Per una architettura nuova del paesaggio scolastico

future-of-learning_id2728501_size390

Scuola e bilancio sociale

   Sono portato a pensare lo Stato moderno come l’espressione concreta e organizzata di una comunità attraverso il tessuto connettivo della sua Costituzione. Da questo punto di vista lo Stato serve i suoi cittadini in quanto promuove e garantisce i diritti e i doveri di cittadinanza di ogni singolo, nel rispetto dell’interesse collettivo. Stato di servizio, dunque, Stato utile alla somma dei cittadini come a ciascuno di loro. Due sostanzialmente sono gli strumenti che consentono allo Stato di essere o non essere tutto ciò: la politica, la burocrazia, secondo la definizione weberiana.

Proprio rispetto a questi strumenti oggi, invece, si esprime tutto il disagio dei cittadini, che sempre meno si riconoscono in questo Stato e sempre più cercano vie d’uscita che si profilano come spinte contro lo Stato stesso.

Del resto quel processo di avvicinamento tra Stato e Cittadini che la politica aveva avviato nel nostro Paese, da un lato con la legge costituzionale n. 3 del 2001 e dall’altro con la riforma della pubblica amministrazione prospettata dalla legge del 15 marzo 1997, n. 59, la legge Bassanini, ha subito un brusco arresto con un ritorno al centralismo e con una drastica riduzione delle risorse da destinare ai servizi alle persone, che costituiscono i migliori ambasciatori di uno Stato amico dei suoi cittadini.

Quando questo accade è la democrazia in pericolo e a pagarne i prezzi sono innanzitutto le fasce economicamente e socialmente più deboli. Non a caso tra i primi a subirne le conseguenze ci sono i giovani e il sistema dell’istruzione.

Con la riforma del Titolo V della Costituzione lo Stato ha ripartito le funzioni di governo dell’ Istruzione nel nostro Paese con il sistema dell’Autonomie locali, che in virtù dell’articolo 117 della Costituzione comprende anche ogni singola Autonomia scolastica, per le competenze ad esse assegnate dal DPR n. 275 dell’8 marzo 1999. In via esclusiva lo Stato ha tenuto per sé la determinazione delle norme generali sull’istruzione.

A partire, almeno dal decreto legislativo n. 59 del 19 febbraio 2004, i governi che si sono succeduti hanno usato lo strumento delle “Indicazioni nazionali” per prescrivere i livelli essenziali di prestazione a cui tutte le Scuole dell’Infanzia e del Sistema Nazionale di Istruzione sono tenute per garantire il diritto personale, sociale, e civile all’istruzione e alla formazione di qualità.[1]

Le Indicazioni, scritte in continuità curricolare tra Scuola dell’Infanzia, Primo ciclo e Secondo ciclo di istruzione, hanno il fine di fornire a tutti gli utenti del sistema scolastico pubblico, o ad esso parificato, le competenze e gli strumenti culturali utili a esercitare la propria cittadinanza nella società della conoscenza, ad inserirsi nel mondo del lavoro, a proseguire gli studi nelle Università o nelle Istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica, a intraprendere i percorsi di  Istruzione e Formazione Tecnica Superiore, a poter continuare ad apprendere lungo l’intero arco della propria vita.

A questa consistente mission dell’Istruzione nel nostro Paese non corrisponde però alcuno strumento di bilancio sociale, di rendicontazione da parte della politica e della burocrazia, in quanto mani operative dello Stato, circa la quantità e la qualità delle azioni messe in campo per garantire ad ogni singolo cittadino, utente del sistema scolastico pubblico, il conseguimento dei fini  dichiarati nelle Indicazioni, considerati quali livelli essenziali del diritto individuale all’istruzione e alla formazione di qualità. Al contrario, ciò a cui si assiste è l’esercizio sistematico di uno sbilancio sociale, dove gli unici che sono chiamati a rispondere del proprio rendimento e dei propri esiti, attraverso il sistema dei voti, degli esami e delle prove Invalsi, sono ancora solo i nostri studenti, come se le loro performance fossero una variabile indipendente dalla qualità e quantità di ciò che è loro fornito dallo Stato e dalle Autonomie scolastiche. Potrebbe essere che i risultati ancora deludenti, conseguiti dai nostri alunni nelle indagini nazionali e internazionali relativamente ai livelli di competenza acquisiti, rappresentino il massimo della loro resa, o addirittura un’eccezionalità di resa, se considerati alla luce delle condizioni loro  quotidianamente offerte dal sistema delle  nostre scuole.

 Oltre Dewey

   È tempo allora che lo Stato e il suo Sistema Scolastico, intendo la politica e gli apparati amministrativi, si facciano pienamente carico e rispondano  delle responsabilità che portano nei confronti delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi che ogni giorno frequentano le  aule scolastiche, impegnando il loro tempo di vita per una crescita la cui riuscita non è solo un loro diritto naturale, ma è precipuo interesse, presente e futuro, dell’intero Paese.

Uno Stato democratico tradisce la sua vocazione quando è incapace di vedere nelle sue giovani generazioni una risorsa da allevare, curare, investire e soprattutto da non lasciarsi portar via, un investimento per il suo futuro, non una massa di individui da imbonire o da amministrare in modo che creino il minor ingombro e disturbo possibile.

Uno Stato democratico, moderno, è chiamato a non sprecare, a non bruciare nulla del tempo di vita sottratto alle infanzie, alle adolescenze, alle giovinezze perché speso nell’impegno delle aule, dei banchi di scuola, deve sentire imprescindibile l’obbligo di rispondere pienamente di come il tempo a scuola viene impiegato, della qualità dell’istruzione che giorno dopo giorno viene impartita, non alla massa delle alunne e degli alunni, ma singolarmente a ognuno di loro.

Assumere come prospettiva l’obbligo  dello Stato e della Scuola di rendere conto di come consentono, dalla scuola dell’ infanzia fino ai più alti gradi di istruzione, ai  loro giovani utenti di capitalizzare in saperi e in competenze per il proprio futuro il tempo quotidiano trascorso sui banchi di scuola senza dequalificarlo o derubarlo di ogni possibile opportunità, ribalta drasticamente il modo in cui generazioni e generazioni, a partire dalla mia, hanno inteso il ruolo dell’istruzione pubblica. Innanzitutto muovendo dalla lezione deweyana per cui ogni educazione ha come scopo la partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie che, per lo meno in tempo di globalizzazione e di comunità sempre più multietniche, richiederebbe di essere opportunamente rivisitata.

Se il secolo passato è stato il secolo dei principi dell’educazione deweyana, ora, voltandoci indietro, ne misuriamo il senso della distanza, di altro da noi, come di un anacronismo che da quella storia ci separa e, nello stesso tempo, cogliamo la presenza di un vuoto che ancora non abbiamo saputo colmare, spesso raccontandoci che i discorsi sull’educazione e sulla pedagogia hanno perso di rilevanza perché rimasti ormai sepolti come ricordi tra quelle pagine su cui ci siamo formati.

C’è la centralità della storia di ogni individuo oggi. Di ogni singolo individuo. Con cui dobbiamo fare i conti e alla cui sfida non possiamo sottrarci. La centralità delle biografie di individui che vengono al mondo in questo mondo, la centralità degli individui che trascinano e confondono le loro storie negli inusitati flussi dell’immigrazione.

I fondatori della scuola pubblica nel nostro Paese, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, avevano come obiettivo di unificare la popolazione italiana, sconfiggendo l’analfabetismo e instillando negli alunni comuni valori morali e civili, ritenendo che, se tutti i fanciulli erano esposti a una comune istruzione morale e sociale, la nazione sarebbe stata libera dal crimine, da comportamenti contro la morale, dal pericolo di rivoluzioni sociali. Non si può negare che questi obiettivi formativi persistono ancora nelle politiche scolastiche del ventunesimo secolo come collante dell’identità culturale trasmessa dalle nostre scuole. Perpetuando una concezione dei compiti della scuola pubblica più al servizio della concezione deweyana, vale a dire di integrazione sociale degli individui, che non al servizio dei loro bisogni e del loro progetto di vita.

Da questo punto di vista la prassi didattica prevalente nel quotidiano delle nostre classi è ancora quella, per dirla con Paulo Freire, dell’educazione depositaria, di un tempo scuola che prevalentemente si estrinseca nella trasmissione da un contenitore all’altro dei saperi, nella verifica, in itinere, formativa o sommativa, o cosa altro ancora, del livello di riempimento raggiunto nei contenitori ordinati in file dietro i banchi.

Forse esagero, forse più della fotografia della realtà si tratta del suo negativo, ma è dal negativo che si imprimono le istantanee, e si ricorre al ritocco quando vorremmo che la realtà che ci fotografano fosse ben diversa.  

La storia del nostro passato, ci ha insegnato a caro prezzo, che l’educazione non è sempre a beneficio  dell’ individuo e della società. L’educazione è un oggetto delicato che va maneggiato con cura, per questo non è consentito mantenere a lungo una situazione in cui solo i giovani sono chiamati a rispondere dei suoi esiti, con la riuscita scolastica o meno, mentre gli adulti non rispondono delle loro responsabilità. La sproporzione è evidente e non è più tollerabile. Per adulti intendo innanzitutto la Politica e gli attori del farsi scuola quotidiano.

Con ogni probabilità è giunto il tempo di ribaltare i ragionamenti che andavano ancora bene nel secolo passato ma che oggi non reggono più alla prova dei fatti.

Ancor prima di porre l’enfasi sulla riuscita scolastica o meno di ogni singolo alunno, di organizzare il sistema dell’istruzione in funzione di questa,  “Non uno di meno”, “I care” , è necessario che l’enfasi venga prioritariamente posta circa la riuscita dello Stato e del suo Sistema scolastico nel perseguire il successo formativo di ogni singolo alunno, assunto come risorsa su cui investire per l’avvenire economico, culturale e sociale del Paese, facendosi pienamente carico del valore del tempo di vita di ogni bambina e bambino, di ogni ragazza e ragazzo, al contempo rispondendo della qualità delle conoscenze trasmesse e della qualità del futuro su cui ognuno può contare, avendo accanto uno Stato amico, portatore dell’interesse per l’istruzione di ciascuno come interesse generale e collettivo.

Ai teorici del ritorno all’umanesimo dobbiamo ricordare che abbiamo bisogno di una scuola per un nuovo umanesimo, per una nuova umanizzazione, dove il diritto all’istruzione sia innanzi tutto diritto alla scoperta di sé, diritto ad avere un proprio progetto di vita e a perseguirne la sua realizzazione, a scrivere la propria storia e la propria biografia, diritto a non rischiare mai di poter divenire delle vite di scarto.

Ancora oggi la nostra scuola sacrifica il di ogni singola alunna e di ogni singolo alunno, all’essere per l’altro, anziché essere per sé, intendendo per “altro” l’integrazione nella società, nella sua organizzazione economica e sociale. Il fatto è che globalizzazione e società liquide hanno fatto venir meno quell’idea di osmosi tra scuola e società che il discorso democratico sulla scuola ha ereditato nel ‘900 dal pensiero di John Dewey.

Il sistema sociale, il mercato del lavoro che la scuola deweyana intendeva servire come strumento di integrazione sociale non ci sono più, e possiamo dire con certezza che non ritorneranno più. In un crescendo continuo la grana delle nostra vita e delle generazioni a venire sarà caratterizzata dall’emergenza del presente e dalla sempre più crescente impossibilità di focalizzare il futuro, forse proprio per l’eccessivo peso e spazio che sono andati occupando i “qui e ora”.

La vita di ogni individuo è sempre meno una storia collettiva, sempre più è una storia di individualità in un maremagnum collettivo, che inesorabilmente pare sfuggire agli strumenti di governo di cui oggi disponiamo. Le connessioni tra le monadi sono venute meno, la disarmonia ha preso il sopravvento sull’armonia. Il futuro è sempre più un buco di tempo di cui oggi non conosciamo se sapremo e potremo riempire.

In questo quadro la nostra scuola non è più in grado di fare storia, impotente a produrre futuro per i suoi utenti. Ipostasi di se stessa, non ha più la forza di scrivere la storia dei suoi discenti, di renderli autori della propria biografia, testimoni della loro vita. Le classi con le loro routine quotidiane si fanno sempre più non luoghi, i luoghi dell’anonimato collettivo.

La sfida che abbiamo innanzi oggi non è più quella che negli anni sessanta del secolo scorso ci prospettava Jerome Bruner con il suo Dopo Dewey, ancora giocata sul tavolo dei contenuti dell’apprendimento, con la posta del superamento delle due culture, della cesura tra cultura umanistica e cultura scientifica. Cesura tuttavia, a ben vedere, mai ricomposta nella nostra scuola. Oggi si tratta di andare oltre Dewey, perché la posta in gioco non sono tanto i contenuti dell’apprendimento, quanto i luoghi, i modi e le forme in cui l’apprendimento ancora avviene e viene proposto.

