La città della conoscenza

 

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L’imperativo dell’apprendimento

La città della conoscenza è questo: è la città della creatività e dell’innovazione, la città dell’apprendimento continuo, dell’apprendimento per tutta la vita, dell’apprendimento nel modo più piacevole possibile.

È un sogno che molti coltivano da tempo, almeno i viaggiatori nei territori formali e informali del sapere. Ma questo nostro sogno ogni giorno si infrange contro l’ottusità delle menti che non sanno pensare, che del presente non sanno mai scorgere il futuro e pensano di procedere con la testa sempre rivolta all’indietro, perché il passato insegna, come se il futuro, solo per essere futuro, non ci sapesse insegnare.

È inevitabile che al dunque si finisca per sbattere contro il muro di una realtà che ci è sfuggita di mano e nella quale non siamo più in grado di riconoscerci e di orientarci, perché le attese dei nostri sogni erano ben altre, ben più lontane da quello che ora ci troviamo innanzi, sotto i nostri occhi.

E risalire la china, recuperare strada e distanze diventa sempre più arduo.

Che parliamo di educazione permanente, life long learning, si perde negli anni del secolo scorso. In vero combinando assai poco, se non una sorta di vecchia istruzione popolare, malamente rivista e corretta, nella totale insipienza che caratterizza l’educazione degli adulti nel nostro paese. Già usare il termine educazione a proposito di adulti dovrebbe far rabbrividire.

Del resto conserviamo con lodevole ostinazione il nostro buon vecchio sistema scolastico, funzionale ad una società fondata sulla divisione del lavoro, di un lavoro che non c’è più, perché da tempo quel mondo si è eclissato.

L’educazione permanente è in realtà episodica, quasi clandestina a volte, non riesce a diventare sistema di vita, andare a regime, dar luogo a una nuova organizzazione sociale, a un diverso modo di vivere, a un sistema formativo esteso.

Al di là delle proclamazioni, ancora viviamo come se ci fosse un’età per lo studio, un’età per il lavoro, un’età per mettere su famiglia. Sappiamo benissimo tutti che non è più così da lungo tempo. Ma i luoghi della nostra vita e del nostro studio continuano ancora ad essere organizzati come se tutto fosse come prima.

Le nostre città ci sono cambiate sotto gli occhi in questi anni e cambieranno ancora nei prossimi. Così come c’è un cambiamento a cui oggi assistiamo e, forse proprio perché noi per primi ne siamo coinvolti, forse perché l’abbiamo quotidianamente intorno e innanzi a noi, forse per questo non lo vediamo.

È l’aspetto mentale del cambiamento. Quello che non si vede. Il modo in cui le persone pensano, interagiscono, collaborano, risolvono problemi, prendono decisioni, gestiscono le informazioni, convivono tra loro.

Alla parola “educazione” che implica adattamento, assuefazione all’esistente, occorre contrapporre “apprendimento”, apprendimento e ancora apprendimento, carico di respiro perché carico di curiosità, perché il concetto di apprendimento comporta dinamicità, un futurismo permanente, l’idea di attrezzarsi compiutamente e in modo sempre rinnovato per affrontare le sfide che ci stanno di fronte.

Non è una questione di competenza delle nostre scuole, delle nostre università, dei nostri insegnanti, dei nostri amministratori. È l’idea che nessuno può più chiamarsi fuori, l’idea che tutti noi dobbiamo farci coinvolgere se vogliamo creare una società in cui sentirci sicuri e appagati.

L’apprendimento è alla radice di ogni futuro e, dunque, di tutto il nostro futuro. Del resto l’apprendimento è uno dei nostri istinti fondamentali; se non fosse così non saremmo in grado di parlare, di camminare, di nutrirci.

Che cosa deve cambiare nell’apprendimento perché apprendere diventi un diritto universale che non può essere barattato e nello stesso tempo un piacere?

E che cosa c’è di tanto importante nella creazione di una cultura dell’apprendimento nelle nostre città e nelle nostre regioni?

