Barbiana: la Scuola che non è*

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Barbiana una provocazione

“Barbiana, quando arrivai non mi sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava […] Gli ci volle del tempo per capire che non c’era registro. D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra”.
Una pagina non nuova. Qualcosa di simile l’abbiamo già incontrato in La nascita di una pedagogia popolare di Élise e Célestin Freinet, nel Paese sbagliato di Mario Lodi.
Élise racconta che il primo atto di Célestin, nominato maestro il 1° gennaio 1920 a Bar sur Lup, nelle alpi Marittime, è quello di togliere la cattedra e la predella, la lavagna e disporre i banchi in modo da farne i tavoli da lavoro, usa la cattedra e la predella per la sua tipografia, non ci sono i manuali, ma il libro della vita, la biblioteca fatta dai ragazzi, il testo libero e la centralità della parola. Altrettanto farà 44 anni dopo Mario Lodi, lo racconta nella lettera che invia a Katia, aspirante maestra, il 2 ottobre 1964.

La scuola pubblica non ha mai colto la sfida che è Barbiana. Dopo cinquant’anni dalla tanto discussa Lettera a una professoressa, Barbiana resta una provocazione, è ancora un pugno allo stomaco della scuola pubblica.

Non solo a quella di ieri, classista e fascisteggiante, organizzatrice della selezione e del consenso, alla scuola apparato ideologico di Stato per dirla con Althusser e con il sessantotto. “La Grande disadattata” di Bruno Ciari. Una scuola che allora era però ancora molto robusta, dove gli insegnanti, a partire dalla professoressa a cui i ragazzi decidono di scrivere la loro lettera, avevano un ruolo e un peso sociale indiscussi.

Era il tempio in cui si celebrava il rito dell’istruzione.

Se vogliamo la distanza che ci separa da Barbiana è abissale, la Barbiana senza energia elettrica e acqua corrente appartiene all’altro millennio e noi siamo nel terzo millennio, ma ancora barcollanti in materia di istruzione e formazione e con una scuola e i suoi operatori che hanno perso di centralità.

Per dirla con Massimo Recalcati, viviamo nell’epoca della evaporazione della Scuola, della perdita di ruolo da parte degli insegnanti, che si trovano per un verso screditati, umiliati economicamente e professionalmente e, nello stesso tempo, convocati paradossalmente a esercitare sempre più la funzione di supplenti di un discorso educativo che sembra non avere più sostegno né nelle famiglie né nelle istituzioni.

Mentre la scuola evapora, i saperi si dilatano e fuggono dalle gabbie tradizionali in cui sono stati rinchiusi dalla scuola e dalle accademie per approdare in rete, per approdare a internet dove ognuno con un click può disegnare i propri percorsi personali di apprendimento.

La società della conoscenza, del Memorandum Lisbona 2000, sta destrutturando la scuola, la società si sta descolarizzando sotto i nostri occhi.

Eppure non siamo certo stati fermi. La scuola pubblica, fortunatamente, non è più quella del 1967.

In mezzo c’è stata la scuola di massa, i decreti delegati con il loro intento di dare alla scuola stessa “i caratteri di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica,”, il tempo pieno, la scuola dell’infanzia pubblica, la legge 517 del ’77, l’integrazione nella scuola di tutti dei diversamente abili e altro ancora, ma anche le riforme mancate. Ma anche l’abbandono della scuola con anni che hanno segnato un forte processo di restaurazione e di caduta culturale nel paese.

L’ultimo rapporto dell’Ocse “Education at glance” 2017 ci dice che nel 2014, ed è l’ultimo dato disponibile, la spesa in Italia per l’istruzione da quella primaria a quella terziaria è la più bassa tra i paesi dell’Ocse e i Paesi partner.

 Il tutto perché nonostante Barbiana la nostra scuola ha continuato a restare irretita nelle sue liturgie.

Il fatto è che non si ha avuto né il coraggio né la capacità di misurarci con la sfida vera, con la vera rivoluzione di Barbiana, quella di rivoluzionare i nostri ambienti di apprendimento.

 Una sfida con cui prima o poi le nostre scuole dovranno misurarsi, dovranno affrontare se si vorrà recuperare centralità e senso alla scuola pubblica per la vita delle persone e per la società della conoscenza e dell’educazione permanente, dalla nascita alla morte, contro gli attacchi alla scuola pubblica che provengono da tante parti fino alle homeschooling, alle charter school ed altre esperienze simili, che stanno prendendo piede anche nel nostro paese.

Qual è il nodo che prima o poi saremo chiamati ad affrontare?

È che Barbiana è la scuola che non è la scuola! È stato detto da qualcuno Barbiana è l’antiscuola.

No. Non è l’antiscuola. È un’altra cosa. È la scuola che nega se stessa, è la scuola che per essere scuola per davvero ha prima necessità di guarire dal mal di scuola.

 Barbiana è tutto quello che la nostra scuola non è. Non è la scuola, è lo studio, lo studio a pieno tempo. È descolarizzazione perché non ha nulla degli stigma della scuola che conosciamo.

Non le classi per età anagrafica, non i voti, non i registri, non l’insegnante centro dell’aula, non la lezione frontale, non le aule, gli orari e le materie, le promozioni e le bocciature.

“Si faceva fatica ad accorgersi che uno era un po’ più grande e insegnava. Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anch’io.” 

“Le materie più belle e diverse tutte finalizzate lì. Come se non appartenessero a un mondo più vasto che non quel metro quadrato tra la lavagna e la cattedra”

A Barbiana non si apprende per materie, ma per idee, per curiosità, argomenti e narrazioni, Barbiana è una scuola policromatica, è un esempio di come controllare i propri percorsi di apprendimento, contenuti, ritmi e condizioni, come decondizionarsi dall’essere ricettacoli passivi di istruzione. Sostanzialmente di come guarire dal mal di scuola.

 Questa è la sfida che Barbiana ci ripropone nel terzo millennio, quella di un’altra scuola, che un’altra scuola è possibile.

Ma soprattutto penso al tema dell’ambiente di apprendimento, che in altre parti del mondo è centrale, si va affrontando seriamente, non solo la Finlandia, ma il Canada con l’Equinox Summit learning 2030 a Waterloo, che ha coinvolto centinaia di insegnanti e studiosi provenienti da tutte le parti del globo, ma non dall’Italia, per ripensare radicalmente il modo di essere e di fare scuola.

La necessità di progettare nuovi ambienti di apprendimento capaci di meglio supportare la formazione, la preparazione e la crescita delle generazioni del 21esimo secolo, penso che non possiamo continuare a ostinarci nel rimanere identici al passato.

Proprio per questo sono personalmente convinto che non è più rinviabile un serio e approfondito discorso sul modo d’essere delle nostre scuole.

Le classi si formano per età e di conseguenza anche l’insegnamento è programmato e impartito per età. L’aspettativa è che ad ogni anno scolastico corrisponda una certa quantità di apprendimenti acquisiti nelle diverse discipline del programma. Diversificare i percorsi, rendere flessibili i percorsi, dare spazio al tempo, fare patti formativi con le famiglie e i ragazzi, anziché piani formativi, impostare la vita della scuola su motivazioni reali, come a Barbiana, su attività sociali e cooperative, studiare per progetti concreti da realizzare capaci di dare un senso e una finalità condivisa al sapere e alla fatica dello studio, capaci di coinvolgere nella responsabilità di formare al sapere anche gli attori indiretti che sono sul territorio: cittadini, enti locali, associazioni, istituzioni culturali, strutture del territorio. Una scuola aperta perché scuola totale, scuola globale.

Esiste il DPR n. 275 del 1999, quello dell’autonomia scolastica che all’articolo 6 sancisce l’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo, l’art 7 sulle reti di scuole, gli accordi di rete.

Ma le nostre scuole finora hanno dimostrato di temere l’autonomia più che di saperne trarre i vantaggi. Ora per non dare i compiti a casa bisogna prima fare una sperimentazione nazionale in 160 classi!

La scuola ha bisogno di insegnanti coraggiosi, professionalmente preparati, motivati, perché la storia dimostra che non sono le riforme dei politici, le circolari ministeriali a cambiare la scuola, ma gli insegnanti coraggiosi e motivati come Lorenzo Milani, Freinet, Mario Lodi, Ciari.

Il senso dello studio, il desiderio di sapere

Il senso dello studio, il desiderio di sapere sono il motore di Barbiana.  Questa è l’altra sfida che Barbiana ci propone: rendere vitale il rapporto dei nostri ragazzi con il sapere.

Lasciate fuori dalla porta le liturgie della scuola pubblica a Barbiana prendono il sopravvento il sapere e lo studio, il percorso e la fatica che ognuno deve compiere per conquistare a sé stesso il sapere.

Una destrutturazione della scuola, una descolarizzazione per strutturare lo studio, quello vero, non quello formale, artefatto, che si fa ancora nelle nostre aule.

È l’altra grande provocazione di Barbiana: il sapere, il rapporto con il sapere. “Il sapere serve solo per darlo”.  Il desiderio di sapere per “capire e farsi capire”.

Il rapporto con il sapere, con il desiderio di sapere, che è il ruolo fondante della scuola, di ogni scuola, se viene meno questo, viene meno la scuola, quel rapporto che nell’epoca del lifelong learning e della società della conoscenza la scuola rischia di perdere, svuotata di senso per le persone, ma soprattutto per le giovani generazioni.

È il sapere, amare il sapere, ci dicono i ragazzi di Barbiana, che “umanizza la vita”. Umanizza la vita della società in cui viviamo di fronte alle sfide che ci attendono, che attendono i giovani che saranno adulti in un futuro prossimo che non ci è dato di conoscere, per il quale abbiamo la responsabilità enorme di attrezzare le nostre ragazze e i nostri ragazzi.

Questa è l’altra vera provocazione di Barbiana con cui oggi la scuola pubblica dovrebbe avere il coraggio di misurarsi.

