Due domande pesanti ancora senza risposta

Negli ultimi tre anni tre ministri si sono succeduti alla guida di viale Trastevere: Azzolina, Bianchi, Valditara, ognuno di loro ha reso pubblici i propri intenti attraverso lo strumento dell’ atto di  indirizzo politico-istituzionale.

La ministra Azzolina punta sugli studenti posti, dichiara, al centro dell’azione del ministero dell’istruzione. Rivendica un “notevole incremento” delle risorse pubbliche nazionali destinate all’istruzione, anche se in tre anni la percentuale per l’istruzione sul PIL è passata dal 3,9% del 2020 al 4% del 2023, sempre al di sotto del 5% della media europea.

Promette una “scuola innovativa, aperta, coesa, solidale, ma soprattutto inclusiva, che garantisca il diritto reale di ciascun studente a ricevere un’istruzione “coerente” con le proprie esigenze e inclinazioni, oltre che con le differenti articolazioni dei bisogni da soddisfare e delle aspettative della società nel suo complesso”.

Inutile, ormai, chiedersi cosa la ministra intendesse per “bisogni da soddisfare” e “aspettative della società”.

Un quesito però sorge spontaneo: e se le “proprie esigenze e inclinazioni” non sono coerenti con le “aspettative della società” cosa succede?

Bianchi è un economista della scuola di Prodi e tende a coniugare l’istruzione con l’economia.

Investire sulla formazione, esordisce, è fondamentale per promuovere “una ripresa intelligente, sostenibile e realmente inclusiva”. Istruzione di qualità certo “coerente con le proprie inclinazioni e aspirazioni ma in linea con le nuove competenze richieste dal mercato del lavoro”.

Rivendica un “significativo aumento” delle risorse nazionali stanziate per l’arricchimento e l’ampliamento dell’offerta formativa.

Anche per il ministro Bianchi vale quanto abbiamo già osservato più sopra a proposito del rapporto spesa pubblica per l’istruzione e PIL nazionale. C’è da notare che nel 2021 il bilancio di previsione del ministero ammonta a 51 miliardi e 70 milioni, nel 2022 a 51 miliardi e 369 milioni.

Bianchi promette la costruzione di “un nuovo modello di Scuola”.

Poi venne Valditara che a spiegare il suo nuovo modello di scuola ha provveduto immediatamente: “promozione del merito”, “supporto alla realizzazione di esperienze formative finalizzate alla valorizzazione del merito”.

Promette di restituire “dignità alla scuola, autorevolezza ai docenti e all’intera comunità professionale”.

Merito, dignità, autorevolezza, tre sostantivi che insistono su una comune area semantica. Il merito eleva a dignità, la dignità all’autorevolezza. Dignità e autorevolezza vanno meritate e, dunque, non si possono imporre per legge. 

A meno che non si ritenga che ogni singolo in quanto tale, a prescindere dal sesso, dalla razza, dalla lingua, dalla religione, dalle opinioni politiche, dalle condizioni personali e sociali, abbia pari dignità e, dunque, autorevolezza, come suggerisce l’articolo tre della nostra Costituzione e allora il merito, la dignità e l’autorevolezza del ministro Valditara finiscono per essere nient’altro che l’esercizio verboso di una tautologia retorica.

Il merito, la dignità, l’autorevolezza di uno studente e di un insegnante, di un genitore o di un ministro hanno identico peso e valore, ciò che cambia sono il ruolo e la funzione, ed è solo venendo meno al proprio ruolo e alla propria funzione che si perde di merito, di dignità e di autorevolezza. Pertanto non è necessario stendere il decalogo delle virtù morali, ma interrogarsi sulle ragioni delle proprie condotte e sulle ragioni delle condotte altrui.

Merito, dignità e autorevolezza sono gli a priori di ogni relazione umana e sociale, in modo particolare a scuola dove si dovrebbe imparare a irrobustirli a partire dalla testimonianza che gli adulti sono in grado di dare di se stessi.