Dal collettivo classe all’ individuale collettivo

   Andare oltre Dewey significa iniziare col riflettere che un mondo ce lo siamo lasciati alle spalle, che quel sistema sociale prodotto dal secolo scorso, con il secolo scorso è terminato.

Tutto di fronte a noi e alle nuove generazioni non è più dato, tutto, nel bene e nel male, è un work progress, di cui non disponiamo né del progetto né delle chiavi di lettura.

L’istruzione finalizzata alla formazione del cittadino di domani, forse poteva raccogliere ordinati in classi per età i suoi utenti e avviarli grado dopo grado a trovare la loro collocazione nell’organizzazione sociale; la società della discontinuità, la società della conoscenza, la società che invoca un nuovo umanesimo non può perseguire i suoi obiettivi solo con le parole, non può continuare a riproporre e mantenere gli ingredienti e le ricette di ieri. Così anche le architetture del sistema scolastico che resistono dal passato non possono essere riproposte nel paesaggio scolastico che dovremmo disegnare oggi nel tempo del life wide learning, dell’apprendimento ovunque e in qualsiasi fase della nostra esistenza.

Di fronte al tema dell’istruzione come atto permanente della nostra vita, reso tale soprattutto dalla diffusione delle tecnologie digitali, l’articolo tre della nostra Costituzione non può restare impersonale, non può non scendere specificatamente nelle singole biografie dei cittadini, soprattutto i più piccoli, soprattutto i giovani che devono sentirsi presi per mano e accompagnati nel loro difficile cammino. Chi ha fame va nutrito, perché essere nutrito serve per vivere e per crescere. Se non ti sai nutrire non è che per questo non ti do da mangiare, non è che ti lascio morire di fame. Lo stesso vale per l’istruzione che è l’altro nutrimento fondamentale alla qualità dell’ esistenza di ogni singolo cittadino.

Una scuola che garantisce pari opportunità ai suoi studenti, ma che poi esclude chi non rende come il resto della classe, è una scuola che uccide le speranze, che uccide le cittadinanze, è una scuola che uccide le storie e le biografie individuali, senza che nessuno sia chiamato mai a rispondere dei tanti progetti individuali di vita abortiti tra le nostre aule scolastiche.

La risposta al disincanto, all’incertezza del domani come profilo del mondo globalizzato, non può essere delegata dal nostro Sistema formativo alle ricette dell’OECD[2], al cieco gioco delle olimpiadi scolastiche tra le nazioni, solamente funzionale alla standardizzazione globale degli obiettivi di apprendimento come definiti dai test dell’OCSE PISA, unico depositario del decalogo delle competenze necessarie oggi ai quindicenni del mondo contemporaneo per vivere quotidianamente domani all’interno di un sistema a economia globale.

Alla globalizzazione del mondo non è dato rispondere con la globalizzazione delle individualità. Al di là di ogni proclama sulla persona e sul personalismo, dobbiamo oggi affermare con forza il valore dell’ individuo, il valore di ogni singolo individuo, dell’identità che lo rende tale e che gli consente di essere riconosciuto dagli altri come tale. E’ sulla riscoperta di ognuno di noi come risorsa preziosa, a prescindere dalla legittimazione di teosofie o filosofie, di appartenenze sociali o religiose, di destini messianici o meno, in quanto essere, in quanto esistenza in sé e per sé,  che si possono giocare i destini della convivenza umana. Non c’è scoperta di un nuovo umanesimo se ogni donna e ogni uomo, dal momento del loro apparire su questa Terra, non vengono considerati un bene assoluto, anziché sempre e comunque relativo.

La Scuola di massa, che prometteva di ridurre la povertà ed accrescere la ricchezza nazionale, ha oggi tradito il diritto dei giovani alla loro storia e al loro progetto di vita. È evidente che la scuola di massa si è rivelata uno strumento incapace di mantenere le promesse dell’articolo tre della nostra Costituzione, le differenze con i più fortunati per nascita non sono state abbattute. La scolarizzazione di massa di fronte alla storia si è palesata come uno strumento incapace di garantire nei fatti il diritto inalienabile di ognuno all’istruzione nella sua qualità e nella sua efficacia.

E’ il tema dell’apprendimento permanente che oggi merita di essere meglio indagato, sottraendolo alla sua collocazione prevalentemente adultistica, per ricondurlo all’alveo delle conoscenze che dal nostro apparire al mondo non hanno più sosta. Dove le molteplicità dei flussi, delle opportunità di conoscere, di sapere, di esplorare oggi offerte all’essere di ognuno, possono giungere alla sintesi delle competenze nei luoghi dello studio deputati a far incontrare, riconoscere e valorizzare i saperi formali, come quelli informali e non formali.

La storia dell’apprendimento delle bambine e dei bambini non inizia più a scuola, come poteva essere quando il sapere era ancora patrimonio di pochi e attraverso la scuola popolare e di massa lo si intendeva estendere ai più, anche se in forma di sapere preconfezionato.

Per dirla con Paulo Freire, che cita il Jean Paul Sartre di L’home e les choses[3], ogni alunno non può più essere trattato come un soggetto all’ingrasso alimentare del sapere da digerire, neppure quando questo non è in linea con gli standard d’istruzione dell’OCSE PISA.  

La presa in carico della storia individuale di ciascuna alunna e di ciascun alunno, senza la quale non c’è riconoscimento di identità, per cui si è considerati uno dei tanti tra le tante classi della scuola, pretende che ogni discente sia riconosciuto come scolasticamente titolare dei suoi percorsi di studio, anziché di un’età anagrafica che lo colloca nella classe cronologicamente corrispondente, anonima rispetto alla sua storia, a lui addirittura ostile nel momento in cui  lo respinge, rifiutando di riconoscerlo, qualora il suo profitto sia negativo, costringendolo a identificarsi scolasticamente con uno stato di crescita che  già non possiede  più.

Questo organizzare scolasticamente i nostri ragazzi per classi di età sentiamo francamente che non funziona già più. Quando viene denunciato il numero elevato di alunni per classe per una didattica individualizzata e di qualità, in realtà puntiamo il dito sul sintomo e non sulla causa, che è il concetto stesso di classe, di omologazione in entrata e in uscita. Lo sappiamo da tempo, dai tempi dell’inconciliabilità della nostra organizzazione scolastica con la storia personale di sviluppo e di apprendimento che ogni allievo porta con sé in ogni compito nuovo.[4]

Un sistema formativo, che, alla possibilità di una integrazione sociale liquida, considera prioritario fornire ai suoi studenti gli strumenti di scrittura della propria biografia  e di definizione/realizzazione del proprio progetto di vita, lancia una sfida molto alta a se stesso. Perché si tratta di ripensarsi radicalmente, di passare da una prassi  anonima e indeterminata di programmazione per contenuti ed obiettivi degli apprendimenti, alla individuazione delle serie di competenze che è necessario acquisire, attraverso un sistema a somma di crediti, per percorrere in progressione i diversi step definiti dai singoli statuti disciplinari per giungere a quella competenza “disciplinare” così come interpretata, ad esempio, da Howard Gardner nel suo Cinque chiavi per il futuro.

In una carriera scolastica pensata e organizzata per percorsi individuali di studio, al fine di valorizzare e investire sulle specificità personali, non ci sono bocciature, semmai sbarramenti, verrebbero temporaneamente preclusi i soli percorsi disciplinari per i quali non si sono ancora acquisite le competenze necessarie a proseguire negli studi.

Ognuno avrebbe da spendere per i propri progetti di vita la quantità di crediti acquisiti relativamente alle competenze disciplinari, sia per proseguire negli studi del nostro sistema formativo, sia per competere sul versante del mercato del lavoro.

Viene meno l’idea di una formazione globale e totalizzante, per la quale è necessario acquisire la sufficienza un tutte le discipline dalla ginnastica alla musica, dall’educazione tecnica al disegno al fine di poter proseguire negli studi senza dover tutte le volte star fermo un giro come nel gioco dell’Oca.

Vorrei dire che forse è tramontato il tempo, e le condizioni si sono radicalmente modificate, per cui non è più necessario che la scuola sia il luogo nel quale si insegna di tutto. I percorsi curricolari di ciascuno non è assolutamente detto che debbano essere tutti realizzati a scuola, al meno per come fino ad oggi l’abbiamo conosciuta. Perché apprendimenti qualificati come la musica, l’arte e il disegno, l’educazione motoria e lo sport e altri ancora debbono avvenire per forza nei contenitori di ciò che definiamo come scuola? Perché il sistema formativo non si può organizzare in una rete più qualificata di servizi e di offerte sul territorio che entrano in relazione con la scuola stessa e che trovano riconoscimento nel curricolo personale di ogni ragazza e ragazzo?

Con ogni probabilità quell’idea di formazione tutta concentrata nell’orario scolastico delle nostre classi è cosa di altri tempi. Occorre considerare sostanzialmente che oggi i territori offrono opportunità di esperienze e di apprendimenti extrascolastici, che occupano il tempo di vita dei nostri bambini e dei nostri ragazzi, che non possono più a lungo essere ignorati nel computo degli apprendimenti e delle competenze individuali.

Non si capisce perché nella scuola italiana espressioni e strumenti come “Progetto di vita” e “Piano educativo individualizzato” debbano essere riservati ai solo alunni diversamente abili, come se ogni singolo individuo, a partire da noi stessi, non fosse di per sé diversamente abile e non avesse necessità per la sua piena riuscita di persone che lo affianchino e che gli assicurino sostegno.  Come se l’esperienza della migliore tradizione pedagogica non ci avesse già edotti, da Decroly alla Montessori, che ciò che è indispensabili per chi è certificato diversamente abile, tanto più lo è per chi è presumibilmente certificato come normo dotato.

Così come si procede, ancor prima dell’avvio dell’anno scolastico, negli incontri tra la scuola e i genitori alla redazione del PEI per gli alunni diversamente abili, altrettanto va realizzato per ogni singolo alunno  in modo da  procedere, tra la scuola e la famiglia, alla definizione del percorso scolastico in funzione dei crediti che si progetta di acquisire, attraverso la stesura di un compiuto piano di studi individuale, che si  traduca in un realistico contratto formativo, impegnativo per le parti che lo stipulano.

Non si tratta di tornare né alla personalizzazione né al portfolio di morattiana memoria, ma di tutelare il diritto all’istruzione, ad un’istruzione di alta qualità, di ogni singola ragazza e di ogni singolo ragazzo, di gestire i percorsi connessi ai loro progetti di vita in rapporto alle motivazioni, agli interessi e alle attitudini di ognuno, in relazione alle competenze già  acquisite e quelle ancora da acquisire, provvedendo ad un impiego ed a una organizzazione attenta ed efficace del loro tempo di vita quotidianamente investito sui banchi di scuola.

In questo quadro, la frequenza scolastica, la collocazione nella scuola di ognuno non sono più identificabili con la classe, ma esclusivamente dipendenti dal percorso di studi che ogni anno ciascuno progetta di portare a termine, in funzione dei crediti disciplinari che ci si prefigge di conseguire e che, se non si riesce a totalizzare nella loro globalità, occorrerà in parte mettere in conto nel piano di studi dell’anno successivo.

Ma se si perde la classe, architrave e perno di tutto il sistema scolastico italiano, che cosa succederà? Non mi sembra che le nostre università, da sempre funzionanti attraverso la frequenza delle lezioni relative agli esami che si intendono sostenere, abbiano mai patito per l’assenza di classi.

Non credo neppure che ne patirebbe il nostro sistema scolastico, se decidessimo di organizzarne gli spazi per laboratori disciplinari e per crediti che si devono acquisire.

Certo assisteremmo ad uno spettacolo a cui nelle nostre scuole non siamo mai stati abituati,  vedere, cioè, spostarsi gli studenti, piccoli o grandi che siano, da un’aula all’altra, o meglio da un laboratorio disciplinare all’altro, in funzione dei crediti che devono acquisire come preordinato dal loro piano di studi individuale, concordato tra la scuola e la famiglia.

Ma soprattutto si tratterebbe di una organizzazione del nostro sistema scolastico destinata a non porre più l’accento sui voti e sulle bocciature, sul fallimento dei singoli, bensì sul loro effettivo successo formativo, in quanto risorse preziose di uno Stato democratico che investe sulle giovani generazioni, avendo sempre di mira il proprio avvenire.