Barbiana ha la forza di trasformare gli oggetti del sapere in oggetti del desiderio, in corpi erotici, come direbbe Massimo Recalcati.

A Barbiana vive tutta l’essenza, la posta in gioco di tutta la partita dell’insegnamento: rendere il sapere un oggetto in grado di motivare, nel senso di muovere. Muovere il desiderio degli studenti, capace di funzionare come leva del desiderio, in grado di spostare, attirare verso, mettere in movimento chi deve fare l’esperienza del sapere nelle nostre aule, capace di mobilitare il desiderio del sapere.

Barbiana ci dice che se non si ama il desiderio di sapere, non c’è alcuna possibilità di apprendere in modo singolare il sapere.

È l’umanizzazione della loro vita attraverso il sapere che fa dire ai ragazzi di Barbiana che “La scuola sarà sempre meglio della merda”,

Barbiana è il luogo del sapere come grande narrazione, non come trasmissione, non come discipline e materie, ma come intreccio della trama delle conoscenze che l’umanità ha narrato fino ad oggi, narrato nel senso etimologico di “gnarus” che hanno cioè permesso di rendere l’umanità esperta e di consentire, a sua volta, di rendere esperti ogni ragazza e ogni ragazzo attraverso lo studio e la scuola.

Le discussioni nella stanza di Barbiana danno pienamente l’idea di questo sapere, di cui ci si appropria per narrazione e non per trasmissione, di un sapere democratico dove non si assimila la mappa mentale dell’insegnante o del libro di testo, ma dove si costruiscono e si acquisiscono gli strumenti per costruire in autonomia la propria mappa mentale, la propria rappresentazione del mondo.

Ecco il senso sociale della scuola, non più luogo di trasmissione ma il luogo per eccellenza dove mettere ordine al disordine delle esperienze.

Allora il problema del percorso verso il sapere non pone la questione della lezione, ma pone la questione dei terreni da calpestare, quali ambienti attraversare, con quali compagni di viaggio per aiutarsi a vicenda, chi sono le persone sagge da consultare, che ci possono dare una mano, guidare, tenere la regia dei nostri apprendimenti.

Un laboratorio vivo di vite e di saperi in fermento, in divenire.

L’esperienza di Barbiana ci dice che la scuola della cattedra, della lezione frontale, e studiare sono due cose diverse, addirittura l’una opposta all’altra.

Barbiana ha nella sua ragione d’essere la promozione di ciascuno come dato di partenza e non d’arrivo, nel senso, ormai perduto, di “far crescere”, di portare avanti, favorire e stimolare la formazione di personalità complete.

Non il sapere delle conoscenze ready made, pronto per l’uso, delle nostre aule, ma il sapere che interroga i libri e i testimoni, non il libro e l’insegnante, che ha la necessità di farsi rete con le persone e con le vite delle persone, con i luoghi, con le risorse, ha bisogno di schiudere le classi e le aule e di aprire spazi di apprendimento dinamici, alla città, al territorio. Insegnanti progettisti di ambienti di apprendimento, capaci di scrivere le sceneggiature dell’apprendimento, insegnanti registi e non attori, insegnanti comprimari, insegnanti compagni di viaggio, professionisti capaci di agevolare i percorsi di interconnessione dei saperi, e non di separazione, frantumazione, di formare all’autonomia e all’autorganizzazione.

Il sapere come ricerca continua, aperta alla discontinuità, alla sorpresa, all’incertezza, agli interrogativi, alle sfide della scoperta e dell’innovazione.

Attraverso il desiderio di sapere il mondo e il territorio entrano a Barbiana a condividere i pensieri, a unire i propositi per formare un cervello collettivo che si muove a promuovere la cittadinanza, la sovranità di ognuno.

Barbiana un luogo

Barbiana propone alla nostra scuola un’altra sfida quella tra luogo e non-luogo.

Barbiana è un luogo perché la sua cifra è la storia e l’identità dei suoi ragazzi e del loro maestro Don Milani.

Perché a Barbiana c’è osmosi tra la scuola e la vita.

L’osmosi tra scuola e vita non siamo in grado né di costruirla né di praticarla, perché ancora i codici della scuola confliggono con i codici della vita.

Ce ne siamo accorti e per colmare questo iato ci siamo inventati lo star bene a scuola, per cui anche lo star bene, anziché essere un modo naturale e scontato della scuola, necessita di essere progettato. A scuola non si sta bene perché evidentemente le nostre scuole non sono ambienti famigliari. Famigliare invece, sia pure nella sua austerità, era per i ragazzi di Barbiana la canonica di don Lorenzo.

Le nostre scuole sono ancora grandi magazzini, grandi silo, grandi contenitori di generazioni che per diverse ore ogni giorno sono sottratte alla vita, alla vita sociale e il guaio di oggi è che quelle più di mille ore all’anno investite dalle nostre ragazze e dai nostri ragazzi sui banchi di scuola, tra le quattro pareti dell’aula non mantengono neppure più la promessa per cui sono state inventate, rischiano di non servire al loro futuro.

E questa è una responsabilità enorme su cui dovremmo sempre riflettere di fronte alle bambine e ai bambini che ci vengono affidati.

Tutti a quella determinata età e a quell’ora, seduti allo stesso modo, dal banco verso la cattedra, a fare le stesse cose, basta entrare in una delle nostre classi per averle viste tutte.

Luoghi privi di identità, luoghi anonimi, senza storia, in cui si assembrano corpi e banchi da una parte e cattedra, lavagna e Lim, dall’altra: non luoghi.

Barbiana è un luogo perché la vita di ogni ragazzo è sognata. Scriveva Danilo Dolci: “Ciascuno cresce solo se sognato”. Dovremmo scriverlo sulle mura delle nostre scuole.

Questo è quello che accade a Barbiana.

È la vita, il recupero della vita l’epicentro di Barbiana. La vita di ciascuno, il progetto di vita di ciascuno. Il progetto di vita di ciascuno di cui la scuola si deve far carico e di cui deve rispondere.

Deve rispondere della qualità e del senso delle ore della loro vita che i ragazzi trascorrono sui banchi di scuola, come don Lorenzo Milani rispondeva ai suoi ragazzi e alle loro famiglie della qualità e del senso di quella sua scuola a pieno tempo.

Dovremmo anche noi come don Lorenzo provare a sognare i nostri ragazzi, le nostre bambine e i nostri bambini, il loro progetto di vita da assecondare, da realizzare perché sono le risorse a cui è affidato, il nostro domani, il loro futuro e il futuro della società.

Diversamente quello della scuola non può essere che un tempo nato già morto.

Barbiana non è la morte del tempo, è la dilatazione del tempo, è un pieno tempo, pieno di soggetti e pieno di saperi.

J. Bruner scriveva “Non si ha una vita se non la si racconta”. Barbiana è questo, la narrazione della vita di ciascuno: Marcello, Aldo, Edoardo. Giancarlo, Mauro, Michele, il Biondo e il Cencio tutti quelli che salgano a Barbiana entrano nella narrazione: tre ragazze e ventisei ragazzi.

 Abbiamo bisogno di sognare il progetto di vita delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, delle nostre bambine e dei nostri bambini, per farlo nostro come ha fatto don Milani, che ognuno di loro abbia una vita da raccontare.

La pedagogia di Barbiana porta il nome e il cognome di ogni ragazzo salito a Barbiana.

La scuola come un’avventura collettiva e collaborativa. Don Milani si prende sulle spalle la storia dei suoi ragazzi e la fa propria con la sensibilità di un educatore impegnato fino in fondo a dare una mano a cercare una via d’uscita, garantendo un rapporto e un’attenzione senza interruzioni anche a distanza attraverso le lettere.

Vuol dire che la scuola deve attivare tutte le proprie risorse, le proprie sensibilità per capire meglio la particolarissima personalità di ogni studente, con le sue potenzialità, ma anche con i sui suoi limiti e i suoi ritardi.

Non sono alunni, allievi, scolari da forgiare secondo le disposizioni di un programma ministeriale quelli che abbiamo davanti, smettiamola di usare questi termini di una cultura antiquata che non ci deve più appartenere. Barbiana ci ha dimostrato che possono diventare veri e propri maestri negli apprendimenti e nella crescita di un coetaneo in difficoltà. Quelli che abbiamo di fronte sono bambine e bambini singoli, con la loro identità, la loro storia, ragazzi e ragazze, studenti non allievi od alunni, che sperimentano il loro incontro con il sapere, per studiare, perché il sapere gli è necessario come l’aria che respirano.

Solo così potrà essere efficace essere insegnanti.

L’alunno, l’allievo, lo scolaro sono i sacchi vuoti da riempire con un sapere preconfezionato, anche se con tecnologie moderne e raffinate.

Lo studente, al contrario, è colui che si misura con l’avventura del sapere, l’insegnante il testimone, la guida che lo affianca, l’aiuta, l’indirizza e l’accompagna.

Abbiamo bisogno che gli adulti non si sottraggano alla responsabilità di rispondere del tempo presente e del futuro dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze.

Gli insegnanti e la scuola non possono sottrarsi a rispondere di quello che fanno e perché lo fanno, prima dei programmi viene il progetto di vita di ogni singolo che è a scuola per poter diventare sovrano della sua vita, per essere un cittadino in grado di esercitare la propria cittadinanza.

Quel che abbiamo fatto fino ad ora si è dimostrato insufficiente.

Non è il ragazzo che si deve piegare alla scuola, ma la scuola al suo progetto di vita, non plasmarlo a un programma predefinito, ma sognarlo, sognare come potrebbe essere la sua vita e accompagnarlo a conquistarsi anche con la fatica gli strumenti che gli saranno necessari, ma tutto ciò avrà un senso solo se lo avrà per il suo progetto di vita, non quello che altri gli hanno costruito.

