Il corpo va a scuola

Si fa fatica a frequentare la scuola con il corpo, pare che non si sappia dove metterlo. Prima c’erano i banchi e i compagni di banco, corpo a corpo silenziosi. Poi vennero i tavolini mono posto, ognuno per sé. Comunque in classe il corpo deve stare seduto. Poi c’è l’ora di educazione fisica, oggi motoria, in cui appunto educare il fisico che in sostanza è il  proprio corpo.

Il corpo tradizionalmente ignorato nelle nostre classi, improvvisamente ha rivendicato la sua presenza, la sua considerazione quando con la didattica a distanza ci si è accorti della sua assenza, come vicinanza necessaria, vale a dire come relazione.

Del resto il nostro corpo è quella fisicità che ci consente di socializzare, quelli che noi con estensione anglosassone chiamiamo “social” non hanno nulla di sociale, appunto perché mancano della corporeità, della fisicità delle persone. I nostri social sono popolati da ectoplasmi, da entità senza corpi, da spiriti liberi che assumono nickname e le sembianze di un avatar.

I corpi non girano più, non si muovono, seduti a scuola come nelle stanze di casa a compulsare la rete digitale.

Del resto i dati Istat non mentono, in Italia circa 2 milioni 130 mila bambini e adolescenti di età tra 3 e i 17 anni sono in eccesso di peso e quasi 2 milioni non praticano sport né attività fisica.

Allora dovremmo accogliere con favore la decisione, entrata nella legge di bilancio, di introdurre l’insegnante di educazione motoria nella scuola primaria a partire dalle classi quinte il prossimo anno e dalle quarte con l’anno dopo.

La storia dell’educazione fisica nella scuola primaria, un tempo elementare, ha a che fare con la considerazione sociale del corpo. Nei programmi del 1955, quelli del ministro Ermini, l’educazione morale, civile e fisica costituiva un unico paragrafo: “L’educazione fisica si consideri connessa all’educazione morale e civile come mezzo che induce l’alunno a rispettare e a padroneggiare il proprio corpo, a ordinare la tumultuaria esplosione delle energie, tipica della fanciullezza, e come tirocinio all’autocontrollo, all’autodisciplina e alla socievolezza”. Il corpo è una bomba pericolosa soprattutto nella “tumultuaria fanciullezza” e quindi sia “disciplinato”, “ordinato” dall’educazione morale, civile e fisica.

Così è stato per trent’anni nelle nostre scuole elementari, fino all’avvento dei programmi del 1985, sinossi di tutte le novità psico-pedagogiche che fino ad allora erano state lasciate fuori dalla porta della scuola ufficiale.

Il capovolgimento è totale, scompare l’educazione morale, civile e fisica, per restituire cittadinanza alla “tumultuaria esplosione delle energie” affidata ad un’accogliente educazione motoria “integrata nel processo di maturazione dell’autonomia personale”, rivendicando “l’affermazione nella cultura contemporanea dei nuovi significati di corporeità, di movimento e di sport.”

Nel 2012 con le Indicazioni Nazionali per il Primo Ciclo di Istruzione ritorna l’Educazione Fisica, ma questa volta con la fisicità del corpo che a scuola, sta scritto, deve stare bene. L’educazione fisica come educazione a star bene con se stessi “contribuisce alla formazione della personalità dell’alunno attraverso la conoscenza e la consapevolezza della propria identità corporea, nonché del continuo bisogno di movimento come cura costante della propria persona e del proprio benessere.” Non solo corpo, attenzione, ma anche “identità corporea”.

Dieci anni dopo, la legge di bilancio 2022 introduce nella scuola primaria la figura dell’insegnante di educazione motoria per “promuovere nei giovani, fin dalla scuola primaria, l’assunzione di comportamenti e stili di vita funzionali alla crescita armoniosa, alla salute, al benessere psico-fisico e al pieno sviluppo della persona, riconoscendo l’educazione motoria quale espressione di un diritto personale e strumento di apprendimento cognitivo“.

La prima domanda che viene spontaneo porsi è chiedersi fino ad oggi chi ha insegnato alle bambine e ai bambini dai sei ai dieci anni l’educazione fisica o motoria che sia? Non erano le maestre e i maestri che avrebbero dovuto farlo? E se l’hanno fatto finora perché improvvisamente non sono più in grado di farlo? E se non sono più in grado di farlo perché non formarli a farlo, allora? Che figura professionale è quella dell’insegnante di scuola primaria?

Domande elementari come la scuola elementare.