Tre ministri, tre stili, tre prospettive differenti. Ma la macchina dell’istruzione è sempre la stessa e non cambia regime solo perché sale un altro autista, anche i percorsi sono già preordinati.

Tanto che, se li andate a leggere, i punti su cui si articolano le direttive dei tre ministri sono pressoché gli stessi: dal diritto allo studio all’edilizia scolastica, dall’offerta formativa alla digitalizzazione, dalla valorizzazione del personale all’autonomia, dalla trasparenza amministrativa al piano nazionale di ripresa e resilienza.

Ma, potrà parere paradossale, al di là delle parole sprecate, continuano a mancare i protagonisti principali: gli Studenti e la Scuola. 

Era già il difetto d’origine, qualche anno fa, della “Buona scuola”, perché la politica dell’istruzione in Italia continua a procedere per aggiustamenti, che non aggiustano mai nulla, con l’esito di accrescere i problemi,  accumulando i nuovi ai vecchi.

Cosa significa essere Studente oggi? Cosa significa essere Scuola oggi? Nel ventunesimo secolo sono le domande pesanti che ancora attendono una risposta, solo da qui è possibile ripartire a ragionare di istruzione, studio e formazione. Se non si ricomincia da qui non si va da nessuna parte e si assiste all’inesorabile logorarsi del nostro sistema formativo.

Le risposte non sono venute né dalla promessa “centralità” dello studente della ministra Azzolina né dal promesso “nuovo modello” di scuola del ministro Bianchi.

Finisce che arriva Valditara con la sua cultura, la cultura della scuola di ieri che pensa di ripristinare attraverso la propria ricetta di mal digerito merito, dignità e autorevolezza. 

Il risultato è inevitabile, sta già scritto: allontanarci sempre più dal porre in cima all’azione del dicastero dell’istruzione gli interrogativi che pongono alla nostra coscienza oggi l’essere Studenti e l’essere Scuola.

Per il resto la macchina continuerà a viaggiare, a prescindere dal suo autista, fino all’esaurimento per usura del tempo.

Lo Stato etico è servito

A Cutro nessun dio ha battuto un colpo. Nè a Cutro né in alcun altro mare o teatro di guerra. Di fronte ad una umanità che esonda e muore non c’è nessun oltreuomo che si palesi, ma l’usuale umanità meschina di ogni nostro quotidiano.

“Morti sono tutti gli dei: ora vogliamo che l’oltreuomo viva” esclama e profetizza Zarathustra. 

Se qualcuno temeva gli effetti del nichilismo ora può mettersi il cuore in pace, perché il nuovo millennio ci promette ancora: dio, patria e famiglia.

Chi paventava l’incontro con il futuro può rasserenarsi, perché il futuro è un guscio vuoto. Il tempo viaggia, anzi “fugit” per dirla con i latini, ma non viaggia verso il futuro che è una “non-destinazione”, solo un buco attraverso il quale far trascorrere il tempo.

I nostri giovani che hanno sete di futuro sono andati all’estero a cercarlo come qualcosa che abita altri territori, ma non la terra dei loro padri.

Ecco il salto nel passato, la capriola all’indietro. Già eravamo poco fiduciosi nella lealtà del  progresso e pure il domani era piuttosto offuscato.

Ora il fermo immagine è sicuro e promette di riavvolgere la pellicola dove ci attendono i valori risorgimentali dimenticati, quelli che abbiamo trascurati, presi dall’ebrezza dei dio morto, dell’individualismo, della libertà, della scienza e della tecnologia: dio, patria, famiglia. 

Da qui occorre ripartire per far risorgere un popolo e una nazione.

Il programma di uno Stato Etico da instillare goccia dopo goccia, giorno dopo giorno dai pulpiti della politica, delle istituzioni, dei mass media con parole che entrano bene trovando il terreno già caldo, predisposto: dio, patria e famiglia. 

Un monosillabo, un bisillabo, un trisillabo. Avvertite come scivolano uno dopo l’altro nell’orecchio, basta inspirare e salgono al cervello, e il gioco è fatto. 