Allora la scuola diventa un luogo perché in grado di dare senso alla propria vita, come accadeva ai ragazzi nella canonica di Barbiana, dove il sapere diventa un desiderio, dove ciascuno assume un’identità perché riconosciuto e sognato, perché ha un progetto di vita da realizzare, perché attraverso il sapere crea se stesso, che è il significato di crescere, si forma e si educa.

La scuola non ha bisogno né di grigiore né di mediocrità, deve entusiasmare, coinvolgere, appassionare. La difficoltà per chi cresce è sempre la stessa, trovare adulti appassionati, capaci di appassionare alla ricerca, al sapere e allo studio, che non è mai una passeggiata, che è impegno e fatica, ore e ore della propria vita, per cui valga la pena avere un progetto di vita, fare della propria vita una grande narrazione.

Insegnanti come don Milani che tornino ad essere compagni esperti di un viaggio affascinante verso il sapere e la crescita dei loro studenti come cittadini adulti e responsabili.

Una scuola che prevede l’errore e lo studente in difficoltà, più che le diagnosi e le certificazioni, perché è lo studente che ha bisogno di una attenzione particolare, se non vuole essere come un ospedale che cura i sani e scarta gli ammalati, come ci dicono i ragazzi di Barbiana.

Una scuola coraggiosamente diversa perché mette per davvero al centro tutto lo studente, quello vero, con la sua storia, i suoi sogni, le sue aspettative e le sue disarmanti fragilità.

La sfida di Barbiana è questa, quella di provare a immaginarla questa scuola diversa, rovesciata, con coraggio e con passione.

So benissimo che per fare tutto questo gli insegnanti hanno bisogno di sentirsi apprezzati, valorizzati, stimati per le loro competenze e per il loro lavoro e per il servizio che rendono al paese e alle famiglie. E questa è davvero una emergenza, un segno della crisi dei nostri tempi. Ma molte dipende anche da loro.

Conclusione

Non vorrei che anche questo di don Milani fosse un rito, per cui ogni volta ti devi allineare al pensiero pedagogico del momento, partecipando ai corsi di aggiornamento che l’amministrazione scolastica propone con il poco confessabile pensiero di perdere tempo.

Con il solito vizio del gattopardismo italiano, da cui la storia della nostra scuola non è certo esente, di cambiare per poi non cambiare nulla.

Il rischio è quello di fare di Barbiana un’ipòstasi. L’idealizzazione di una realtà concreta, ma irripetibile, come ha detto il ministro. Un santino da collocare nel pantheon pedagogico, in nome dell’insegnare a tutti e dell’inclusione.

A me francamente come eredità pedagogica da ricavare dall’esperienza di Barbiana sembra molto riduttiva.

Insegnare a tutti mi suona come un Comenio dimezzato, il Comenio dell’insegnare tutto a tutti che mi sembra sinceramente più impegnativo e rivoluzionario.

Questa scuola qui, così com’è funziona poco e male, nonostante l’impegno di tanti bravi insegnanti e spesso contro il loro impegno. La nostra scuola è poco efficace e incapace di ridurre le diseguaglianze all’interno del sistema.

La nostra scuola resta un ossimoro istituzionale, ce lo dice l’Ocse che mentre ci riconosce come scuola dell’inclusione ci dice anche che siamo la scuola con la dispersione scolastica più alta, peggio di noi fanno solo il Portogallo, la Spagna e Malta.

Sono quelli che dalla nostra scuola hanno ricevuto la blackball come i ragazzi di Barbiana.

Che non sono necessariamente solo la bocciatura e l’abbandono scolastico, ma la perdita di senso del sapere e dello studio per la propria vita, per il proprio progetto di vita che è la cosa ancora più grave.

Quelle ragazze e ragazzi, adolescenti, che per poterli poi recuperare ad un dialogo di vita ed educativo, per recuperarli al desiderio di sapere e di studiare, gli devi dare una scuola che non sia la scuola, come fanno i maestri di strada. Leggetevi la loro esperienza a Napoli in “Insegnare al principe di Danimarca”.

Se al principe di Danimarca gli devi dare una scuola che non sia la scuola perché farlo dopo anziché prima?

Tutti i ragazzi di Barbiana avrebbero potuto essere tanti principi di Danimarca, se non avessero incontrato don Milani e la scuola di Barbiana.

Per loro la scuola ha potuto diventare “l’ottavo sacramento” come la definiva don Milani.

La nostra scuola non è ancora “l’ottavo sacramento”, la scuola pubblica rimane ancora oggi il problema anziché la soluzione.

*Intervento al Seminario organizzato dal CDE di Cesena “Le pedagogie dei grandi: Don Lorenzo Milani”, 19 settembre 2017

La scommessa perduta dell’apprendimento permanente e diffuso

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L’apprendimento è un modo di vedere e di abitare il mondo, la propria vita, il proprio territorio. Ma questo modo di vedere bisogna averlo nella mente, bisogna sforzarsi di pensarlo. Esiste una grammatica spaziale dell’apprendimento che non è nelle classi, negli edifici scolastici ma nelle strutture e nelle risorse del territorio, nel territorio come luogo di apprendimenti diffusi, di saperi operosi, di operosità del sapere, di laboratori che vivono di spazi sociali aperti. L’apprendimento non è un semplice processo di trasferimento della conoscenza da una persona all’altra, è organizzazione nello spazio e attraverso lo spazio, non è il solo accedere ai magazzini dei dati, ma ai luoghi dove l’apprendimento si produce, dove ci sono le officine del sapere, dove i saperi si scoprono e si condividono, è la costruzione di un sistema funzionale capace di coordinare i diversi domini in cui si articola la conoscenza.

Il focus dell’apprendimento è la creazione, la trasformazione e la distribuzione della conoscenza. È il viaggio che compiono le conoscenze, non il loro sostare stanco nelle aule, nelle biblioteche e nei musei, è come si animano per incontrare le persone a partire da chi non deve mai più essere considerato alunno di una classe ma cittadino del territorio dei saperi, di una comunità di apprendimento, dove l’apprendimento accompagna tutto l’arco della vita di ciascuno. L’apprendimento non è un processo scolastico, dalla scuola va descolarizzato, liberato, svincolato.  È un processo di ingegneria eterogenea e complessa che richiede materiali, parchi, infrastrutture, movimentazione urbana della conoscenza. L’apprendimento come rete di relazioni nella città. La cultura della condivisione delle conoscenze, nonché la progettazione appropriata della città, delle reti e delle infrastrutture che supportano queste interazioni. Il processo di sviluppo di una città della conoscenza non è rapido né semplice, ma scuole, prigioni e ospedali non possono continuare ad assomigliarsi ancora così tanto: luoghi di cura e di pena. Lo studio, la cultura, l’apprendimento devono uscire dalle gabbie in cui li abbiamo da troppo tempo e colpevolmente relegati, soprattutto per le giovani generazioni. Non può essere solo internet a spezzare sbarre e barriere.

La rete mette in rete la cultura ma la cultura non fa rete, non fa rete sul territorio. Le istituzioni culturali non comunicano, ognuna fa per sé anziché alimentarsi a vicenda. La scuola dovrebbe fare curricolo invece continua a fare programma. La scuola dovrebbe essere il luogo dove si idea e si compie la regia, poi la scuola è vita fuori dalla classe, è apprendimento diffuso sul territorio, la conoscenza come studio là dove si studia, nei musei, nelle pinacoteche, nelle biblioteche, nelle videoteche, nei teatri, nei laboratori, nelle botteghe e nelle officine. Invece tutti questi luoghi non si propongono come luoghi di apprendimento, come rete dell’apprendimento permanente diffuso, bensì come luoghi di conservazione e di rappresentazione, luoghi statici anziché dinamici, luoghi recettivi e passivi, anziché luoghi attivi e intrusivi. Spesso luoghi di mercato, anziché costituire la rete dell’apprendimento permanente che abbatte le pareti delle aule e le cattedre, i voti e i registri, le classi per cronologia d’età, anziché per cronologia dei saperi, degli interessi, delle scoperte e dei transfert in una spirale che svolge i suoi giri tra le risorse del territorio. A nessuno interessa rivoluzionare il sapere, c’è troppo da inventare, c’è troppo da sperimentare, c’è troppo da progettare.

Le amministrazioni delle nostre città non sono all’altezza della sfida delle città della conoscenza, delle città che apprendono, delle città educanti. Si limitano a gestire il vecchio come hanno sempre fatto. Non hanno slancio, non hanno idee su cui rischiare e per le quali valga la pena rischiare. Una classe politica impreparata, sull’istruzione e l’apprendimento sempre improvvisata, incapace di ideare, di inventare, di pensare diversamente dalle convenienze di questa o quella lobby economica, sociale e politica, capace solo di coltivare gli orti, ma di non far crescere i giardini delle idee e i giardini che dalle idee possono nascere.

La scommessa dell’Europa era quella di integrare gli apprendimenti, valorizzandoli, da quelli formali a quelli non formali e informali in un territorio di saperi frutto del sapere del territorio.

Ancora non c’è quello che prometteva la società della conoscenza: la mobilitazione dei saperi, la circolazione dei saperi, le conoscenze diffuse oltre le accademie, oltre la confezione dei saperi usa getta. Diversamente che senso ha parlare di apprendimento per l’intero arco della vita, di città della conoscenza, di città che apprendono, di città educanti. Cosa è cambiato nella nostra vita, nelle istituzioni preposte alla cultura e all’istruzione, cosa è cambiato nelle nostre città?

L’idea della cultura e delle conoscenze è sempre la stessa, quella a strati e a scale, quella dei saperi imbalsamati nei musei, nelle scuole, nelle accademie: la cultura si trasmette e si espone. Alle idee, ai progetti, alle dichiarazioni e alle buone intenzioni non sono seguiti i fatti.