Uno Stato chiamato a rispondere alla sua comunità di come garantisce innanzitutto l’esercizio del diritto all’istruzione di ciascuno dei suoi giovani, qualunque sia la loro storia e provenienza, a rispondere della qualità del tempo scuola come tempo di vita di generazioni di bambine e di bambini, di ragazze e di ragazzi e, finalmente, della qualità dell’insegnamento fornito e delle competenze acquisite da ciascuno, certificandole attraverso un unico sistema nazionale di misurazione e di valutazione della capacità dello Stato e del suo Sistema formativo di garantire, nell’epoca in cui viviamo, il diritto all’istruzione ai suoi cittadini che per età vanno costruendo nella loro crescita il proprio progetto di vita.

 


[1] DLvo. 19 febbraio 2004, n.59.

[2] Organization for Economic Cooperation  an d Development, produce i test dell’OCSE PISA, Programme for International Student Assessment e TMISS, Trends International Mathematics and Science Stydy.

[3] P. Freire, La pedagogia degli oppressi, EGA Editore, Torino, 2004, p. 63.
[4] B.S.Bloom, Caratteristiche umane e apprendimento scolastico, Armando Armando, Roma, 1980, p.63

Don Milani e la scuola di oggi*

milani2

Cattivi e buoni maestri

I quarant’anni dalla pubblicazione di “Lettera a una professoressa” hanno dato luogo alle celebrazioni, alle liturgie, al servizio del tempio pedagogico, scatenato detrattori e estimatori dell’opera del parroco di Barbiana e spesso, come avviene in questi casi i detrattori di ieri sono gli estimatori di oggi.

Per i detrattori la scuola di oggi è il prodotto dell’insegnamento dissennato di Lorenzo Milani, per il quale i processi evidentemente non finiscono mai, neppure dopo la morte.

La scuola del lassismo, la scuola dei debiti non saldati, la scuola dove non si boccia più così come volevano i ragazzi di Barbiana, la scuola dove non si studiano più, come suggerivano gli allievi di Milani, le poesie del Foscolo, Omero e l’Iliade tradotta da Vincenzo Monti, la scuola dello statalismo, della burocrazia, del corporativismo sindacale degli insegnanti.

 “La scuola di oggi è esattamente la scuola che voleva lei quarant’anni fa. Era il 1967. Quarant’anni dopo possiamo dirle che abbiamo esaudito quasi completamente le richieste di quel suo ragazzino, e questa notizia di sicuro le farà piacere; a parte il contratto dei metalmeccanici che non so se abbiamo messo davvero nei programmi…

Così scrive Paola Mastrocola, La sua utopia si è realizzata, purtroppo, su La Stampa del 17 maggio 2007.

Cinque giorni dopo sul “Corriere della Sera” Giovanni Belardelli ritiene “fuori luogo” che si continui a considerare Lettera a una professoressa, “libro di quarant’anni fa come fosse portatore di una positiva, e ancora attuale, rivoluzione pedagogica”.

Ci sono poi quelli che celebrano l’esperienza di Barbiana in quanto precorritrice della scuola come prodotto della società civile contro ogni visione statalista che annulla la vitalità della società civile stessa, che citano Lorenzo Milani come esponente della scuola che non offre soltanto conoscenze e competenze, ma concorre alla formazione integrale  della persona.

Sono gli stessi che l’8 febbraio 2001 promuovono l’Appello per la scuola della società civile per i quali: “Una scelta decisiva e non più rinviabile …consiste nell’abbandonare il modello statalista ancora dominante nel nostro Paese, per fare spazio ad un nuovo assetto fondato sulle espressioni più vive e dinamiche della società civile. In tal senso va favorito il passaggio del sistema dell’istruzione e della formazione da organismo dello Stato a strumento a servizio della società civile”. Appello sottoscritto tra gli altri da Giuseppe Bertagna, Dario Antiseri, Ferdinando Adornato.

Fino ad arrivare all’articolo di Mario Pirani, La Scuola nel Paese dei Balocchi, su “la Repubblica” del 20 ottobre del 2007 dove “l’automatismo delle promozioni generalizzate quale che fosse il grado di apprendimento” viene presentato come distorsione dell’insegnamento di don Milani che si basava su due pilastri, la valorizzazione della figura del maestro e lo sforzo per insegnare a tutti, anche con modalità nuove e particolari per i meno dotati.

Ritengo che fosse ben lontano dall’intenzione dell’ uomo Lorenzo Milani, come di tutti i grandi e i giusti, l’idea di poter essere un profeta della scuola  e che lucidamente fosse consapevole che ogni esperienza assume valore per come si definisce storicamente e per come si evolve nell’insieme delle vicende che l’hanno determinata.

Per questo non amo le celebrazioni, perché mai nulla è come un istante prima; almeno della società liquida e della precarietà, che sembrano essere i connotati prevalenti della società in cui viviamo, della nostra epoca postbarbiana assumiamo questo vantaggio che ritengo preziosissimo per chi di mestiere produce cultura: la disponibilità alla ricerca continua, alla discussione mai conclusa una volta per tutte.

E allora per tornare al tema di questo incontro “Don Milani e la scuola d’oggi” mi sembra corretto ridare voce ai ragazzi di Barbiana e a quanto di progettuale, e quindi di gettato in avanti nel tempo, c’era nelle intenzioni della loro esperienza: Le riforme che proponiamo, scrivevano in Lettera a una professoressa  nel 1967:

Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme.

I – Non bocciare

II – A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a pieno tempo

III – Agli svogliati basta dargli uno scopo [1]

Scuola secondo Costituzione

Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno…”

È un sogno che accompagna tanta parte della storia dell’umanità almeno a partire dall’epoca dell’Illuminismo e che i nostri Costituenti hanno fatto proprio:”Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…” (art. 3 Cost.)

È il cuore dell’utopia di Lorenzo Milani, quella di aver creduto nella scuola che ha il compito di fare il cittadino sovrano e non suddito, di aver creduto nella cittadinanza democratica, nella sovranità del popolo, che possa esserci una società con sempre maggiore giustizia, nel progresso come processo di emancipazione e liberazione dell’umanità.

Ci sarebbero pagine bellissime da andare a rileggere di quel diario che Mario Lodi scrive per Katia futura maestra, e che porta il titolo di Il paese sbagliato,  dove si ripropone la convinzione, l’idea prima, di questi grandi maestri della scuola, Freinet, Lodi, Ciari, Milani, Capitini e altri ancora, che l’emancipazione dell’uomo passa attraverso la politica e la scuola, la politica e la cultura, la politica e l’educazione: non si è cittadini senza educazione, non c’è educazione se non si è cittadini.

È l’utopia di Tommaso Moro e di tutti i grandi del passato e del presente, che hanno sognato e sognano l’uomo nuovo, l’uomo diverso, artefice di un mondo migliore in cui gli uomini siano in grado di esprimere la loro essenza, cioè: l’ umanità.

L’antagonista dei ragazzi di Barbiana è la scuola di Stato che anziché corrispondere al dettato dell’art.3 della Costituzione e dell’art. 34 agisce asservita alla cultura delle classi dominanti, è la scuola come apparato ideologico di Stato, per dirla con Althusser, che nel suo meccanismo perpetua la discriminazione di classe e la selezione per censo.

Quella scuola oggi non c’è più. E il fatto che non c’è più è una grande conquista democratica, culturale e di civiltà. E’ avvilente doverlo ricordare ogni volta.

Non posso nascondere il sospetto, più di un sospetto, che la scuola pubblica oggi incontri  tanti disposti a squalificarla e a svuotarla di ogni significato, proprio perché la scuola pubblica oggi non è più quella di ieri, non solo è la scuola dei Gianni e dei Pierino, ma è anche la scuola di Shamira e di Amin, e di tanti altri ancora, di tutti e di ciascuno, per questo, temo,  si moltiplicano le voci che rivendicano la scuola della società civile, di meno Stato e più mercato.

Con questo, tuttavia,  il sogno dell’eguaglianza è ben lontano dall’essere compiuto.

Quarant’anni fa lo stato sociale era ancora da conquistare, oggi la grande sfida che abbiamo di fronte è quella di riuscire a difenderlo, di riuscire a difendere le conquiste che le battaglie democratiche ci hanno consentito di ottenere.

 Dalla società fondata sull’etica del lavoro, nel caso di Barbiana del lavoro contadino, siamo passati alla società fondata sull’etica dei consumi, come ci fa capire Bauman.

Il tema dell’eguaglianza è sempre più planetario, anzi per dirla con un neologismo alla Geertz sempre più glocale, richiede da un lato la necessità di un pensare globale ma dall’altro la capacità e l’intelligenza di un agire  locale.

Ma la contraddizione che oggi viviamo è che mentre siamo tutti costretti a pensare globale ci mancano poi i mezzi per l’agire locale quotidiano, perché i luoghi della decisione politica, i luoghi dei flussi economici si allontanano sempre più da noi.

È la lingua che ci fa eguali…

Ogni luogo è mondo, ogni luogo è globale, incontro di lingue, di culture, di identità. E le nostre scuole oggi sono sempre più tutto questo, sempre più tendono a diventare mondo o sono chiamate a diventare mondo!

Per cui l’eguaglianza nelle nostre scuole oggi come allora, ancora una volta, passa attraverso la lingua, non la lingua dei sarmenti e dei sormenti, la lingua nazionale che confligge con il dialetto, lingua identitaria dei ragazzi di Barbiana, ma con le  lingue altre  e le  identità altre, storicamente costituite oltre i confini del nostro concetto di  Stato-nazione.

I ragazzi di Barbiana scrivono: “Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basti che parli[2]

Voglio soffermare la vostra attenzione su questa frase: Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione  altrui.

È qui credo che non ci siamo sull’intendere l’espressione altrui nel significato più ampio del termine.

Nonostante tanti sforzi pregevoli la mia impressione è che la confusione sia ancora grande, temo che la nostra scuola, da questo punto di vista, nelle sue pratiche  ancora soffra di etnocentrismo, o tenti di liberarsene un po’ goffamente,  senza quindi riuscirci ancora.

Questa bella espressione dei ragazzi di Barbiana è un punto ancora critico della nostra scuola, e certo i ragazzi di Barbiana allora non potevano prevedere che un giorno avrebbe assunto le fattezze del volto della figlia e del figlio di chi è migrante.

Io non so chi è più svantaggiato, se il ragazzo o la ragazza che entra nella nostra scuola senza intendere la nostra lingua o se lo svantaggio piuttosto è nostro, nostro di insegnanti e di operatori della scuola che dovremmo praticare l’accoglienza e l’ascolto e  che invece non intendiamo quella lingua e con essa il modo di pensare di quella ragazza e di quel ragazzo, il loro modo di costruire le mappe della realtà, da questo punto di vista non dobbiamo dimenticare l’importanza e l’attualità della lezione di Vygotskij di Pensiero e linguaggio,  più in generale della scuola storico-culturale, e l’immenso ritardo che da quella lezione ancora ci separa.

È la lingua che ci dà identità

Amin Maalouf, giornalista francese nato in Libano, ci ha insegnato che l’identità prima di tutto passa attraverso la propria lingua, identità è una delle parole false amiche perché: La mia identità è ciò che fa sì che io non sia identico a nessun ’altra persona.[3] Potremmo dire che è una parola che afferma il contrario di quello che dice!

Allora la scuola oggi su questo tema deve misurarsi con un altro insegnamento che resta attuale dei ragazzi di Barbiana: “Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti eguali fra diseguali”.

La scuola di Barbiana è una scuola laboratorio, laboratorio sociale, e seppure confinata in una canonica è aperta al mondo e sul mondo, non tramite internet, ma attraverso  la corrispondenza tra persone vere, una scuola che ha saputo confrontarsi  con le culture e i linguaggi della propria epoca.

Perché una scuola è questo o non è.

I contesti cambiano, ma la sfida dell’istruzione è sempre la stessa: appropriarsi degli strumenti critici, degli strumenti che consentono di giudicare, di decidere, di scegliere.

Anche da questo punto di vista la scuola o è laboratorio nel senso etimologico del termine o non è.

Come allora a Barbiana, oggi nella scuola pubblica dobbiamo sperimentare non omologare. Sperimentare le interazioni delle culture, sperimentare tutti i linguaggi della comunicazione, tenendo conto di quelli del corpo, sperimentare il fare cooperativo, porre gli individui nelle condizioni di trovare gli strumenti per sviluppare la propria soggettività e di  scoprire nello stesso tempo le potenzialità di un’intelligenza collettiva motore di ogni confronto, di ogni comunicazione, di democrazia e cittadinanza sociale.

Non bocciare

Voglio venire ora alla prima delle proposte di riforma dei ragazzi di Barbiana: Non bocciare, così espressa sotto forma di un comandamento.

Io credo che dovrebbe essere l’undicesimo comandamento: non bocciare nella scuola, non bocciare nella vita.

To blackball, dicono gli inglesi, dar palla nera.

La nostra scuola seleziona sempre meno, chi seleziona oggi è la società. La società della conoscenza, ancora il titolo di studio dei genitori, l’aria che si respira in famiglia, influenzano il destino scolastico dei figli.