Ci sono già parecchie città e regioni, in molte parti del mondo, impegnate in questo viaggio.

Le riflessioni e le suggestioni che propongo non mi appartengono, sono tratte dalla rilettura del libro di Norman Longworth, Città che imparano, che Raffaello Cortina Editore ha pubblicato già da alcuni anni, nel 2007.

L’autore è stato per anni presidente dell’associazione ELLI, acronimo di European Lifelong Learning Initiative.

Il richiamo al viaggio non è a caso, perché il progetto europeo delle città che apprendono, che ha visto la Dublino di Joyce rivestire un ruolo di primo piano, si chiama LILLIPUT.

Il viaggio verso l’apprendimento è un’avventura che ci porta in nuovi mondi e ci spinge verso nuovi lidi. Quelle terre da scoprire sono il punto d’arrivo di percorsi personali che richiedono coraggio, ottimismo e senso dell’avventura. Come Colombo, dobbiamo iniziare il nostro viaggio con un atto di fede; e diversamente da lui dobbiamo preoccuparci di rispettare e onorare le nuove culture e le nuove esperienze che incontreremo lungo la via.

Si sono autodichiarate learning city e learning region città dove le persone più avvedute si rendono conto che ciò non accadrà senza l’appoggio di milioni di cittadini, dell’ambiente economico, degli studiosi, delle scuole, degli ospedali e delle comunità locali.

Tra le linee guida della politica ufficiale dell’Unione Europea sulla dimensione locale e regionale dell’apprendimento continuo si legge:

Le città e le cittadine di un mondo globalizzato non si posso permettere di non diventare città e cittadine che apprendono. Ci sono in gioco la prosperità, la stabilità e lo sviluppo personale di tutti i cittadini”.

Sta di fatto che learning city, learning town, learning region, learning community sono termini ormai divenuti d’uso comune in tutto il mondo sviluppato e in via di sviluppo, soprattutto perché le amministrazioni locali e regionali hanno capito che un futuro più prospero dipende dallo sviluppo del capitale umano e sociale di cui dispongono al loro interno.

E la chiave di questo sviluppo è riducibile a tre parole: apprendimento, apprendimento, apprendimento.

Significa instillare l’abitudine ad imparare nel maggior numero possibile di cittadini e aiutarli a costruire comunità che siano comunità di apprendimento.

Obiettivo questo che dal vertice di Lisbona (UE 2000) avrebbe dovuto appartenere ed essere perseguito da tutti gli Stati membri, ma il nostro Paese è parso impegnato in ben altro, tanto da aver smarrito la strada.

Che cosa significa apprendimento continuo nel contesto della città?

E come fa una città a rendersi conto di essere diventata una “learning city ”?

Come può una città sviluppare una cultura dell’apprendimento o della conoscenza all’interno dei propri confini?

James W. Botkin, autore di Imparare il futuro: apprendimento e istruzione, settimo rapporto al Club di Roma, nel lontano 1979 predicava una società della saggezza. Intendendo sagge quelle società che hanno tolleranza per i valori alternativi e apprezzano l’eterogeneità, le cui culture si sono affrancate dall’arroganza monopolistica di chi crede di avere le risposte e di dover dire agli altri come vivere. Società abitate da un gran numero di persone in grado di accettare più di un punto di vista.

Ma diventare una società della saggezza implica un processo di apprendimento che ci renda più tolleranti, più rispettosi del valore delle opinioni alternative e degli altri modi di vivere, più aperti alla differenza e meno desiderosi di preservare stili di vita che poggiano sul dominare su altre persone.

La risposta dunque sta nell’apertura di un gran numero di menti all’apprendimento.

L’ apprendimento continuo

 Del resto il rapporto tra cittadinanza e apprendimento non è nuovo alla storia e alla cultura dell’Occidente. Già Platone 2500 anni fa aveva definito “la responsabilità che grava su ogni cittadino di educare se stesso e sviluppare appieno il proprio potenziale ”.

