No signori, non è come la raccontate

Pare che le ricette per cambiare l’istruzione non manchino al pensiero ben pensante. Azzerare tutto e portare indietro la macchina del tempo, c’è chi invoca cattedre e predelle e chi il ritorno al riassunto nell’epoca degli abstract. Ben pensanti che neppure si preoccupano di visitare il sito della Fondazione Agnelli dedicato alla Scuola, giusto per tentare di aggiornare i loro archetipi al fine di diradare le nebbie che offuscano la loro navigazione.

Scrivere di istruzione richiederebbe di disporre di una buona cultura almeno in scienze dell’educazione, quelle che in tutto il mondo da decenni hanno soppiantato la pedagogia. Bisognerebbe conoscere la psicologia dell’apprendimento, un po’ di docimologia, un po’ di ricerca educativa, sempre di scarso interesse nel nostro paese persino per  la formazione dei docenti dalle scuole medie in su.

Immaginare di trattare più di mezzo secolo di storia del nostro sistema formativo come se il tempo, il mondo, la società fossero stati pietrificati intorno ad esso, denuncia una concezione della scuola come corpo a se stante, come tempio incontaminato, come luogo degli otia studiorum che non si sporca le mani con le cose prosaiche come il lavoro e le altre necessità materiali. Chi osa aprirne le porte come pretenderebbero di fare l’Invalsi e le indagini Pisa dell’Ocse altro non è  che un profanatore del tempio e dei suoi sacerdoti.

Se qualcuno l’ha dimenticato, a scuola si va con il corpo e la mente, il primo dovrebbe trovarsi a suo agio, la seconda andrebbe impiegata in un continuo allenamento. Raffaele Simone, il linguista, alcuni anni fa nel suo libro “Presi nella rete. La mente ai tempi del web” ha sottolineato come la tecnologia, modificando il nostro modo di comunicare, ha trasformato il nostro modo di usare il corpo e la mente.

Il libro è del 2012 come le “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione”, che sono legge dello stato. Ci sta scritto che lo scenario è così cambiato che l’apprendimento scolastico altro non è che una delle tante esperienze di formazione che bambini e adolescenti vivono e che spesso per acquisire competenze specifiche non vi è bisogno dei contesti scolastici. C’è anche scritto che le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende (vedi: corpo e mente), non dagli insegnanti e dai programmi, ma dal piccolo o dall’ adolescente in carne ed ossa che hai di fronte, con cui dovresti stipulare un patto formativo per garantirgli l’originalità del suo percorso individuale come prescritto dalle stesse “Indicazioni nazionali”.

Dewey ci ricorda che il fine dell’istruzione è quello di andare incontro alla società: «Ogni qualvolta ci proponiamo di discutere un nuovo movimento nell’educazione, è particolarmente necessario mettersi dal punto di vista più ampio, quello sociale». 

È mettersi dal punto di vista sociale che il nostro sistema di formazione non sa fare. Quando la società e con essa gli individui cambiano e l’istruzione resta immutata in se stessa, allora si crea il cortocircuito con i diritti delle persone, in particolare delle nuove generazioni, correndo il rischio di vendere merce avariata ai nostri giovani, come dimostrano le indagini nazionali e internazionali sul nostro sistema formativo.

Se i giovani escono dalle nostre scuole impreparati non è colpa né della media unica né di Barbiana né delle lettere alle professoresse, ma del fatto che nel corso degli anni si è accresciuto il distacco tra il nostro sistema di istruzione e lo sviluppo della conoscenza, due funzioni sociali che si  muovono a velocità differenti. 

La scuola ha perso sempre più terreno rispetto alla rivoluzione spettacolare prodotta dalle nuove tecnologie della comunicazione e dallo sviluppo impetuoso della mediasfera.

L’abbiamo toccato con mano con l’emergenza della didattica digitale, della didattica a distanza. Tenersi al passo con un’evoluzione tecnologica e cognitiva inarrestabile è un enorme impegno. Come conseguenza la scuola risponde guardando al passato, limitandosi a trasmettere un pacchetto ben delimitato di conoscenze, pochi ben definiti saperi, tenendosi alla larga da due meccanismi che oggi sono invece essenziali: il veloce processo di accrescimento della conoscenza e la diffusione di metodologie di accesso ai depositi della conoscenza. Invece di essere il luogo dell’incontro con la conoscenza e della sua prima elaborazione, la scuola si ripiega su se stessa difendendo cattedre, discipline e trasmissione del sapere, per proteggersi dalla conoscenza, dal suo fluire, dal suo accrescersi che preme alle sue porte. 