Dov’è la società della conoscenza, dove sono le città della conoscenza dove i saperi si mobilitano, dove i saperi si diffondono, dove si apprende dalla nascita alla morte?  Il ritardo è immenso!

Se questa fosse la tanto enunciata e annunciata società della conoscenza non ci sarebbe nulla da inventare, tutto è già ben predisposto e sperimentato. Si viene al mondo per conoscere, per partecipare della cultura della propria specie e le istituzioni sociali educative di questo si occupano, con uno spirito più da caserma che culturale, tanto che la conoscenza viene fornita già bella confezionata in razioni di nozioni in dosi differenti lungo gli anni della crescita.

Ministeri e assessorati dell’istruzione e della cultura appaiono sempre più spenti, privi di inventiva, di creatività, della capacità di vedere lontano. Quando va bene cercano clienti secondo una logica di mercato e di consumi. Per il resto continuano a gestire l’esistente come prima, come se non ci fosse nulla da costruire, da far nascere e crescere, da diffondere e alimentare, nulla a cui piegare un uso rinnovato e diverso di strutture, istituzioni e risorse

La società della conoscenza, un’idea intelligente, un’idea dinamica che sembra essere andata perduta, perché le politiche nazionali con la società della conoscenza non ci hanno neppure provato, perché l’Europa dopo le impegnative dichiarazioni contenute nel Memorandum di Lisbona 2000  ha piantato tutti in asso, perché ha dimostrato di non essere assolutamente in grado di gestire ciò che aveva promesso, insomma un tema quello della conoscenza e dei saperi sul quale, quando ci si è mossi, ci si è mossi male o da dilettanti, e soprattutto ancora troppo rischioso dal punto di vista della redditività dello sviluppo economico.

Le persone sono la principale risorsa dell’Europa, c’era scritto nel Memorandum del 2000, e su di esse dovevano essere imperniate le politiche dell’Unione, in particolare la formazione permanente perché essenziale per lo sviluppo della cittadinanza, della coesione sociale e dell’occupazione.

Dopo quasi un ventennio da quelle dichiarazioni non è così e non è stato così. Ciò che si è mosso, si è mosso nel solco del vecchio, nulla di nuovo ne è scaturito. Idee come knowledge city, learning city, ciudad educadora, lifelong learning o lifewide learning non si sono mai incontrate, non sono divenute una realtà radicata e diffusa, hanno creato alcuni fenomeni urbani interessanti nel mondo e in Europa: Dublino, Amsterdam, Glasgow, Barcellona, Chicago, San Francisco, Singapore e altri ancora ma nella più totale indifferenza dei responsabili delle politiche urbane nel resto del mondo e soprattutto dell’Europa, per non parlare di casa nostra e delle città che abitiamo.

Né pare che questi che si presentano siano tempi migliori.

Il vuoto celebrativo di don Milani*

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E dunque anche Lorenzo Milani da Barbiana è stato sdoganato. Non più responsabile in primis di una scuola permissiva che produce solo ignoranza, ma alfiere della scuola “aperta e inclusiva”, proprio di quell’eccellenza che l’Ocse ci ha riconosciuto.

Così il cinque giugno scorso don Lorenzo Milani è assurto ufficialmente nel Pantheon pedagogico della scuola italiana con la giornata di studi che il MIUR, per la prima volta in cinquant’anni dalla sua scomparsa, gli ha dedicato. Il titolo: “Insegnare a tutti”.

A orecchio un Comenio dimezzato, quello che diceva non solo “Insegnare a tutti”, ma “Insegnare tutto a tutti”. Perché forse insegnare a tutti dovrebbe essere pressoché scontato e non avrebbe neppure bisogno di essere ricordato, altro e molto più difficile è insegnare “tutto” a “tutti”.

Una scuola “aperta e inclusiva” non è quella dove si insegna a tutti, un insegnamento non si nega a nessuno, ma quella dove “tutti apprendono”, i Gianni come i Pierino per intenderci.

È quella dove il diritto allo studio si traduce in successo formativo, non, beninteso, come chiave della promozione scolastica, ma come individuale capitalizzazione vera di cultura e di saperi, di autonomia e invenzione, di creatività e indagine. Potremmo dire il risultato di quel “metodo milaniano”, come coniato dalla ministra Fedeli, che a suo giudizio è però “canone irripetibile”.

E allora, se è “canone irripetibile”, perché farci un convegno? Ecco di colpo svelato il vuoto celebrativo della giornata dedicata al priore di Barbiana.

D’altra parte come fa “la scuola” a celebrare una “non scuola”, la negazione di sé stessa. Capirete che è un bel disagio sostenere “quel siamo, ma non siamo”!

Sì, perché se vogliamo uscire dal bagaglio delle banalità, quella di don Milani non è una palestra di scuola, ma una palestra di studio, dove ci si aiuta reciprocamente nella fatica dello studiare, non a riuscire a scuola che è un’altra cosa. Una destrutturazione della scuola, una descolarizzazione per strutturare lo studio, quello vero, non quello formale, artefatto, che si fa nelle aule.

Scuola e studiare ci dice l’esperienza di Barbiana sono due cose diverse, l’una addirittura opposta all’altra. Non si studia, sostengono i ragazzi della “Lettera ad una Professoressa”, con le cattedre, con i banchi, i voti e i registri. Si fa scuola, la scuola che salva la forma, la scuola ministeriale, la scuola dei programmi e delle circolari, ma non si studia, lo studio è tutta un’altra cosa, lo studio è la vita, quella vera. A scuola si impara quello che si è richiesti di imparare, quelli che ci riescono, ovviamente, ma non si studia, né come studiare né quello che si dovrebbe studiare.

È questo il messaggio di don Milani e dei suoi ragazzi, ancora a cinquant’anni di distanza dalla scomparsa del priore e dall’apparire di un libro che avrebbe segnato per sempre la riflessione pedagogica successiva.

Un messaggio che, al di là della buona volontà della ministra e del Miur, e del fatto che quest’anno a ricordare don Milani ci si è messo pure il papa, con il banale, scontato e populistico “Insegnare a tutti” c’entra ben poco, è uno schizzo d’acqua a fronte della profondità del mare.

Di Lorenzo Milani, uomo, prete, maestro a noi interessa il progetto educativo, un progetto educativo che ha la forza delle grandi invenzioni pedagogiche da Decroly, alla Montessori. Prima di tutto la negazione della scuola come è nella sua organizzazione e nelle sue liturgie, per esaltare la superiorità dello studio. Il percorso e la fatica che ognuno deve compiere per conquistare a sé stesso il sapere, tutti i saperi. Il problema del percorso pone la questione dei terreni da calpestare, quali ambienti attraversare, con quali compagni di viaggio per aiutarsi a vicenda, chi sono le persone sagge da consultare, che ci possono dare una mano, guidare, tenere la regia dei nostri apprendimenti.

Un altro DNA, altro dal DNA della scuola che conosciamo, costituito di classi e di aule. Il DNA è nella stanza di Barbiana, nei locali di quella canonica. Lo stesso che costituiva i geni della rivoluzione che circa quarant’anni prima aveva compiuto a Bar sur Loup il maestro Célestin Freinet con la “nascita di una pedagogia popolare”, via la predella, via la cattedra, la lavagna e i banchi, per lasciare spazio ai tavoli a cui lavorare insieme, alla tipografia, ai laboratori, alla biblioteca di lavoro. Riscoperta della centralità della parola, della lingua come forza emancipatrice dei diseredati, dei figli dei contadini, degli operai, centralità del testo libero, del libro della vita, tanti libri, nessun libro di testo dai saperi preconfezionati.

Milani è il Freinet di Barbiana, come Mario Lodi lo è stato per Vho di Piadena e Bruno Ciari a Certaldo. È la pedagogia degli oppressi, l’educazione come pratica di libertà, vissuta e scritta tra i poveri e gli analfabeti da Paulo Freire. Si tratta di sensibilità che hanno plasmato figure di educatori, di maestri che costituiscono un riferimento, che ci aiutano a riflettere ogni giorno cosa non è la nostra scuola, quanto ancora sia distante per sensibilità e cultura dalla lezione che loro ci hanno lasciato.

Anziché celebrare dovremmo ragionare di come aggiornare quei modelli educativi, quegli ambienti di apprendimento, di cui nella didattica di ogni giorno nelle nostre scuole ancora di classi e di aule, di registri, interrogazioni e voti non si scorgono che rare tracce, ed è veramente farisaico appendere il santino di don Milani dietro “l’insegnare a tutti”, quando la nostra scuola è la scuola dell’ossimoro che insieme al primato dell’inclusione vanta il primato della dispersione.

La scuola, dunque, rimane il problema anziché la soluzione.

Celebrare don Milani è porre al centro lo studio, il problema dello studio come diritto, così come si ha diritto a respirare e a vivere. Questa scuola è ancora, se lo è mai stato, il mezzo per servire la centralità che lo studio ha per l’intera vita di ogni individuo, dalla nascita alla morte?

Come si impara, come si apprende, come si studia? Non a scuola, ma nella vita. È quello che si sono chiesti don Milani e i suoi ragazzi di Barbiana. E la risposta è l’esperienza di Barbiana dove non si apprende per materie, ma per idee, per curiosità, argomenti e narrazioni, un esempio di come controllare i propri percorsi di apprendimento, contenuti, ritmi e condizioni, come decondizionarsi dall’essere ricettacoli passivi dell’istruzione. Sostanzialmente di come guarire dal mal di scuola.

Questa è la “comunità educativa” alla base di Barbiana, forse alla base della scuola moderna, come ha detto il presidente della repubblica, ma non certo alla base della nostra scuola, perché dovrebbe negare la scuola stessa così com’è, così come la conosciamo.

Ma questo non significa negare la centralità dello studio, semmai la pretesa di voler esautorare ogni forma di studio che non sia la scuola. Una battaglia che con l’avvento di internet la scuola e le accademie hanno perso, perché il sapere è fuggito dalle loro gabbie, dai loro labirinti, così come il sapere dei ragazzi di Barbiana è fuggito dalle aule e dalle classi della professoressa a cui decidono di scrivere.

