Barbiana: la Scuola che non è*

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Barbiana una provocazione

“Barbiana, quando arrivai non mi sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava […] Gli ci volle del tempo per capire che non c’era registro. D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra”.
Una pagina non nuova. Qualcosa di simile l’abbiamo già incontrato in La nascita di una pedagogia popolare di Élise e Célestin Freinet, nel Paese sbagliato di Mario Lodi.
Élise racconta che il primo atto di Célestin, nominato maestro il 1° gennaio 1920 a Bar sur Lup, nelle alpi Marittime, è quello di togliere la cattedra e la predella, la lavagna e disporre i banchi in modo da farne i tavoli da lavoro, usa la cattedra e la predella per la sua tipografia, non ci sono i manuali, ma il libro della vita, la biblioteca fatta dai ragazzi, il testo libero e la centralità della parola. Altrettanto farà 44 anni dopo Mario Lodi, lo racconta nella lettera che invia a Katia, aspirante maestra, il 2 ottobre 1964.

La scuola pubblica non ha mai colto la sfida che è Barbiana. Dopo cinquant’anni dalla tanto discussa Lettera a una professoressa, Barbiana resta una provocazione, è ancora un pugno allo stomaco della scuola pubblica.

Non solo a quella di ieri, classista e fascisteggiante, organizzatrice della selezione e del consenso, alla scuola apparato ideologico di Stato per dirla con Althusser e con il sessantotto. “La Grande disadattata” di Bruno Ciari. Una scuola che allora era però ancora molto robusta, dove gli insegnanti, a partire dalla professoressa a cui i ragazzi decidono di scrivere la loro lettera, avevano un ruolo e un peso sociale indiscussi.

Era il tempio in cui si celebrava il rito dell’istruzione.

Se vogliamo la distanza che ci separa da Barbiana è abissale, la Barbiana senza energia elettrica e acqua corrente appartiene all’altro millennio e noi siamo nel terzo millennio, ma ancora barcollanti in materia di istruzione e formazione e con una scuola e i suoi operatori che hanno perso di centralità.

Per dirla con Massimo Recalcati, viviamo nell’epoca della evaporazione della Scuola, della perdita di ruolo da parte degli insegnanti, che si trovano per un verso screditati, umiliati economicamente e professionalmente e, nello stesso tempo, convocati paradossalmente a esercitare sempre più la funzione di supplenti di un discorso educativo che sembra non avere più sostegno né nelle famiglie né nelle istituzioni.

Mentre la scuola evapora, i saperi si dilatano e fuggono dalle gabbie tradizionali in cui sono stati rinchiusi dalla scuola e dalle accademie per approdare in rete, per approdare a internet dove ognuno con un click può disegnare i propri percorsi personali di apprendimento.

La società della conoscenza, del Memorandum Lisbona 2000, sta destrutturando la scuola, la società si sta descolarizzando sotto i nostri occhi.

Eppure non siamo certo stati fermi. La scuola pubblica, fortunatamente, non è più quella del 1967.

In mezzo c’è stata la scuola di massa, i decreti delegati con il loro intento di dare alla scuola stessa “i caratteri di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica,”, il tempo pieno, la scuola dell’infanzia pubblica, la legge 517 del ’77, l’integrazione nella scuola di tutti dei diversamente abili e altro ancora, ma anche le riforme mancate. Ma anche l’abbandono della scuola con anni che hanno segnato un forte processo di restaurazione e di caduta culturale nel paese.

L’ultimo rapporto dell’Ocse “Education at glance” 2017 ci dice che nel 2014, ed è l’ultimo dato disponibile, la spesa in Italia per l’istruzione da quella primaria a quella terziaria è la più bassa tra i paesi dell’Ocse e i Paesi partner.

 Il tutto perché nonostante Barbiana la nostra scuola ha continuato a restare irretita nelle sue liturgie.

Il fatto è che non si ha avuto né il coraggio né la capacità di misurarci con la sfida vera, con la vera rivoluzione di Barbiana, quella di rivoluzionare i nostri ambienti di apprendimento.

