noi per trasformare la vita attraverso una nuova visione dell’istruzione, con azioni coraggiose e innovative, per raggiungere il nostro ambizioso obiettivo entro il 2030.

*Traduzione di Giovanni Fioravanti

Il festival dell’apprendimento*

festival-of-education-visible-learning-john-hattie-video

La città che apprende

È dal 2004 che l’amministrazione della città di Cork organizza il ‘learning festival’ per promuovere l’apprendimento fra i suoi cittadini. Cork è una città dell’Irlanda, seconda come densità demografica dopo Dublino. Come tante altre città nel mondo, Cork nello scorso mese di marzo, dal 23 al 29, ha celebrato il suo dodicesimo festival dell’apprendimento.

Cittadini, istituzioni, associazioni e organizzazioni hanno promosso eventi, hanno aperto i loro spazi per offrire alla gente un saggio di tutte le opportunità di apprendimento disponibili in città. Per una settimana l’apprendimento si è presentato al pubblico con spettacoli gratuiti, dibattiti, sessioni di prova, visite guidate, mostre e dimostrazioni. Centri per le famiglie, comunità, biblioteche, teatri, musei, parchi, campi sportivi, scuole e università i luoghi coinvolti. ‘Indaga, partecipa, celebra l’apprendimento’, il motto del festival di quest’anno, che come sempre si propone di motivare i cittadini di ogni età, con capacità e interessi molto diversi, a condividere le proprie competenze e ad acquisirne di nuove.

L’apprendimento è condivisione

La Commissione dell’Unione Europea da tempo ha coraggiosamente affermato che l’apprendimento continuo non è più solo un aspetto dell’educazione e della formazione: deve diventare il fondamento, il principio guida dell’intero sistema formativo, dell’intero sistema di erogazione e di partecipazione sullo spettro totale dei contesti di apprendimento.

L’enfasi va posta sui diritti dell’individuo come discente, sullo sviluppo del potenziale individuale, su sistemi formativi fondati sul diritto universale ad apprendere, sul piacere, sul promuovere e certificare il successo anziché, come ancora accade nelle nostre scuole, sanzionare l’insuccesso, sull’abbattere le barriere dell’apprendimento, sulla soddisfazione dei bisogni e delle istanze di chi apprende, sul celebrare l’apprendimento con festival dedicati all’apprendimento.

In questa prospettiva è evidente che tutta la società deve farsi apprendimento, perché gli individui e la scuola con le solo loro forze non sarebbero in grado di risolvere tutti i problemi della conoscenza.

In questa dimensione l’apprendimento è condivisione, è cura, è evento quotidiano gestito dalle persone, anziché processo che avviene in modo quasi esclusivo all’interno delle istituzioni scolastiche.

Diventare una Learning City

Secondo il programma della Commissione dell’Unione Europea una ‘learning city’, una città che apprende va al di là del proprio compito istituzionale di fornire istruzione e formazione, crea un ambiente partecipativo, culturalmente consapevole ed economicamente vivace, attraverso la fornitura e la promozione attiva di opportunità di apprendimento in grado di sviluppare il potenziale di tutti i suoi abitanti.

Riconosce e comprende il ruolo fondamentale dell’apprendimento per la prosperità, la stabilità sociale e la realizzazione personale, mobilita creativamente e sensibilmente tutte le risorse umane, fisiche e finanziarie per sviluppare appieno il potenziale umano di tutti i suoi abitanti.

Le partnership locali per l’apprendimento continuo sono le scuole, le università, le imprese, gli enti locali e regionali, i centri di formazione per gli adulti e le associazioni di volontariato.

La città della conoscenza incoraggia lo spirito di cittadinanza e il volontariato, i progetti che permettono di attivare l’impegno, il talento, l’esperienza, le conoscenze presenti nelle comunità.

La città della conoscenza estende il numero dei luoghi in cui avviene l’apprendimento, in modo che i cittadini possano riceverlo dovunque, quando e come vogliono. L’apprendimento è considerato creativo, appagante e piacevole. Ogni aspetto della comunità fa parte integrante del programma di apprendimento. Le biblioteche, i musei, i parchi, le palestre, i negozi, le banche, le aziende, gli uffici municipali, le fattorie, le fabbriche, le strade e l’ambiente forniscono opportunità di apprendimento, strutture e servizi per autodidatti.

Festeggiare l’apprendimento

Nel nostro Paese si tengono ogni anno i festival della letteratura, della filosofia e ancora altri, perché allora non unire in una rete, in un disegno coerente le tante opportunità offerte dalle nostre città per celebrare il Festival dell’Apprendimento capace di far incontrare e dialogare la scuola, la città, le istituzioni culturali, i piccoli e i grandi, gli studenti e gli adulti in una esperienza di condivisione, di interesse comune.

Questo vuol dire confrontarsi in concreto con l’idea di città della conoscenza.

Si tratta di procedere oltre i progetti e i programmi di lifelong learning orientati a riprodurre modalità tradizionali di intervento formativo, troppo simili a quelle predefinite dai sistemi scolastici, ovvero dai principi che regolano i percorsi di istruzione, compresi quelli dell’istruzione superiore, ovviamente anche universitaria, dunque un momento decisivo per il ripensamento dei modi, dei tempi e dei luoghi dell’apprendimento.