Siamo un paese di retori e di retorica, di buone oratorie ma di pessime cattedre. Non sappiamo pensare al nostro sistema scolastico in termini moderni, un sistema di istruzione che ormai da troppo tempo accusa una crisi profonda nei suoi moduli organizzativi e nelle sue strutture. Se ne discetta da decenni, ma non abbiamo ancora chiarito per quale idea di scuola debbano essere formati gli insegnanti, per quali finalità dell’istruzione sono chiamati a lavorare.

In giro per il mondo gli argomenti che hanno preso il centro della scena trattano di come i giovani imparano meglio nel 21° secolo, di come  rendere le scuole i catalizzatori del loro impegno per il sapere e la cultura, di come i giovani possono scegliere di imparare, di quanto la motivazione e l’amore per l’apprendimento significano nel contesto della scuola, di come dare più enfasi al coinvolgimento degli studenti nella scelta e nelle modalità dei loro percorsi formativi.

Siamo tornati al divorzio tra scuola e società, non si tratta di una distanza di classe come nel passato, ma della distanza tra bisogni culturali diversi che determina una nuova forma di discriminazione  tra chi può soddisfarli e chi no.

La scuola si è chiusa in se stessa, nella sua autoreferenzialità. Il rischio è di rimanere stritolati tra la tentazione di un ritorno al centralismo amministrativo per insipienza, l’assordante silenzio di una classe docente senza spessore sociale e professionale,  e le ricette di intellettuali ben pensanti che finiscono per accumulare la loro supponenza all’ignoranza che la scuola è oggi accusata di produrre.

“T’aggia ‘mpara’ e t’aggia perdere”

H. Bosch «Trittico dell’Epifania» particolare, Madrid, Museo del Prado

Mi piacerebbe poter scrivere in fondo  a destra, tra parentesi, la parola continua come nei giornaletti della mia infanzia.

“Continua” sì, perché la Scuola da sempre è  una grande narrazione e la narrazione è  lo strumento principe della costruzione e della trasmissione del sapere.

Anche se tutto questo, oggi, rischia di porre la Scuola, assieme alle grandi culture  fondate sulla narrazione, fuori dal tempo, se, come già molti anni addietro ci avvertiva Walter Benjamin, la condizione postmoderna è caratterizzata dalla crisi del narrare. Jean Francois Lyotard parla di crisi dei grandi racconti e il Calvino di  Se una notte d’inverno un viaggiatore denuncia il nostro oggi come luogo di un mondo in cui sembrano esistere solo storie destinate a restare in sospeso, a perdersi per la strada.

Lo scopo originale del narrare è lo stesso dei grandi miti come osserva Eco: dare ordine al disordine delle esperienze. Le storie, sia quelle costruite dallo scienziato che dalla persona comune, sono i modi “universali” per attribuire e trasmettere significati agli eventi umani.

Raccontare una storia anziché descrivere un fenomeno rappresenta un’opzione gnoseologica, la scelta di un modello di conoscenza e non la rinuncia ad esso.

Sono convinto che proporre oggi una pedagogia narrativa che si faccia carico di un interrogativo sul “perché raccontare” non sia da ritenersi un fatto innocente,  né neutro, né banale.

Il processo formativo è sempre e comunque peculiarmente narrativo: si racconta e ci

si racconta, il narrare formativo è la costruzione di significati, la costruzione di realtà possibili, non soltanto confinate nel mondo del virtuale.

Ognuno è il prodotto delle storie che ha ascoltato, vissuto e anche di quelle che non ha vissuto, allora risulta inevitabile nei contesti formativi trovare spazio alla narrazione, come oggetto, strumento e soggetto del processo.

