Come seduti su un vecchio baule, la scuola attende ancora il suo discorso

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È nata la didattica a distanza, di cui avevamo poca o quasi nulla esperienza. Ci siamo arrangiati come si è soliti fare nella scuola italiana ormai da sempre, acquisendo la consapevolezza di aver messo a punto uno strumento in più al servizio dell’ apprendimento, ma non certo in grado di sostituire la scuola né come luogo fisico né come offerta formativa.

Tuttavia l’emergenza di una didattica in rete ha portato con sé il venir meno, l’infrangersi dell’identificazione dell’apprendimento con la scuola. Con la scuola come edificio, con le classi, le cattedre e i banchi. L’apprendimento a distanza ha fatto delle nostre case tanti edifici scolastici e delle stanze dei nostri ragazzi tante aule. È stato messo all’angolo ciò che il tempo ha accumulato nell’immaginario collettivo, concetti e categorie da lungo sedimentati su scuola e istruzione.

Per chi non se ne fosse accorto l’abbecedario e la cartella di Pinocchio da lunga data non frequentano più la narrazione della scuola.

Ora il problema è quello di gestire l’uscita dalla cesura. Si può uscire cercando di rimettere insieme i pezzi delle abitudini di prima o facendo l’inventario di ciò che è bene conservare, di ciò che è necessario cambiare, di ciò che va definitivamente eliminato.

Se la Dad, la didattica a distanza, ha provato, se ce n’era bisogno, che si può fare scuola anche senza la scuola con i suoi annessi e connessi è evidente che si rende necessaria una riflessione per restituire smalto alla funzione della scuola.

Il mondo non era fermo prima del virus, tanto meno lo starà ora. Da tempo conoscenza, competenze, patrimonio di saperi non solo hanno cambiato volto, hanno pure mutato percorso, abbandonando i sentieri tradizionali per intraprendere strade nuove. Anziché bagaglio nozionistico, riserva di erudizione da esibire, si sono trasformati in risorsa preziosa del capitale umano. 

L’educazione permanente è divenuta una necessità, ma ancora non sappiamo praticarla, tanto che non abbiamo provveduto a moltiplicare i luoghi e le modalità dell’apprendimento oltre la scuola. Imparare è il risultato di un’orchestrazione, non è monocorde, anzi direi che è stereofonico, con una collocazione spaziale ampia, dilatata, dinamica, ma questo spartito ci siamo scordati di suonarlo.

Ora che sarebbero necessari più spazi questi ci mancano, perché non ne abbiamo approntati altri, a partire da musei, biblioteche, archivi e gallerie, teatri, dimore antiche e ancora se ne potrebbero aggiungere, luoghi spesso ostinatamente più di conservazione che di azione. Non li abbiamo attrezzati come avremmo dovuto con spazi interattivi, modulari, con ambienti per fare didattica, con la rigidità prussiana che un museo e una biblioteca non sono una scuola. Idea davvero stravagante visto che ciò che ospitano e conservano ha fatto scuola nei secoli e ancora fa scuola. L’esperienza dei laboratori didattici ancora non si è tradotta in consuetudine, in modo che sia più che naturale l’intercambiabilità tra spazi scolastici e spazi delle istituzioni culturali.

Spazi sono le classi o, meglio, le aule, come horti conclusi, senza il fascino del giardino.

Classe è termine da coscritti della leva. Qualcosa di militare che ancora resiste alle radici delle nostre scuole. L’alzarsi in piedi quando entra l’insegnante in classe, l’allineamento dei banchi, le classi assemblate per età anagrafica, il numero degli alunni, tanti plotoni pronti ad ingaggiare la lotta con il sapere, per non parlare di coloro che ancora vorrebbero bambini e bambine in divisa, con il loro grembiule. Sembra di raccontare di un altro secolo, eppure è la registrazione di quello che, incredibilmente, ancora resiste oggi, e spesso incontrando il compiacimento di tanti a partire dai laudatores temporis acti. E non ci si rende conto degli anacronismi, della muffa che pervade il proprio cervello, del vulnus di non essere riusciti ad immaginare finora altro.

Non ci sono più gli ospedali con le camerate, forse le camerate hanno abbandonato anche le caserme, le classi no, le classi sono un pilastro che come ogni cariatide che si rispetti sfida i tempi.