Ad Atene e in molte altre città greche, per centinaia di anni, l’apprendimento e il contributo allo sviluppo della società furono attività quotidiane e naturali per tantissimi cittadini.

Una simile rivoluzione culturale ebbe luogo nel mondo islamico mediorientale dell’VIII e del IX secolo, in cui Damasco, Gerusalemme e Alessandria divennero capitali del sapere e dell’apprendimento.

Oggi per noi parlare di città della conoscenza, di learning city significa operare per realizzare il nostro desiderio di vivere in una società, a partire dalla nostra città, più uguale, più democratica, più stimolante.

E mi sembra che l’avvio non possa che muovere dalla nostra intelligenza e capacità di rimettere in discussione, di porre sul tavolo anatomico innanzitutto i modelli educativi fin qui da noi praticati, fondare sistemi formativi sul diritto universale ad apprendere, sul piacere, sul promuovere e certificare il successo anziché sanzionare l’insuccesso, sull’abbattere le barriere dell’apprendimento, sulla soddisfazione dei bisogni e delle istanze di chi apprende, sul celebrare l’apprendimento con festival dedicati all’apprendimento.

Questo vuol dire confrontarsi con l’idea di città della conoscenza.

Dobbiamo sapere che ciò che oggi accade alle nostre bambine, alle nostre ragazze, ai nostri bambini, ai nostri ragazzi nelle nostre scuole è destinato a determinare, a segnare, a condizionare valori e modi dell’apprendimento, i loro atteggiamenti di persone quando giungeranno alla loro età adulta.

Perché è l’approccio positivo e continuativo all’apprendimento che sta alla base di una possibile città della conoscenza, di una città del benessere individuale, della stabilità e della prosperità.

È quindi a partire dalle scuole che si determinano le condizioni per la creazione di una città della conoscenza.

La conoscenza, il sapere, l’istruzione, la curiosità, la meraviglia sono la nostra libertà. Si nasce che è tutto un darsi da fare per assimilare il mondo che ci sta intorno e che ci deve ospitare. E quello è un imparare, un apprendere incessante, spontaneo, naturale. I tempi che non sapevamo di questo ormai ci sono distanti, lontani per durata e per cultura.

La stupenda avventura della crescita come cammino nel mondo è storicamente imbrigliata, mortificata dalle culture e dai costumi sociali, attraverso un’educazione che è ancora un universo di riti di passaggio, obbligatori per essere accolti nell’alveo degli adulti.

L’amore per i nostri piccoli non è ancora così forte da difenderli dai nostri condizionamenti, dalle nostre aspettative, dalle nostre visioni del mondo.

Il Rinascimento è la rinascita della conoscenza, nella conoscenza e attraverso la conoscenza. L’umana avventura è solo nostra, individuale, intersecata alla avventura umana degli altri a noi contemporanei o già vissuti, condotta portando la responsabilità nei confronti degli altri che vengono e che verranno. Il rispetto della libertà dell’individuo, dell’autodeterminazione dovrebbe portare a diffidare della parola educazione che si sostituisca all’istruzione, alla conoscenza, all’esperienza, ai processi di adattamento che ne discendono. Abbiamo un eccesso di cultura di integrazione sociale che distrae dai sentieri dell’apprendimento, dai percorsi che conducono ai saperi, alle conoscenze.

L’infelicità è nella classe, è nel banco, nell’anonima solitudine delle nostre scuole, degli apprendimenti gelidi, dei tradimenti del pensiero, della mente, dell’intelligenza. La noia che precipita le sue nubi sul tempo dei nostri giovani, che ne oscura il sole, che ne anticipa i tramonti.

Il cambiamento è la condizione necessaria ormai inevitabile.

La Commissione dell’Unione Europea da tempo ha coraggiosamente affermato che l’apprendimento continuo non è più solo un aspetto dell’educazione e della formazione: deve diventare il fondamento, il principio guida dell’intero sistema formativo, dell’intero sistema di erogazione e di partecipazione sullo spettro totale dei contesti di apprendimento.