Sono le indagini internazionali, l’OCSE-PISA che danno la palla nera alla nostra scuola collocandola agli ultimi posti per formazione alla comprensione del testo, per preparazione matematico-scientifica.

Allora la nostra scuola così com’è boccia ancora, non nel senso della selezione di classe, anche se questa ancora non ha cessato i suoi tristi effetti, ma nel senso che boccia tutti indistintamente, perché anche quando promuove non promuove, e in questa situazione sono i soggetti socialmente più deboli quelli che continuano a pagare il prezzo più alto.

Boccia perché inadeguata a preparare i cittadini di domani a vivere nella società della conoscenza, nonostante gli obiettivi programmatici dell’agenda di Lisbona.

Boccia per mancanza di investimenti e strutture adeguate, boccia per mancanza di investimenti sulla formazione degli insegnanti, boccia per l’assenza di una riflessione seria su come si costruisce e si forma la conoscenza oggi.

In questi giorni di lettura nelle scuole delle Indicazioni per il curricolo si sprecano le citazioni di Edgar Morin e del suo La testa ben fatta con ispettori che arrivano a dire che non c’è nulla di nuovo perché tanto l’aveva già detto Aristide Gabelli, quello dello strumento testa. Come avesse già fatto a dirlo nel 1888 qualcuno ancora me lo deve spiegare, per cui credo che queste esternazioni già da sole possano costituire tutto un programma di ciò che ci possiamo attendere.

Qualche altro dirigente sentenzia che da Jacque Maritain a Edgar Morin non c’è alcuna differenza, francamente sarebbe come dire che nulla è cambiato dal 1936 anno della prima edizione di Umanesimo integrale o il 1942 anno della pubblicazione di “L’educazione al bivio” e il 1999 anno in cui Edgar Morin pubblica La tête bien faite!

La scuola italiana evidentemente deve essere il luogo dell’eterno divenire eracliteo, tutto scorre, panta rei, tutto non è mai nuovo perché è sempre  già stato. Forse hanno ragione se fanno riferimento alla reintroduzione degli esami di riparazione, accompagnata dall’assenza di una riflessione seria. Pare che i debiti si accumulino tutti alle superiori, come se il tratto precedente, il primo ciclo, la scuola di base fosse inincidente, salvo scoprire che i debiti si accumulano in matematica e nelle lingue straniere, forse una seria riflessione sulla didattica della matematica e delle lingue straniere nella scuola di base meriterebbe d’essere avviata.

I saperi di cittadinanza

Ma non è di questo che voglio parlare, voglio riprendere il non bocciare della scuola di Barbiana che oggi per essere onorato richiede una scuola che sappia formare tutti e ciascuno ad essere cittadino competente nella società della conoscenza.

Competente significa com-petere, saper porre la domanda giusta, saper scegliere la direzione, sapersi orientare e attrezzare per risolvere i problemi, potremmo dire con Auguste Comte: savoir pour prévoir, prévoir pour pouvoir. Sapere per prevedere, prevedere per potere. Sapere per avere il potere di agire, dunque.

Agire nella condizione attuale, come è scritto nelle Indicazioni per il curricolo, “dell’uomo planetario, definita dalle molteplici interdipendenze fra locale e globale (…) premessa indispensabile per l’esercizio consapevole di una cittadinanza nazionale, europea e planetaria”.

Il tema della cittadinanza che è tanto caro a Barbiana, perché attraverso di essa passa la dignità di ogni  donna e di ogni uomo, oggi si declina in questi termini.

Il sapere come narrazione

Barbiana è il luogo della grande narrazione culturale, del sapere non come trasmissione ma come intreccio della trama delle conoscenze che l’umanità ha narrato fino ad oggi, narrato nel senso etimologico di gnarus che hanno cioè permesso di rendere l’umanità esperta e di consentire, a sua volta, di rendere esperti ogni ragazza e ogni ragazzo attraverso lo studio e la scuola.

Le discussioni nella stanza di Barbiana danno pienamente l’idea di un sapere di cui ci si appropria per narrazione e non per trasmissione, di un sapere democratico dove non si assimila la mappa mentale dell’altro, ma dove si costruiscono e si acquisiscono gli strumenti per costruire in autonomia la propria mappa mentale, la propria rappresentazione del mondo.

Le suggestioni culturali qui ci sono tutte da Bruner a Umberto Eco che definisce la narrazione come il modo di mettere ordine al disordine delle esperienze.

Come non sentire in quel modo di fare scuola, in quel far scuola che non poteva neppure prendere in  considerazione l’esistenza della bocciatura, perché aveva la sua ragione d’essere nella promozione di ciascuno come dato di partenza, di avvio e non di arrivo, come non sentire che già Lorenzo Milani e i suoi ragazzi non si erano posti tanto e solo il tema della motivazione allo studio ma quanto piuttosto il tema ben più impegnativo della conoscenza, di che cosa sia la conoscenza?

Edgar Morin, poco più di trent’anni dopo scriverà: “E’ sorprendente che l’educazione, che mira a comunicare conoscenze, sia cieca su ciò che è la conoscenza umana, su ciò che sono i suoi dispositivi, le sue menomazioni, le sue difficoltà, le sue propensioni all’errore e all’illusione, e che non si preoccupi affatto di far conoscere che cosa è conoscere.”[4]

 La conoscenza dice non può essere considerata come un attrezzo ready made, pronto per l’uso, a portata di mano. E’ necessario introdurre e potenziare nell’insegnamento lo studio dei caratteri cerebrali, mentali e culturali della conoscenza umana, scrive Morin.

Ecco, ubbidire oggi al comandamento di Barbiana: non bocciare, vuol dire per chi fa professione di didattica dei saperi, e non di trasmissione del sapere, porsi seriamente il problema della conoscenza, di che cosa sia oggi la conoscenza.

Che la conoscenza non è mai un punto di arrivo, noi non arriviamo mai, noi produciamo solo punti di partenza. Noi dobbiamo smetterla di elaborare programmi a cui arrivare, ma sempre programmi da cui partire.

A me piace ricordare la storiella del Grande Imperatore della Terra Gialla che perde la sua perla magica, e allora chiama Conoscenza a cercarla, ma non la trova, allora chiama Chiarosguardo, ma anche questi non la trova, solo quando chiama Senzameta ritrova la sua preziosa perla. Ecco compito della scuola è insegnare ad essere senza meta, che la conoscenza è sempre senza meta, questa è la migliore eredità culturale che il secolo che ci siamo lasciati alle spalle ha lasciato in consegna a questo inizio di terzo millennio.

Non c’è nulla di più precario della conoscenza perché, se no, non saremmo ancora qui a interrogarci e a sforzarci di parlare di scuola.

È comunque ancora  alla scuola e all’università che la nostra società assegna  il ruolo decisivo nella costruzione  delle mappe cognitive degli individui.

La condizione umana è oggi caratterizzata da processi temporali, da dimensioni spaziali e da forme di relazioni qualitativamente nuove e in parte inattese, che a Barbiana non si potevano prevedere.

E la pur grande intelligenza dei ragazzi di Barbiana  aveva appena sfiorato la complessità degli oggetti di studio dei saperi stessi: l’uomo, la mente, il corpo, la società, l’ambiente, la Terra, l’universo…ma soprattutto era ancora molto distante dai problemi planetari che abbiamo oggi: ecologici, economici, tecnologici, sociali, culturali, politici.

Il sapere come ricerca

La posta in gioco è quella di delineare mappe cognitive  che incarnino l’idea del sapere come ricerca continua, aperta alla discontinuità, alla sorpresa, all’incertezza, alle sfide della scoperta e dell’innovazione.

Oggi la scuola promuove nella misura in cui è in grado di sviluppare nei ragazzi e nelle ragazze una sensibilità non solo al “sapere di non sapere”, come estendere le proprie competenze nei territori disciplinari dati, ma anche al “non sapere di non sapere” come ristrutturare l’organizzazione delle proprie competenze in presenza di nuove acquisizioni o di nuovi bisogni, che possono essere anche rapidi e imprevisti.

Sempre di più – scrive Mauro Ceruti, presidente della commissione che ha prodotto le nuove Indicazioni per il Curricolo – il problema diventa quello di formare un individuo che sappia costruire un futuro che non è affatto predeterminato, ma che dipende in maniera critica dalle capacità di visione e di immaginazione.[5]

È l’eccellenza a cui pensava il Bruner dei “Saggi per la mano sinistra”, rispetto la quale lo strutturalismo pedagogico non è più da tempo una risposta sufficiente.

Di qui emerge nuovamente la centralità dell’individuo, di un individuo che oggi non è solo chiamato a partecipare alla costruzione della collettività locale ma ad essere responsabile della costruzione di quella ben più ampia, quella della collettività globale, della cittadinanza planetaria.

La tradizionale missione della scuola, quella della formazione di un cittadino “nazionale”, oggi si riforma, si allarga e si moltiplica. All’obiettivo tradizionale della formazione di un cittadino nazionale si accompagnano i nuovi obiettivi della formazione di un cittadino europeo e di un cittadino planetario.

La scuola a “pieno” tempo

Voglio venire al secondo punto delle riforme proposte dai ragazzi di Barbiana:

A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a pieno tempo.

Questa espressione “a pieno tempo” è rimasta per sempre confinata alle pagine di Lettera a una professoressa.

Abbiamo fatto la scuola a tempo pieno, la scuola a tempo prolungato ma mai la scuola a pieno tempo.

Non l’abbiamo fatta non perché abbiamo perso una battaglia politica o ne abbiamo vinta una a metà, non l’abbiamo fatta perché oggettivamente non la potevamo fare, in quanto peculiarità esclusiva dell’esperienza di Barbiana.

Lo spiega bene il priore nella lettera che il 18 ottobre 1965 invia da Barbiana ai  giudici del tribunale di Roma: “Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare. Ha perciò il diritto e il dovere di dire le cose che altri non dice. È l’unica ricreazione che concedo ai miei ragazzi.

Parole simili sono cariche di una suggestione culturale unica che solo ai ragazzi di Barbiana è stata data la fortuna di vivere.

Sono espressione della sublimazione della scuola in autentica esperienza di cultura. Sono espressione di quei rari  momenti magici di incontro e di fascinazione tra maestro e alunni.

Scuola: ambiente di apprendimento

La scuola a pieno tempo è la scuola ventiquattro ore su ventiquattro è quella cosa che, guarda caso, non si  apprende a scuola ma fuori della scuola, che apprende e pratica chi fa cultura: che tutto nella vita è scuola. Che è stupido distinguere tra dentro e fuori della scuola.

Questo avrebbero dovuto insegnarci, prima la televisione e poi internet. Noi invece nelle nostre scuole insegniamo che la scuola è un conto e la vita è un altro.

L’osmosi tra scuola e vita non siamo in grado né di costruirla né di praticarla, perché i codici della scuola ancora confliggono con i codici della vita.

Ce ne siamo accorti e per colmare questo iato ci siamo inventati lo star bene a scuola, per cui anche lo star bene non è più uno stato naturale ma va progettato. A scuola non si sta bene perché evidentemente le nostre scuole non sono ambienti famigliari. Famigliare invece, sia pure nella sua austerità era per i ragazzi di Barbiana la canonica di don Lorenzo.

Le nostre scuole sono ancora grandi magazzini, grandi silo, grandi contenitori di generazioni che per diverse ore ogni giorno sono sottratte alla vita, alla vita sociale e il guaio di oggi è che quelle più di mille ore all’anno passate dalle nostre ragazze e dai nostri ragazzi sui banchi di scuola, tra le quattro pareti dell’aula non mantengono oggi neppure più la promessa per cui sono state inventate, non servano cioè neppure più a prepararli al lavoro secondo le necessità di una società fondata sulla divisione del lavoro, perché con la globalizzazione non solo è venuta meno l’etica del lavoro, ma è venuta meno, di conseguenza, l’etica e la funzionalità di quella stessa divisione del lavoro, di quel modello di mondo a cui questa scuola era funzionale e faceva riferimento.

Secondo quel modello le nostre scuole sono organizzate per classi secondo il criterio cronologico dell’età, non per interessi, non per competenze, non per obiettivi, tutti a quella determinata età e a quell’ora, seduti allo stesso modo, dal banco verso la cattedra, a fare le stesse cose, basta entrare in una delle nostre classi per averle viste tutte.

A Barbiana i ragazzi non sono una classe, a Barbiana i ragazzi non sono divisi per età, si pratica l’apprendimento cooperativo, chi sa insegna a chi non sa, che sia più giovane o che sia più vecchio non importa, ogni giorno si scelgono i percorsi da intraprendere, ognuno acquisisce abilità per strade diverse, con motivazioni diverse, con tempi diversi.

Ma a Barbiana tutto è apprendimento, in questo senso Barbiana è una scuola a pieno tempo.