 Una sfida con cui prima o poi le nostre scuole dovranno misurarsi, dovranno affrontare se si vorrà recuperare centralità e senso alla scuola pubblica per la vita delle persone e per la società della conoscenza e dell’educazione permanente, dalla nascita alla morte, contro gli attacchi alla scuola pubblica che provengono da tante parti fino alle homeschooling, alle charter school ed altre esperienze simili, che stanno prendendo piede anche nel nostro paese.

Qual è il nodo che prima o poi saremo chiamati ad affrontare?

È che Barbiana è la scuola che non è la scuola! È stato detto da qualcuno Barbiana è l’antiscuola.

No. Non è l’antiscuola. È un’altra cosa. È la scuola che nega se stessa, è la scuola che per essere scuola per davvero ha prima necessità di guarire dal mal di scuola.

 Barbiana è tutto quello che la nostra scuola non è. Non è la scuola, è lo studio, lo studio a pieno tempo. È descolarizzazione perché non ha nulla degli stigma della scuola che conosciamo.

Non le classi per età anagrafica, non i voti, non i registri, non l’insegnante centro dell’aula, non la lezione frontale, non le aule, gli orari e le materie, le promozioni e le bocciature.

“Si faceva fatica ad accorgersi che uno era un po’ più grande e insegnava. Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anch’io.” 

“Le materie più belle e diverse tutte finalizzate lì. Come se non appartenessero a un mondo più vasto che non quel metro quadrato tra la lavagna e la cattedra”

A Barbiana non si apprende per materie, ma per idee, per curiosità, argomenti e narrazioni, Barbiana è una scuola policromatica, è un esempio di come controllare i propri percorsi di apprendimento, contenuti, ritmi e condizioni, come decondizionarsi dall’essere ricettacoli passivi di istruzione. Sostanzialmente di come guarire dal mal di scuola.

 Questa è la sfida che Barbiana ci ripropone nel terzo millennio, quella di un’altra scuola, che un’altra scuola è possibile.

Ma soprattutto penso al tema dell’ambiente di apprendimento, che in altre parti del mondo è centrale, si va affrontando seriamente, non solo la Finlandia, ma il Canada con l’Equinox Summit learning 2030 a Waterloo, che ha coinvolto centinaia di insegnanti e studiosi provenienti da tutte le parti del globo, ma non dall’Italia, per ripensare radicalmente il modo di essere e di fare scuola.

La necessità di progettare nuovi ambienti di apprendimento capaci di meglio supportare la formazione, la preparazione e la crescita delle generazioni del 21esimo secolo, penso che non possiamo continuare a ostinarci nel rimanere identici al passato.

Proprio per questo sono personalmente convinto che non è più rinviabile un serio e approfondito discorso sul modo d’essere delle nostre scuole.

Le classi si formano per età e di conseguenza anche l’insegnamento è programmato e impartito per età. L’aspettativa è che ad ogni anno scolastico corrisponda una certa quantità di apprendimenti acquisiti nelle diverse discipline del programma. Diversificare i percorsi, rendere flessibili i percorsi, dare spazio al tempo, fare patti formativi con le famiglie e i ragazzi, anziché piani formativi, impostare la vita della scuola su motivazioni reali, come a Barbiana, su attività sociali e cooperative, studiare per progetti concreti da realizzare capaci di dare un senso e una finalità condivisa al sapere e alla fatica dello studio, capaci di coinvolgere nella responsabilità di formare al sapere anche gli attori indiretti che sono sul territorio: cittadini, enti locali, associazioni, istituzioni culturali, strutture del territorio. Una scuola aperta perché scuola totale, scuola globale.

Esiste il DPR n. 275 del 1999, quello dell’autonomia scolastica che all’articolo 6 sancisce l’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo, l’art 7 sulle reti di scuole, gli accordi di rete.

Ma le nostre scuole finora hanno dimostrato di temere l’autonomia più che di saperne trarre i vantaggi. Ora per non dare i compiti a casa bisogna prima fare una sperimentazione nazionale in 160 classi!

La scuola ha bisogno di insegnanti coraggiosi, professionalmente preparati, motivati, perché la storia dimostra che non sono le riforme dei politici, le circolari ministeriali a cambiare la scuola, ma gli insegnanti coraggiosi e motivati come Lorenzo Milani, Freinet, Mario Lodi, Ciari.