L’enfasi va posta sui diritti dell’individuo come discente e sullo sviluppo del potenziale individuale. In questa prospettiva è evidente che tutta la società deve farsi apprendimento, perché gli individui e la scuola con le solo loro forze non sarebbero in grado di risolvere tutti i problemi dell’apprendimento.

Nonostante i fiumi di inchiostro che sono stati versati per propugnare la causa dell’apprendimento continuo, siamo ancora lontani dall’aver compreso e assimilato la sostanza e il significato dell’apprendimento così come si estrinseca attualmente.

Il messaggio che “continuativo” significa “per tutta la vita”, l’intera vita dall’alfa all’omega, e che l’apprendimento è un processo attivo focalizzato sulla persona e aperto a tutti, non è ancora arrivato alla coscienza delle persone, dei politici, degli amministratori, alla maggior parte degli insegnanti.

In questa dimensione l’apprendimento è condivisione, è cura, è evento quotidiano gestito dalle persone, anziché processo collettivo che avviene in una istituzione scolastica.

Ciò in tanto comporterebbe adottare procedure e processi più bottom-up, più basati sui reali bisogni e sulle effettive istanze dei discenti, con un ribaltamento del rapporto di potere e della titolarità dell’apprendimento dal docente verso il discente.

Secondo il programma della Commissione dell’Unione Europea una learning city va al di là del proprio compito istituzionale di fornire istruzione e formazione […], crea un ambiente partecipativo, culturalmente consapevole ed economicamente vivace attraverso la fornitura e la promozione attiva di opportunità di apprendimento in grado di sviluppare il potenziale di tutti i suoi abitanti.

Riconosce e comprende il ruolo fondamentale dell’apprendimento per la prosperità, la stabilità sociale e la realizzazione personale, mobilita creativamente e sensibilmente tutte le risorse umane, fisiche e finanziarie per sviluppare appieno il potenziale umano di tutti i suoi abitanti.

La città della conoscenza enfatizza l’importanza della partnership tra istituzioni e organizzazioni.

Le partnership locali per l’apprendimento continuo sono composte da rappresentanti di scuole, università, imprese, enti locali e regionali, centri di formazione per gli adulti e associazioni di volontariato.

La città della conoscenza incoraggia lo spirito di cittadinanza e il volontariato, i progetti che permettono di attivare l’impegno, il talento, l’esperienza, le conoscenze presenti nelle comunità.

La città della conoscenza estende il numero dei luoghi in cui avviene l’apprendimento, in modo che i cittadini possano riceverlo dovunque, quando e come vogliono: nei centri di formazione istituiti all’interno di centri commerciali, nei learning shops, negli stadi, in tutte le strade, nelle sale parrocchiali, nei centri sociali, e forse addirittura nei ristoranti, negli ambulatori, e in altri luoghi di riunione.

L’apprendimento è considerato creativo, appagante e piacevole.

L’apprendimento è un’attività rivolta all’esterno, in grado di aprire la mente e promuove tolleranza, rispetto e comprensione per le altre culture, le altre religioni, le altre razze e le altre tradizioni.

Tutti accettano una certa responsabilità per l’apprendimento degli altri.

Uomini, donne, disabili e minoranze hanno pari accesso alle opportunità di apprendimento

L’apprendimento viene frequentemente celebrato a livello individuale, nelle famiglie, nella comunità e nella società in generale.

Ogni aspetto della comunità fa parte integrante del programma di apprendimento.

Le biblioteche, i musei, i parchi, le palestre, i negozi, le banche, le aziende, gli uffici municipali, le fattorie, le fabbriche, le strade e l’ambiente forniscono opportunità di apprendimento, strutture e servizi per autodidatti.

Nello stesso tempo, l’apprendimento diventa un servizio alla comunità perché i futuri cittadini vengono coinvolti nella comunità locale. L’educazione concerne l’apprendimento, e non la ricezione passiva dell’insegnamento.