La formazione, la formazione delle giovani generazioni, non può e non deve  rinunciare alla propria dimensione intrinsecamente narrativa, in almeno tre direzioni:

1 – una formazione che sappia valorizzare la dimensione narrativa dei “contenuti”: raccontare l’impresa, raccontare la motivazione, raccontare la comunicazione, ma persino raccontare l’informatica…

2 – una formazione pedagogica, esperta nell’analisi delle narrazioni, preoccupata di tenere deste le capacità narrative della comunità civile, che miri ad insegnare, ad ascoltare narrazioni ed a produrre narrazioni. Ecco: l’educazione alla memoria, ad una memoria collettiva socialmente legittimata come chiave di lettura anche di periodi di crisi.

3 – una formazione  all’autobiografia  che non è solo un modo di raccontarsi, un disvelamento a sfondo narcisistico, o una spiegazione/giustificazione post hoc delle scelte compiute nel corso dell’esistenza. Scrivere la propria storia è un modo per apprendere qualcosa su di sé. Scriverla perché sia letta è un modo per formare altri alla comprensione di sé.

Tre direzioni, che sono anche motivazioni, e che devono essere assunte come proprie

da chi lavora nella e per la  formazione.

Ogni anno scolastico altro non è che una narrazione in cui comporre le pagine biografiche di bambine e bambini, di ragazze e di ragazzi, con la consapevolezza che il progetto di vita è uno solo e non è mai  quello che spesso altri hanno stabilito  in un altrove sempre lontano da noi stessi. 

Il bilancio del lavoro di ogni insegnate è nella biografia personale dei ragazzi e delle ragazze che hanno occupato le loro aule, ascoltato, partecipato alle loro lezioni, alle loro proposte e prospettive formative.

Erri de Luca fa dire a un personaggio di un suo romanzo: “t’aggia ‘mpara’ e t’aggia perdere”. Devo insegnarti tutto e poi devo perderti. È nella natura del mestiere di chi lavora a scuola.

L’insegnate non è certo un emigrante e neppure qualcuno che ha dovuto espatriare in cerca di un lavoro. Ma certamente la professione che si esercita nella scuola rende migranti, migranti nei territori della cultura e della ricerca, migranti da una sede all’altra verso nuove esperienze, migranti verso nuove sfide pedagogiche e professionali, con le classi e le generazioni di alunni che cambiano. 

Migranti perché la formazione è per sua costituzione senza meta ed è ben rappresentata dalla storia dell’Imperatore della Terra Gialla, il quale vagando a Nord dell’Acquarossa, salì sul monte Cuenlùn e guardò verso il Sud.

Al ritorno perdette la sua perla magica.

Mandò Conoscenza a cercarla, ma non la trovò.

Mandò Chiarosguardo a cercarla, ma non la trovò.

Allora mandò Senzameta e la trovò.

“Strano davvero” disse l’Imperatore, “che proprio Senzameta sia riuscito a trovarla”.

Quella del viaggio è la metafora che più calza e più mi piace a proposito del lavoro scolastico.

Ma soprattutto il viaggio è uno spazio in cui si definisce l’identità del viaggiatore: “Gli esseri umani non sono realtà fisse con una propria identità precostituita che a un certo punto si mettono a fare delle scelte. Siamo invece esseri in divenire la cui identità viene continuamente trasformata dalla riflessione e dall’azione.”

Il romanzo di Erri de Luca, che ho citato poco sopra, narra la storia di uno scugnizzo napoletano che ama la scuola e l’istruzione, che legge gratis i libri delle bancarelle, incontrando figure adulte che in questo lo aiutano e lo incoraggiano, che ascolta le grandi narrazioni dalla geniale figura di un saggio portinaio che l’ha adottato, un ragazzino che si appresta a un viaggio in nave verso l’Argentina che vive come il luogo della sua felicità e il titolo del romanzo è “Il giorno prima della felicità”.

Ogni giorno di scuola delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi vorrei che fosse “il giorno prima della felicità”. Qualcuno dirà ma allora la felicità non viene mai, ma io credo nella sindrome del Sabato del villaggio, che il bello della vita sta nell’impegno, nell’intelligenza, nell’entusiasmo, nelle aspettative che si vivono sempre  il giorno prima dell’evento, della festa, della felicità, è per questo che la storia continua.