Il senso dello studio, il desiderio di sapere

Il senso dello studio, il desiderio di sapere sono il motore di Barbiana.  Questa è l’altra sfida che Barbiana ci propone: rendere vitale il rapporto dei nostri ragazzi con il sapere.

Lasciate fuori dalla porta le liturgie della scuola pubblica a Barbiana prendono il sopravvento il sapere e lo studio, il percorso e la fatica che ognuno deve compiere per conquistare a sé stesso il sapere.

Una destrutturazione della scuola, una descolarizzazione per strutturare lo studio, quello vero, non quello formale, artefatto, che si fa ancora nelle nostre aule.

È l’altra grande provocazione di Barbiana: il sapere, il rapporto con il sapere. “Il sapere serve solo per darlo”.  Il desiderio di sapere per “capire e farsi capire”.

Il rapporto con il sapere, con il desiderio di sapere, che è il ruolo fondante della scuola, di ogni scuola, se viene meno questo, viene meno la scuola, quel rapporto che nell’epoca del lifelong learning e della società della conoscenza la scuola rischia di perdere, svuotata di senso per le persone, ma soprattutto per le giovani generazioni.

È il sapere, amare il sapere, ci dicono i ragazzi di Barbiana, che “umanizza la vita”. Umanizza la vita della società in cui viviamo di fronte alle sfide che ci attendono, che attendono i giovani che saranno adulti in un futuro prossimo che non ci è dato di conoscere, per il quale abbiamo la responsabilità enorme di attrezzare le nostre ragazze e i nostri ragazzi.

Questa è l’altra vera provocazione di Barbiana con cui oggi la scuola pubblica dovrebbe avere il coraggio di misurarsi.

Barbiana ha la forza di trasformare gli oggetti del sapere in oggetti del desiderio, in corpi erotici, come direbbe Massimo Recalcati.

A Barbiana vive tutta l’essenza, la posta in gioco di tutta la partita dell’insegnamento: rendere il sapere un oggetto in grado di motivare, nel senso di muovere. Muovere il desiderio degli studenti, capace di funzionare come leva del desiderio, in grado di spostare, attirare verso, mettere in movimento chi deve fare l’esperienza del sapere nelle nostre aule, capace di mobilitare il desiderio del sapere.

Barbiana ci dice che se non si ama il desiderio di sapere, non c’è alcuna possibilità di apprendere in modo singolare il sapere.

È l’umanizzazione della loro vita attraverso il sapere che fa dire ai ragazzi di Barbiana che “La scuola sarà sempre meglio della merda”,

Barbiana è il luogo del sapere come grande narrazione, non come trasmissione, non come discipline e materie, ma come intreccio della trama delle conoscenze che l’umanità ha narrato fino ad oggi, narrato nel senso etimologico di “gnarus” che hanno cioè permesso di rendere l’umanità esperta e di consentire, a sua volta, di rendere esperti ogni ragazza e ogni ragazzo attraverso lo studio e la scuola.

Le discussioni nella stanza di Barbiana danno pienamente l’idea di questo sapere, di cui ci si appropria per narrazione e non per trasmissione, di un sapere democratico dove non si assimila la mappa mentale dell’insegnante o del libro di testo, ma dove si costruiscono e si acquisiscono gli strumenti per costruire in autonomia la propria mappa mentale, la propria rappresentazione del mondo.

Ecco il senso sociale della scuola, non più luogo di trasmissione ma il luogo per eccellenza dove mettere ordine al disordine delle esperienze.

Allora il problema del percorso verso il sapere non pone la questione della lezione, ma pone la questione dei terreni da calpestare, quali ambienti attraversare, con quali compagni di viaggio per aiutarsi a vicenda, chi sono le persone sagge da consultare, che ci possono dare una mano, guidare, tenere la regia dei nostri apprendimenti.

Un laboratorio vivo di vite e di saperi in fermento, in divenire.

L’esperienza di Barbiana ci dice che la scuola della cattedra, della lezione frontale, e studiare sono due cose diverse, addirittura l’una opposta all’altra.