Un apprendimento che procede dal basso e non promana dall’alto, quasi per concessione o calcolo politico. Un apprendimento il cui focus è contenuto nel concetto di realizzazione del potenziale umano di tutti, dello sviluppo del capitale umano come risorsa per la crescita del capitale sociale.

 

Quando le ombre distraggono dalla realtà

Plato's cave

 

Le sei idee di Tuttoscuola

    Ai primi di settembre dell’anno scorso, con la ripresa delle attività scolastiche, la rivista Tuttoscuola proponeva sei idee per rilanciare la nostra scuola e contribuire alla crescita del Paese.

Le idee messe in campo dai redattori, con l’invito di contribuire ad aprire un dibattito intorno ad esse, sono l’ottimizzazione delle strutture scolastiche, l’abbattimento degli abbandoni scolastici, la carriera docente, l’autonomia, la lotta agli sprechi, la digitalizzazione.

Tutti temi pratici, per così dire strumentali, nessun tema teorico, nessun tema generale.

Sano pragmatismo o l’urgenza di ricorrere ai ripari prima che la casa crolli definitivamente?

Perché, ad esempio, gli abitatori quotidiani della casa, gli studenti, non sono neppure citati tra le priorità individuate, neppure presi in considerazione. Quelli sono gli utenti, sono i fruitori, gli utilizzatori finali del sistema. Di loro non si ragiona. Ma pare che di loro non si ragioni ormai da troppo tempo.

Sei idee tutte interne al sistema scolastico come oggi si configura. Tuttoscuola non avanza alcun dubbio in merito alla sua adeguatezza, sebbene viviamo in tempi di nuovi paradigmi per i sistemi scolasti nel mondo globalizzato, in un Paese che, in termini di riflessione e di ricerca sull’istruzione, esprime tutto il suo provincialismo, ansioso per gli esiti delle indagini OCSE, ma indifferente o assente rispetto a quanto oggi si va muovendo sul terreno della ricerca educativa in giro per il mondo dalla Cina al Giappone, dagli Stati Uniti all’Unione Europea.[1]

Eppure il nostro sistema scolastico, dopo essere stato privato di risorse finanziarie e culturali importanti, oggi appare fermo al palo, tutto ripiegato su se stesso, neppure in grado di leccarsi le ferite di decenni di politiche che hanno prodotto il massimo di mortificazione dell’istruzione nel nostro Paese, con un ministro che ora pensa di raccattare idee di cambiamento dai referendum online. Come se, per riconsiderare i luoghi dello studio, non occorresse molto studio   e, per di più, predisposto per tempo.

Sicuramente si tratta di idee che denunciano anni di abbandono della scuola da parte dei policymakers di casa nostra, che invocano l’ovvia urgenza di provvedere a quanto di più elementare è necessario affinché l’organizzazione minimale di un sistema formativo possa funzionare, ma che hanno l’inaccettabile limite di non dire assolutamente nulla sul futuro, su quello che i nostri giovani e le famiglie dovrebbero pretendere di ricevere e di ottenere dal sistema scolastico nazionale, sui bisogni formativi e di sapere che oggi sono necessari all’avvenire delle giovani generazioni.

Cosa significa nel terzo millennio formare cittadini e lavoratori destinati a portare se stessi per il mondo della competizione economica globale?

Il focus sull’educazione

A livello mondiale è ancora la crescita economica il focus delle politiche globali sull’educazione. La crescita economica continua ad essere contrabbandata come la misura per eccellenza del progresso sociale. La stragrande maggioranza delle nazioni mondiali ancora individua nella scuola e nei suoi curricoli il mezzo per fornire ai giovani ciò che si ritiene sia necessario per poter competere nel mercato globalizzato del lavoro e nel mondo dell’economia globale.