Una spruzzata di merito, una grattugiata di umiliazione, un pizzico di leva e ti risollevo la nazione.

Perché resuscitare i morti, esporre i loro cadaveri, farli assurgere a valori quando il tempo e gli uomini li hanno già sepolti?

È l’opera pedagogica dello stato etico che ai diritti antepone i doveri, e non importa se quei doveri dal sapore mazziniano sono stati sconvolti dal Fascismo e dal secolo del male assoluto, e solo la Resistenza e la Costituzione hanno restituito loro una dignità laica e civile.

Che senso ha riportare indietro le lancette dell’orologio della storia se non quello di oscurare gli avvenimenti di dopo, voltando le spalle alla lotta di liberazione, alla nascita della  repubblica, se non il fatto che quegli avvenimenti e quello che hanno significato non sono condivisi e non sono graditi al pensiero della classe politica che con il voto degli italiani oggi ci governa.

Era di Croce e di Gentile, agli inizi del secolo scorso, l’idea che il Risorgimento fosse  incompiuto, un processo storico dello Spirito che attendeva l’uomo della provvidenza per farsi spirito nazionale. E l’uomo della provvidenza, ahimè, non tardò a venire.

Ecco, il ritorno al lessico risorgimentale fa pensare che si voglia riprendere una storia interrotta e che gli italiani siano ancora da fare. Che gli italiani, così come sono riusciti in oltre un secolo e mezzo che ci separa dai moti mazziniani, non piacciano a quella parte del paese che ancora si riconosce in dio, patria e famiglia a prescindere dalle coerenze di vita personali. 

Ci sarebbe una crisi morale del popolo. È una vecchia tesi che fa pendant con la crisi morale dell’Occidente.

I segni della crisi sono cresciuti sui cadaveri sepolti di dio, della patria e della famiglia, vanno dalla omosessualità all’aborto, fino alle immigrazioni che minacciano i nostri confini nazionali.

Esistono i doveri. Di diritti non si sente parlare, perché i diritti costano e i doveri si impongono. Libertà, fraternità, eguaglianza, giustizia sociale, lavoro, solidarietà. Ma questi appartengono alla storia che si vuole oscurare.

Invece lo stato etico si premura di educare nuove generazioni di italiani attraverso il premio del merito e il castigo dell’umiliazione.

Ritorna la teoria della parentesi, come se le parentesi si dovessero chiudere per sempre e si dovesse riprendere il cammino interrotto. È la teoria della destra liberale crociana che ha chiuso dentro una parentesi metà di un secolo, quello scorso, dal fascismo alla seconda guerra mondiale. 

Pertanto è legittimato solamente chi si riappropria  del lessico risorgimentale, lo fa  proprio fino a renderlo identitario, è l’operazione compiuta dalla destra meloniana per essere riconosciuta.

Così un partito di estrema destra, rimasto a lungo imprigionato dentro quelle parentesi, presentandosi come l’erede del lessico risorgimentale contrapposto alle parole della Resistenza, si fa maggioranza nel paese e ne conquista il governo.
Dichiara l’inattualità dell’antifascismo perché il fascismo è stato una parentesi, l’interruzione di una storia da riprendere nei suoi valori, i valori che sono dello Spirito.

E quindi in quanto tale anche l’antifascismo perde di attualità, pertanto da chiudere tra le parentesi della storia. Pertanto 335 innocenti furono massacrati alle Fosse Ardeatine solo perché “italiani”: un popolo, una nazione.

Restituire la patria al Risorgimento, anteporre alla festa della Liberazione, festa solo per alcuni, la Sinistra in ispecie, la festa dell’Unità nazionale conquista risorgimentale, patrimonio identitario di tutto il popolo patriottico.

Ciò che spaventa è come tutto ciò abbia potuto accadere. La storia, sappiamo, è piena dei senni di poi, ma sembra che non ci abbia mai guariti.