Barbiana ha nella sua ragione d’essere la promozione di ciascuno come dato di partenza e non d’arrivo, nel senso, ormai perduto, di “far crescere”, di portare avanti, favorire e stimolare la formazione di personalità complete.

Non il sapere delle conoscenze ready made, pronto per l’uso, delle nostre aule, ma il sapere che interroga i libri e i testimoni, non il libro e l’insegnante, che ha la necessità di farsi rete con le persone e con le vite delle persone, con i luoghi, con le risorse, ha bisogno di schiudere le classi e le aule e di aprire spazi di apprendimento dinamici, alla città, al territorio. Insegnanti progettisti di ambienti di apprendimento, capaci di scrivere le sceneggiature dell’apprendimento, insegnanti registi e non attori, insegnanti comprimari, insegnanti compagni di viaggio, professionisti capaci di agevolare i percorsi di interconnessione dei saperi, e non di separazione, frantumazione, di formare all’autonomia e all’autorganizzazione.

Il sapere come ricerca continua, aperta alla discontinuità, alla sorpresa, all’incertezza, agli interrogativi, alle sfide della scoperta e dell’innovazione.

Attraverso il desiderio di sapere il mondo e il territorio entrano a Barbiana a condividere i pensieri, a unire i propositi per formare un cervello collettivo che si muove a promuovere la cittadinanza, la sovranità di ognuno.

Barbiana un luogo

Barbiana propone alla nostra scuola un’altra sfida quella tra luogo e non-luogo.

Barbiana è un luogo perché la sua cifra è la storia e l’identità dei suoi ragazzi e del loro maestro Don Milani.

Perché a Barbiana c’è osmosi tra la scuola e la vita.

L’osmosi tra scuola e vita non siamo in grado né di costruirla né di praticarla, perché ancora i codici della scuola confliggono con i codici della vita.

Ce ne siamo accorti e per colmare questo iato ci siamo inventati lo star bene a scuola, per cui anche lo star bene, anziché essere un modo naturale e scontato della scuola, necessita di essere progettato. A scuola non si sta bene perché evidentemente le nostre scuole non sono ambienti famigliari. Famigliare invece, sia pure nella sua austerità, era per i ragazzi di Barbiana la canonica di don Lorenzo.

Le nostre scuole sono ancora grandi magazzini, grandi silo, grandi contenitori di generazioni che per diverse ore ogni giorno sono sottratte alla vita, alla vita sociale e il guaio di oggi è che quelle più di mille ore all’anno investite dalle nostre ragazze e dai nostri ragazzi sui banchi di scuola, tra le quattro pareti dell’aula non mantengono neppure più la promessa per cui sono state inventate, rischiano di non servire al loro futuro.

E questa è una responsabilità enorme su cui dovremmo sempre riflettere di fronte alle bambine e ai bambini che ci vengono affidati.

Tutti a quella determinata età e a quell’ora, seduti allo stesso modo, dal banco verso la cattedra, a fare le stesse cose, basta entrare in una delle nostre classi per averle viste tutte.

Luoghi privi di identità, luoghi anonimi, senza storia, in cui si assembrano corpi e banchi da una parte e cattedra, lavagna e Lim, dall’altra: non luoghi.

Barbiana è un luogo perché la vita di ogni ragazzo è sognata. Scriveva Danilo Dolci: “Ciascuno cresce solo se sognato”. Dovremmo scriverlo sulle mura delle nostre scuole.

Questo è quello che accade a Barbiana.

È la vita, il recupero della vita l’epicentro di Barbiana. La vita di ciascuno, il progetto di vita di ciascuno. Il progetto di vita di ciascuno di cui la scuola si deve far carico e di cui deve rispondere.

Deve rispondere della qualità e del senso delle ore della loro vita che i ragazzi trascorrono sui banchi di scuola, come don Lorenzo Milani rispondeva ai suoi ragazzi e alle loro famiglie della qualità e del senso di quella sua scuola a pieno tempo.