Persone: soggetti che apprendono insieme

Dall’ 8 marzo del 1999, nel giorno dedicato alle donne, in Italia nasce ufficialmente l’autonomia delle scuole: didattica, organizzativa, di ricerca, sperimentazione e sviluppo. Da allora abbiamo fatto la scuola dei progetti, ma non siamo riusciti a sviluppare uno straccio di Progetto di Scuola, incartati come siamo in questo paese nel personalismo e non personalismo, nell’educare o nell’istruire, ora abbiamo trovato la sintesi sublime, con le nuove Indicazioni nell’educare istruendo.

Da un prete dobbiamo andare a lezione di laicità, tutti: destra e sinistra.

Da un prete come don Milani che aveva in mente un progetto di scuola e per questo si è battuto: una scuola senza classi, senza banchi, senza cattedre e con tanti libri. Se vi guardate attorno nelle nostre scuole crescono i banchi e le cattedre, sembrano magazzini di arredi in disuso, ma  spariscono sempre di più i libri.

Io credo che sia giunto il momento di avviare una riflessione seria su che senso ha mantenere una scuola ancora fondata sulle classi e sulle cattedre, su tutti fanno tutto nello stesso momento a prescindere dalle motivazioni, dagli strumenti, dalle attitudini, dalle proprie scelte di vita.

Temo che sia la personalizzazione che l’insegnamento individualizzato abbiano finito per prescindere dall’individuo, da ogni singolo individuo, di anteporre cioè il raggiungimento dell’obiettivo, degli obiettivi, il compimento del programma alla considerazione vera dei bisogni formativi dell’individuo stesso.

Francesco Antinucci, autore di La scuola si è rotta scrive che nella nostra scuola il modo di apprendere dominante è quello “simbolico-ricostruttivo”, proprio del personal text: decodificare simboli e ricostruire nella mente ciò a cui essi si riferiscono, una specie di “ricostruzione di ricostruzioni”. Nella didattica della nostra scuola non ha cittadinanza l’apprendimento “percettivo-motorio” proprio del personal computer perché basato su cicli ripetuti di percezione-azione. Vuol dire che nessuno di noi ha imparato ad usare il computer dalla lettura di un manuale, che del resto sono illeggibili, ma per prove ed errori, per tâtonnement avrebbe detto Célestin Freinet.

Di conseguenza nelle nostre scuole i nostri alunni sono sempre dei cavalieri dimezzati.

A Barbiana non avevano il personal text, vale a dire i libri di testo tutti eguali e indubbiamente non potevano avere i personal computer, ma certo l’apprendimento coinvolgeva i ragazzi tutti interi.

 Ecologia dell’apprendimento cooperativo

Forse prima di restaurare gi esami di riparazione era il caso di impegnarsi ad avviare una riflessione seria su questi problemi.

Le nuove Indicazioni reintroducono il concetto di scuola come ambiente di apprendimento. Concetto bellissimo e importantissimo che era stato introdotto più di vent’anni fa dai nuovi programmi della scuola elementare.

Bello perché suggerisce che nella scuola tutto è apprendimento, che il modo di essere e di comunicare dell’ambiente, i suoi spazi e i suoi arredi sono  determinanti per la formazione, l’educazione e l’istruzione degli alunni.

È la lezione dell’Ecologia dello sviluppo umano di Urie Bronfenbrenner.

Ma la scuola oggi è ambiente di apprendimento se come tutti i sistemi è in grado di autoapprendere, di costruire la propria cultura, la cultura di scuola.

La scuola non può preparare i giovani alla discontinuità, alla sorpresa, all’incertezza, alle sfide della scoperta e dell’innovazione, se per primi non sono gli insegnanti a voler ricercare, sperimentare, mettere in discussione le rigidità di un sistema che ogni giorno si presenta sempre più inadeguato.

Ma questo paese deve essere consapevole che ha un’urgenza e questa urgenza si chiama classe insegnante: sottopagata, massacrata dalle cronache quotidiane, annichilita dalla politica.

Le Indicazioni per il Curricolo dicono chiaramente che la progettazione del curricolo è definitivamente affidata alle scuole.

Il paese e la scuola allora hanno bisogno di insegnanti professionalmente preparati, capaci di ricerca e di innovazione, di insegnanti motivati e intraprendenti, non hanno bisogno né di grigiore né di mediocrità.

C’è bisogno di professionisti della cultura capaci di decidere, organizzare, assumersi le responsabilità, capaci di spiegare al paese le ragioni delle loro scelte e del loro operare.

Ma per fare tutto questo gli insegnanti hanno bisogno di sentirsi apprezzati, valorizzati, stimati per le loro competenze e per il loro lavoro  e per il servizio che rendono al paese e alle famiglie, che spesso sappiamo essere latitanti.

 Il senso dell’istruirsi

 Il terzo punto che voglio toccare è l’ultimo della riforma proposta dai ragazzi di Barbiana: Agli svogliati basta dargli uno scopo

Dietro a quel termine svogliati c’è un’idea onesta e pulita di etica dello studio, che lo studio è fatica e che è sufficiente far comprendere che è una fatica che vale la pena di sostenere per restituire la voglia a chi non ce l’ha.

Rispetto alla realtà di oggi che al termine svogliato ha sostituito bullismo e mobbing sembra di leggere le favole della nonna, quelle che finivano con la morale o con gli esempi edificanti, qualcosa ancora del libro Cuore.

La scuola di Barbiana era scuola di non violenza, la scuola dove si legge Gandhi e  Aldo Capitini, è la scuola dell’obiezione di coscienza alla guerra e al servizio militare, è la scuola di L’obbedienza non è più una virtù.

È naturale che fosse così, perché scuola e violenza sono termini che neppure possono essere affiancati, sono parole che si respingono.

Però mi sembra che, si tratti di svogliati o di bulli, i ragazzi di Barbiana centrino il problema: quello di dare uno scopo. Ed  è esattamente quello che la società degli adulti oggi dentro e fuori della scuola non è più capace di fare con i giovani.

C’è un vuoto d’etica nel sociale e nella politica, ma c’è un vuoto d’etica anche dentro alla scuola: l’etica dello studio, l’etica della responsabilità, l’etica dei diritti di tutti e di ciascuno, l’etica del dovere.

 La ricerca dei ragazzi è sempre identitaria, che siano bambini o che siano adolescenti, è la ricerca di modelli in cui riconoscersi e da condividere, di modelli per cui valga la pena di affrontare la fatica di crescere o per alcuni il male di vivere, per scomodare le nostre letture di adolescenti.

In questo scuola e  insegnanti non possono sfuggire alla grande responsabilità che portano: quante aspettative abbiamo tradito, quante speranze o buone intenzioni abbiamo fatto crollare.

 La forza della testimonianza

Don Milani ha costituito per i suoi ragazzi un modello di maestro nel quale identificarsi: un testimone. Testimone è colui che dimostra coerenza tra i suoi pensieri e i suoi atti.

La difficoltà per chi cresce, e  crescere ha la stessa radice di creare, per cui ognuno crea se stesso, è l’autore di se stesso, la difficoltà per chi cresce è sempre la stessa,  è quella di ritrovare coerenza negli adulti tra i loro pensieri e i loro atti. Perché non c’è nulla di più forte più capace di metterci in discussione della coerenza.Ce lo dice don Milani nella lettera ai giudici che citavo prima:

Ci è stato però di conforto tenere sempre dinanzi agli occhi quei 31 ragazzi italiani che sono attualmente in carcere per un ideale. Così diversi dai milioni di giovani che affollano gli stadi, i bar, le piste da ballo, che vivono per comprarsi la macchina, che seguono le mode, che leggono giornali sportivi, che si disinteressano di politica e di religione. I miei figlioli voglio che somiglino più a loro…E ciò nonostante non voglio che vengano su anarchici.-

 Mi chiedo se la scuola e gli insegnanti possono permettersi questa assenza di coerenza, di non essere attenti e sensibili su questo piano. Chiaramente la risposta è no!

L’aggressività è un meccanismo complesso fatto di infinite sfumature, per la scuola essere luogo di pace e di non violenza richiede da parte degli insegnanti un forte senso etico, una attenta sensibilità, una vigilanza scrupolosa dei propri comportamenti, fa parte della deontologia professionale dell’insegnante. L’insegnante è sempre un mass media, uno di fronte a tanti, tutto dei suoi gesti, delle espressioni del volto, degli atteggiamenti, degli sguardi, delle parole viene colto dagli studenti, nulla di loro sfugge agli studenti, possono sfuggire all’attenzione della classe le parole della spiegazione, ma non i messaggi del linguaggio non verbale. Gli insegnanti devono sapere che la loro autorità non passa mai attraverso l’autoritarismo che è violenza e aggressività, in qualunque modo si manifesti, ma attraverso l’autorevolezza della propria competenza professionale, dell’accoglienza, dell’ascolto, dell’assenza di giudizio, della coerenza.

Come insegnanti e operatori della scuola, come adulti educatori dobbiamo imparare da Lorenzo Milani e da quanti come lui ad essere testimoni, ad essere ascoltati dai ragazzi perché coerenti nei nostri pensieri e nei nostri comportamenti, forse la testimonianza del nostro modo d’essere, allora come oggi, può ancora aiutare a restituire uno scopo a quei giovani per i quali la vita sembra meritare di non averne.

 Un’intelligenza scomoda

Don Milani fortunatamente per noi è stato un prete, di quelli che venivano definiti preti scomodi. Questo significa che la ricerca, l’intelligenza, il cambiare paradigma nel guardare al mondo è sempre un fatto scomodo e che il nostro mestiere, di noi che lavoriamo nella scuola e nella cultura, se è fatto bene, non può che essere scomodo, il più scomodo di tutti.

E la scuola, potrà sembrare paradossale dirlo oggi nel momento in cui siamo impegnati nei progetti dello star bene a scuola, deve insegnare ai giovani la scomodità, perché la conoscenza è sempre scomoda.

Conoscere non appaga, mette in crisi.  Ma senza scomodità non c’è cambiamento, perché è solo quando non si è più cum-modus conformi alla “misura” che ci impongono gli altri che  c’è per tutti la speranza di cambiare.

Di fronte all’ombra di minacce planetarie che oggi ci fanno spaventare, solo questo ci può aiutare: essere scomodi  perché l’umanità possa ancora continuare per tanti millenni in avvenire a scrivere, avendo tanti uomini di buona volontà come Lorenzo Milani,  la sua meravigliosa narrazione.

*Relazione al Convegno sulla pedagogia di Don Milani tenuto presso la Biblioteca Bassani di Ferrara il 2-11-2007.

Pubblicato in Rivista dell’Istruzione, 2-2008, marzo/aprile anno XXIV, Maggioli Editore

 


[1] Lettera a una professoressa, Libreria editrice Fiorentina, pg. 80

[2] Lettera a una professoressa, Libreria editrice Fiorentina, pg. 96

[3] A. Maalouf, L’identità, Bompiani, Milano, 2005, pg. 18

[4] E. Morin, I sette saperi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001, pg. 11

[5] G.Bocchi, M. Ceruti, Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, pg. 6

Cittadini del sapere: cittadini di un nuovo Umanesimo

Immagine

Un cantiere per il futuro

Dalla Legge Casati sulla scuola in poi si è legiferato certo non concependo l’idea  di una cittadinanza del sapere e nel sapere, bensì nella considerazione che gli alunni hanno ad essere dei sudditi del sapere. E così noi siamo sempre stati  e tali continuiamo a trattare le nostre ragazze e i nostri ragazzi nelle nostre scuole: sudditi del sapere, coltivando più la soggezione delle loro menti e dei loro comportamenti nei confronti del sapere che non la familiarità, la naturalezza che deriva dall’abitudine  a percorrere le strade della conoscenza.

Suddito è esattamente l’opposto del termine cittadino, è colui che dipende dalla sovranità di uno Stato di cui non è membro, le nostre alunne e i nostri alunni dipendono da una comunità di saperi di cui non sono, non si sentono e non li facciamo sentire membri, per questo sono e continuano ad essere sudditi.

Ma quella società che rendeva sudditi gli studenti e le famiglie promettendo loro mobilità sociale, riuscita nella vita, un posto di lavoro non c’è più e non tornerà mai più, è morta, definitivamente defunta.

In questo pianeta, che Morin ha definito come una nave spaziale che viaggia grazie alla propulsione di quattro motori scatenati: scienza, tecnica, industria, profitto e dove nello stesso tempo la minaccia nucleare e la minaccia ecologica impongono alla umanità una comunità di destino[1], non c’è possibile futuro che valga la pena costruire se non riscoprendo la centralità dell’individuo, la centralità dell’intelligenza, la centralità del pensare oggi  per il futuro.