Il messaggio ancora attuale che viene da don Milani e dai suoi ragazzi è che la scuola ha bisogno di Barbiana, ha bisogno dell’altro, ha bisogno di territorio e del territorio, ha bisogno di farsi rete con le persone e con le vite delle persone, con i luoghi, con le risorse, ha bisogno di schiudere le classi e le aule e di aprire spazi di apprendimento dinamici, di coniugare internet e Barbiana, di insegnanti registi e non attori, di insegnanti comprimari, di insegnanti preparatissimi, capaci di mettersi non in cattedra ma a disposizione, capaci di sensibilità e del dono gratuito dell’insegnamento.

* Pubblicato anche da http://www.edscuola.eu/wordpress/?p=91731

 

 

Sulle rotte del futuro

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C’è un grande spazio tra ciò che conosciamo e ciò che non conosciamo, è il grande oceano della conoscenza da navigare. Uno spazio ricco di opportunità. Ma dove indirizzare la rotta? I viaggi possono essere andate come ritorni. Occorre assumere una prospettiva longitudinale, il nostro meridiano di riferimento passa per la città della conoscenza. Sì, perché la città della conoscenza è sulle rotte che portano al futuro, quello che non è più “quello di una volta”, secondo il celebre aforismo di Paul Valéry.

“Futurizzare” è una parola che non esiste, ma potrebbe essere un bel neologismo, un neologismo di cui abbiamo bisogno più che mai, significa capacità di pensare il futuro. Il capitale intellettuale ha senso se è in grado di pensare il futuro, ci si attrezza oggi per la vendemmia di domani.

La cultura, la conoscenza, l’apprendere sono questo, questo procedere continuo, cambiando prospettiva, con diverse sequenze di futuro.

“Futurizzare” ha lo sguardo alto, in avanti.

Che immagine ha il futuro nel nostro cervello?

Dovremmo “futurizzare” la nostra città, metterci tutti insieme a pensare la nostra città non da qui a cinquant’anni, ma da qui a dieci, quindici. Un luogo dove cambia l’urbanesimo, l’urbanistica o l’urbanità?

Io sono per l’urbanità, non intesa nella cortesia dei modi, neppure della buona creanza, ma di come si vive il tessuto urbano, come si abita la città da ‘uti cives’, in qualità di cittadini. Un modo dell’abitare la città e il suo territorio mutato. Come si insedia un abitare forte, non marginale, come si intesse un tessuto urbano umano, capace di ricomporre ciò che è frammentato, capace di promettere non un progetto di edilizia urbana ma un progetto di coesistenza urbana.

Il successo e il futuro di una città sono il suo capitale umano. Il rinnovamento dello sguardo di una città è l’interesse, l’attenzione, la cura al suo capitale umano. Allora capirete perché la città della conoscenza. La cura per l’intelligenza e i saperi di chi la abita. Perché più questi crescono e si sviluppano più bello sarà starci, viverci, crescerci per chi la abita e per gli altri. Questo più bello è quello che vorremmo da qui a dieci, quindici anni.

Ma bisogna partire da subito a curare il sapere e l’istruzione, intanto delle giovani generazioni, perché sono risorse che dovremmo preparare non per regalarle agli altri ma per noi, per la ricchezza della nostra città, del nostro vivere insieme, sociale, culturale economico. Non siamo forse orgogliosi quando uno di noi, della nostra città si afferma altrove, rende onore alla nostra città? Ma dovremmo anche essere preoccupati di non averlo compreso prima, di non essere riusciti a trattenere per noi quella risorsa, quella ricchezza. Non certo per chiuderci al nostro interno, ma per meglio aprirci all’andare e venire di un mondo sempre più oltre i luoghi.

La città della conoscenza è questo, la città che cresce e attrae creatività e talenti, fucina di cultura per chi con la cultura e per la cultura lavora. Non è che tutte le città devono diventare Bangalore o Silicon Valley, ma investire sugli apprendimenti e sui saperi dei loro abitanti è un obbligo perché la democrazia sia tale nel secolo della conoscenza, nel secolo che nella conoscenza ha la chiave della sua economia e del suo sviluppo; investire sui cervelli, sulle intelligenze è ormai un imperativo categorico.

Non si può più essere trascurati su questo, lasciare andare, non essere attenti ed esigenti, essere distratti. Il rapporto tra abilità urbane e produttività urbana è un ingrediente fondamentale del nostro tempo che vive di competenze, perché profitti e conoscenza sono inscindibili. La correlazione tra istruzione e PIL, gli economisti la chiamano estrinsecazione del capitale umano, gli individui diventano tanto più produttivi quanto più lavorano intorno ad altri individui molto preparati.

Basterebbe legare in un filo comune le tante luci che ogni giorno si accendono nella città come occasioni di sapere, di apprendimento, di conoscenze nuove per tutti, non solo per quelli che ne sono i promotori e i destinatari, basterebbe nutrire una simile consapevolezza per comprendere come le idee fluiscono da una persona all’altra, da un luogo all’altro, come è nella natura umana apprendere dagli altri umani, come sia logico che impariamo di più quando ci sono altre persone intorno a noi. Ecco come la città consente la collaborazione, in particolare modo la produzione congiunta della conoscenza che è la creazione più importante dell’umanità.

Questi sono i nodi virtuosi che tengono insieme la rete delle città della conoscenza, di città che fondano la loro crescita sull’apprendimento il più possibile diffuso, il più possibile patrimonio a disposizione di tutti i loro abitanti, dove ogni luogo e iniziativa hanno come missione di fornire informazioni, saperi, apprendimenti, competenze, di essere servizio dal punto di vista dell’apprendere, della consapevolezza, condizione prima per poter dire di abitare una città della conoscenza.

La città che apprende è una città diversa*

Prima parte

Seconda parte

*Conferenza tenuta il 12 maggio 2017 a San Giovanni Marignano (Rn)

 

Un’agenda per il futuro: Ecosistemi sani di conoscenza

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“Agenda Knowledge for Development” è il documento che l’Assemblea Generale dell’Onu ha pubblicato lo scorso marzo, dopo il Knowledge Cities World Summit celebrato nell’ottobre 2016 a Vienna e in attesa di quello che si terrà a giugno di quest’anno ad Arequipa in Perù.

Contiene gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile, per affrontare i problemi che sono di fronte alla comunità mondiale, dalla povertà, alla disuguaglianza di genere, al cambiamento climatico. Una agenda mondiale che per la prima volta mette insieme gli sforzi dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo in grado di influire sulle politiche e le pratiche di crescita da qui al 2030.

Nonostante ormai da tempo la conoscenza sia universalmente riconosciuta come il motore principale della crescita e dello sviluppo, paradossalmente, il potenziale di trasformazione e di creazione di valore basato sulla conoscenza rimane in gran parte inutilizzato. Questo accade perché non abbiamo modificato il nostro modo di pensare, la nostra scala di valori, precisamente perché continuiamo a guardare al mondo come se fosse quello di ieri, con la stessa cassetta degli attrezzi che ci ha lasciato l’era industriale, che sarà pure alle nostre spalle, ma continua ad abitare le nostre menti ed a suggerirci le risposte, quelle sbagliate, ovviamente. Di conseguenza si è praticata un’idea di produzione della ricchezza incentrata sullo sfruttamento delle conoscenze, come l’uso intensivo di scienza, tecnologie, innovazione, infrastrutture digitali, istruzione e capitale umano altamente qualificati. Tutto ciò si sta rivelando insufficiente per affrontare le sfide complesse che abbiamo di fronte, viviamo uno stallo senza precedenti, gli squilibri sociali e ambientali sono in espansione e la vitalità dell’ecosistema globale è seriamente compromessa.

La società della conoscenza, la società che fonda profilo e natura dello sviluppo sul valore e la qualità delle conoscenze non è un’edizione nuova del sistema di ieri. Presuppone un’altra gerarchia di valori a partire da una scommessa sull’uomo, sulle sue capacità di costruire una società che ha coscienza di se stessa e in grado di auto-regolarsi.

Il documento dell’Onu suggerisce l’idea che non esiste società della conoscenza, se la conoscenza non si fa ecosistema. Non è sufficiente usare e sfruttare i saperi, non c’è valore sociale ed economico senza la diffusione dei saperi, una diffusione in grado di tessere una società della conoscenza pluralistica ed inclusiva, una diffusione indispensabile per gli individui, le imprese, i governi, la comunità mondiale e quindi parte intrinseca di ogni idea e sforzo per affrontare le sfide del futuro.

L’agenda dell’Onu si rivolge ai singoli individui, alle famiglie, alle comunità, alle organizzazioni e alle imprese, alle amministrazioni pubbliche locali, nazionali e mondiali. Il progresso della società della conoscenza è nelle loro mani, nelle mani di ciascuno di noi, delle istituzioni e delle imprese: la società della conoscenza come risorsa al servizio non di interessi particolari, ma al servizio degli individui, dell’intera umanità e del suo destino.

Ecosistema della conoscenza significa vivere in una società capace di connettere le diverse conoscenze che possiedono le persone, le organizzazioni e le istituzioni, fornendo a tutti opportunità e parità di accesso ai saperi. La conoscenza come ambiente, come sistema ambientale in cui vivono i cittadini del mondo, uomini e donne, che di questo sistema ne costituiscono il cuore, l’ossigeno e i polmoni, dove la conoscenza di ciascuno è la condizione perché il sistema funzioni e il suo funzionamento dipende dal potenziale che ognuno di per sé costituisce, come dal buon funzionamento di tutti gli elementi del sistema dipende la vita e il futuro di ciascuno.