Nello stesso tempo però queste politiche sono oggi sempre più oggetto di critica per i loro effetti negativi sulla qualità della vita delle persone. Il Nobel dell’economia Amartya Sen, ad esempio, poco più di un decennio fa già esprimeva le sue preoccupazioni circa lo sviluppo di politiche incentrate solamente sulla crescita economica. Nel suo Development as Freedom egli individua nel tasso di longevità di una popolazione l’indicatore della qualità della vita umana.[2] Sen sottolinea che, poiché le variazioni della speranza di vita dipendono da una gamma di opportunità sociali che sono fondamentali per lo sviluppo (comprese le politiche epidemiologiche, l’assistenza sanitaria, le   strutture scolastiche e così via), una visione esclusivamente centrata sul reddito ha bisogno oggi di essere rivisitata, o quanto meno integrata, se si vuole giungere a una piena comprensione dei processi di sviluppo.[3]

Inoltre gli studi internazionali di economisti e di psicologi sociali hanno da tempo individuato i fattori sociali che influenzano la percezione soggettiva del benessere e la longevità.  Non può che essere considerato significativo che tra questi, nel mondo globalizzato, non ci sia l’istruzione nella sua forma attuale, se non solo quando consente di accedere a un lavoro ben retribuito.

Ma il valore dell’istruzione e dei sistemi formativi può essere oggi ridotto unicamente alla   preparazione degli studenti per il mercato del lavoro?

Gli stessi indicatori internazionali sembrano suggerire che la percezione individuale del diritto all’istruzione coinvolge in modo sempre più consapevole ed esteso il diritto soggettivo delle persone ad avere non solo un futuro di lavoro ma un progetto di vita da realizzare, e soprattutto un progetto di vita che sia di qualità, che investe la felicità individuale, la salute e la tutela dell’ambiente.

A tale proposito, la scoperta del contributo che l’istruzione può dare alla felicità delle persone e alla loro longevità dovrebbe essere considerata come una chiamata alle armi per cambiare profondamente le politiche dell’istruzione, sostiene Joel Spring, professore alla City University di New York e maggiore esperto dei sistemi educativi nel mondo.[4]

E’ tempo di nuovi paradigmi

I modelli educativi prevalenti nel tempo della globalizzazione hanno assunto come paradigma la positività della crescita economica e che il benessere consiste nell’accrescere la propria capacità di consumo di sempre nuovi prodotti. In questo sistema di industria e consumo l’uguaglianza di opportunità educative significa fornire a ciascuno un’eguale possibilità di essere formato per divenire partecipe dell’economia globale attraverso il lavoro e il consumo. L’uguaglianza delle opportunità consiste nel disporre di uguali chance di guadagno e di reddito per l’acquisto di un flusso infinito di prodotti fabbricati dall’ impresa globale.

Le scuole del mondo globalizzato finiscono così con l’assomigliare a fabbriche per la lavorazione della materia prima umana, testata e certificata per diventare forza di lavoro e di consumo globale.[5]

Ce n’è abbastanza per riflettere che 150 anni di organizzazione scolastica italiana, pressoché sempre identica, necessitano di ripensamenti radicali, ben più impegnativi delle sei idee di Tuttoscuola o dei referendum online annunciati dal ministro Carrozza.

La fruizione del diritto all’istruzione per l’integrazione sociale non appare più una finalità  sufficiente, istruzione e cultura sono ormai gli elementi indispensabili ad ogni singolo individuo, bambina e bambino, ragazza e ragazzo per poter concretamente esercitare il proprio diritto alla salute, alla felicità che non sono il diritto a consumare ma a costruire e realizzare un progetto di vita di qualità.

L’istruzione, la formazione, l’educazione non sono solo mezzo, strumento, occasione, sono invece parte determinante della qualità del progetto di vita di ciascun giovane. In questa dimensione ci rendiamo conto che lo strumentario delle classi, dei voti, della didattica ex cathedra, degli edifici scolastici riciclati da conventi e caserme, eccetera dovrebbe appartenere da tempo ad un’epoca ormai distante e che l’istruzione amica, esperienza ottimale per ciascuno, appagante richiede di essere vissuta e partecipata con mezzi, spazi, relazioni, strumenti che sono tutti da ripensare con creatività e lena.