Dobbiamo chiamare all’appello tutte le nostre forze e la nostra creatività, e come già avvenne per il Rinascimento tornare a collocare al centro della nostra civiltà la donna e l’uomo, ogni singola donna e ogni singolo uomo, è inevitabile perché solo questa è l’unica risorsa che ci resta per poter tentare di scommettere sul futuro.

Replicare una rivoluzione scientifica che ci porti a superare il dogmatismo del sapere scolastico così come fino ad oggi l’abbiamo concepito e praticato, restituendo centralità alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi in quanto risorse e non più sudditi nelle nostre classi, in quanto innanzitutto  intelligenze da attivare, modi di pensare da coltivare,  da condurre fuori dal  torpore delle nostre aule e della nostra cultura di massa. È tempo che anche  la cosiddetta “cultura di massa”  tramonti per consentire di compiere un passo  oltre, è giunto il momento di praticare la “cittadinanza del sapere” che è ben altra cosa, assai diversa dall’evento, dal grande evento che richiama file di utenti, utenti perché non cittadini del sapere, ai botteghini delle grandi mostre.

In questo senso il cantiere scuola deve essere cantiere per un nuovo umanesimo, in grado di rimettere con forza al centro: il pensiero, la mente, la psicologia della conoscenza, il come pensiamo e conosciamo del buon vecchio e mai tramontato John Dewey.

Diversamente rischiamo che solo per la scuola e per i nostri giovani lo Stato continui ad essere uno Stato Mistagogo e Leviatano che non è in grado di offrire loro speranze, la speranza del domani, che mortifica ogni possibilità di coltivare i sogni sul futuro, perché pervicace nel pretendere da loro che apprendano il passato senza mai condurli ad imparare il futuro, il futuro di cui hanno bisogno come l’aria che respirano, perché quello, perché il futuro sarà la loro sicura dimensione di vita.

Da suddito a cittadino del sapere

Ma quando parliamo di “sapere” cosa intendiamo? Il “sapere” in quanto sostantivo  o  “sapere” in quanto verbo. Il patrimonio di conoscenze accumulato o il sapere agito che  mai ha termine?

Da suddito del sapere a cittadino del sapere, al sapere agito per dare sapore alla nostra esistenza di cittadini, considerato che i due termini hanno una comune radice latina. La distanza tra suddito e cittadino del sapere è enorme. Il suddito è  formato, il suddito è educato, il suddito deve conformarsi e convergere.

Il cittadino, al contrario, deve partecipare attivamente del sapere e dunque apprendere, non può e non deve conformarsi, è obbligato a divergere perché diversamente non si formulerebbero le ipotesi di cui la scienza necessita per nutrirsi e finirebbe per perire,  negherebbe il fine stesso della sua cittadinanza che è l’ apprendimento continuo e rinnovato.

E allora in questo gioco di parole e di rovesciamenti, viene a ribaltarsi un altro luogo comune, quello che dice: la scuola deve aprirsi all’ambiente.

Ma se  si è cittadini del sapere è evidente che non è più così, perché è innanzi tutto l’ambiente a doversi aprire alla scuola, a coniugarsi con la scuola, anzi è l’ambiente stesso che sempre più si costruisce come scuola, come aula di apprendimento, come abbiamo detto tante volte. Ma qui voglio dire qualcosa di più.

Non è sufficiente che sia la scuola ad essere ambiente di apprendimento, perché se non è ambiente di apprendimento prima di tutto la società in cui viviamo quotidianamente, anche la scuola stessa fatica a qualificarsi come ambiente di apprendimento.

Dentro  e fuori del sistema scolastico non più i tradizionali processi del sapere top down, dalle accademie e dalle cattedre ma sempre più processi aperti, processi bottom up che collochino ogni singolo individuo mai più come suddito, mai più come  destinatario di piani di studio personalizzati, ma come  protagonista primo nel vivere  la sua cittadinanza piena e consapevole nella comunità del sapere.

Dobbiamo decisamente passare dalla società dell’ informazione indifferenziata, dalla società della cultura di massa, alla società del sapere diffuso, del sapere distribuito della in-formazione continua.

E come allora la scuola oggi può concorrere a tutto ciò?

Una scuola che, di fronte ai cambiamenti epocali, di fronte ai processi di globalizzazione che ci rendono tutti cittadini del pianeta, non è più luogo e non può più oggettivamente essere il luogo che mantiene le promesse del passato dove le nuove generazioni si preparano al mondo del lavoro o ad affrontare  i problemi pratici di tutti i giorni.

Allora credo che la scuola si debba e si possa qualificare come  quel luogo dove viene svolto un particolare tipo di lavoro, un lavoro intellettuale (intellegere = comprendere): l’addestramento e l’esercizio della riflessione e del ragionamento con l’ausilio degli attrezzi del mestiere che sono le discipline in quanto grandi narrazioni del sapere e dei saperi.

Un lavoro che non coinvolge la massa indistinta della classe, ma che deve avere come obiettivo prioritario e qualificante la capacità di  coinvolgere la mente di ogni singola alunna e ogni singolo alunno in quanto individuo, in quanto unico e irripetibile, renderlo protagonista di un percorso formativo il cui esito è il prodotto certamente dell’apporto di  ognuno, ma alla fine è molto di più della semplice somma delle singole parti che ognuno ha composto nel momento del proprio personale coinvolgimento.

La scuola deve divenire quel luogo in cui si apprende a praticare l’arte, la virtù e la competenza della “distanza” , del “distacco”, dello sguardo “altro”, dello sguardo “critico”, dello sguardo cioè che sa distinguere, che vede da lontano per andare lontano.

Il mondo quotidiano in cui siamo coinvolti, il mondo di fuori, nei luoghi della scuola  si fa contenuto, oggetto privilegiato di riflessione e di ragionamento,  perché è solo così, solo attraverso queste condotte cognitive  è ammesso procedere nei territori della conoscenza e del sapere.

Usare le discipline non in quanto materie di studio fini a se stesse, ma come gli strumenti indispensabili a costruire le competenze, perché le discipline nella storia dell’uomo sono progredite e cresciute nutrendosi di competenze,  cioè della capacità di porre domande, di interrogare in modo nuovo il loro territorio per poter accrescere il loro patrimonio di saperi, di interrogare la città del sapere, per muoversi e addentrasi nei suoi quartieri.

E quindi temo che se ci  limitassimo ai soli obiettivi dell’apprendimento, continueremmo inevitabilmente a restare sudditi del sapere. Solo la competenza, sono convinto, può vincere questa sudditanza, sudditanza che si sconfigge  nel momento in cui esercito e pratico il sapere, manipolandolo, reinventandolo, applicandolo nei laboratori intesi come saperi operosi, come operosità del sapere. Laboratori intesi nel significato etimologico di labor – laboris, cioè di “fatica”. L’apprendimento in quanto tale non è più sufficiente, perché si ferma sulla soglia delle competenze senza mai attraversarla, perché ancora oggi la scuola non conduce  all’ impiego delle conoscenze via via acquisite, così che difficilmente si traducono in saperi la cui padronanza è necessaria per poter esercitare pienamente il proprio diritto di cittadinanza.

La scuola che pratica lo spezzatino del sapere, che disgiunge le conoscenze che dovrebbero essere invece interconnesse, è una scuola che forma menti unidimensionali, è una scuola riduzionista, è una scuola che privilegia una sola dimensione dei problemi umani e che occulta tutte le altre, è la scuola del pensiero pigro, è la scuola del pensiero lento, è la scuola del pensiero asfittico.

Ecco oggi, nell’era planetaria, si può essere cittadini del sapere, si può essere cittadini di un nuovo umanesimo solo se la scuola diventa la sede privilegiata di un nuovo modo di conoscere, di un nuovo modo di pensare, di un nuovo modo di insegnare.

Oltre la Scuola di massa

Si possono scrivere pagine di curricolo, si può combattere il frazionamento del sapere accorpando le discipline per aree, ma se non cambia la mappa mentale della docenza, se l’insegnamento di ieri e dell’altro ieri vale ancora per l’oggi, se non si riforma alla radice l’insegnamento si scriveranno sempre inutilmente pagine e pagine di Indicazioni che agli occhi degli insegnanti sembreranno sempre già viste, sempre già state, sempre indifferentemente tutte uguali. Non perché sia oggettivamente così, ma perché gli occhiali che indossano gli insegnanti sono da troppo tempo sempre gli stessi, per cui il mondo può cambiare, ma la loro percezione resta sempre quella di tutti i giorni, è quella di ieri e continuerà ad essere sempre quella anche domani.

E del resto come può essere diversamente, come può oggi un insegnante che mai lontanamente a scuola, all’università, ecc.  è stato educato ad essere o per lo meno a sentirsi, o aspirare a divenire cittadino del sapere, istruire, educare e formare le sue allieve e i suoi allievi a praticare la cittadinanza del e nel sapere?

Voglio riprendere quanto Edgar Morin scriveva ormai diversi anni fa nel prologo  al suo La testa ben fatta, che del resto porta come sottotitolo, non a caso, Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero. Come dire che non c’è crescita delle intelligenze se non c’è un radicale cambiamento della didattica.

Scrive Morin nel suo prologo: “ […] Sempre più convinto della necessità della riforma del pensiero, quindi di una riforma dell’insegnamento, approfittavo di diverse occasioni per riflettervi. Avevo pronunciato, su suggerimento dell’allora ministro dell’Educazione Jack Lang, “qualche nota per un Emilio contemporaneo”. Avevo pensato a un “manuale per insegnanti e cittadini”, progetto che non ho abbandonato”

Non abbandoniamolo neppure noi questo progetto, facciamolo nostro, investiamo in esso le nostre intelligenze, la nostra passione.

Per imparare, dunque, ad apprendere in forme adeguate alla nostra dimensione planetaria a cui tutto e tutti ogni giorno ci richiamano, dobbiamo convincerci che sono ormai inevitabili e ineludibili  tre riforme: quella del conoscere, quella del pensiero, quella dell’insegnamento.

Noi però, che portiamo la responsabilità sociale di lavorare nella scuola, dobbiamo  sapere molto bene che il luogo per eccellenza deputato a praticare e sperimentare quotidianamente questi intrecci tra pensiero, conoscenza e insegnamento è la scuola e, se chiamati, di questo abbiamo il dovere di rispondere.

Perché è nella scuola che insegnanti e alunni insieme devono imparare a praticare, a esercitare quotidianamente la ragione, la riflessione, l’interconnessione dei saperi, anche di quelli apparentemente più distanti tra loro, la capacità di risolvere problemi, perché è a tutto ciò  che i processi  della società della conoscenza, della società dell’incertezza attribuiscono oggi valore e priorità.

La scuola, dunque,  nella sua migliore espressione, è e deve essere questo luogo.

La richiesta di nuovi saperi, l’affermarsi di un nuovo pensiero sull’essere cittadini di questa contemporaneità sono, dunque, impellenti.

La scuola degli apprendimenti, la scuola delle competenze, del cum-petere, del saper porre  domande, del saper interrogare e interrogarsi circa la realtà, è evidente che non può più essere sempre la vecchia scuola fatta e rifatta dal primo politico di turno che si ritrova al governo del Paese.

Il tema del lifelong learning, dell’apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita, come ugualmente il tema della società della conoscenza, della comunità dell’apprendimento diffuso, il tema della learning city, delle “città che imparano” costituiscono insieme, non solo un nuovo fronte di intervento per la formazione, ma un momento decisivo per ripensare i modi, i tempi e i luoghi dell’ apprendimento.[2]

La sinergia curricolare tra scuola, extrascuola e postscuola richiede scelte politiche in grado di indurre e di  impegnare gli amministratori locali a non curare solo la cultura dei grandi eventi ma di farsi carico con sistematicità di dare qualità formativa ai propri contesti urbani, di restituire alla cittadinanza del sapere i territori rinnovati dei musei, delle pinacoteche, delle biblioteche, delle  emeroteche, delle discoteche, delle ludoteche, dei teatri, dei cinema, delle piazze, dei monumenti e potrei continuare ancora e ancora…perché è solo così che concretamente si diventa cittadini del sapere, non come dovere, ma come diritto da esercitare naturalmente e quotidianamente nella propria crescita, sia quella di oggi che quella di domani, un diritto di portata universale e inalienabile.

Nei fatti, noi sappiamo bene che  la centralità dell’individuo e la cittadinanza del sapere si praticano nel momento in cui il sistema formale dei saperi (la scuola) e il sistema non-formale (il territorio) si coniugano, concorrono cioè a disegnare il curricolo condiviso dalla scuola e dalle agenzie extrascolastiche intenzionalmente educative.