Sono domande destinate a rimanere senza risposta perché chi dovrebbe fornirle non le sa formulare. Perché questo paese manca di una visione sull’istruzione, di come deve essere la scuola del futuro. Avere una visione di insieme, in prospettiva è troppo faticoso, la storia ormai ci insegna che è politicamente ingestibile. Ognuno ha la sua idea di scuola, la Destra e la Sinistra, la Confindustria, la Fondazione Agnelli, i Sindacati, la Chiesa.

Così tutto resta sempre come prima e i ministri di turno provvedono per aggiunte o sottrazioni a seconda dei problemi che di volta in volta emergono. 

I giovani mancano di senso civico? E allora aggiungiamo a Cittadinanza e Costituzione l’Educazione civica. I bambini sono obesi e non si muovono? Ecco pronto l’insegnante di educazione motoria da aggiungere ai maestri. C’è il disagio adolescenziale allora introduciamo nelle scuole il pedagogista, l’educatore professionale, lo psicologo, costruiamo le scuole polo del disagio psico-sociale, come una volta c’erano le scuole speciali. Tutto senza aumenti di spesa e con un eccesso di ignoranza scolastica gratuita. Con il rischio che, considerato il crescente calo demografico, un giorno nelle aule ci saranno più adulti che alunni.

Che intorno alla scuola oggi sia necessario costruire la rete di un sistema formativo integrato è vecchia questione, che oggi riemerge sottesa al susseguirsi di frequenti richiami alle comunità educanti e ai patti educativi territoriali. 

L’autosufficienza della scuola non è mai esistita e la necessità della sua continua interazione con “il più ampio ambiente sociale” è qualcosa che non può essere delegata agli organi collegiali. Chiama in causa la vivacità del territorio nell’offrire opportunità formative in grado di arricchire il curricolo e l’offerta formativa delle singole scuole attraverso le sue strutture e la messa in gioco di differenti attori, dalle istituzioni culturali all’associazionismo.

La scuola chiusa in se stessa, autoreferenziale che moltiplica le figure professionali rischia di implodere, mentre la natura della scuola è curricolare. La scuola che scorre nel territorio, che nel territorio si vivifica e che vivifica di sé il territorio, perché ogni territorio  è significativo per i destini formativi delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi.

Il convitato di pietra

Antropocene, l’era dell’homo sapiens che ha segnato massicciamente le sorti della sua specie e della Terra che abita. Pensavamo di dover perseguire la pace tra noi e la biosfera e, improvvisamente, scopriamo che non abbiamo ancora fatto pace neppure con i nostri vicini, che la prima lotta da combattere è contro la guerra, senza la quale tutto il resto perde immediatamente di senso. La “sostenibilità” cosa significa di fronte alla insostenibilità della guerra? 

Viviamo in un mondo globalizzato ma ci siamo scordati di costruire una cultura mondiale che ci unisse. Troppo preoccupati delle nostre patrie e dei nostri cortili, delle identità nazionali come se i secoli non fossero trascorsi, come se il secolo breve e così lungo di delitti fosse passato invano. 

Questo prometteva d’essere il secolo dei saperi, delle conoscenze, delle sfide ai neuroni del cervello umano, invece ha preso il sopravvento il cervello rettile dell’aggressione dell’uomo sull’uomo.

Ora ci siamo tutti insieme. Ora, la brutale realtà quotidiana di milioni di persone in Africa, Asia, Medio Oriente e Sud America, riguarda anche l’Europa. 

Le nostre finestre erano chiuse, gli orizzonti finivano sotto casa e i nostri pensieri se ne stavano rassicurati. La pandemia della malattia ci ha allertati, ci siamo lagnati per i traumi inflitti ai nostri adolescenti privati di scampoli di socializzazione. Per troppo tempo abbiamo continuato a ignorare milioni di genitori costretti a lottare per mandare i propri figli a scuola in mezzo a conflitti armati, sfollamenti forzati, disastri causati dai cambiamenti climatici e dal COVID-19.

Abbiamo studiato Eschilo e Euripide sempre invano. Narrative dolorose, l’universalità dei temi del fratricidio e dell’esilio, le orde dei nemici che si abbattono sulle mura cittadine, il mare montante della moltitudine degli aggressori, il vivere come esule, migrante in casa propria. Tragedie mai finite d’essere scritte perché le barriere culturali, linguistiche e religiose ne hanno continuato la versione in ogni epoca e ancora ora nella nostra.

Era dopo la pandemia che il mondo non sarebbe più stato quello di prima, ma non era la guerra che aspettavamo a scavarci dentro. Dentro avremmo dovuto scoprici migliori, non con più paura, con la sensazione che armi e malattie non siano un caso ma una strategia. In esergo al suo Shock Economy Naomi Klein quindici anni fa poneva le parole tratte da 1984 di George Orwell: “Ti spremeremo fino a che tu non sia completamente svuotato e quindi ti riempiremo di noi stessi”.