Società non più della conoscenza e basta, ma ambiente di saperi e di apprendimenti in una relazione reciproca tra individui, istituzioni, imprese, organizzazioni, governo e infrastrutture.

Ecosistemi sani di conoscenza, con un’istruzione di alta qualità per tutti, libertà di espressione e creatività, accesso universale all’informazione e ai saperi nel rispetto delle diversità culturali e linguistiche, contro ogni tentativo di abusare dell’ignoranza o di abusare della conoscenza da parte di singoli e gruppi che mirano ad indurre in errore con impatti dannosi sul pubblico più vasto.

Ecosistemi sani di conoscenza fondati sulla comunicazione e sulla collaborazione, su orientamenti comuni e obiettivi condivisi. Centrati sulle competenze, in grado di fornire a tutti i soggetti sociali le capacità per padroneggiare sfide e opportunità, anziché saperi focalizzati settorialmente nel mondo accademico, nelle imprese o nel governo, tagliando fuori la massa dei cittadini.

Diffusione e condivisione delle conoscenze significa nella pratica promuovere e facilitare il dialogo transdisciplinare, la mutua informazione, un dialogo sociale culturalmente inclusivo e partecipativo, fornire una ricca gamma di opportunità attraverso la cooperazione tra fornitori di servizi della conoscenza pubblici e privati. Ma sono necessari l’iniziativa, il sostegno e il coraggio dei governi nazionali come di quelli locali affinché nuove forme e fonti di conoscenza vengano aperte, con piattaforme in grado di supportare cittadini, organizzazioni e imprese, attraverso la collaborazione delle istituzioni culturali e accademiche per fornire servizi per la conoscenza fisici e digitali.

In questo quadro le città svolgono un ruolo significativo, essendo gli hub naturali per ampi ecosistemi di conoscenza. Le città della conoscenza, le città che apprendono occupano una posizione leader per la creazione e l’innovazione di un ecosistema delle conoscenze ben equilibrato, in cui biblioteche, musei, archivi e altre istituzioni che raccolgono, conservano e diffondono i saperi svolgano un ruolo fondamentale nel fornire pari opportunità di accesso e di utilizzazione delle conoscenze, costituendo un elemento fondamentale del processo di democratizzazione del sapere.

Le città di oggi sono chiamate a nutrire un’alta consapevolezza e sensibilità nei confronti delle problematiche legate alle conoscenze e alle competenze di chi con le conoscenze lavora, attraverso la formazione, l’insegnamento, l’educazione, la ricerca e l’innovazione, perché il nostro futuro dipende non solo dalla disponibilità di saperi e informazioni, ma dalla capacità delle società di auto-determinazione, di gestire, rinnovare e sostenere l’ecosistema della conoscenza.

Si chiama uso responsabile della conoscenza che richiede nello stesso tempo il mantenimento e l’evoluzione di saperi, abilità e competenze, combattendo il pregiudizio e l’ignoranza con l’apertura al nuovo, con la condivisione tra tutti delle conoscenze di cui ciascuno ha bisogno, solo così è pensabile uscire dallo stallo attuale per tentare di creare un mondo migliore e continuare a fornire un futuro alla crescita dell’umanità.

Città: L’ impresa della conoscenza*

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Barcellona, Delft, Dublino, Monaco, Montréal, Stoccolma sono oggi considerate a livello mondiale città della conoscenza di successo. Il loro cammino verso uno sviluppo fondato sulla conoscenza come risorsa ha preso avvio col tramonto del secolo scorso, come risposta di fronte alla crisi industriale ed alla crescente disoccupazione. Ormai costituiscono sei casi di studio intorno ai quali si è andata accumulando un’importante letteratura.

Ragionare di città della conoscenza, di uno sviluppo che faccia della conoscenza la sua risorsa prima da noi è ancora molto difficile, eppure ogni giorno tocchiamo con mano come sia arduo uscire dalle secche di una crisi che si estende come una lingua di lava e come i fatti siano terribilmente distanti da quanto un pensiero nuovo, una nuova intelligenza suggerirebbero di fare. Intanto il tempo è tiranno e con realismo spietato non fa che accumularci addosso gli anni del ritardo che scontiamo nei confronti delle città più avanzate.

La questione di fondo resta la volontà politica e sociale che sono indispensabili. Nei casi citati c’era il senso di un’urgenza sociale, credere nella necessità del cambiamento per riposizionare la città nell’era della conoscenza, come risposta alla situazione di difficoltà generata dal declino delle industrie tradizionali o dalla scarsità delle risorse locali. È questa volontà di cambiamento sociale la scintilla per ogni ulteriore azione, ma una città non si sviluppa come città della conoscenza senza un chiaro sostegno del governo e delle leadership locali.

Ogni tentativo di trasformare una città in città della conoscenza è destinato a fallire se non è guidato da una chiara visione strategica, una visione strategica che deve prendere le mosse da un esame disincantato e approfondito della propria condizione. Sarebbe compito del governo della città e degli attori sociali responsabili del suo futuro proporre obiettivi specifici, misure e azioni per una nuova stagione di sviluppo della città fondata sull’uso della conoscenza come leva e risorsa.

Le città che abbiamo citato all’inizio hanno scelto di indirizzarsi su alcuni settori piuttosto che altri, fissando obiettivi ambiziosi per ciascuno di essi. Hanno cercato di bilanciare gli interessi di questi settori in rapporto alle risorse disponibili e alla competitività delle loro aree metropolitane. Soprattutto hanno mirato a far crescere un sistema di alta qualità dall’istruzione di base a quella superiore, di elevare la qualità della vita dei cittadini e dei servizi sociali avanzati.

Certo, il sostegno finanziario e forti investimenti per la realizzazione degli obiettivi strategici costituiscono le condizioni indispensabili. Si tratta di operare azioni di marketing in grado di attrarre investimenti esterni, di mobilitare risorse pubbliche e private, anche mediante l’applicazione di vari regimi fiscali, attirando finanziamenti pubblici a livello nazionale e sovranazionale.

Parchi e poli della conoscenza vanno creati e animati, senza di essi oggi nessuna impresa grande e piccola che sia può sopravvivere, l’era della grande industria ormai è scaduta. Le agenzie di cui hanno bisogno le nostre città sono quelle in grado di promuovere aree qualificate e specializzate di conoscenza, poli della scienza, della ricerca e delle tecnologie.

Queste agenzie possono essere fondazioni, centri di ricerca, istituzioni e università da coinvolgere in diversi tipi di attività, come la progettazione e la realizzazione di piani, per la conduzione di ricerche, il rafforzamento della cooperazione scientifica e la condivisione delle conoscenze, attrarre e trattenere lavoratori della conoscenza, sostenere lo sviluppo economico, il marketing del concetto di città della conoscenza. Perseguire l’eccellenza esprimendo principalmente la capacità di creare nuove conoscenze nei settori della scienza e della tecnologia, ma non solo o esclusivamente, perché porsi l’obiettivo dell’eccellenza fornisce la piattaforma per nuovi beni e servizi basati sulla conoscenza.

Una città della conoscenza di successo è, dunque, soprattutto degna di nota per la sua ricchezza di conoscenze acquisite, che ruota essenzialmente attorno ai suoi centri di ricerca e alle istituzioni dell’apprendimento. La produzione di conoscenza procede in gran parte da quelli che sono conosciuti come i motori dello sviluppo economico della città, come i suoi centri di ricerca e le università.

È anche il carattere multietnico delle nostre città che ci chiama ad accogliere la sfida a trasformarci in città della conoscenza. Una città della conoscenza per avere successo deve essere costruita sulla diversità. Gli individui di talento creativo preferiscono vivere in città con popolazioni caratterizzate da diversità, tolleranza e apertura, in quanto una tale atmosfera stimola la fertilizzazione incrociata delle idee e delle pratiche e favorisce il flusso più veloce delle conoscenze. Le città della conoscenza sanno come ascoltare e trovare i modi per sostenere i diversi punti di visti, le differenti radici culturali e le esperienze dei loro cittadini contribuiscono realmente a nuove idee e innovazioni.

Una città della conoscenza ha senso se è in grado di offrire opportunità di creazione di valore per i propri cittadini. Esempi di tali pratiche sono la promozione di “microcosmi della creatività”, istituzioni di spazi per lo sviluppo del dialogo sociale, la costruzione di siti web di alta qualità e di reti tra città della conoscenza. Una città della conoscenza si distingue anche per il ritmo di assimilazione, l’uso, la diffusione e la condivisione di nuovi tipi di conoscenze, la promozione che a sua volta assicura che esse acquisiscano rapidamente un valore economico e sociale.

“Un motore di innovazione urbana” è un sistema che può innescare, generare, promuovere e catalizzare l’innovazione nella città. Si tratta di un sistema complesso che comprende le persone, i rapporti, i valori, i processi, gli strumenti e le infrastrutture tecnologiche, fisiche e finanziarie. Alcuni esempi di luoghi urbani che possono servire come motori di innovazione sono le biblioteche, i caffè, la camera di commercio, il municipio, l’università, le scuole, i musei, le istituzioni culturali, ecc. Tuttavia non tutti questi luoghi interpretano il ruolo, oggi indispensabile, di veri e propri motori di innovazione.

Una città fondata sulla conoscenza deve garantire, tra gli altri, i diritti all’informazione e alla conoscenza dei suoi cittadini, attraverso l’accesso facilitato alle reti a banda larga per tutti, l’accessibilità all’informazione per un’utenza amica, altamente comprensibile, completa, diversificata, una informazione pubblica trasparente. Il diritto all’istruzione e alla formazione. Tutti i cittadini devono avere il diritto alla formazione al fine di beneficiare in modo efficace dei servizi e delle conoscenze disponibili attraverso l’informazione e le tecnologie della comunicazione. Così come i cittadini hanno diritto ad una pubblica amministrazione trasparente a tutti i livelli del processo decisionale. La Pubblica amministrazione deve impegnarsi a favorire la partecipazione dei cittadini e il rafforzamento della società civile.