Dovremmo anche noi come don Lorenzo provare a sognare i nostri ragazzi, le nostre bambine e i nostri bambini, il loro progetto di vita da assecondare, da realizzare perché sono le risorse a cui è affidato, il nostro domani, il loro futuro e il futuro della società.

Diversamente quello della scuola non può essere che un tempo nato già morto.

Barbiana non è la morte del tempo, è la dilatazione del tempo, è un pieno tempo, pieno di soggetti e pieno di saperi.

J. Bruner scriveva “Non si ha una vita se non la si racconta”. Barbiana è questo, la narrazione della vita di ciascuno: Marcello, Aldo, Edoardo. Giancarlo, Mauro, Michele, il Biondo e il Cencio tutti quelli che salgano a Barbiana entrano nella narrazione: tre ragazze e ventisei ragazzi.

 Abbiamo bisogno di sognare il progetto di vita delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, delle nostre bambine e dei nostri bambini, per farlo nostro come ha fatto don Milani, che ognuno di loro abbia una vita da raccontare.

La pedagogia di Barbiana porta il nome e il cognome di ogni ragazzo salito a Barbiana.

La scuola come un’avventura collettiva e collaborativa. Don Milani si prende sulle spalle la storia dei suoi ragazzi e la fa propria con la sensibilità di un educatore impegnato fino in fondo a dare una mano a cercare una via d’uscita, garantendo un rapporto e un’attenzione senza interruzioni anche a distanza attraverso le lettere.

Vuol dire che la scuola deve attivare tutte le proprie risorse, le proprie sensibilità per capire meglio la particolarissima personalità di ogni studente, con le sue potenzialità, ma anche con i sui suoi limiti e i suoi ritardi.

Non sono alunni, allievi, scolari da forgiare secondo le disposizioni di un programma ministeriale quelli che abbiamo davanti, smettiamola di usare questi termini di una cultura antiquata che non ci deve più appartenere. Barbiana ci ha dimostrato che possono diventare veri e propri maestri negli apprendimenti e nella crescita di un coetaneo in difficoltà. Quelli che abbiamo di fronte sono bambine e bambini singoli, con la loro identità, la loro storia, ragazzi e ragazze, studenti non allievi od alunni, che sperimentano il loro incontro con il sapere, per studiare, perché il sapere gli è necessario come l’aria che respirano.

Solo così potrà essere efficace essere insegnanti.

L’alunno, l’allievo, lo scolaro sono i sacchi vuoti da riempire con un sapere preconfezionato, anche se con tecnologie moderne e raffinate.

Lo studente, al contrario, è colui che si misura con l’avventura del sapere, l’insegnante il testimone, la guida che lo affianca, l’aiuta, l’indirizza e l’accompagna.

Abbiamo bisogno che gli adulti non si sottraggano alla responsabilità di rispondere del tempo presente e del futuro dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze.

Gli insegnanti e la scuola non possono sottrarsi a rispondere di quello che fanno e perché lo fanno, prima dei programmi viene il progetto di vita di ogni singolo che è a scuola per poter diventare sovrano della sua vita, per essere un cittadino in grado di esercitare la propria cittadinanza.

Quel che abbiamo fatto fino ad ora si è dimostrato insufficiente.

Non è il ragazzo che si deve piegare alla scuola, ma la scuola al suo progetto di vita, non plasmarlo a un programma predefinito, ma sognarlo, sognare come potrebbe essere la sua vita e accompagnarlo a conquistarsi anche con la fatica gli strumenti che gli saranno necessari, ma tutto ciò avrà un senso solo se lo avrà per il suo progetto di vita, non quello che altri gli hanno costruito.

Allora la scuola diventa un luogo perché in grado di dare senso alla propria vita, come accadeva ai ragazzi nella canonica di Barbiana, dove il sapere diventa un desiderio, dove ciascuno assume un’identità perché riconosciuto e sognato, perché ha un progetto di vita da realizzare, perché attraverso il sapere crea se stesso, che è il significato di crescere, si forma e si educa.