Lo stesso sistema di valutazione delle competenze imposto dalla Banca Mondiale alle scuole dell’educazione globalizzata, l’OCSE PISA, ci deve vedere capaci di valutazioni e considerazioni largamente autonome, avendo l’occhio rivolto alla crescita delle persone, alle competenze necessarie alla realizzazione del loro progetto di vita, più che agli interessi della crescita economica sociale. Il nostro sistema scolastico non può più continuare ad assomigliare al convoglio di un treno dove le classi sono i vagoni su cui si sale a seconda dell’età e dove il viaggio termina alla stazione a cui si scende o si è costretti a scendere.

E se la felicità entrasse a scuola?

E’ davvero tempo di nuovi paradigmi per la politica scolastica, non anche per il nostro Paese, ma soprattutto per il nostro Paese, che più di altri ha necessità di recuperare sulle numerose stagioni perdute e sui ritardi fin qui accumulati.

Le sei idee proposte da Tuttoscuola sembrano prodotte dagli schiavi della caverna di Platone che incatenati sono impediti di volgersi a guardare alle loro spalle, per cui scambiano le ombre proiettate sul muro innanzi a loro per la realtà. Non è che i temi proposti al dibattito dalla rivista non costituiscano delle urgenze, ma sono solo le ombre che proietta lo sfascio di una realtà che è ben più consistente e che non consente più di continuare a soffermarsi a contemplarne solo gli effetti senza prendere seriamente e urgentemente in considerazione l’insieme del corpo che genera quelle ombre. Perché quel corpo palpita delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, del loro tempo, dei loro sogni, del loro e del nostro futuro.

Troppi anni, inutilmente, si sono perduti a inseguire delle ombre sulle analisi della nostra scuola, perdendo di vista che come non mai scuola e istruzione sono la vita dei nostri giovani e di questo un Paese, degno di tale nome, deve sentire di portare tutto il peso della responsabilità.

Una vita che non può continuare ad essere la vita di ieri, la vita di nostalgici passati, trascinata in una scuola dell’altro ieri, che non conosce i linguaggi dello studio come esperienze che coinvolgono e che esaltano, che chiamano a sfidare le proprie potenzialità e capacità, che ha significato perché ossigeno imprescindibile  dell’esistenza di ognuno, condotta in quell’arricchimento che solo danno i saperi quando sono coniugati non al passato, ma nella prospettiva del presente e del futuro, non come angusti luoghi di ripetizione, di  misura o di avvilimento delle intelligenze e delle persone.

Si può e si deve pensare a un sistema scolastico che sia luogo, non della retorica di star bene a scuola, ma di benessere che è ben altra cosa, ad un sistema scolastico che nella organizzazione della sua struttura, nei suoi curricoli, nei suoi metodi di istruzione e di studio contribuisca ad accrescere il benessere e la felicità delle persone, assumendo le persone, prese singolarmente, ognuna per se stessa come il prezioso capitale umano, come valore su cui il nostro Paese, attraverso l’istruzione e il suo sistema, investe per il proprio futuro e soprattutto per prospettare alle giovani generazioni un avvenire più felice, per il quale vale la pena davvero impegnarsi, investire gli anni preziosi della propria crescita.

 


[1] Si vedano:

Joel Spring, A new paradigm for global school systems, Lawrence Erlbaum Associates, Inc., Publishers, Mahwah, New Jersey, 2007

Joel Spring, Globalization of education, Routledge, New York, 2009

 [2] Amartya Sen, Development as Freedom, Anchor Books, New York, 2000

[3] Ibid., pp. 46 – 47

[4] Joel Spring, A new paradigm for global school systems, Lawrence Erlbaum Associates, Inc., Publishers, Mahwah, New Jersey, 2007, p. xi

 [5] Ibid., p.xi