I benefici di una città della conoscenza su scala mondiale e locale sono realmente sostanziali ed attraenti, per cui non possono più a lungo essere ignorati dai decisori politici e dai ricercatori, ma soprattutto dai cittadini consapevoli del senso del loro abitare la città.

Cultura e Città

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Il sapere è fuggito oltre i limiti delle istituzioni, ad aprirgli i cancelli è stata l’era digitale che ormai viviamo a pieno titolo. Il passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione ha cambiato il nostro paesaggio da verticale ad orizzontale, dalle ciminiere alle reti.
Il sapere si è decentrato, si è delocalizzato sottraendo l’esclusiva ai centri tradizionali della sua produzione e trasmissione.
Il sapere si è democratizzato, per la prima volta nella storia il libero accesso all’informazione fornisce alla maggior parte delle persone l’opportunità di costruire il proprio paesaggio di apprendimento.
Mentre l’apprendimento varca i confini entro cui era stato relegato dalla tradizione, occorre interrogarsi sul senso dell’esistenza delle nostre scuole, università e istituzioni culturali così come ancora oggi le intendiamo. È il rapporto tra interno ed esterno, tra dentro e fuori, tra incluso ed escluso che va ripensato. Tra il formale e l’informale, tra l’aula e il corridoio.
Occorre ridefinire la funzione del sistema di istruzione formale, caricarlo di sinergie in grado di facilitare nuovi modi di istruire e di apprendere. Le istituzioni tradizionalmente deputate a produrre e trasmettere cultura non hanno più l’esclusiva, ormai da tempo, ma non hanno ancora riconquistato una nuova centralità che le collochi come nodo di riferimento rinnovato nel tessuto degli apprendimenti diffusi.
La flessibilità e l’estensione del digitale, la sua versatilità fisica e spaziale fanno dei contesti educativi formali un territorio dai limiti rigidi e definiti, con due ambiti ben differenti, quando non contrapposti, l’interno e l’esterno. L’interno luogo dell’apprendimento codificato e riconosciuto, l’esterno come lo spazio dell’indeterminazione, della spontaneità, della esplorazione a cui è precluso il riconoscimento da parte del contesto educativo tradizionale.
La città può essere l’interfaccia possibile affinché lo sviluppo dei processi di apprendimento si produca anche in senso fisico oltre i territori formali della conoscenza.
Le istituzioni dell’apprendimento e della cultura abitano un territorio urbano, che è il territorio di vita dei loro utenti, il territorio dove per primo ciascuno di noi ha appreso, prima di esservi separato mentalmente e culturalmente, da una concezione della conoscenza che induce al divorzio tra saperi formali e saperi che formali non sono.
È possibile pensare che l’interno, in certi spazi e tempi, possa essere contagiato dalle caratteristiche dell’esterno. Alcuni luoghi dove tradizionalmente si impara possiedono caratteristiche anche per l’indeterminazione e la spontaneità, come possiamo incontrare nella città spazi capaci di ospitare attività di insegnamento e di apprendimento, tanto nello spazio pubblico come in quello privato possono esistere spazi satellite nei quali possiamo apprendere.
Lo spazio urbano, che si voglia o no, è una grande aula, è un paradigma di spazio per l’istruzione, disegna la città contemporanea sempre più come il marco fondamentale per un’educazione permanente della cittadinanza.
Da un punto di vista spaziale, tutte le istituzioni formative dalle scuole, all’università alle accademie possono intendersi come un sottosistema incluso in un sistema di maggiore entità, la città.
Sono fondamentali, quindi, scenari che rendano possibile un apprendimento per interazione tra città e luoghi dell’apprendimento formale, come realtà di apprendimento urbano, in spazi pubblici, privati, all‘aria aperta o chiusi, effimeri o permanenti.
I processi di insegnamento e apprendimento contemporanei possono avvenire ovunque, l’uso di questi spazi è un’opportunità preziosa d’incontro tra le persone, le istituzioni, i saperi formali e quelli non formali.
“L’apprendimento deve essere accolto come il miglior regalo, e non come un obbligo amaro”, scriveva Einstein ed invitava ad apprendere inseguendo il piacere. L’era digitale offre la possibilità di disegnare una mappa di apprendimento proprio, che ci inserisca in un ambiente educativo di natura collettiva oltre i limiti delle istituzioni.
Dal punto di vista fisico, quest’interfaccia è la città. Come ente complesso, la città offre praticamente infinite possibilità di apprendimento, da un apprendimento informale, vincolato a proposte educative non programmate o istituzionalizzate ad un apprendimento formale o istituzionale. La capacità dei luoghi tradizionali del sapere di accogliere e generare situazioni ambigue capaci cioè di rendere compatibili i due tipi di apprendimento è una delle loro maggiori potenzialità e attrazioni. La città dev’essere cultura e la cultura dev’essere città.

Dove scorre l’apprendimento

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L’apprendimento è un modo di vedere e di abitare il mondo. Si può apprendere esponendosi per anni a fatti, regole, idee, principi e teorie in un’opera di formazione dell’attenzione che ci fa dimenticare i modi più naturali dell’apprendimento, quel modo di vedere e di abitare il mondo che ci caratterizza fin dalla nascita, che è star dentro alle cose e da esse apprendere per interazione, per manipolazione.

L’apprendimento è sempre un processo di trasferimento, ma non consiste nel semplice passaggio di conoscenze da un magazzino di dati ad un altro perché comporta la ristrutturazione funzionale del sistema in cui cade, la coordinazione di diversi domini, l’alterazione del preesistente verso nuovi equilibri.

L’apprendimento è un flusso continuo tant’è che esiste una grammatica spaziale dell’apprendimento che non è solo quella dell’apprendimento istituzionalizzato, per il quale si apprende in loco, nello spazio geografico dell’apprendimento formale.

E quello che c’è fuori, che ogni giorno colpisce i nostri sensi, come lo gestiamo? Si rischia un’esclusione destinata a dimezzare l’umanità di ciascuno di noi. Ma anche quello che è dentro di noi e ci spinge fuori a ricercare, a conoscere, a sapere.

L’apprendimento implica un cambiamento nei modi di vedere, come immersione nella realtà. La realtà ci cambia perché da essa apprendiamo in continuazione, ciascuno di noi è portatore di apprendimenti e nell’interazione con gli altri moltiplica in modo esponenziale la loro diffusione e modificazione. Siamo immersi nell’apprendimento, senza saperlo e senza sapere cosa farne, spesso subendolo anziché governarlo.

Trasferimento, coordinamento e dimora sono i tre aspetti attraverso i quali l’apprendimento agisce su di noi, si appropria di noi, giunge alla nostra mente, s’ambienta e vi abita. L’apprendimento è un processo di eterogenea ingegneria che richiede una serie di materiali, di materie prime, di luoghi di generazione e di diffusione, di movimentazione delle conoscenze.

La città che abitiamo è l’ambiente quotidiano dei nostri apprendimenti, essi nascono e vivono nella rete urbana, ma non lo sappiamo perché i nodi che la formano non sono sensibili dal punto di vista della conoscenza, della sua crescita e diffusione. Hub che non riescono a rivitalizzarsi, ognuno funzionale a sé ma estraneo a un progetto di città che apprende, di città che produce e distribuisce conoscenza.

C’è un apprendere che è di tutti i giorni, che ci aiuta ad esser meno distanti gli uni dagli altri, che ci aiuta a colmare il divario della formazione e dell’informazione a sentirci meno lontani dalla realtà delle cose.

È finito il tempo in cui il sapere si accumulava entro una certa età per essere consumato nell’arco di una vita. Ora il sapere non è mai abbastanza per quanto duri la nostra esistenza.

Non è mai abbastanza se vuoi capire, se vuoi esserci, se non ti basta di comparire, per cui il diritto di apprendere non è un diritto che si esaurisce in un’epoca della propria vita, è un diritto che non ha stagione. Ma se non ha stagione dove e come esercitarlo oltre ai luoghi deputati delle scuole e delle accademie che pongono vincoli di età e di progressione?

Musei, biblioteche, istituzioni culturali, mostre sono depositi, testimoni di cultura, ma non sono apprendimento dinamico, apprendimento attivo, anche perché la loro missione originaria pare essere altra.

Quali sono i luoghi della conoscenza di una città, come si intrecciano, come dialogano tra loro, come far emergere le loro potenzialità di contribuire all’apprendimento continuo, alla formazione permanente dei cittadini? Nessuno è escluso all’appello dalle istituzioni blasonate, alle sale cinematografiche, ai circoli ricreativi, alle associazioni pubbliche e private, alle imprese grandi e piccole, ai parchi e alle piazze.

Ma ci piacerebbe conoscere la narrazione quotidiana degli apprendimenti nella nostra città, la geografia delle occasioni e delle opportunità di apprendere, il tessuto che ogni giorno viene filato senza sapere di poter contribuire alla crescita dei saperi, delle competenze, delle conoscenze della propria comunità, senza sapere di essere un collante prezioso della convivenza cittadina.

Non si tratta di risorse nascoste, si tratta di cambiare paradigma, assumere il paradigma dell’apprendimento e farle emergere, metterle in rete, offrirle all’informazione della gente, secondo un’idea di apprendimento, di percorso che ogni giorno si snoda per la città offrendo le sue occasioni.

Dalla Classe al Contratto Formativo

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Qualità della vita umana e diritto all’istruzione

La stragrande maggioranza delle nazioni mondiali ancora individua nella scuola e nei suoi curricoli il mezzo per fornire ai giovani ciò che si ritiene sia necessario per poter competere nel mercato globalizzato del lavoro e nel mondo dell’economia globale.

