La mente nel cassetto

Se andavi a scuola con le figurine il maestro te le ritirava e le chiudeva a chiave nel cassetto della cattedra. Il maestro buono te le restituiva al termine delle lezioni, invitandoti a non portarle più a scuola, il maestro cattivo non te le restituiva se non fossero venuti i tuoi genitori a riprenderle, in questo modo punendo te, mamma e papà.

La distrazione è sempre stata nemica della cattedra, questo spiega l’austerità degli arredi scolastici. Restano le finestre antitetiche alla lezione, per la loro costante tentazione di guardare fuori dove sta  il mondo. 

Ma le condizioni sottese ad ogni contratto scolastico sono inesorabilmente almeno due: presenza e attenzione. Infatti la DAD non è riuscita ad entrare nel cuore delle scuole perché la presenza non c’era, era solo virtuale e l’attenzione non poteva essere controllata. E poi nel  percorso di trasmissione dalla cattedra al banco non ci possono essere interferenze, figuriamoci se poi ci sono venti computer e più collegati a distanza.

Era il marzo del 2007, ben quindici anni fa, quando l’allora ministro dell’istruzione, Giuseppe Fioroni, inviava a tutte le scuole una circolare con cui proibiva l’uso del cellulare in classe, con conseguenti azioni disciplinari. Circolare che non mancò d’essere ribadita dai dirigenti di diversi istituti anche nell’anno scolastico 2019/2020 alla vigilia della pandemia che avrebbe sfidato il nostro sistema di istruzione. Nelle nostre scuole il tempo  pare sempre ieri.

Ora, che siamo appena a pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico, iPhone e smartphone ritornano alla ribalta della cronaca perché al liceo Malpighi di Bologna, ma non solo, si è deciso il loro sequestro, per tutto il tempo che insegnanti e studenti soggiornano negli ambienti scolastici, compresi gli spazi ricreativi.

A scuola la tentazione va chiusa nel cassetto e la chiave consegnata ai collaboratori scolastici. La compulsione da cellulare è così irrefrenabile in adulti e adolescenti che si è dovuto ricorrere a misure drastiche.

Ricordate l’insegnante di latino che in epoca di covid durante le interrogazioni a distanza pretendeva che la ragazza interrogata si bendasse gli occhi per non essere tentata di sbirciare gli appunti o addirittura leggere dal libro?

Nessuno che abbia qualcosa da obiettare su condotte messe in atto in ambienti la cui mission  per statuto dovrebbe essere formativa. Altro che “comunità educanti”, queste sono comunità vessatorie e inquisitive, perché fanno il processo alle intenzioni, non muovono dalla fiducia nel prossimo che dovrebbe essere l’atto di accoglienza di ogni scuola, ma dalla sfiducia e, dunque, dalla prevenzione, finendo così per deresponsabilizzare, anziché formare al senso di responsabilità e a rispondere dei propri comportamenti.

Non è più sufficiente dettare le norme della convivenza scolastica, non è sufficiente pattuire un contratto formativo, ora la regola è prevenire per non punire, o forse per non rischiare ricorsi e grane legali.

Non è un gran delitto un cellulare a scuola. Permettere agli studenti di utilizzare i loro telefoni in classe, sfruttando i metodi di comunicazione e di ricerca che usano nella loro vita quotidiana, elimina la necessità di costosi computer portatili.

Semmai ciò che deve preoccupare è il fatto che il cellulare sia divenuta una protesi che non sappiamo più governare, sappiamo trattenere le emozioni, ma non siamo più in grado di contenere il nostro bisogno di compulsare il cellulare. Allora c’è un problema formativo che la scuola dovrebbe essere in grado di affrontare senza chiuderlo a chiave in un cassetto.

Perché se così fosse prima o poi si finirà per chiudere anche la mente nel cassetto, da restituire quando si esce, per proibire di pensare quello che non deve essere pensato o decidere di lasciare a casa il cervello perché la prima tentazione di distrazione a scuola, specie se la scuola è noia, sono i nostri pensieri che se ne corrono via, che se ne vanno per conto loro.

La funzione della scuola non consiste nell’imboccare le scorciatoie, la scuola è una comunità di crescita e i tempi come i percorsi sono lunghi, richiedono pazienza e cura, la capacità di affrontare anche le contraddizioni, i passaggi più difficili. La scuola è comunità di dialogo e di condivisione, dove le imposizioni non possono essere la norma, ma l’eccezione.

La scuola non può vivere in tempi e spazi che non corrispondano all’evoluzione sociale dei costumi e della vita dei suoi protagonisti, chiudendoli fuori dalla porta, censurandone l’uso.

La scuola non è una caserma con il caporale di giornata, la scuola è il luogo della cultura e dell’intelligenza e, se non si sanno rispettare norme condivise, con il sequestro non si rimedia all’incapacità di usare cultura e intelligenza, significa che in quella scuola c’è qualcosa che non funziona.

Se sono tentato di rifugiarmi nel mio cellulare, di evadere dalla lezione,  vuol dire che quello che sto facendo a scuola non riesce a coinvolgermi, non ha significato per me, e allora il problema non si risolve censurando i cellulari ma se mai un certo modo che ancora persiste di essere delle nostre scuole, questo sì andrebbe chiuso per sempre nel cassetto del passato per essere dimenticato.