In questa cornice i festival dell’apprendimento costituiscono l’occasione per festeggiare e promuovere l’apprendimento, per veicolare il messaggio dell’apprendimento a un gran numero di cittadini, esaltare il piacere di imparare, conoscere i benefici che ne derivano per la città e i suoi abitanti.

Festival in tutto il mondo

Il prototipo di “learning festival” è stato sviluppato in Giappone, il cui governo ha sponsorizzato e finanziato, tra la fine degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta, varie città che tenevano a turno un festival dell’apprendimento ogni sei mesi. Con il festival di Sapporo, nell’isola settentrionale di Hokkaido, più di sessantamila adulti sono rientrati nel circuito dell’apprendimento continuo.

Ma questi eventi si possono utilizzare anche per tanti altri scopi come mostra il caso del Marion festival. Marion è uno dei più grandi sobborghi della metropoli di Adelaide, nel South Australia e ospita uno dei più importanti centri di apprendimento continuo. Il “Marion City Lifelong Learning Festival” dura una settimana, si tiene ogni settembre a partire dal 2002. Tra le numerose attività del festival ci sono esibizioni di cori di tutte le età, bande, gruppi jazz, orchestre da camera, gruppi di danza classica, moderna, gruppi teatrali e ginnici. Nelle strade si esibiscono prestigiatori, trampolieri, danzatrici del ventre, cantanti e mangia fuoco. Gli scrittori parlano dei loro romanzi e i poeti recitano le loro poesie. Diverse decine di corsi vengono messi a disposizione di quanti vogliono imparare dai rudimenti dello spagnolo alla cucina, alla disposizione dei fiori, alla navigazione in internet, fotografia, astronomia, ecc.

Un centinaio di stand presidiati dai rappresentanti dei principali fornitori di apprendimento, formali e informali, scuole, università, centri di formazione professionale, centri di istruzione per gli adulti, centri di comunità, gruppi di volontariato e portatori di interessi specialistici.

Altri stand con asili, aziende come la Mitsubishi, gruppi teatrali, enti benefici, centri di assistenza sanitaria, borse di studio, palestre, circoli sportivi, chiese, servizi statali e locali, gruppi familiari, agenzie di viaggio e turismo, l’esercito, l’università della terza età. Tutto progettato in modo da esaltare il piacere dell’apprendimento.

A Mount Isa nel South West Quennsland, una regione prevalentemente agricola e mineraria, il festival si incentra sulle scuole, intese come “hub di comunità” e si tiene su un treno itinerante sponsorizzato dalla Quennsland University of Technology. Il festival organizza pure la “family maths night”, che pare richiamare talmente tanta gente da costringere gli organizzatori a prolungare l’attività oltre la fine del festival. Inoltre nell’ambito di questa iniziativa viene sviluppato il progetto satellitare NASA, portato avanti in collegamento con alcune scuole degli USA e sempre in collaborazione con la Quennsland University of Technology.

È sufficiente navigare in internet digitando ‘learning festival’ per rendersi conto della diffusione di tale evento in diverse città sparse per il mondo, dalla Francia, all’Irlanda, alla Scozia. L’ Unesco con un sito appositamente dedicato ha fatto del ‘Festival de l’apprentissage’ una iniziativa di portata mondiale.

E in Italia?

Nel nostro Paese nulla di tutto questo accade, fatta eccezione per il festival dell’apprendimento che da due anni viene organizzato nel mese di ottobre a Padova per iniziativa dell’Associazione italiana formatori (AIF), si tratta di una serie di seminari e lezioni che in realtà sono distanti dallo spirito dei ‘learning festival’ come finora l’abbiamo illustrato.

Il tema della conoscenza nel nostro Paese è così settorializzato, frantumato che si fatica ad assumere l’idea che l’interazione tra i luoghi del sapere, la loro cura e diffusione, nei fatti, non fa altro che tessere quel grande territorio e contenitore entro il quale si svolge l’istruzione permanente di ognuno di noi. Di conseguenza i temi della tutela e valorizzazione dei beni culturali, della scuola e dell’università non vengono pensati e considerati dalla politica come tra loro interdipendenti, come un unico discorso a vantaggio della comunità e dei singoli cittadini.

La comunità che apprende

Si continuano a praticare politiche settoriali, a se stanti; i beni culturali in funzione del turismo, la scuola per i giovani, l’università per l’istruzione terziaria, rinunciando ad avere una visone di insieme e, quindi, un progetto di più largo respiro. Si perde regolarmente di vista la comunità che siamo, la possibilità di una più ampia fruizione di saperi, conoscenze e informazioni come risorse che devono essere fatte circolare, messe a disposizioni di tutti, per la crescita economica, sociale, culturale di tutti e di ciascuno. I mezzi ci sono, per questo è nata la rete mondiale delle “Città che apprendono”, patrocinata dall’Unesco.

Sarebbe davvero auspicabile che l’iniziativa dei festival dell’apprendimento partisse direttamente dalle nostre scuole, in ogni città per far incontrare e dialogare la scuola, l’università, le istituzioni culturali, i piccoli e i grandi, gli studenti e gli adulti in una esperienza di condivisione e di interesse comune. Sarebbe l’occasione per riconoscere concretamente e pubblicamente quanto la città considera importante il lavoro, l’intelligenza e la fatica quotidiana delle nostre bambine e dei nostri bambini, delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, di quanti, a qualunque età, sono impegnati a fare di ogni città una città che apprende.

*Pubblicato in Rivista dell’istruzione n. 5 – 2015