Nello stesso tempo però le pratiche educative fondate sulla teoria del capitale umano sono oggi sempre più oggetto di critica per i loro effetti negativi sulla qualità della vita delle persone. Il Nobel dell’economia Amartya Sen poco più di un decennio fa esprimeva le sue preoccupazioni circa lo sviluppo di politiche incentrate solamente sulla crescita economica. Nel suo Dévelopment as Freedom egli individua nel tasso di longevità di una popolazione l’indicatore della qualità della vita umana.

In questo quadro la fruizione del diritto all’istruzione per l’integrazione sociale non può più essere considerata una finalità sufficiente. Istruzione e cultura sono sempre più gli elementi indispensabili ad ogni singolo individuo, bambina e bambino, ragazza e ragazzo per poter concretamente esercitare il proprio diritto alla salute, alla felicità, a costruire e realizzare il proprio progetto di vita.

Istruzione, formazione, educazione non sono solo mezzo, strumento, occasione, sono invece parte determinante della qualità del progetto di vita di ciascun giovane. In questa dimensione ci rendiamo conto che lo strumentario delle classi, dei voti, della didattica ex cathedra, degli edifici scolastici riciclati da conventi e caserme, eccetera dovrebbe appartenere da tempo ad un’epoca ormai distante e che l’istruzione amica, esperienza ottimale per ciascuno, appagante richiede di essere vissuta e partecipata con mezzi, spazi, relazioni, strumenti che sono tutti da ripensare con creatività e lena.

Ma ancora una volta l’interesse che sembra prevalere è quello di uno Stato che agisce come l’unico sovrano dell’Istruzione, oscurando le sue responsabilità e quelle della società degli adulti nei confronti delle giovani generazioni che investono tanta parte del loro tempo di vita sui banchi di scuola, ancora con l’illusione che quell’impegno sia necessario per costruirsi il proprio futuro sociale.

Allora è tempo che Stato e Scuola sentano tutto il peso e la portata della responsabilità che hanno nei confronti delle bambine e dei bambini, delle ragazze dei ragazzi di non sprecare, di non bruciare nulla di quel tempo di vita a loro sottratto e di rispondere pienamente di come esso a scuola viene impiegato insieme alla qualità dell’istruzione che giorno dopo giorno viene loro impartita.

 

La centralità dell’individuo

Temo che davvero sarebbe il fallimento dell’educazione, se oggi pretendessimo di concepirla solo come attività necessaria a preparare le nuove generazioni alla loro integrazione nelle società contemporanee o future che siano.

Il divorzio tra dove va il Mondo e dove va o vorremmo che andasse la nostra vita, indipendentemente dalle nostre personali fedi, convinzioni o visioni escatologiche, è quotidianamente e platealmente sotto i nostri occhi.

C’è la centralità dell’individuo oggi. Di ogni singolo individuo. Con cui dobbiamo fare i conti e alla cui sfida non possiamo sottrarci. La centralità degli individui che vengono al mondo in questo mondo, la centralità degli individui che trascinano e confondono le loro storie negli inusitati flussi dell’immigrazione.

La scuola è al servizio della comunità e del territorio e, primariamente, deve essere al servizio di ogni singolo individuo e del suo progetto di vita.

Non può e non deve accadere che l’istruzione, diritto universale sancito nel 1948, divenga diritto e dovere nella misura in cui lo Stato ha interesse ad essa, prescindendo dalla considerazione dei diritti dell’individuo in sé, per cui la sua natura e la sua organizzazione mutano con il variare delle politiche dei governi che di volta in volta si impadroniscono degli Stati.

Esiste un interesse che è all’origine dello Stato democratico, quello, cioè, di considerare ogni individuo che lo compone come una risorsa, per cui la piena realizzazione di quella “singola risorsa” non può che tradursi nel concreto interesse dello Stato stesso e della sua democrazia.

Anziché porre l’enfasi sulla riuscita scolastica o meno di ogni singolo alunno e organizzare il sistema dell’istruzione in funzione di questa, l’enfasi deve essere prioritariamente collocata nella riuscita dello Stato e del suo sistema scolastico a perseguire il successo formativo di ogni singolo alunno, assunto come risorsa su cui investire per l’avvenire economico, culturale e sociale dello Stato stesso. Lo Stato, così facendo, si assume pienamente la responsabilità del valore del tempo di vita di ogni bambina e bambino, di ogni ragazza e ragazzo, al contempo rispondendo della qualità delle conoscenze trasmesse e della qualità del futuro su cui ognuno può contare, avendo accanto uno Stato amico, portatore dell’interesse per l’istruzione di ciascuno come interesse generale e collettivo.

Ogni individuo diviene scolasticamente titolare dei suoi percorsi di studio anziché di un’età anagrafica che lo colloca nella classe corrispondente o che lo respinge in dietro, rifiutando di riconoscerla, qualora il profitto sia negativo, costringendolo a identificarsi scolasticamente con uno stato che non possiede già più.

 

Il contratto formativo

Una sfida molto alta per le capacità della nostra scuola e del suo sistema. Si tratta di passare dalla programmazione per contenuti ed obiettivi di apprendimento alla individuazione delle serie di competenze che è necessario acquisire, attraverso un sistema a somma di crediti, per percorrere in progressione i diversi step definiti dai singoli statuti disciplinari per giungere a quella competenza “disciplinare” così come interpretata, ad esempio, da Howard Gardner nel suo Cinque chiavi per il futuro.

In una carriera scolastica pensata e organizzata per percorsi individuali di studio, al fine di valorizzare e investire sulle specificità personali, non ci sono bocciature, ma semmai sbarramenti; verrebbero temporaneamente preclusi i soli percorsi disciplinari per i quali non si sono ancora acquisite le competenze necessarie a proseguire negli studi.

Ognuno avrebbe da spendere per i propri progetti di vita la quantità di crediti acquisiti relativamente alle competenze disciplinari, sia per proseguire negli studi del nostro sistema formativo, sia per competere sul versante del mercato del lavoro.

Viene meno l’idea di una formazione globale e totalizzante, per la quale è necessario acquisire la sufficienza un tutte le discipline dalla ginnastica alla musica, dall’educazione tecnica al disegno al fine di poter proseguire negli studi senza dover tutte le volte star fermo un giro come nel gioco dell’Oca.

Non si capisce perché nella scuola italiana espressioni e strumenti come “Progetto di vita” e “Piano educativo individualizzato” debbano essere riservati ai solo alunni diversamente abili, come se ogni singolo individuo, a partire da noi stessi, non fosse di per sé diversamente abile e non avesse necessità per la sua piena riuscita di persone che lo affianchino e che gli assicurino sostegno.  Come se l’esperienza della migliore tradizione pedagogica non ci avesse già edotti, da Decroly alla Montessori, che ciò che è indispensabile per chi è certificato diversamente abile, tanto più lo è per chi è presumibilmente certificato come normo dotato.

Così come si procede, ancor prima dell’avvio dell’anno scolastico, negli incontri tra la scuola e i genitori alla redazione del PEI per gli alunni diversamente abili, altrettanto va realizzato per ogni singolo alunno  in modo da  giungere, tra la scuola e la famiglia, alla definizione del percorso scolastico in funzione dei crediti che si vogliono acquisire, attraverso la stesura di un compiuto piano di studi individuale, che si  traduca in un realistico contratto formativo, impegnativo per le parti che lo stipulano.

In questo quadro, la frequenza scolastica, la collocazione nella scuola di ognuno non sono più identificabili con la classe, ma esclusivamente dipendenti dal percorso di studi che ogni anno voglio portare a termine in funzione dei crediti disciplinari che per quell’anno scolastico mi sono prefissato di conseguire e che se non riuscirò a totalizzare nella loro globalità dovrò in parte mettere in conto nel piano di studi dell’anno successivo.

 

Oltre la classe

Ma se si perde la classe, architrave e perno di tutto il sistema scolastico italiano, che cosa succederà?

Non mi sembra che le nostre università, da sempre funzionanti attraverso la frequenza delle lezioni relative agli esami che si intendono sostenere, abbiano mai patito per l’assenza di classi.

Non credo neppure che ne patirebbe il nostro sistema scolastico, se decidessimo di organizzarne gli spazi per laboratori disciplinari e per crediti che si devono acquisire.

Certo assisteremmo ad uno spettacolo a cui nelle nostre scuole non siamo mai stati abituati, vedere, cioè, spostarsi gli studenti, piccoli o grandi che siano, da un’aula all’altra, o meglio da un laboratorio disciplinare all’altro, in funzione dei crediti che devono acquisire come preordinato dal piano di studi individuale concordato tra la scuola e la famiglia.

Ma soprattutto si tratterebbe di una organizzazione del nostro sistema scolastico destinata a non porre più l’accento sui voti e sulle bocciature, sul fallimento dei singoli, bensì sul loro successo formativo, in quanto risorse preziose di uno Stato democratico che investe sulle giovani generazioni, avendo sempre di mira il proprio avvenire.

Uno Stato chiamato a rispondere alla sua comunità di come garantisce innanzitutto l’esercizio del diritto all’istruzione di ciascuno dei suoi giovani, qualunque sia la loro storia e provenienza, a rispondere della qualità del tempo scuola come tempo di vita di generazioni di bambine e di bambini, di ragazze e di ragazzi e, finalmente, della qualità delle competenze acquisite da ciascuno, certificandole attraverso un unico sistema nazionale di misurazione e di valutazione.

Spostare l’attenzione sui contenuti e sulla vita concreta della scuola, a quello che si insegna e a come si insegna, ai rapporti, agli scambi, ai comportamenti che si danno dentro la scuola. In questa prospettiva occorre non tanto un aumento del numero e della varietà delle scuole quanto una maggiore capacità di ciascuna scuola di offrire servizi diversificati e flessibili, che consentano di definire gradualmente e in corso d’opera i propri percorsi di formazione.

Ciò implicherà in molti casi il superamento dell’attuale prevalente distribuzione della popolazione studentesca in classi di allievi che seguono tutti uno stesso percorso didattico.