La scuola non ha bisogno né di grigiore né di mediocrità, deve entusiasmare, coinvolgere, appassionare. La difficoltà per chi cresce è sempre la stessa, trovare adulti appassionati, capaci di appassionare alla ricerca, al sapere e allo studio, che non è mai una passeggiata, che è impegno e fatica, ore e ore della propria vita, per cui valga la pena avere un progetto di vita, fare della propria vita una grande narrazione.

Insegnanti come don Milani che tornino ad essere compagni esperti di un viaggio affascinante verso il sapere e la crescita dei loro studenti come cittadini adulti e responsabili.

Una scuola che prevede l’errore e lo studente in difficoltà, più che le diagnosi e le certificazioni, perché è lo studente che ha bisogno di una attenzione particolare, se non vuole essere come un ospedale che cura i sani e scarta gli ammalati, come ci dicono i ragazzi di Barbiana.

Una scuola coraggiosamente diversa perché mette per davvero al centro tutto lo studente, quello vero, con la sua storia, i suoi sogni, le sue aspettative e le sue disarmanti fragilità.

La sfida di Barbiana è questa, quella di provare a immaginarla questa scuola diversa, rovesciata, con coraggio e con passione.

So benissimo che per fare tutto questo gli insegnanti hanno bisogno di sentirsi apprezzati, valorizzati, stimati per le loro competenze e per il loro lavoro e per il servizio che rendono al paese e alle famiglie. E questa è davvero una emergenza, un segno della crisi dei nostri tempi. Ma molte dipende anche da loro.

Conclusione

Non vorrei che anche questo di don Milani fosse un rito, per cui ogni volta ti devi allineare al pensiero pedagogico del momento, partecipando ai corsi di aggiornamento che l’amministrazione scolastica propone con il poco confessabile pensiero di perdere tempo.

Con il solito vizio del gattopardismo italiano, da cui la storia della nostra scuola non è certo esente, di cambiare per poi non cambiare nulla.

Il rischio è quello di fare di Barbiana un’ipòstasi. L’idealizzazione di una realtà concreta, ma irripetibile, come ha detto il ministro. Un santino da collocare nel pantheon pedagogico, in nome dell’insegnare a tutti e dell’inclusione.

A me francamente come eredità pedagogica da ricavare dall’esperienza di Barbiana sembra molto riduttiva.

Insegnare a tutti mi suona come un Comenio dimezzato, il Comenio dell’insegnare tutto a tutti che mi sembra sinceramente più impegnativo e rivoluzionario.

Questa scuola qui, così com’è funziona poco e male, nonostante l’impegno di tanti bravi insegnanti e spesso contro il loro impegno. La nostra scuola è poco efficace e incapace di ridurre le diseguaglianze all’interno del sistema.

La nostra scuola resta un ossimoro istituzionale, ce lo dice l’Ocse che mentre ci riconosce come scuola dell’inclusione ci dice anche che siamo la scuola con la dispersione scolastica più alta, peggio di noi fanno solo il Portogallo, la Spagna e Malta.

Sono quelli che dalla nostra scuola hanno ricevuto la blackball come i ragazzi di Barbiana.

Che non sono necessariamente solo la bocciatura e l’abbandono scolastico, ma la perdita di senso del sapere e dello studio per la propria vita, per il proprio progetto di vita che è la cosa ancora più grave.

Quelle ragazze e ragazzi, adolescenti, che per poterli poi recuperare ad un dialogo di vita ed educativo, per recuperarli al desiderio di sapere e di studiare, gli devi dare una scuola che non sia la scuola, come fanno i maestri di strada. Leggetevi la loro esperienza a Napoli in “Insegnare al principe di Danimarca”.

Se al principe di Danimarca gli devi dare una scuola che non sia la scuola perché farlo dopo anziché prima?

Tutti i ragazzi di Barbiana avrebbero potuto essere tanti principi di Danimarca, se non avessero incontrato don Milani e la scuola di Barbiana.

Per loro la scuola ha potuto diventare “l’ottavo sacramento” come la definiva don Milani.

La nostra scuola non è ancora “l’ottavo sacramento”, la scuola pubblica rimane ancora oggi il problema anziché la soluzione.

*Intervento al Seminario organizzato dal CDE di Cesena “Le pedagogie dei grandi: Don Lorenzo Milani”, 19 settembre 2017