È come se stessimo seduti su un vecchio baule trovato in soffitta, senza avere il coraggio di aprirlo per tenere ciò che è ancora buono e gettare ciò che è divenuto inservibile.

Adesso sarebbe il momento giusto per fare pulizia, di parlarci, di confrontarci, di avviare un discorso con metodo, gli argomenti non mancherebbero.

Patti formativi, piani di studio, crediti, tutoraggio, un linguaggio che non è mai appartenuto alla scuola, ma che l’università ha da tempo fatto suo. Flessibilità e differenziazione dei percorsi potrebbero costituire gli elementi di una istruzione rinnovata a partire dal primo grado del ciclo secondario. Non più studenti che attendono il cambio dell’ora seduti in aula, ma studenti che al cambio d’ora si muovono da un laboratorio all’altro specificamente dedicato alle singole  discipline o transdisciplinare. Gli esami a conclusione del primo e del secondo ciclo potrebbero essere sostituiti da progetti concreti, la cui realizzazione dovrebbe accompagnare l’intero curricolo dello studente e sia il risultato dell’interazione tra scuola e  territorio. Oppure si potrebbe pensare qualcosa che assomigli a una vera tesi, sinossi dell’intero ciclo di studio. Quanto è ancora indispensabile la pratica degli scritti e degli orali? È proprio necessario che tutti studino le stesse discipline o si potrebbe dare spazio ad opzioni più legate ai propri interessi, alle proprie attitudini, ai propri progetti? Le discipline devono continuare a resistere come discipline o è meglio “dematerializzarle” nella  tessitura dell’intreccio dei saperi?

In territori ricchi di strutture sportive, piscine e palestre, è ancora necessario proseguire nella cultura della mens sana in corpore sano che tradizionalmente ha dato luogo alla pratica scolastica dell’educazione fisica? Movimento, sport, educazione motoria non potrebbero essere delegati al territorio anziché alla scuola?

Allo stesso modo sarebbe ora di affrontare seriamente la questione dell’insegnamento della religione cattolica nell’ambito dell’orario scolastico. 

Sono convinto che tanta pigrizia, noncuranza per il rinnovamento della scuola siano anche dovute a tare che resistono come l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica.

Liberare ore dell’orario scolastico sarebbe importante ad esempio per dare spazio ad apprendere seriamente la musica, a suonare uno strumento che non sia il flauto dolce, anziché continuare nella pratica della musica come attività per i soli baciati da dio.

Socialità e appartenenza anziché passare per le classi e le sezioni identificate con le lettere dell’alfabeto, potrebbero essere coltivate dal partecipare a gruppi orchestrali e corali scolastici o compagnie teatrali o a gruppi di filmmaker.

Educazione lungo l’intero arco della vita e scuola a “pieno tempo”, come la voleva Lorenzo Milani, avremmo voluto che si incontrassero e si intrecciassero. Non sono utopie, attendono solo il momento che la storia ce ne imponga la scrittura.

Non si tratta, dunque, di invenzioni, neppure di idee tanto nuove, semmai di esperienze e riflessioni che sono andate accumulandosi negli anni, nate non dal nulla,  ma dal vivere spesso le contraddizioni del nostro sistema formativo, dal pensare come si sarebbe potuto fare meglio, senza che mai fossero prese realmente in considerazione.

Continuiamo a reclutare insegnanti precari per una scuola precaria, perché al di là delle nostre volontà la scuola non potrà rimanere così com’è, così come l’abbiamo conservata finora. Non solo è un vecchio attrezzo è anche un attrezzo che non funziona più bene, considerata la nostra collocazione tra i paesi Ocse per i bassi livelli di competenza, l’alta dispersione scolastica e il ridotto numero di laureati.

Non è che la scuola può cambiare da un giorno all’altro e neppure che ci possiamo permettere di buttar via il bambino con l’acqua sporca. Ciò che non ci possiamo assolutamente permettere è continuare a ignorare l’urgenza di dare avvio a un discorso corale sull’istruzione, capace di raccogliere il contributo di idee e esperienze accumulate negli anni, di chiamare all’appello innanzitutto gli insegnanti, che sono i professionisti della cultura, e le intelligenze migliori, archiviando per sempre ogni nostalgia per le predelle e per le classi, perché è proprio ciò di cui non sentiamo assolutamente il bisogno. Discorso è discorrere, è percorrere una strada, è darsi un percorso, è disegnare il percorso dell’istruzione nel nostro paese.