La lotta è a non farsi svuotare per evitare di essere riempiti da chi attende la nostra distrazione. La lotta è per la nostra umanizzazione, per evitare di continuare a scoprirci ad ogni tornante della storia d’essere sempre quelli della pietra.

Secoli di predicatori della religione degli dei non ci hanno umanizzato ma condannato al dolore e alla violenza con l’illusione dell’eterna promessa, della perfezione dell’Iperuranio.

La condanna l’abbiamo alimentata dentro, nei nostri cervelli a produrre menti sospettose e aggressive, pensieri armati gli uni contro gli altri, moltitudini affiliate alle sette schierate le une contro la storia delle altre. Un delirio razionale e lucido. Uno stand by del tempo e delle coscienze. L’ignoranza nutrita per difendersi dalla comprensione della realtà. La sterilizzazione massiccia del futuro, fino alla crisi di una civiltà che non sa più come riconoscersi: la crisi dell’umanità che non riesce a diventare umanità.

Il ventunesimo secolo prometteva la cittadinanza terrestre. Il destino planetario del genere umano, il riconoscimento comune dell’identità terrestre.

Non avevamo messo in conto le relazioni umane, le conflittualità che ci sovrastano, che il miglior vivere prima che con l’ambiente avremmo dovuto praticarlo tra noi, gli uni con gli altri. Che i peggiori inquinamenti della biosfera sono le atrocità con cui l’uomo sopraffa l’uomo, la crudeltà della sua umiliazione. Vivere in armonia con l’ambiente la favola bella che non narrava dell’antagonismo, del male perpetrato l’uno sull’altro. Vedevamo la pace e fingevamo di non vedere la guerra, volevamo respirare l’aria pura a pieni polmoni ignorando i fronti dove i colpi delle armi rendono l’aria mortifera.

Avevamo bisogno del secolo della conoscenza per comprendere e appena hanno potuto ce l’hanno sottratto per lasciarci nel dubbio, nella confusione, per minare la nostra fiducia nella scienza e nella ragione.

Avevamo bisogno di comprensione. Di conoscenza e comprensione quelle che Edgar Morin aveva individuato come le parole chiave del nostro secolo. La conoscenza della conoscenza quella che ci può permettere di individuare i nostri errori, gli errori degli uni e degli altri. La comprensione come virtù principale di ogni vita sociale, la comprensione che consente il riconoscimento della piena umanità e della piena dignità degli altri.

Antagonismi e conflittualità difficilmente spariranno, ma essere in grado di comprendere, di riconoscere è l’unico strumento che ci resta per proseguire nella nostra ominizzazione.

Per questo non possiamo permetterci di farci svuotare da campagne di informazione orchestrate per alimentare la babele delle parole, per inculcare la paura e la continua incertezza, la sfiducia nelle capacità offerte dal sapere.

C’è un convitato di pietra in questo scenario agli esordi degli anni venti del nuovo secolo, questo convitato è l’educazione, l’educazione che ha forgiato ciascuno di noi e che soprattutto dovrà forgiare le nuove generazioni. 

La scuola è il mondo intero. I profughi dalla guerra in Ucraina giungono nelle nostre aule come se fossero il prolungamento della classe lasciata nel loro paese, la didattica a distanza unisce ciò che la guerra pretende di spaccare.

Ci siamo lasciati sfuggire la mondialità della scuola, l’unica che avrebbe potuto far sorgere una rete globale di reciprocità, di dialoghi e di conoscenze da eclissare ogni altro canale informativo, le scuole con le scuole, peer to peer per aprire le menti e la comprensione dei nostri ragazzi su questo pianeta.

Era nelle opportunità delle scuole del mondo attraverso la rete realizzare la società mondiale della conoscenza come sfida da lanciare nei confronti della società dell’informazione. Intrecciare twinning non tra simili ma tra distanti, culturalmente e linguisticamente, cittadini del mondo e non solo dell’Europa o dell’Occidente. Non abbiamo saputo cogliere la sfida urgente che ci stava di fronte, diventare una grande comunità di apprendimento senza confini, dove aiutarsi a vicenda per arricchire il potenziale umano di ciascuno contro i muri innalzati dall’irrazionalità delle fedi, delle nazioni, delle culture e delle guerre.

Una scuola mondiale impegnata nella riforma della conoscenza e del pensiero da cui dipendono  il destino dell’uomo e della Terra in questa era dell’Antropocene.