Io, ti ho levato da terra

Nell’antica Roma Levana era la dea protettrice dei neonati riconosciuti dal padre, perché levati da terra, sollevati, da cui deriva il verbo allevare. Pertanto non è genitore chi genera ma chi alleva. Anche per la nostra Costituzione è genitore colui che alleva, all’articolo 30 prescrive che è compito dei genitori “mantenere, istruire ed educare i figli”, che sono funzioni proprie dell’allevare. Tra l’altro madre e padre sono termini che non rientrano nel lessico “famigliare” dei padri costituenti.

In definitiva l’allevare è di gran lunga più importante nella vita degli uomini e delle donne del generare.

Non si comprende, dunque, l’ostilità all’uso della parola “genitore” nei documenti pubblici di questo Stato, se non per un reazionario spirito conservatore di una tradizione culturalmente superata dagli usi e costumi del nuovo millennio.

Ci sono delle storie da narrare, sono quelle dei nostri figli, dei figli che abbiamo sognato e continuiamo a sognare. Quello che i nostri figli sono è la storia di una relazione, la storia di come siamo stati con loro.

Nessuno entra senza timore in un luogo che non conosce e che per questo può temere, nessuno fa qualcosa volentieri se si sente a disagio, se fisicamente non sta bene.

Quando pensiamo ai nostri figli queste due cose dovremmo sempre tenerle presenti.

Quella bella cosa da cui ogni natura ha inizio, la nascita, è proprio questo. Alla nascita tutti ci giochiamo il rischio tra quello che lasciamo, il ventre della donna che ci ha accolti, per noi certo e conosciuto, e quello che ci attende là fuori: incerto e sconosciuto.

Nascere e immediatamente trovare il calore nell’abbraccio del corpo che ci ha voluti, che ci ha desiderati, che ci ama, è il primo messaggio che l’ambiente in cui siamo capitati è buono, ama il mio corpo e avrà cura di lui. Ma il messaggio ora necessita di continue conferme, quel corpo va nutrito, pulito, accudito con cura, con amore, con la comunicazione tra corpo e corpo, fatta di sorrisi, di sguardi, di voci, di carezze, di contatti continui. Il corpo più piccolo deve ancora continuare a sentirsi contenuto nel corpo più grande di chi lo ama, come prima avveniva nel ventre della gestazione. La crescita è distacco dal corpo che ci ha generati e poi dal corpo di chi ci ha amato fino ad allevarci, levarci in alto, per permetterci di passare dall’essere il cucciolo dell’uomo ad essere una donna o un uomo grande e anche una grande donna o un grande uomo. 

Ma ogni distacco che si rispetti richiede prima l’attaccamento a chi ci ha accolto, a chi ci ha accudito, a chi ci ha amato, a chi ci ha preso tra le braccia dopo aver varcato l’utero che dal ventre della gestazione ci ha condotto al dove siamo venuti al mondo. Del resto è il messaggio della vita che si svela da subito, ogni nostro passaggio è sempre un distacco, qualcosa che si lascia per altro, ma il distacco c’è solo se ho messo le radici come ogni pianta che cresce, e per mettere le radici occorre il terreno buono.

L’affetto comporta dedizione perché è effetto sull’altro, è fare per l’altro, è il discorso della passione per l’altro. L’affetto per i figli non ha sesso, non è lo stesso che si prova per chi si sceglie per compagno o compagna della propria vita. L’affetto per i figli ha una gratuità unica, sconosciuta a tutte le altre forme d’amore.

Ti sarò padre, ti sarò madre, questo è l’unico diritto ad essere dei genitori, che non è un diritto uterino.  Appare arduo pensare al crescete e moltiplicatevi della genesi biblica, dalla creazione al diluvio universale, senza presumere che diffusi nuclei omogenitoriali  e consistenti pratiche di uteri in affitto siano stati all’origine delle tante generazioni bibliche.

I padri e le madri sono quelli che sanno metterti le briciole in tasca, perché non ti perda nel bosco, perché nella vita siamo tutti dei Pollicino, il bosco attende tutti e non a tutti consente i ritorni.

Ecco perché non si può essere figli solo se generati dal fai da te coniugale, che chiama “figliastro” chi non nasce dall’unico selfservice omologato, come se la genitorialità fosse prerogativa esclusiva di chi ti ha fisicamente generato e non prevedesse l’amore, la donazione di sé, la dedizione. Qui misuriamo quanti passi manchino ancora da fare alla nostra cultura laica o cristiana che sia. Pare che facciamo fatica a voltarci indietro, ma dovremmo ancora vergognare di una cultura che ha coniato il termine “figliastro”, che ancora oggi non prova vergogna ad utilizzarlo. Una cultura che ha considerato fino a non molto tempo fa i figli nati fuori dal matrimonio come “illegittimi”, una storia che ha prodotto cognomi come “Degli Esposti” “D’Ignoto” “Lacagnina”, “Diotallevi” e potremmo citarne tanti e tanti altri, per cui viene da pensare se parlare di matrimonio non sia ostinarsi in una pratica davvero insana. 

Come scriveva Bruno Bettelheim non c’è un manuale che insegni a fare il genitore, per fortuna non è come le istruzioni per montare una bicicletta, perché il manuale è la nostra umanità, la nostra capacità di amare, la nostra capacità di mettere noi stessi a disposizione di una vita che deve avventurarsi nella vita, come è capitato a ciascuno di noi, una vita che non ha bisogno di noi per quello che siamo o che pensiamo, ma per come sappiamo starle accanto, essere presenti, trasmetterle calore, sicurezza, solidarietà, rifugio. Rifugiare la sua vita nella nostra e crescerla. 

Che dimensione e che portata hanno le onde dell’affetto! Fortunatamente sono in grado di infrangere i muri delle leggi umane, figuriamoci poi i ridicoli muri di carta edificati a preservare la famiglia naturale che tanto naturale non può essere, se in antitesi all’idea che ciò che esiste in natura non sia naturale. È come i prodotti di mercato che millantano ingredienti genuini.

E dov’è la gioia per una nascita, per una vita nuova, quando di una nascita si ha il coraggio di farne una disgrazia. Per quanto tempo Stato e Religioni sono stati i becchini della vita, e qualcuno ha la spudoratezza di fingere il pianto per i bambini mai nati.

Dove inizia e dove finisce il dritto della legge di intervenire sugli affetti delle persone? Quando è giusto e quando tutto ciò è ingiusto?

Se alzo dal suolo questa bambina o questo bambino, come erano usi fare i nostri progenitori, questa è mia figlia, questo è mio figlio e la legge non deve che prenderne atto a prescindere dal mio sesso, dal mio genere, da ciò che io mi sento. Diversamente lo Stato compie una prevaricazione nei confronti di quanto di più caro le persone possiedono che sono gli affetti. 

C’è ancora un analfabetismo nei confronti dei figli che spaventa. Ma questo alfabeto non si apprende dagli abbecedari per genitori, che insegnano a giocare al ruolo di mamma e papà con cui prendersi gioco della vita dei propri figli, con risultati che evidentemente non sono dei più entusiasmanti se ancora viviamo una democrazia e una società per le quali i catechismi continuano a prevalere sui diritti di bambine e bambini, dei ragazzi e delle ragazze, sul diritto degli affetti umani.