Una scuola dell’autonomia che gestisse la prerogativa dell’autonomia per finire con il coltivare il suo isolamento e i suoi distinguo, nella realtà sarebbe la scuola dei tradimenti, una scuola che tradisce lo spirito del legislatore, perché da soli non ci sono autonomie da esercitare. L’autonomia si esercita se accanto ci sono gli altri, se accanto a noi camminano anche gli altri,  nella misura in cui si opera per un obiettivo comune con altri soggetti diversi da noi sia per istituzione che  per compiti.

Del resto la complessità e la varietà della domanda formativa che oggi esprime il territorio richiede inevitabilmente che si realizzi una sinergia delle istituzioni e tra le istituzioni, nell’ottica del life wide learning.

Vorrei concludere che non si può essere cittadini  del sapere, cittadini di un nuovo umanesimo se la scuola nella società della conoscenza non si fa carico del compito che le compete al di sopra di ogni altro. Quello cioè di essere in prima fila nel condurre la battaglia per la democrazia del sapere e  per  saperi democratici.

Scuola di massa, abbiamo detto, è ormai un concetto obsoleto e ampiamente tramontato.

Oggi la vera sfida rispetto alla quale la stessa scuola rischia di essere tagliata fuori, di decretare la propria irrilevanza e inutilità, è proprio quella che si gioca sul campo della democratizzazione dei saperi, sia nella loro formazione che nella loro fruizione.

E chi deve garantire ciò ai cittadini se non le nostre scuole e le nostre università? Occorre cioè garantire proprio attraverso la scuola e  proprio attraverso il disegno di una società che  sia, non educante, ma diffusamente educativa,  che i linguaggi della società della conoscenza,  quelli orali e scritti,  quelli gestuali e  mediatici, elettronici, etici e bioetici, ecc siano alla portata di tutti e di ognuno.

Ecco perché la scuola di oggi deve tornare a compiere una rivoluzione copernicana, ricollocando al centro della sua scena non più l’alunno attivo del puerocentrismo, ma l’alunno intelligente, che torna a pensare, conoscere, e comprendere.

Di fronte all’incertezza delle nuove sfide a cui impegna la cittadinanza planetaria, mi sembrano queste le armi della certezza con cui attrezzare le nostre ragazze ei nostri ragazzi di oggi, perché domani possano praticare non la cittadinanza di tanti stati nazione tra loro divisi, ma la cittadinanza di un unico intero stato pianeta.

*Intervento alla giornata di studio “Cantiere scuola” organizzata a Ferrara dal CIDI il 7 marzo 2008,

allora presentato con il titolo Cittadini del sapere: cittadini di un nuovo Umanesimo.


[1] G. Bocchi, M. Ceruti, Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004, pp.VII-VIII

[2] N. Longworth, Città che imparano, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, VII-VIII

Il nostro manifesto: Dalla Scuola di Massa alla Cittadinanza Educativa

future-of-learning-hero-930x300

Il passato presente

Esaurita la funzione che le principali correnti del pensiero ottocentesco hanno avuto nel determinare le sorti educative del secolo che ci ha preceduti, non ritengo che si tratti di un ozioso esercizio accademico avanzare la necessità urgente di un ripensamento radicale  delle categorie e dei principi che, sebbene da tempo ampiamente devitalizzati o disattivati, pure hanno costituito e ancora, per gran parte, perdurano a costituire le fondazioni del nostro sistema educativo, secondo un principio, di deweyana memoria, per il quale non si avrebbe pedagogia senza filosofia, o meglio diremmo oggi che ogni educazione è figlia della weltanschauung del proprio tempo.

Senza sottovalutare i rischi di una eccessiva schematizzazione, credo che si possa affermare a proposito del caso italiano che valori e fini hanno segnato le dominanti del discorso intorno alla scuola per tutta la prima metà e oltre del Novecento, risentendo in massima parte dell’asfissia dottrinale ottocentesca, con un marcato prevalere delle istanze educazionali su quelle inerenti all’istruzione.

Ad un’inversione sia pure faticosa si è assistito dopo gli anni sessanta, tanto che a venire ad oggi è il binomio, di per sé programmatico, dell’insegnamento-apprendimento ad emergere nell’ambito di ciò che da discorso si è andato sempre più problematicamente facendo ricerca educativa.

Ciò nonostante l’accento sull’istruzione ancora persiste col scivolare via per ricadere innanzitutto sui suoi contenitori ed è sufficiente per rendersene conto pensare alle riforme compiute e a quelle mancate.

E’ il sistema scuola nei suoi diversi gradi a divenire il soggetto con riscritture di programmi, con leggi che ne investono l’organizzazione e l’uso delle risorse, senza per altro riuscire a capitalizzare risultati da ritenersi apprezzabili al vaglio di un attento esame critico. L’unico obiettivo segnato pare essere quello della scolarizzazione di massa ben presto contraddetto dal fatto che alla sua dimensione formale non ne è corrisposta una altrettanto sostanziale .[1]

Almeno in apparenza, ogni velleità sulle finalità ultime della scuola è stata abbandonata, al di là del generico comeniano tutto a tutti la cui versione contemporanea sarebbe un diritto allo studio affermato a parole ma poi ancora ampiamente negato nei fatti.

Incapaci di formulare una comune visione intorno ai fini e soprattutto un’organica e condivisa politica scolastica, ogni intervento ha solo sfiorato gli aspetti sostanziali della formazione per incentrarsi sull’organizzazione e sugli strumenti senza per altro riuscire a scalfire in modo significativo la struttura burocratica della amministrazione scolastica.

La nostra scuola, per come si esprime quotidianamente, pare destinata a non divenire mai né autenticamente democratica né mai culturalmente emancipatrice, e ciò fino a quando innovazioni organizzative e strumentali continueranno a servire indifferentemente il vecchio e il nuovo, quando non fini tra loro nettamente contradditori con la conseguenza, che è sotto gli occhi di tutti, di snaturare anche quello che di positivo si sarebbe potuto ricavare.

Sullo sfondo o dietro le quinte non mancano d’agitarsi ancora gli assiologisti o i teleocrati dell’educazione, spoglie persistenti d’altre epoche, fantasmi dei loro fantasmi che non cessano d’agitarsi e mi pare ragionevole pensare che sia giunto il momento di stanare anche loro, di cessare di fingere un inutile rimpiattino, di affrontarli invece e nuovamente in campo aperto.

Scuola e individualità

Non so quante e quali delle idee che hanno nutrito la storia dell’educazione siano tramontate per oblio o ancora giacciano silenti nelle coscienze individuali semmai in attesa di essere ridestate o rivisitate, ma certo è che la teoria dell’educazione ancora oggi vive dell’assunto che ogni individuo è altro dai principi e dai fini che l’educazione si propone di perseguire pena la sua decadenza tanto da assegnarsi il compito di con-formare ad essi ogni singolo individuo scolarizzato, nella pratica poi al servizio di questo postulato sempre più spesso è stato piegato l’uso delle così dette scienze dell’educazione. Comunque si voglia, sia che il compito dell’educazione si prospetti quale medium della partecipazione degli individui alla coscienza della specie sia che verifichi l’improduttività di ogni adjustment per poi puntare tutte le proprie carte sulla competenza e sull’ eccellenza, c’è sempre un sociale una ragione altra che sopravanzano sull’individuale, su quell’individuo che l’educazione in palese contraddizione con se stessa in ogni epoca ha faticato a celebrare quale  valore di per sé e per sé.

Del resto il succedersi di scomposizioni e ricomposizioni della natura umana è una costante di tutta la storia dell’educazione; i dualismi anima-corpo, intelligenza-carattere, istinto-ragione ed altri ancora sembrano agitarsi come una sorta di Leviatano contro il quale sarebbe parsa missione dell’educazione combattere affinché l’individuo ad essa affidato non ne venisse divorato. Così, spesso, la relazione educativa nei sistemi scolastici ha finito per assomigliare alla rappresentazione di una tragedia greca i cui corifei, discenti e docenti, si annientano nella ricerca di una comune catarsi programmata. Chi tra noi può dire di essersi sentito soggetto, protagonista, insomma di essersi mai sentito se stesso una volta inserito nel sistema educativo, nei suoi ingranaggi, nei suoi linguaggi e nei suoi riti? Quel qualcosa dell’esperienza scolastica che avrebbe dovuto essere rivolto al nostro mondo interiore in realtà ci è sempre stato esterno e come a noi esteriore l’abbiamo sempre vissuto sia nelle gratificazioni come nelle frustrazioni subite.

John Dewey pareva giunto a vendicare tutti gli allievi del mondo restituendo loro centralità nel processo educativo, non per questo possiamo dire che la rivoluzione copernicana dell’americano abbia ricollocato all’apice del discorso educativo l’uomo, tanto più che essere relegati di volta in volta al ruolo di fanciulli, alunni o studenti come avviene nelle nostre scuole non è mai essere uomini, ma evidentemente sempre e solo una parte di noi, essere cioè inesorabilmente considerati sempre e solo delle parzialità.

E’ inutile dire che se l’educazione ha tratto vantaggi dalla storia del pensiero ha anche pagato ad essa prezzi altissimi, così come ai machiavellismi economici e politici. La morale è che l’uomo nella storia della nostra cultura non è  mai stato accettato per se stesso, poiché le sue radici muovono dalla sfiducia nell’uomo non già per una sorta di condanna biblica, ma piuttosto semmai per una prevalente e duratura dannazione culturale. Qui sta la ragione, forse prima, della scarsa rilevanza dei processi educativi sui risultati finali dei singoli individui. La scuola, in quanto tale, non ha mai prodotto dei grandi uomini che al contrario, più spesso, si sono realizzati a partire dal suo rifiuto, contro di essa o quali figli esiliati, vittime dell’ostracismo delle sue liturgie.

Se ripenso all’educazione ricevuta ciò che mi sorprende è il constatare che essa non è riuscita ad impedirmi di fare quello che ho fatto – ritornano le parole di Einstein e, con identico spirito, Iosif Brodskij : – Ciò che rendeva la mia fabbrica diversa dalla mia scuola non era quello che mi era capitato di fare dentro l’una o l’altra, e neppure quello che mi era capitato di pensare nei rispettivi periodi, bensì l’aspetto delle loro facciate…– E Brodskij prosegue scrivendo: – Liberté, Egalité, Fraternité…Perché nessuno aggiunge Cultura? [2]

L’avventura del sapere è, dunque, esterna alle preoccupazioni dei nostri sistemi scolastici o falsamente interna perché e-ducare, i-struire, tra-smettere non sono mai territori di libertà, di quella libertà di conoscenza tutta interiore invece alla natura umana, ad ognuno di noi stessi.

Una verità elementare, questa, antica almeno quanto Socrate, la cui coscienza ha mosso Religioni, Ideologie, Stati. Una volta rivelata, sarebbe stato compito dell’educazione imbrigliarla, assumerne il monopolio, predisporre il vischio e le trappole, le gabbie e le riserve, i territori protetti del sapere dalla famiglia alla scuola, dalle università alle accademie. Dare regole, esercitare controlli sulla più grande forma di emancipazione, di rendersi libero di cui ogni singolo individuo, donna o uomo che fosse, ragazza o ragazzo avrebbe potuto personalmente disporre.

E in questa volontà di controllo si è aperto lo scontro per l’affermazione del primato tra le Religioni e gli Stati, l’individuo, ciò che per sua natura non è divisibile, è stato separato, scisso tra Storia e Metastoria, tra Fedi e Laicità. A pensarci bene , quando le Sacre Scritture ancora erano l’unum del sapere, la grande Riforma protestante ha fallito in pieno il suo scopo; l’affermazione del primato di ogni singolo essere umano nella ricerca della conoscenza ancora una volta è stata sacrificata alle ragioni di altre Chiese e senz’altro anche per questo tutta la storia concreta, quotidiana degli individui ha pagato e continua a pagare il prezzo della morte di ogni rinascita.

Non appaia banale parafrasare Schelling per dire che la nostra esistenza è inadeguata alla nostra essenza materiale, perché questa espressione è tanto banale quanto lo può essere ogni verità, una verità, in questo caso, che dovrebbe vedere gli uomini di cultura e di scuola radicalmente impegnati più a rinnovare che a conservare.

Ormai oltre il decimo anno del terzo millennio, se una qualche ragione ancora esiste, non ci si può che sentire profondamente ribelli all’idea che tutto ciò sia inesorabilmente connaturato alla complessità del vivere politico o ancora peggio ad un ineluttabile destino umano.

Riscoprire ognuno di noi come discorso, un discorso interrotto da un tempo troppo lontano ma che ancora può tornare a fluire, rigenerando le essenze della ragione, rigettando ostinatamente e pervicacemente ogni loro negazione, ogni atto che non sia indirizzato a liberarne quelle potenzialità che definiscono la natura stessa dell’uomo.

Non deve essere forse questo il grande compito del sistema formativo di uno Stato autenticamente moderno, democratico e liberale: portare ogni individuo a tornare ad essere pienamente cittadino della polis, perché innanzitutto torna ad essere cittadino di sé e dentro di sé?

Neppure le psicologie cognitiviste e costruttiviste  hanno colmato il divario tra individuo e educazione, tra individuo e il proprio sé. Non tanto perché la loro diffusione nella prassi scolastica possa essere stata insufficiente, ma piuttosto perché esse ancora si prospettano come strategie di pianificazione verso sistemi a rendimento garantito; muovono dall’individuo ma poi ne smarriscono l’essenza nell’efficienza e nell’efficacia dei curricoli. Stiamo attenti agli equivoci! Siamo davvero sicuri che il soggetto di una strategia di mastery learning sia l’alunno in situazione di apprendimento e non piuttosto l’obiettivo che si è programmato di fargli acquisire? Che ogni volta non si assista ad una sostituzione volendo in realtà verificare l’efficacia dello strumento per cui l’obiettivo si fa soggetto e l’alunno oggetto del processo di apprendimento? In ultima analisi, a me pare, che si sia finito in realtà per comprovare quanto è brava quella determinata scuola nel realizzare i suoi compiti, anziché verificare quanto quell’alunno, per effetto del processo formativo, è più cittadino di se stesso anziché di quel sociale che si esprime nell’inevitabile parzialità degli obiettivi assegnati dai programmi.

Voglio dire, e non per paradosso, che delle finalità sociali della scuola, che fanno l’uomo e il cittadino, i nostri Stati e la nostra Cultura ne hanno abusato fin troppo e a sproposito, più spesso oserei dire a danno del singolo individuo, delle singole individualità che a loro vantaggio.

Stato e Scuola

Io non mi sento di liquidare con alcuna professione di fede la lezione niciana Sull’avvenire delle nostre scuole[3] in particolare là dove si additano gli Stati come antagonisti e nemici della cultura.

Ognuno di noi è cultura, poiché ognuno di noi tende costantemente alla propria ideale formazione, alla realizzazione di sé nel rispetto della propria autentica forma e natura. Mi accade spesso di ripensare le pagine di La lingua salvata di Elias Canetti, in particolare quelle nelle quali racconta come durante la sua infanzia fosse avviato alla passione per la lettura e i libri dal padre e dalla madre.

In realtà la cosa incomparabilmente più importante, più eccitante e più caratteristica di questo periodo erano le serate che io e la mamma dedicavamo alla lettura e ai discorsi che facevamo intorno a ciascuno di quei testi. (…) Se esiste una sostanza intellettuale che si riceve nei primi anni,  alla quale ci si riporta poi sempre e della quale non ci si libera mai più, per me quella sostanza è lì.

(…) Tutti gli influssi che ho subito successivamente sono in grado di rintracciarli uno per uno. Questi, invece, formano un’entità unica che ha una sua densità e un suo spessore indivisibili. [4]

Se questo è un esempio di autentica esperienza culturale che non mortifica né il singolo né il processo della conoscenza, perché tollerare ancora che si persegua, non già un modello di scuola di massa, bensì un’improduttiva massificazione scolastica che anche nei migliori dei casi finisce per snaturare persone e saperi?

Un modello concepito quando l’idea del rapporto Stato-Educazione si esauriva nell’obiettivo di tenere ogni giorno occupata in modo organizzato una parte dei soggetti sociali: i più giovani.  Penso che sulla difficile strada della lotta per l’affermazione del diritto all’istruzione ci siamo davvero smarriti e abbiamo soprattutto smarrito il valore dell’essere individuale e quello ad esso connaturato della cultura.

O meglio, lo smarrimento oggi è evidente, perché di fronte al fallimento, pressoché generale dei nostri sistemi scolastici, non abbiamo ancora  l’onestà e il coraggio di chiudere con questa epoca e con le sue stagioni di scuola e di discorso educativo. E lo stato di salute è più grave  proprio sul versante della cultura e della formazione: i sistemi scolastici sono al collasso e i processi di de-culturazione e di disapprendimento sono avanzati come mai nel passato. Mentre pare allontanarsi il pericolo della catastrofe nucleare c’è già chi paventa quella dell’ignoranza che incombe sul nostro futuro.

Mai come oggi mi pare giunto il momento di tornare ad avere il coraggio e l’audacia  delle idee, dell’immaginazione, dell’idealismo politico.

In tanto non sono gli individui che devono continuare a rivendicare il diritto alla scolarizzazione di massa o il diritto all’educazione permanente. Lo Stato ottocentesco  che nell’amministrazione e nella burocrazia rende tutti sudditi è naufragato nelle coscienze individuali, sia esso liberale sia esso socialista, o lo Stato serve o è una nemica astrazione.

Lo Stato diviene nemico e antagonista di ognuno di noi quando tradisce le basi della civil society venendo meno ai principi fondati sul valore del singolo che hanno ispirato l’origine delle democrazie moderne. Stati-autorità che esercitano il loro potere ponendosi al di sopra dei bisogni del cittadino anziché al suo fianco, perché non sono Stati al servizio e di servizio come richiederebbe il principio secondo il quale non si può avere autentica cittadinanza sociale se prima ognuno non è posto nelle condizioni di divenire pienamente cittadino di se stesso.

Dal Novecento i nostri Stati sono usciti non solo con la bancarotta economica ma anche e soprattutto con quella umana. La loro colpa più grave di fronte alla Storia è quella del più grande spreco d’intelligenze, vale a dire di risorse umane con le guerre, gli olocausti, con il disprezzo per l’uomo, nessuna civiltà che pretenda di definirsi tale può sottrarsi a questa riflessione, a questa responsabilità, è fin tropo facile, qui, ricordare la lezione di Marx :

– Una società piena di cose utili con uomini inutili.-

E come negare che l’inimicizia e l’antagonismo dello Stato nei confronti della cultura sono proprio testimoniati dalle nostre scuole, dai nostri sistemi scolastici, un’inimicizia ed un antagonismo che con la scuola di massa hanno finito per massificarsi nelle loro manifestazioni.

Pare che l’istruzione, anziché essere dovuta ad ogni singolo individuo che esiste su questa Terra come diritto permanente e bene incommensurabile, sia dovuta allo Stato nei modi, nei tempi e nelle quantità che lo Stato stabilisce e a ciò ogni singolo individuo si deve adattare e con-formare. E come per ogni rito collettivo, decretato dall’alto, alla stessa ora tutti gli individui devono riunirsi nel luogo deputato dove ad attenderli ci sono gli strumenti della liturgia, ogni giorno riordinati per il giorno dopo come i paramenti sacri e le divise. E nell’idea della partecipazione ognuno si annulla , ognuno si snatura: insegnanti, alunni, strumenti. Per chi non partecipa al rito collettivo, la nostra idea di democrazia ci ha fatto giungere al nobile obiettivo di sostenerlo, di recuperarlo, di non perderlo comunque al rito, fortunatamente, più spesso non riuscendoci.

Non c’è nulla di più innaturale di un’aula di studenti con il loro insegnante, dove le relazioni interpersonali si chiamano disciplina, compiti o consegne (come in una caserma), interrogazioni, verifiche, valutazioni.

Questo nostro sistema scolastico, che lo vogliamo o no, nonostante anni di generose e isolate sperimentazioni, di appassionati dibattiti, di illusioni di tanti docenti, resta pienamente espressione della concezione che gli Stati hanno avuto e dimostrano di avere della cultura, vale a dire della sua più assoluta negazione.

Le sedi che dovrebbero essere i luoghi abituali e quotidiani dove svolgere sistematicamente l’istruzione dei giovani, la loro formazione, i percorsi culturali autentici, i luoghi degli impieghi epistemici dalle biblioteche agli archivi, dalle fondazioni ai musei, ai laboratori, ai teatri, alle cineteche, le mostre, il patrimonio artistico in genere, anziché essere learning citu,  sono i luoghi della crisi permanente dove si manifesta e si nutre la trascuratezza dello Stato, il vuoto spinto di ogni idea innovativa e, dunque, la sua inimicizia.

Sulla terra più fortunata è la rosa che ci concede i suoi profumi, di quella che appassendo muore nella pace solitaria.[5] scriveva Shakespeare. Francamente non so quante generazioni ancora accetteranno di appassire anziché pervadere del loro profumo la Terra.

Una modesta proposta di lavoro

Allora è necessario riproporsi radicalmente il quesito di quale sia il sistema educativo da porre oggi al servizio dell’uomo reale affinché possa sempre dire di essere autenticamente il risultato del proprio lavoro.

Allo stato attuale della riflessione,  ritengo sia possibile indicare almeno tre requisiti indispensabili.

1. Innanzitutto il discorso sui fini e i modi di essere della scuola che non può prescindere da una più generale ricollocazione dello Stato e del sociale come servizio ai singoli nella collettività in quanto valori e somma di valori, poiché non sono né lo Stato, né il sociale a dare valore all’individuo, ma viceversa è la somma dei valori dei singoli individui a dare valore alle istituzioni sociali.

Le filosofie dell’Ottocento sono state filosofie di Organizzazione e di Sistema, al contrario quelle del Novecento, che ancora poca cittadinanza hanno avuto nella nostra vita civile, sono state più spesso di liberazione dell’individuo dall’Organizzazione e dal Sistema. Da esse abbiamo appreso come anche la scienza abbia necessità di procedere per utopie concrete, per luoghi che ancora non esistono ma che sono nell’ordine del possibile[6]. E’ pensabile che ci aiutino a immaginare la nostra cittadinanza nel nuovo millennio? Una cittadinanza che sia in grado di assicurare al maggior numero possibile di soggetti l’autonomia personale ponendo gli individui nelle condizioni di sviluppare liberamente le loro capacità. Non più individui amministrati o che si devono adattare a regole razionalizzate, ma individui in grado di amministrarsi e di giocare un ruolo sempre più significativo per sé e per gli altri, perché sempre più nel futuro Intelligenza, Informazione, Idee costituiranno il valore aggiunto delle skill intellettuali dei singoli e di tutti.

2. In secondo luogo occorre affermare il primato dell’incontro con il proprio sé. Non v’è nulla di più personale dell’esperienza culturale, del cammino che porta al raggiungimento della propria identità e alla partecipazione di quella collettiva sempre meno locale e sempre più cosmopolita. Di questa esperienza lo Stato non si può impadronire, ma solo servirla mettendo a disposizione tutti i mezzi necessari. Occorre tornare a considerare i problemi della cultura come esperienze intime, personali di cui coloro che in qualche modo hanno familiarità con la cultura devono aver sentito almeno per un momento le vibrazioni.

Uno Stato, dunque, che si ritira dall’invadenza sugli individui attraverso i sistemi scolastici, non più lo Stato mistagogo che è venuto meno alla massima kantiana di non trattare il prossimo come mezzo.

3. In fine alla cittadinanza educativa va assegnato il compito di creare le condizioni per ripristinare il rapporto tra coscienza e essere, di ricondurre i singoli individui all’esigenza classica di pensare il pensiero. Qualche tentativo in questo senso venne avanzato dall’ecologia dello sviluppo umano che meglio però dovrebbe indirizzarsi verso l’ecologia del discorso umano sviluppando le strade aperte da Gregory Bateson e dall’ultimo Jerome Bruner[7]

Comunque sia, la cittadinanza educativa deve costruirsi a partire dalla consapevolezza piena e sempre presente che il punto archimedico del mondo è l’uomo nella sua libera e creativa progettualità, a lui compete la responsabilità del futuro, poiché egli è il solo depositario del potere di trasformare il mondo, non l’uomo solo e in quanto in generale, ma ogni singolo individuo poiché quel generale è la somma degli individuali.

In definitiva la cittadinanza educativa deve riconciliare l’uomo con il suo genere, ricomporre quella frattura che già Goethe ed Hegel avevano intuito nella nostra cultura e che i nostri sistemi educativi, complici gli Stati, hanno invano ricomposto nel conformismo e nell’annullamento delle individualità come risorse preziose per il destino di tutti noi su questa Terra.


[1] A tale proposito si vedano i risultati conseguiti dagli studenti italiani nell’ambito delle inchieste PISA (Program for International Student Assessment) condotta dall’ OCSE.

[2] I. Brodskij, Fuga da Bisanzio, trad. di G. Forti, Adelphi Edizioni, Milano, 1987

[3] F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, trad, G. Colli, Adelphi Edizioni, Milano, 1978

[4] E. Canetti, La lingua salvata, trad. it., Adelphi Edizioni, Milano, 1981

[5] W. Shakespeare, Sonetti, Giulio Einaudi editore, Torino, 1965

[6] Il riferimento in particolare, come si può ben evincere, è a K. R. Popper di La società aperta e i suoi nemici e di Congetture e confutazioni.

[7] I riferimenti sono G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi Edizioni, Milano, 1977 e a J. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano, 1997